Paolo VI a Cagliari il 24 aprile 1970 nella testimonianza dell’arcivescovo Pier Giuliano Tiddia
di Gianfranco Murtas
Il 24 aprile del 1970 era un venerdì come quest’anno e un giorno tranquillo di sobrio sole come speriamo sarà quest’anno, pur se l’atmosfera sociale non potrà essere, purtroppo, lo stessa di allora. Dalle prime ore della mattina arrivavano dai centri più lontani dal capoluogo – dal Sassarese o dalla Gallura come dalla Barbagia, dall’Ogliastra, dall’Oristanese e dal Campidano come dal Sulcis-Iglesiente – i pullman carichi di pellegrini che a mezza mattina avrebbero partecipato alla messa di papa Paolo VI. L’altare era stato montato nel piazzale alto, sul ciglio del sagrato della basilica cioè, e i fedeli – centomila o quanti di più? – avevano trovato posto nella grande piazza allestita, abbattendo anche casupole in rovina, fra l’Istituto nautico Buccari e l’albergo Mediterraneo. E su, per categorie particolari, sulla monumentale scalinata che era opera anch’essa relativamente recente, rimontando al 1967. Le caravelle in bronzo di Franco d’Aspro, fresche di benedizione anch’esse, ai lati del pronao basilicale e centinaia di preti e religiosi di lato al seggio papale. E canti e colori, i colori degli abiti della tradizione per riassumere i secoli della storia sarda nel giorno della accoglienza di Paolo VI che qui, nel santuario e nella basilica, era venuto e deve aver celebrato il 4 settembre 1932. Le cronache e le testimonianze non sono chiare sul punto: certamente i fucini convenuti da tutt’Italia per il loro congresso, e che a Bonaria avrebbero trascorso la seconda giornata dei loro lavori ascoltando anche una relazione sull’attualità del tomismo e animato un dibattito moderato da Guido Gonella (in futuro ministro della Giustizia), dai padri mercedari erano stati ospitati e al loro altare avevano partecipato – al tempo si diceva “assistito” – alla messa che potrebbe esser stata celebrata appunto dal loro assistente ecclesiastico nazionale don Montini.
In quello stesso altare aveva celebrato monsignor Angelo Giuseppe Roncalli, nell’ottobre 1921.
Il programma della nuova e capitale visita di don Montini divenuto ora, e già da sette anni quasi, vescovo di Roma e papa della Chiesa universale, era stato definito nei minimi particolari in uno alla tabella oraria: l’arrivo ad Elmas alle 10 (col saluto del presidente della Regione Abis e del cardinale Baggio); breve sosta alle 10,45 davanti al municipio di via Roma (per il benvenuto cittadino da parte del sindaco De Magistris); ingresso in basilica alle 11,15 per vestire i paramenti della messa e dieci minuti dopo l’inizio della celebrazione con l’omelia – stampata poi dai giornali –, con i doni “operai” e “contadini”, “minerari” e “pescatori” all’offertorio e la prima comunione di due bambini fra le migliaia e migliaia distribuire dai sacerdoti concelebranti; alle 13 circa, nel convento mercedario, il saluto dell’episcopato sardo; nuovi saluti (dopo il frugale pasto e un breve riposo) ricevuti e dati in scambio con autorità ed esponenti del laicato cattolico isolano, delle ACLI, dei Terzi ordini; alle 16, nel salone della motonautica della Fiera internazionale, l’abbraccio con circa 2mila malati riuniti dall’UNITALSI; alle 16,30 tappa a Sant’Elia per dar onore al quartiere-ghetto ed alla casa di Silvio Murgia e di sua moglie allettata; alle 17,30 – dopo aver percorso mezza città (viali Sant’Elia, San Bartolomeo e Poetto, vie della Pineta e Pessina, piazza Repubblica, via Dante, piazza San Benedetto e ancora piazza Giovanni XXIII, via dei Giudicati, piazza Kennedy, vie Piemonte, Basilicata, Liguria, Campania e Cadello) – in Seminario diocesano per incontrare, nella grande cappella, sacerdoti, religiosi e seminaristi; al termine ritorno in aeroporto – ripassando per la via Cadello e in successione la via Is Mirrionis, le piazze San Michele e Sant’Avandrace e il viale Elmas – e partenza un po’ dopo le 18,30.
