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Gianfranco Murtas

Parri e Siglienti, Gonario Pinna e Titino Melis: fra sardismo ed azionismo gli scavi documentari di Elio Masala e Maurizio Battelli nella stagione del nazionalitarismo indipendentista del PSd’A

di Gianfranco Murtas

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Nell’occasione non genericamente celebrativa, ma semmai criticamente riflessiva, del centenario del Partito Sardo d’Azione, ho fornito qualche contributo anch’io, motivando e argomentando la tesi che da tempo (o da sempre) sostengo, e cioè che quel partito, al tramonto della storica dirigenza che lo sostenne nei più rilevanti appuntamenti con la grande storia – dall’antifascismo in Giustizia e Libertà alle fatiche anche governative e costituzionali di fondazione della Repubblica – sia divenuto altra cosa, tutt’altra cosa da quella che era e doveva essere, addirittura cosa rovesciata. Il tutto nella inconsapevolezza generale, quella dell’opinione pubblica cioè, e degli stessi attori e protagonisti in prima persona.

Di più: il tutto con rovesciamenti di fronte, con imbroglio addirittura dei fondamentali, per cui da derivazione originalissima (per la necessaria applicazione isolana nel primo dopoguerra) della cultura democratica risorgimentale esso, il PSd’A, s’è fatto, in un progress di radicalità sgradevolissime (“noi sardi, voi italiani”), nazionalitario indipendentista ed oggi, con spregiudicata capriola carpiata e dopo le paterne carezze berlusconiane alla bandiera del Forza Paris!, perfino alleato di sovranisti padani già devoti al dio Po ed alla sacra ampolla.

Che c’entra Solinas, che c’entrano i suoi sodali con Pietro Mastino e Titino Melis? o con Oggiano e Puggioni stesso ed anche Mario Melis? Che c’entra il direttorio “nazionale” del PSd’A di questo pezzo di Duemila, che c’entra la sua cultura, la sua visione ideale, con la cultura e la visione ideale di quei tanti che, ancorché poi distanziandosene, hanno portato valori ed esperienza, soprattutto merito morale, al sardismo prezioso alla democrazia italiana, da Lussu a Gonario Pinna, da Cesare Pintus a Fancello e Siglienti, proprio nelle fasi storiche cruciali del tempo che ci è stato dato di vivere?

L’insistenza con cui torno a trattare questa materia è segno d’un amore civile frustrato. Anche perché vedere il simbolo dei Quattro Mori confuso con quello di Forza Italia e dei Fratelli d’Italia, con quello dei leghisti del (troppo in fretta dimenticato) rozzo insulto al meridione d’Italia, in coalizioni di destra – destra oggi sovranista, sempre pagana e qualunquista – è cosa che addolora non soltanto per la corruzione valoriale in sé ma anche per il depotenziamento di un fronte di democrazia avanzata, di respiro europeo, per una società più inclusiva e partecipata, al quale il sardismo complesso e generoso dei suoi fondatori e dei suoi dirigenti anche nelle stagioni postbelliche, nel postfascismo, dette il suo contributo decisivo.

Con l’articolo “Tornando (e insistendo) sulla secolare storia del Partito Sardo d’Azione. A dire di Gonario Pinna disallineato a Lussu sulla questione dei ceti medi” pubblicato lo scorso 17 maggio [2021] ho ricordato, associandolo ad altri usciti nello stesso periodo sempre sul sito Giornalia.com, Gonario Pinna e il dibattito che egli affrontò con Emilio Lussu nella seconda metà degli anni ’40, mentre a Roma lavorava l’Assemblea Costituente – e Lussu era lì con Pietro Mastino, nel gruppo “autonomista” degli azionisti – circa la rappresentanza politica dei ceti medi e dunque circa la natura se socialista o in che modo e misura socialista del PSd’A formazione nata interclassista a base rurale. In quel contesto riproposi un bel testo di Maurizio Battelli, uscito nel 1990, di ricostruzione di tanto scambio dialettico e recante le sue riflessioni di analista.

Lo scorso 24 agosto, con l’articolo titolato “Questa commedia del PSd’A nato mazziniano, diventato (50 anni dopo) indipendentista, oggi sovranista-padano. Quando Marco Piredda ed io frugammo fra le carte nobili dell’azionismo repubblicano”, ho poi riprodotto i contributi di analisi – ben cinque – che anche Marco Piredda, al tempo studente della LUISS, offerse, sempre sui temi del sardismo e delle sue elaborazioni e prospettive politiche fra anni ’40 e anni ’60, dalle opzioni programmatiche del sardoAzionismo postbellico agli indirizzi politico-parlamentari seguiti da Giovanni Battista Melis all’esordio del centro-sinistra moroteo e nel quadro dell’alleanza con i repubblicani (invero alleati storici dal 1921 al 1968).

La nuova ribalta concessa agli scritti sia di Battelli che di Piredda proprio nel centenario sardista mi aveva consentito di richiamare alla memoria una esperienza, lontana ormai una trentina d’anni, per me assolutamente gratificante. Quella del lavoro condiviso, come coeso gruppo di studio, sulle carte del sardoAzionismo relative anch’esse alla stagione della ricostruzione postbellica e della sistemazione politica e costituzionale della nostra Repubblica, con giovani – allora ventenni o poco più – come Piredda e Battelli, ma anche come Elio Masala, Vito Biolchini, Massimiliano Rais ed Armando Serri, e altri ancora coinvolti dai ranghi della Federazione Giovanile Repubblicana. Insieme lavorammo attorno a una decina di libri usciti nei primi anni ’90 dello scorso secolo, insieme ci portammo anche negli studi televisivi di Sardegna Uno per un ciclo di trasmissioni che godettero anch’esse di qualche riconoscimento.

Nella rassegna che appresso propongo a chi ami il genere – la storia politica della Sardegna moderna cioè – ecco dunque, questa volta, i contributi di Battelli e Masala – talvolta cofirmati dai due (all’esordio professionale dopo la laurea in economia e i master) altre volte prodotti in piena autonomia – riferiti alle elaborazioni politiche specificamente di Gonario Pinna, Stefano Siglienti, Giovanni Battista Melis, Ferruccio Parri (l’azionista “sardista elettivo”).  

Mi preme evidenziare una circostanza “di qualità”. Noi studiammo le carte d’archivio e quelle passateci dall’emeroteca, se il caso gli atti parlamentari ecc. muovendo certamente da una simpatia ideale per le figure da biografare ed i loro rimandi politici, individuati nell’area della democrazia laica e riformatrice, progressista ed europeista pur nell’insistenza autonomista declinata con varie intensità fra regionalismo e federalismo. Ebbene, tale nostro sentimento, forse morale e culturale prima ancora che strettamente politico e meno che meno partitico, non offuscò allora la libertà critica dell’analisi. La si coglie, tale libertà critica, in particolare nel giudizio su certe esperienze di Siglienti come sostenitore, negli anni della presidenza dell’IMI e dell’ABI, della politica petrolchimica riservata alla Sardegna negli anni ’60 (peraltro condivisa dal largo schieramento delle forze parlamentari regionali sia moderate che di sinistra), così come su talune letture di “strategia dello sviluppo” fatte proprie di Giovanni Battista Melis, leader di un partito mostratosi, per lunghi periodi, subalterno alla DC nazionale e regionale e largamente impastoiato nelle clientele assistite.      

Nel dettaglio ecco il riferimento bibliografico esatto ai libri da me curati (ancorché il titolo degli articoli dei due autori sia stato, in questa occasione, lievemente modificato):

Battelli : «Gonario Pinna e il suo sardismo federalista» 

(in Bastianina, il sardoAzionismo / Saba, Berlinguer e Mastino, 1991)

Battelli, Masala: «Siglienti, nell'economia una saggezza antica»

(in Titino Melis, il PSd’A mazziniano / Fancello, Siglienti, i gielle, 1992)

Battelli: «Fanuccio Siglienti nel 1944: un ministro in camion» [intervista con Sergio Siglienti]

(in Alla fabbrica della Repubblica e dell’Autonomia, 1992, ripreso in Ines Berlinguer, Stefano Siglienti – Quaderni del sardoAzionismo, 1998)

Masala: «Al congresso del 1946: lo sguardo al passato del Comandante Maurizio»

(in Bastianina, il sardoAzionismo / Saba, Berlinguer e Mastino, 1991)

Battelli: «Favorire lo sviluppo, non i monopoli industriali. Parola di Parri»  

(in Ferruccio Parri, sardista elettivo, 1994)

Battelli, Masala: «Melis, la Sardegna fra sviluppo endogeno e subalternità»

(in “Con cuore di sardo e d’italiano”. Giovanni Battista Melis deputato alla I e IV legislatura repubblicana, 1995)


Maurizio Battelli: «Gonario Pinna e il suo sardismo federalista» 

Tra i protagonisti principali del dibattito politico-istituzionale svoltosi tra la fine del 1945 e l'inizio del 1946, Gonario Pinna reca un contributo originale di straordinaria lucidità.

Sulle pagine de Il Solco del 30 dicembre 1945 (titolo: "Tutti autonomisti?"), egli cerca di dare concretezza a questa formula, "autonomia regionale", che il PSd'A ha preso come vessillo e bandiera della propria azione politica.

Due devono essere le premesse a tale questione: non ci può essere autonomia in un regime monarchico, per cui occorre prima procedere rapidamente e senza incertezze verso la strada della repubblica; occorre scegliere tra una visione unitaria e una visione federalista dello Stato. La posizione di Pinna è chiara anche in questo caso: «una repubblica unitaria sarebbe, senza dubbio, un grande passo innanzi nella democratizzazione della vita italiana, ma probabilmente non segnerebbe un notevole progresso nella soluzione del problema delle autonomie locali».

Quindi, via libera al progetto federalista quale unica fonte di effettiva autonomia, intesa «nel senso più vasto e più elevato perché deve essere fonte di armonia nazionale, e cioè di libertà, di democrazia, di giustizia, in una parola di civiltà».

Viste però le oggettive difficoltà per un tale progetto di essere accettato in sede Costituente, egli si pone anche un obiettivo "subottimo", e cioè: «qualunque possa essere la forma del nuovo Stato italiano la Sardegna deve reclamare per sé quella autonomia organica che consente di esercitare, con pienezza di potestà nell'Isola, tutte le funzioni che non incidono nelle sfere dei diritti sovrani dello Stato». Questa dunque la sostanza: larga autonomia regionale seppur inserita in una logica di Stato unitario.




Il 10 gennaio 1946 Il Solco pubblica lo schema di progetto per lo "Statuto del governo autonomo della Sardegna" elaborato dal Direttorio Regionale sardista, che Pinna accompagna con una sua riflessione ("Quale autonomia?"). Torna quindi in argomento, poco più un mese più tardi, con un articolato ed approfondito commento che esce, sempre sul giornale del Partito, il 21 febbraio (titolo: "Punti fermi sul nostro progetto di autonomia").