Il canale nazionale della Rai in collegamento diretto aveva trasmesso l’intera messa, dalle 11 alle 12,30, i telegiornali e i giornali radio, con varie dirette e servizi registrati, avevano informato l’intera nazione, così come la stampa continentale, che avrebbe insistito sul “di troppo” accidentale, sulla sassaiola di qualche estremista maleducato contro la polizia del corteo di protezione… scambiandola per contestazione al papa.
I giornali isolani, naturalmente, avevano riservato pagine e pagine speciali all’evento, così nei giorni precedenti, di preparazione, nel giorno fatidico e nei giorni successivi. L’Unione Sarda anche con un editoriale a firma dell’arcivescovo card. Sebastiano Baggio (e con titoli di scatola e bande ora rosse ora blu, quando il colore ancora non aveva fatto capolino sulla stampa locale). La Nuova Sardegna anch’essa, nei tre giorni cruciali, aveva riservato alla visita papale, fra cronache e commenti, una decina di pagine allora di grande formato.
I dieci discorsi tenuti, nell’arco tutto sommato di poche ore, dal pontefice sono stati pubblicati. Colpiscono, dell’omelia, i riferimenti particolari dopo quello “all’Isola generosa”: ai pastori, ai minatori, ai pescatori, agli emigranti, alla gente di mare… E a Sant’Elia, ai poveri di Sant’Elia, nel vasto piazzale antistante la parrocchia: “Siamo venuti per dimostrare a voi e per dimostrare a tutti che Noi riconosciamo la vostra eguaglianza a confronto di tutti gli altri uomini, anche se questi sono più istruiti e benestanti. Voi siete cittadini con pari diritti a tutti gli altri; la società non vi deve trascurare né disprezzare. Diciamo di più: voi site cristiani, siete figli di Dio, siete fratelli nella Chiesa di Cristo: avete eguale dignità. Anzi, voi, proprio perché siete poveri, avete un’eminente dignità, siete più degli altri meritevoli di rispetto e d’interessamento. Voi nel Vangelo siete i preferiti, siete avanti agli altri, i più vicini all’amor di Cristo e al grande dono del suo regno. Siamo venuti perciò per salutarvi, per rendervi onore, per rivendicare nella Chiesa e anche nella società civile il posto degno che a voi spetta, e a riconoscere oltre i vostri bisogni (e quanti ne avete!) i vostri diritti naturali: alla casa sufficiente e decente, al pane e al lavoro, alla scuola e all’assistenza sanitaria, alla partecipazione ad un comune benessere, per voi e specialmente per questi vostri figlioli… Perché, ci si chiede, il papa non dà l’esempio? Miei cari: accettiamo anche questa domanda. Il papa sì deve dare l’esempio. Ma il papa non è ricco, come tanti dicono, Noi abbiamo difficoltà a sostener le spese per i servizi necessari all’andamento centrale di tutta la Chiesa, e poi abbiamo tante necessità a cui provvedere in tutto il mondo, quello delle missioni per esempio. Ma tuttavia cerchiamo di fare ciò che possiamo, col cuore staccato dai beni economici e col cuore attaccato ai bisogni dei poveri e dei sofferenti. Non possiamo fare che poco, purtroppo, ma un segno cerchiamo di dare dappertutto del Nostro buon volere. Anche un, un segno, un piccolo segno, Noi lasceremo…”.