Due risultano essere le caratteristiche fondamentali di tale progetto. La prima è che sia coerente con le caratteristiche socioeconomiche della Sardegna. La seconda «è quella di assicurare il rispetto dei diritti sovrani dello Stato, conservando quei vincoli essenziali di natura giuridica, finanziaria e sentimentale che fanno una regione partecipe della vita nazionale e dei destini d'uno stato».

Questo secondo punto permette a Gonario Pinna - fedele alla sua cultura "italianista", di mazziniano-cattaneano colto – di porre in rilievo il rifiuto da parte del PSd'A della prospettiva separatista: «noi riconosciamo allo Stato il diritto di provvedere alla difesa dell'isola [...], riconosciamo la competenza esclusiva per l'organizzazione della giustizia, tranne che per la delimitazione delle circoscrizioni giudiziarie [...], accettiamo di trattare i nostri affari sulla base della moneta dello Stato italiano».

Per rinforzare maggiormente questa tesi anti-separatista egli prende come confronto il progetto di costituzione della regione autonoma Sicilia proposto dall' Associazione tra i siciliani residenti a Roma. (Il 18 e 25 aprile 1946 Il Solco pubblicherà uno studio parallelo fra il testo scaturito dal dibattito in seno alla Consulta siciliana e quello che è "farina del sacco" dell'esponente repubblicano-azionista-sardista nuorese). Si tratta sicuramente di uno schema molto più avanzato in termini autonomistici rispetto a quello del PSd' A, specie per alcune disposizioni: «ad esempio, quella che affida in modo esclusivo alla regione la disciplina, organizzazione della giustizia per tutte le materie, fatta eccezione della sola giustizia militare; o quella in virtù della quale i trattati di commercio, i trattati doganali e quelli relativi alla immigrazione ed emigrazione non potranno essere ratificati dallo Stato se non abbiano riportato l'approvazione del Parlamento regionale; o quell'altra che sancisce la facoltà del Governo regionale di destinare propri addetti commerciali presso i consolati e le ambasciate italiane all'estero, addetti che comunicheranno liberamente e direttamente col Governo della Regione autonoma».

Su tale progetto statutario siciliano egli ritorna con un commento su Riscossa il 25 febbraio 1946 (titolo: "Unità nazionale e struttura dello Stato"). La sua opinione è che l'elaborazione autonomistica dei siciliani esprima, alla fine, una configurazione giuridica della regione più del tipo «regione-stato che faccia parte d'una confederazione di stati che non quella della regione autonoma che faccia parte di uno stato federale».

Altra è l'impostazione, diverso il disegno politico-istituzionale di Pinna per il quale rimane ottimale la soluzione della repubblica federale, l'unica coerente, oltretutto, con la sua "religione laica" fondata sulla libertà e sulla giustizia. 


Maurizio Battelli, Elio Masala: «Siglienti, nell' economia una saggezza antica»

Si possono fissare in tre momenti essenziali le varie esperienze di Stefano Siglienti operatore dell'economia: l'impegno lavorativo al Credito Fondiario Sardo, culminato nella vice-direzione generale (anni 1923-1944); la titolarità delle Finanze nel I governo Bonomi (1944); infine, la nomina a commissario e successivamente a presidente dell'IMl - Istituto Mobiliare Italiano, e dell'ABI - Associazione Bancaria Italiana - (1945-1971).

Alla loro base stanno sia gli studi universitari, svolti a Sassari presso la facoltà di Leggi, che la volontà di Siglienti di approfondire il campo delle complesse scienze economico-matematiche.

Conseguita la laurea, nell'ottobre del '23 trova impiego presso la direzione di Cagliari del C.F.S. Dopo due anni gli è offerta la possibilità di trasferirsi a Roma dove successivamente diviene capo del servizio legale dell'istituto e, nel 1938, vice-direttore generale.

Nella capitale, Siglienti ha la possibilità di entrare in contatto non solo con gli ambienti economici variamente legati alle banche ma, soprattutto, con gli uomini dell'antifascismo. Nel '29 è già tra i maggiori esponenti del movimento "Giustizia e Libertà".

Tra gli anni '40 e 41, con Adolfo Tino, Ugo La Malfa, ecc. contribuisce alla preparazione del programma del Partito d'Azione ancora clandestino, specie per la parte relativa all'economia (nazionalizzazioni). Dalla seconda metà del '42, si intensificano gli incontri con il gruppo antifascista presso lo studio di Bonomi e presso la sua stessa abitazione di via Poma. Tale attività non passa però inosservata, e il 19 novembre 1943 viene arrestato dalle squadre speciali tedesche e segregato a Regina Coeli. Fuggirà grazie all'aiuto della moglie Ines, per riprendere l'attività clandestina di organizzazione politica del CLN. Dopo la liberazione di Roma viene nominato Ministro delle Finanze. 

Della breve esperienza governativa (18 giugno-22 dicembre 1944) e anche dei successivi incarichi di banchiere ha scritto un fondamentale saggio Anna Caroleo su Economia Pubblica (nn. 9/10 del 1987), dal titolo: "Protagonisti dell'intervento pubblico: Stefano Siglienti".

Siglienti dovette affrontare i notevoli problemi connessi con la ricostruzione del paese. Il primo banco di prova fu la riorganizzazione dei servizi in seguito alla ricostituzione del Ministero del tesoro. In particolare risultava di primaria importanza l'attribuzione delle competenze del demanio mobiliare che comprendeva fra l'altro le partecipazioni finanziarie dello Stato.

Risultò a tal riguardo assai proficuo il confronto con Ugo la Malfa, il quale, dalla sua posizione di responsabile del centro studi della Banca Commerciale Italiana, lungo tutti gli anni '30 aveva potuto approfondire le moderne teorie dell'intervento pubblico nell'economia, sviluppate dalla scuola di Keynes, che naturalmente avevano per scenario un sistema democratico.

Egli optò per una sempre maggiore presenza statale nell'economia, sia tramite partecipazioni finanziarie nella struttura industriale che attraverso una incisiva azione programmatoria che delineasse un armonioso sviluppo socio-economico dell'Italia.

A tal proposito, l'IRI risultava strategico non solo per il finanziamento e la vigilanza ma, soprattutto, quale organo di gestione effettiva delle grandi industrie, qualora fossero state nazionalizzate, e, in ogni caso, quale organo di coordinamento della politica industriale del paese.




L'impostazione che Siglienti avrebbe voluto dare alle partecipazioni statali, cioè il loro mantenimento nelle competenze del Ministero delle finanze, si scontrò con la visione di alcuni colleghi di governo tra i quali lo stesso Bonomi, che preferirono attuare il passaggio di quelle competenze al ricostituito Dicastero del tesoro.

Sul piano prettamente fiscale, il suo operato si rivolse allo snellimento dei meccanismi tributari con l'obiettivo dell'aumento del gettito pur senza apportare rilevanti modifiche al sistema vigente se non l'abolizione di alcune norme di diretta emanazione fascista.

Di fronte alla esigenza di incrementare le entrate dello Stato egli ritenne necessario, tenendo conto della ridotta capacità contributiva dei redditi minimi, dovuta alla svalutazione monetaria, spostare il carico tributario sui redditi più alti. Propose quindi l'elevazione del minimo imponibile e una modifica delle aliquote in modo da attenuare il carico sulle fasce della popolazione medio-bassa ed affermare un principio di progressività.

Concluso il suo semestre governativo e, dopo un breve periodo di ritorno al Credito Fondiario Sardo, ricevette l'incarico di Commissario straordinario dell'IMl, di cui diventerà presidente il 10 dicembre del '46.

Al momento della nomina a Commissario straordinario, l'IMI si trovava in uno stato di crisi dovuto sia alla quasi totale mancanza di domande di finanziamento che alla perdita per motivi bellici, da parte di molte aziende, dei beni che garantivano le operazioni deliberate in pregresso. Una situazione sicuramente difficile considerato anche il ruolo che l'IMI si apprestava a svolgere: nel novembre del '44 era stata emanata la legislazione sul credito agevolato "a fini generali" e l'IMI, come maggiore istituto di credito a medio-lungo termine, vi aveva naturalmente un ruolo fondamentale.

L'indirizzo che Siglienti diede da subito all'Istituto fu quello di un'azione di sostegno finanziario alla riconversione e al completamento degli impianti industriali, sempre tenendo ben in conto l'aspetto reddituale delle iniziative.

Si dovette procedere alla evidenziazione dei settori prioritari di intervento: innanzitutto, l'industria manifatturiera (il settore siderurgico e meccanico, poi il tessile e l'alimentare), quindi le industrie di produzione di servizi di pubblico interesse, quali l'energia elettrica ed i servizi telefonici.

La maggior parte dei finanziamenti si diressero verso la grande impresa, non tanto per una ragione strategica quanto per una mancanza di domanda di credito da parte delle piccole e medie, che avevano subìto i maggiori danni dalla guerra.

Lo stesso Siglienti lanciò un programma di maggior impegno verso questo tipo di aziende che riteneva fondamentali per la ricostruzione del paese.

Dopo la nomina a presidente dell'istituto, egli dovette impegnarsi a gestire gli aiuti concessi dagli Stati Uniti attraverso l'European Recovery Program (ERP).

Nel '47 venne emanato il decreto legge concernente l'apertura di crediti fino a un ammontare di 100 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti e, più direttamente dalla Export-Import Bank (EIB) di Washington, allo scopo di agevolare i movimenti in esportazione ed in importazione tra Italia e Stati Uniti.

Avendo trattato in prima persona con i rappresentanti della banca americana, capì subito quali possibilità si aprivano per l'IMI di inserirsi nella sfera delle relazioni internazionali. La credibilità acquisita nella gestione di tali fondi portò alla stipulazione di altri importanti accordi con il sistema bancario USA per il settore siderurgico e per l'industria elettrica.

Con l'inizio degli anni '50 finisce il periodo delle gestioni speciali relative agli aiuti americani, ed inizia quello caratterizzato da un incremento delle operazioni di finanziamento statutarie. Prioritari i settori dell'energia elettrica, dei trasporti marittimi e delle telecomunicazioni.

L'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno rappresentò l'occasione per un più consistente intervento dell'IMl nel meridione, in vista di un suo riequilibrio con le regioni del Nord. E negli anni '60 questo intervento si intensificò, furono aperte nuove sedi nel Sud (la Sardegna rimase esclusa) e si intervenne nel piano dei poli di sviluppo entrando in partecipazione nei consorzi delle aree industriali.

Il settore in cui si manifestarono i più consistenti finanziamenti fu quello chimico e petrolchimico (impianti dell'ANIC a Gela, della Montecatini, della SIR e della Rumianca in Sardegna).

Indubbiamente, a trent'anni di distanza sarebbe opportuno riverificare i criteri che indussero al finanziamento dei grandi poli. In altri termini, rimane da verificare se furono le teorie dell'economista francese Perraux a dirigere questi interventi di politica industriale oppure se furono gli interessi dei grandi oligopoli industriali del paese a guidare l'azione dei politici, indipendentemente dall'interesse reale delle aree del Mezzogiorno.

Qualunque sia stata la causa, o la "filosofia", che reggeva tale politica di sviluppo, non si può non evidenziare il sostanziale fallimento di tale politica e, dunque, la persistenza dello squilibrio territoriale.