Monsignor Pier Giuliano Tiddia era un prete ancora giovane – quarantenne – nel 1970: svolgeva le funzioni allora, da qualche anno, di rettore del seminario arcivescovile di Cagliari, operativo sul colle di San Michele giusto da dieci anni. Molto stimato sia dal cardinale Baggio (che l’avrebbe presto incaricato del parrocato di Santa Cecilia nella cattedrale) che dal suo successore monsignor Bonfiglioli (che l’avrebbe voluto prima vicario generale, poi, con le stesse funzioni, anche vescovo ausiliare), sarebbe stato negli anni a seguire arcivescovo residenziale ad Oristano e, in fine di carriera, anche presidente della Conferenza Episcopale Sarda.
Nel libro Il Vangelo, la Chiesa e la Sardegna: una esperienza di vita, uscito nel 2009 in occasione dell’80° compleanno dell’arcivescovo emerito – oggi felicemente 91enne e lucido e attivo per quanto l’età possa consentirgli – egli riferisce, da testimone privilegiato, della visita papale, dei suoi antefatti, del suo svolgimento tanto più in seminario. Eccone i passi principali.
L’annuncio del card. Sebastiano Baggio
Parliamo di questa visita papale, della sua preparazione, di come fu vissuta in città, e in diocesi, nella Sardegna intera. Lei era ancora rettore del seminario?
Sì, certo. L'annuncio fu ricevuto veramente con entusiasmo dalla nostra comunità, iniziando dai nostri giovani. La novità, il papa a casa... Si sparse subito la notizia che il papa sarebbe venuto da noi, in seminario. Quindi naturalmente ecco tutta la preparazione degli animi ma, soprattutto per me, anche "tecnica", diciamo così: doveva essere un'accoglienza all'altezza, e non mancavano le preoccupazioni sulla nostra inadeguatezza, al di là della buona volontà.
Quello fu un lavoro che riguardò essenzialmente la mia responsabilità di rettore: dovevo avvertire tutte le problematiche connesse all'evento, prendere tutte le precauzioni compresa quella di dove ricevere il papa, o di dove farlo passare, ecc. Alla fine tutto andò nel migliore dei modi. Paolo VI venne in seminario come ultima tappa della sua visita a Cagliari, la sera, dopo aver lasciato Sant'Elia. Stette con noi un'oretta circa.
Una giornata storica, credo anche emotivamente molto carica. Spiace che l'eco del carisma di questo grandissimo papa sia scemato dopo la sua morte. Non pensa?
Paolo VI fu effettivamente uno dei grandi pontefici del XX secolo, il pontefice del Concilio con papa Giovanni. La nostra cura nel volerlo accogliere nel migliore dei modi rifletteva anche questo affetto verso la sua persona, l'ammirazione per la sua rilevanza intellettuale e la venerazione per la sua spiritualità profondissima.
Lo ricordo benissimo quando venne ad incontrarci. Avevamo deciso così: in cappella i sacerdoti e i seminaristi, i prelati - canonici e vescovi - nel presbiterio, ecc. Ad evitare difficoltà particolari, aperto il grande portone della cappella, che doveva essere vigilato dai seminaristi, restavano invece chiusi gli accessi laterali, sull'andito interno. Il santo padre sarebbe entrato dalla porta della sacrestia. Sicché avrebbe fatto un breve tratto a piedi, vigilato dalla polizia, dalla sacrestia all'altare. La cappella si era riempita, era strapiena, avevamo tolto i banchi per recuperare maggior spazio.
A Bonaria ed al Borgo Sant’Elia
Si era avuta notizia degli incidenti nel quartiere di Sant'Elia?
Sì e no. Mi spiego. Dalla polizia, una cui macchina era nel cortile del seminario ed aveva contatti radio con le altre vetture di scorta al corteo papale in arrivo, seppi la notizia della sassaiola di Sant'Elia. Cosa era capitato? Non sapevano dirmi di più... Ero preoccupato, allarmato. Ma quando il papa arrivò, lo vidi sereno, contento, nessuna parola su quei fatti. Non se ne era neppure accorto. L'applauso di accoglienza fu grandioso e bello. Nell'atrio del seminario – con l'accordo delle stesse forze dell'ordine – io personalmente feci entrare un bel po' di gente, laici, famiglie, ecc. Anche il cortile era pienissimo, ma l'ordine fu rispettato, il controllo della polizia discreto ed efficiente, tutto andò benissimo... Io accompagnai il santo padre in camera per un momento di relax e di ristoro. Salimmo Paolo VI, il segretario monsignor Pasquale Macchi ed io. Non fu consentito ad altri di passare, neppure al cardinale Baggio: lo fermarono all'inizio della scala, d'altra parte non era necessario.