Nel periodo commissariale dell'IMl, Siglienti fu pure designato presidente dell'ABI. La presidenza dell'associazione, ricostituita mediante referendum tra tutti gli istituti di credito, gli permise di stabilire una proficua collaborazione con Donato Menichella, allora Governatore della Banca d'Italia.

Dai loro rapporti di profonda, reciproca stima, vennero nuove opportunità per la riforma del sistema creditizio: dalla definizione della riserva obbligatoria, alla costituzione del cartello interbancario, alla precisazione dei criteri per l'apertura di nuovi sportelli; e a più alto livello, gli incontri internazionali che la carica di presidente dell'IMl assicurava, permisero a Siglienti di apportare un prezioso contributo alla soluzione dei problemi finanziari dell'Italia della ricostruzione. Ciò gli fu consentito anche dal buon vicinato con tutte le correnti politiche, di maggioranza e di opposizione, che unanimi gli espressero costantemente vivo apprezzamento.

L'impostazione pluralista favorì lo sviluppo anche in ambito economico di concezioni innovative. Convinto della necessità per l'economia italiana di utilizzare fonti di finanziamento estere, contrario ad impostazioni protezionistiche, Siglienti caldeggiò una politica di liberalizzazione degli scambi. Finalmente l'Italia entrava nei circuiti dell'economia internazionale. Dopo l'autarchia e il fascismo, adesso con l'Europa e la democrazia.


Maurizio Battelli: «Fanuccio Siglienti nel 1944: un ministro in camion»

Piazza della Scala, Ottobre. Per chi ha studiato economia sapere di dover entrare in uno dei santuari della finanza italiana, la Banca Commerciale Italiana, in un luogo dove sono passati tanti illustri economisti, per intervistare il presidente, uno dei banchieri più importanti d'Italia, dà una certa emozione. Percorro tanti corridoi: soffitti altissimi, ambiente austero. Puntualissimo, il presidente mi riceve. Stretta di mano forte, sguardo fisso negli occhi, fare deciso. Dopo le presentazioni di rito, con modi estremamente cordiali mi mette a mio agio. La mia tensione cala, ed inizia l'intervista con il dottor Sergio Siglienti.




Gli domando subito cosa ricordi dell'intervento di suo padre al Congresso sardista di Macomer del 1944, che rappresentò per lui forse l'occasione del ritorno nell'Isola dopo molti anni di lontananza, anni di guerra, di emergenza antifascista e antinazista. Risponde:

Lo accompagnai io, nel '44, avevo appena preso la licenza liceale a Sassari. Ricordo che avemmo una disavventura durante il viaggio da Sassari per Macomer: la macchina che ci accompagnava si guastò, si bucò una gomma. Allora, chiedemmo un passaggio ad un camionista che trasportava mercanzia varia. Mio padre si mise in cabina con il guidatore, ed io all'aperto. Arrivammo così a Macomer. Il guidatore fu gentilissimo nell'accompagnarci proprio a Macomer senza sapere neanche chi fosse mio padre: sapeva solo che andavamo al congresso sardista e cambiò strada per accompagnarci esattamente li. Quindi, il Ministro delle Finanze arrivò così, altro che auto blu e la scorta di oggi! Quando mio padre parlò, io ero seduto in mezzo alla gente, ai delegati che non mi conoscevano; lui disse che vedendo le bandiere dei quattro mori e riscontrando tanti amici e i vecchi ideali si era commosso, poi però disse di aver letto il Trattato di Pace. Non lo avevano visto tutti i ministri: Bonomi, il presidente del Consiglio, lo aveva avuto e lo aveva fatto vedere solo ad alcuni ministri, tra cui il titolare delle Finanze. Disse che era una cosa terribile, che si era dovuta firmare e che richiedeva una grande unità nazionale. Di fronte ad una simile cosa qualsiasi discorso di separatismo era assolutamente fuori luogo. Dopo di lui intervenne Puggioni che, in maniera cordiale, affermò di essere deluso dell'allontanamento di Siglienti dagli ideali sardisti. Invece, soprattutto dalla platea, si sentivano commenti favorevoli al discorso del Ministro. Per cui, mentre alcuni dirigenti non risposero positivamente al richiamo all'unità nazionale, questo fece una grande impressione sui delegati in sala.

Stefano Siglienti ebbe frequenti rapporti con Ugo La Malfa. Cosa ricorda del loro sodalizio?

Mio padre conobbe La Malfa nel periodo fascista. Quello che li univa molto erano soprattutto due aspetti: innanzitutto, il background economico, anche se mio padre non era un economista in senso stretto, dato che aveva studiato leggi (ma fece la tesi sui problemi agrari della Sardegna, una tesi economica), La Malfa aveva fatto degli studi di economia più approfonditi. Si trovavano dunque su questo terreno intellettuale comune. Però si ritrovavano soprattutto dal punto di vista politico, l'uno sardo e l'altro siciliano, per una forte vocazione nazionale. Né La Malfa, né mio padre erano separatisti. Allora non si parlava di autonomie regionali, su cui era d'accordo anche mio padre, ma si parlava proprio di separatismo. Sul piano politico, forse La Malfa era favorevole alla proporzionale, era più politicizzato in senso ideologico, credeva nella funzione dei partiti. Mio padre invece credeva in sistemi di tipo uninominale. Si differenziavano anche sulla matrice del rispettivo antifascismo: quello di mio padre non era di tipo politico-partitico ma derivava da un impegno civile. I Berlinguer, i Puggioni erano caratterizzati in modo più ideologico, erano più politici. Invece lui è sempre stato, in fondo, un apolitico: il suo antifascismo era quello del cittadino che si ribella alla dittatura, alla mancanza di libertà, di natura civile, dunque. La. Malfa, invece, era politico sino in fondo, e ciò li portava alle volte a diverse opinioni su tanti fatti concreti, anche a grandi litigate, sempre basate però su una altissima stima reciproca.

Suo padre ebbe anche stretti rapporti con Francesco Fancello.

A Fancello è stato sempre molto vicino. Soprattutto dopo che Fancello uscì dal carcere e dal confino, scontati per aver sempre rifiutato, ed impedito alla famiglia, di chiedere la grazia che il governo fascista aveva fatto sapere di poter concedere. Poi, lui aderì al Partito Socialista, e mio padre gli fu vicino quando assunse la carica di commissario degli ospedali riuniti, posto in cui serviva una persona di massima onestà. Si rivolse spesso a mio padre per delle consulenze sugli aspetti amministrativi...

Cosa ricorda di quando il governo si riuniva a Salerno?

A dire il vero io non ero presente a Salerno, c'era mia sorella Lina che mi raccontava spesso vari aneddoti su quel periodo. Fu famoso quello della camionetta. Allora per il servizio di trasporto venivano utilizzate delle camionette. Per il primo Consiglio dei ministri, a Villa Guariglia, un gruppo di ministri andò su una di queste. Questa camionetta era scassatissima e mio padre, non avendo trovato posto a sedere, stava in piedi aggrappato alla struttura. Allora Croce disse: «Mi pare che le Finanze siano un po' traballanti», e mio padre rispose: «E sì, però se non ci fossero le Finanze che sostengono, tutto ci cadrebbe addosso!». È importante sottolineare che mio padre quando si insediò al Ministero non fece subito una manovra economica, che invece fu operata in seguito, ma si preoccupò di fare ciò che non fanno gli attuali ministri delle Finanze, e cioè assicurarsi che la macchina organizzativa dell'Amministrazione funzionasse. Si adoperò subito per una riforma organizzativa del Ministero. Egli era per un unico Ministro dell'Economia, che gestisse quindi sia la spesa che le entrate. Non è un caso che adesso ritorni questo tipo di idea.

Siglienti, Segni, Berlinguer... i legami sassaresi...

Tra loro ci furono indubbiamente forti legami interpartitici, maliziosamente sassaresi. Ciò però si rifà alla vocazione di servitori dello Stato che la Sardegna ha sempre avuto e onorato, prima nei confronti del Regno e poi della Repubblica. Al Regno e a Torino, la Sardegna fornì non solo l'esercizio, ma anche tutto lo staff dirigenziale e ministeriale. Mentre la vocazione separatista che, contrastava con questa vocazione, era rivolta verso Roma non verso Torino e Genova. Ciò ancor più a Sassari dove c'era l'antica università che formava la classe dirigente. Mentre a Torino i giovani della borghesia andavano nell'industria e meno a servire lo Stato. Questa formazione culturale di servitori dello Stato era, dunque, la prima componente per cui mio padre non fu mai separatista. L' altra era di ordine economico: vide sempre la Sardegna integrata nell'economia più ampia del continente. Già nella sua tesi di laurea vi è il concetto della necessità di esportare non il prodotto agricolo ma il semilavorato o addirittura il prodotto finito. Semplificando: non il sughero ma i tappi. Vedeva la Sardegna integrata negli altri sistemi economici e ciò contrastava con la visione separatista come veniva concepita allora.

Stefano Siglienti aveva una visione economica incentrata su un forte intervento statale nell'economia.

Sì è vero, era il pensiero prevalente allora anche negli altri paesi. Anche la petrolchimica a Porto Torres rientrava in quelle teorie. Era una direttiva del governo. Quello era il tipo di intervento che altri paesi nello stesso stadio di sviluppo della Sardegna facevano: un'attività "sporca", come quella che adesso si fa nei paesi che si trovano nella stessa fase del Sud Italia di allora. Era una scelta coerente che però fu poi gestita male.

Un ricordo di Ines Berlinguer, di sua madre, altra valorosa combattente della resistenza.

Mia madre è stata decorata; anche se materialmente la medaglia non ce l'ha, esiste però la Gazzetta Ufficiale. Leo Valiani ancora oggi la va a trovare regolarmente perché dice che gli ha salvato la vita. Valiani si presentò per la prima volta a casa nostra avendo attraversato il fronte clandestinamente per venire a Roma: non sapeva però la parola segreta, che nel frattempo era cambiata. Mia madre lo fece entrare solo guardandolo in faccia. Poi una seconda volta, Valiani ebbe l'ispirazione di telefonare prima di venire. La telefonata capitò proprio nel momento in cui c'era una perquisizione delle SS in casa nostra. Mia madre rispose al telefono, e con il solo tono della voce fece capire a Valiani che non era il caso di presentarsi. Ancora oggi Valiani le è grato per questo.


Elio Masala: «Al congresso del 1946: lo sguardo al passato del Comandante Maurizio»

Il 1° Congresso Nazionale del Partito d'Azione si apre alle 10,15 del 4 febbraio 1946.

Dopo i saluti di Egidio Reale - che rappresenta la sezione ospitante di Roma - e la lettura del telegramma inviato dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, la parola è a Ferruccio Parri.

Egli gode di grande prestigio nel partito, che gli deriva dalla sua eroica condotta nella guerra in Alta Italia. Il suo non sarà un discorso politico in senso stretto, giacché - come osserva criticamente Emilio Lussu nel suo Sul Partito d'Azione e gli altri - «non può contare né su una base particolare più o meno politica, né su una linea personale capace di spostare le varie correnti e suscitare largo seguito».