Poté parlare con il papa? Qualche confidenza, o impressione della visita?
Dunque, lo accompagnammo in camera, il segretario ed io. Io rimasi nell'andito con monsignor Macchi. Parlammo fra noi e mi accorsi benissimo che né lui, né tanto meno il santo padre si erano accorti di quel che era successo a Sant'Elia, cioè la sassaiola contro la polizia: bisogna chiarirlo, la sassaiola non era contro il papa. In camera Paolo VI sedette al tavolino qualche momento, prese un caffè. Scambiammo qualche battuta, poi lo accompagnai, con il segretario particolare, giù al piano terra, passando nell'andito laterale per entrare in cappella. E lì lui tenne quel discorso che aveva già preparato e fu pubblicato dall"Osservatore Romano" all'indomani. Ma questo discorso, in pratica, lui l'ha talmente imbastito, condito, allargato, che il testo scritto è addirittura un terzo di quello che effettivamente ha detto.
Parlando a preti e giovani seminaristi
So che lei ha la registrazione di quel discorso, un autentico reperto storico. Vero?
Sì, e lo abbiamo anche stampato. Io ebbi il discorso in una bobina che mi mandò la Radio Vaticana. Pian piano lo sbobinai, pubblicandolo poi in una edizione del "Bollettino Ecclesiastico Regionale", del quale ero direttore, e anche in un opuscolo che porta la presentazione del cardinale Baggio. C'erano all'inizio questi grandi saluti a tutti quanti i presenti, i complimenti per il seminario nuovo... Lui aveva conosciuto il vecchio seminario di via Università, nella visita congressuale fucina del 1932... Eravamo all'ultima tappa del viaggio. Disse press'a poco: “voi per ultimi, ma non siete gli ultimi, e anzi dulcis in fundo…”.
Ho letto quel discorso. Sul piano filologico è facile distinguere le parti scritte, già preparate, da quelle improvvisate. Quando improvvisava diceva “io”, leggendo diceva “noi”. “Ma il mio saluto, proprio quello che sorpassa gli aspetti formali e solenni e va alla sostanza delle cose, che sono i sentimenti del cuore, i pensieri veri della mente, i valori; quando cerco questa essenzialità delle cose, a voi carissimi seminaristi, a voi alunni di questa casa, va il mio saluto...”. Ecco qui il punto che lei ricordava, che iniziava col plurale maiestatico e dopo si scioglieva nella confidenza: “E siamo lieti di dedicare a voi... Sì, quell' "anche" qui però vi fa torto, perché sembra che vi metta in fondo; ma stiamo al proverbio: dulcis in fundo!, non è vero?...”.
E poi ci fu un saluto ai canonici, e lì una grande risata, non ricordo per quali parole scherzose... Ma ci sono tanti altri spunti, in quel discorso bellissimo. Il segretario di Stato, il cardinale Villot che era presente, mi disse che secondo lui quello era il miglior discorso che Paolo VI aveva fatto in udienze straordinarie.
Poi fu il momento dei doni e già subito del congedo. Purtroppo non si vedono molte fotografie dell'evento. Perché mai?
Mah, dopo il discorso certamente furono scattate numerose fotografie, anche con tutti i vescovi della Conferenza Episcopale Sarda al completo, e come anche si sarebbe giustamente fatto alla successiva visita di Giovanni Paolo II del 1985, non purtroppo in quella ultima di Benedetto XVI...