La relazione su "Il Partito d'Azione nella resistenza al fascismo e nella guerra di liberazione" richiamerà l'assemblea sull'opportunità di rivolgere uno «sguardo al passato» per poter meglio valutare le origini dell'azionismo e di conseguenza riflettere sulla impostazione politica e ideologica necessaria ad individuare la giusta collocazione del partito nel panorama politico del dopoguerra.

Il congresso giunge dopo diciassette mesi di travaglio, tanti quanti lo separano dall'assemblea di Cosenza svoltasi dal 4 al 7 agosto 1944. Nel 1945 il partito ha visto affievolire le sue speranze di imporsi come asse centrale della nuova politica nazionale, la sua strategia è stata messa continuamente in discussione, tanto all'interno quanto all'esterno.

La nomina di Parri alla guida dell'esecutivo è sembrata portare un momento di coesione nel partito. In realtà, nei cinque mesi che vanno da giugno a novembre, non sono mancate dal seno degli stessi azionisti critiche alla politica ministeriale. Lo stesso diretto impegno dei leader al governo (oltre a Parri, anche Lussu e La Malta, e Bruno e Ragghianti e Rossi) ha privato il partito di risorse preziose. Insomma, sono molti, dirigenti e militanti, che hanno considerato il governo Parri e la sua caduta come il periodo di maggiore crisi del Pd'A.

L'oratore avverte la necessità di calarsi ancora una volta nei panni del "comandante Maurizio", nel ruolo cioè di vero capo morale dell'azionismo, per richiamare il contributo dato dai compagni alla guerra partigiana e alla vita di partito, un impegno teso a superare le difficoltà che si sono frapposte all'organizzazione delle strutture in un periodo ancora di persecuzioni.

«È stata la lotta clandestina, sia politica che militare, a dare la sua impronta al Partito, tanto che la massima parte dei suoi quadri si è formata uscendo da questa lotta. Se questa lotta ci ha dissanguato, tuttavia ci ha dato una particolare dignità tra i partiti italiani»: così egli richiama e sottolinea il forte, inscindibile legame - inscindibile quanto a tensione morale - tra l'azionismo e la resistenza.

La storia del Partito d'Azione è del resto relativamente recente. A voler trovare le ascendenze ideali ed etico-politiche nel prefascismo, potrebbe dirsi che le prime elaborazioni e le prime riunioni risalgono al 1921. Gli uomini che vi partecipavano erano gli stessi raggruppati attorno al Quarto Stato di Rosselli, alla Rivoluzione Liberale di Gobetti, all'Unità di Salvemini, al Mondo di Amendola. Si erano dunque assicurate presenze a Milano, a Torino, a Firenze, a Roma, ecc.

A partire dal 1926 per i giellisti o gli azionisti in pectore più rappresentativi (Cianca, Tarchiani, Rosselli, Lussu, ecc.) comincia il periodo della galera, del confino, dell'espatrio.

Quante nobili vite hanno potuto incontrarsi grazie al... fascismo! Le migliori personalità dell'antifascismo democratico si sono conosciute negli spazi loro lasciati dal regime: le celle, le isole, le strade dell'emigrazione. Parri è stato sempre, per tutti, uomo dai mille carismi: lui nella propria figura dimessa eppure solenne. Così - è Aldo Garosci a ricordarlo nella sua Vita di Carlo Rosselli - lo ha ripensato l'autore del Socialismo Liberale, dopo l'espatrio: «Guardo Parri. Come lo amo. Come il suo viso fine, pallido, incorniciato da una barba di venti giorni, spira nobiltà. Parri è la mia seconda coscienza, il mio fratello maggiore. Se la prigione non mi avesse dato altro, la sua melanconica amicizia mi basterebbe. Questi uomini alti e puri sono tristi, terribilmente tristi e solitari. Scherzano, ridono, amano come tutti gli altri. Ma c'è nel fondo del loro essere una tragica disperazione, una specie di disperazione cosmica. La vita è per loro dovere. Fino alla conoscenza di Parri, l'eroe mazziniano mi era parso astratto e retorico. Ora me lo vedo steso vicino con tutto il dolore del mondo ma anche con tutta la morale energia del mondo, incisa sul volto».

Da questi uomini è venuta prima Giustizia e Libertà e poi il Partito d'Azione. Ma ora, all'assise romana, è Parri a ricordare gli altri eroi, gli altri suoi fratelli. Il pensiero del "comandante Maurizio" si porta specialmente su Duccio Galimberti, promotore della prima formazione partigiana, nel settembre del 1943.

Avvocato di sentimenti mazziniani, Galimberti nel 1942 è tra i primi ad aderire all'azionismo clandestino entrando nella direzione piemontese. Darà vita alle divisioni GL assumendone il comando per il Piemonte. Arrestato il 28 novembre 1944 è trasferito a Cuneo, sottoposto a cinque giorni di torture da parte del nemico. Il 3 dicembre viene ucciso a raffiche di mitra, senza sepoltura.

«... È stata una guerra atroce, che ha avuto il carattere di una guerra di religione, una guerra in cui il nemico non si perdona, ma si distrugge e i prigionieri si massacrano. Ora è bene soprattutto ricordare a coloro che si trovano a sud della linea gotica il carattere di questa guerra perché si rendano conto di quella tensione e di quell'odio che si era raggiunto in Italia settentrionale e specialmente nelle città dell'Italia settentrionale. Non tenendo presente questa tensione psicologica, questa accumulazione di odi e di vendette, non vi potete spiegare gli eccidi che caratterizzano le giornate della liberazione».