Ci fu lo scambio dei doni: il papa donò al seminario un calice in suo ricordo... Poi, fra gli applausi della folla, io lo accompagnai fino alla macchina. E ripartì. Nell'atrio del seminario era stato collocato un busto di Paolo VI – non so se ci sia ancora, spererei di sì –, con una lapide di ricordo e di onore al papa e anche a monsignor Botto.
Riflettendo su un momento storico
Se ripensa a quella visita storica, cosa le è rimasto più impresso?
Certamente tutta una serie di flash della giornata in sé, come ho cercato di riepilogarla adesso. Ma anche gli antefatti, remoti e prossimi. Voglio dire: quel primo incontro dei seminaristi propiziato dal cardinale Baggio a Castel Gandolfo, e un discorso di Paolo VI sul sacerdozio proprio nella imminenza della sua venuta a Cagliari. Evocai entrambe queste circostanze in un breve articolo che pubblicai nel numero speciale di "Orientamenti" con la data proprio del 24 aprile 1970.
L'udienza avvenne il 6 agosto, e ci ripenso adesso: il 6 agosto di nove anni dopo il papa ci avrebbe lasciato. Quel 6 agosto 1969 egli passò in mezzo alla folla e avvicinandosi a noi, i nostri ragazzi lo salutarono con un “Arrivederci a Cagliari, l'anno venturo”. Di fatto i nostri seminaristi rappresentavano tutti i seminaristi della Sardegna che infatti il 24 aprile dell'anno dopo sarebbero venuti anche loro a far festa con noi, a Bonaria e poi nel seminario arcivescovile.
La seconda circostanza è il messaggio che Paolo VI diffuse appena un mese prima della venuta cagliaritana, il 15 marzo, in occasione della VII giornata per le vocazioni. Sostenne che la crisi vocazionale non era che “un aspetto della crisi di fede” che travagliava, e direi travaglia, il mondo. Fra l'altro scrisse questo, e fu oggetto della nostra riflessione anche dentro le mura del seminario: “Non è perciò rendendo più facile il Sacerdozio – liberandolo per esempio da ciò che la Chiesa latina da secoli considera suo sommo onore: il celibato – che si renderà più desiderabile l'accesso al sacerdozio stesso. I giovani si sentiranno attirati ancor meno da un ideale di vita sacerdotale meno generosa. Non è in questo senso che ci si deve orientare”. Un analogo concetto espresse l'11 aprile parlando all'assemblea plenaria della CEI riunita a Roma.
Al tempo della visita cagliaritana di Paolo VI il mondo cattolico era attraversato da numerose pulsioni contestative: tutte generose, ancorché forse non tutte lucide e compiutamente propositive. La stessa archidiocesi di Cagliari non ne era immune. Il clero in parte ne fu spiazzato, in parte – soprattutto nelle nuove leve – cavalcò sul piano sociale oltreché ecclesiale, disciplinare e liturgico, e anche in parte teologico, il nuovo indirizzo. Lei, dalle stanze... del comando, come visse quei tempi?
Intanto non erano sicuramente stanze di comando, le mie. Certamente gli anni del dopo Concilio furono, anche a Cagliari, anni di agitazioni coinvolgenti soprattutto il laicato militante e alcuni settori del clero. Le inquietudini non erano però soltanto legate all'età, ci furono anche diversi sacerdoti maturi, se non proprio anziani, che avevano sentito anch'essi molto fortemente questo bisogno di cambiamento.
Correvano allora due parole: "cambiare", nel senso che si riteneva il Concilio avesse rivisto o rivoluzionato tutto, con la conseguenza di una pretesa di maggiore libertà per tutti; e "adeguarsi" alle istanze dei tempi nuovi. Io credo che il Concilio avesse sì proposto una larga riforma, ma non con tutta l'intensità e non in tutte le direzioni quali emergevano, o erano pretese da chi contestava. Però, debbo dire, dopo le difficoltà di quei primi anni, pian piano si è ristabilita una certa tranquillità degli animi, che non è inerzia, intendiamoci!
Mons. Tiddia Oggi
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