Questo passo del discorso di Parri è illuminante sulla condizione in cui si sono trovate le regioni padane negli anni della resistenza, e se non giustifica i crimini perpetrati nelle giornate della liberazione, certo dà un'idea dello stato d'animo provocato dalle terribili persecuzioni subite dai partigiani e dalle popolazioni del nord nei venti lunghissimi, interminabili mesi che vanno dalla firma dell'armistizio alla caduta totale e definitiva del regime fascista in Italia.

«Furono gli uomini del Partito che pensarono che questa insurrezione popolare avrebbe dovuto trasformarsi in una guerra che riaprisse e anche cancellasse la guerra fascista e che muovesse il popolo a combattere per la sua libertà e a rivendicare l'onore della nazione». Richiamando il valore della resistenza armata Parri coglie però l'occasione per elogiare il grande contributo fornito anche dalle donne alla guerra partigiana. E citando il caso della sassarese Bastianina Martini Musu, coglie l'occasione per riconsiderare il ruolo che le donne possono avere nella nuova società pacificata.

Egli descrive l'organizzazione militare di "Giustizia e Libertà", la sua consistenza, le perdite subite: circa 1.800 morti e 2.500 feriti. Gli esponenti del movimento azionista sono sempre stati in prima linea.

«La mia parola non sa rendere molto i sentimenti di quell'ora di liberazione, di quell'ora di trionfo, doloroso trionfo di una Patria desolata da tanto sangue e da tanti lutti e da tante miserie. Poi è venuta la marea straripante dei partigiani dell'ultima ora ed è venuta subito a galla la massa dei profittatori e degli sfruttatori del movimento partigiano. E sono arrivati anche, a prudente distanza, i contabili malevoli di misfatti partigiani. Di quelle vittime che noi per primi abbiamo deprecato; ma uno dei nostri vanti maggiori è che il sanguinario ed il profittatore fra noi sono stati un'eccezione». Sono riflessioni, queste di Parri, che rilette oggi - a distanza di quasi mezzo secolo - hanno una valenza particolare, visto il tentativo recente di ricondurre, con sommaria intelligenza e conoscenza della storia, tutta la resistenza ad un periodo di eccidi e di vendette trasversali.

«Bisogna certamente reagire - sono ancora parole del "comandante Maurizio" divenuto poi sì Presidente del Consiglio dei ministri ma rimasto comunque in "servizio permanente effettivo" come leader morale del partito - contro questo genere di speculazione e di congiura. Questa generale mania di diffamazione e di deformazione che intende cancellare dalla storia d'Italia una delle pagine più belle per generosità e chiarezza che il nostro popolo ha scritto, ed ha scritto da solo senza dettatura. Ma è proprio questa coscienza, amici partigiani, che dovete ritrovare e vi deve sempre sorreggere. L' ora della liberazione è stata dura per molti di voi; dura di delusioni e di miserie. È la delusione antica del combattente, che finita la guerra si vede scavalcato dall'imboscato, dal profittatore che non sa combattere col mitra ma che è espertissimo nel combattere con i gomiti».

Il richiamo alla lotta antifascista e al difficile inserimento dei partigiani nella vita civile consente a Parri di soffermarsi ancora una volta sulla qualità dei "suoi" uomini sacrificatisi per gli ideali di libertà. E i nomi che cita sono davvero molti.

Tutte le regioni italiane hanno contribuito col sacrificio di vite umane alla resistenza. Tra i tanti, il sardo Pietro Borrotzu, nato a Orani nell'aprile del 1921. Allievo dell'Accademia militare di Modena, quindi ufficiale dell'esercito, dopo l'armistizio si unisce ai partigiani. Organizza i primi nuclei di resistenza a Bergamo, costituisce la prima formazione della colonna "Giustizia e Libertà" a La Spezia. Il 24 marzo 1944 prepara l'assalto alla caserma di Carro, ciò che gli consente di procurarsi armi e munizioni. A Chiusola, in provincia di La Spezia, dove ha sede la sua organizzazione, tradito da una spia viene catturato il 5 aprile e fucilato. Riceverà la medaglia d'argento al Valor Militare.

La conclusione di Ferruccio Parri non è politica così come tutto il suo intervento - secondo quanto preannunciato - non è stato strettamente politico. Altri si assumeranno l'onore e l'onere della relazione politica. La sua è stata più che altro una lezione su come la condotta partigiana possa, animata da tanto vigore patriottico, trovare naturale e proficua continuazione nella storia "di pace" ed incidere sulla vita civile: «Non possiamo trarre da questi ricordi certamente indicazioni per la soluzione dei nostri problemi politici, ma possiamo bensì trarre un insegnamento di serietà, di concretezza, di antiaccademismo, di senso di responsabilità e di coraggio civile; possiamo cioè trarne la premessa senza la quale la nostra opera non potrà essere degna del nostro passato».

Questo discorso è stato analizzato da diversi autori. Tutti convergono sulle grandi doti morali ed intellettuali di Parri, ma sono molti coloro che mettono anche in evidenza la sua ingenuità politica, proprio come leader di partito.

La caduta del suo governo ha portato tra gli azionisti uno stato di grave frustrazione. Non mancano, all'interno, coloro che ritengono che egli sia giunto al congresso con un obiettivo ben preciso: spostare a destra l'asse del partito, isolando così il gruppo di Lussu del quale notoriamente non condivide, con Ugo La Malfa, l'aspirazione a trasformare il Pd' A in un nuovo partito socialista.

Come rileva Antonio Gambino nella sua Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere DC: «Nonostante il tono modesto, quasi dimesso, dei suoi atteggiamenti, l'ex presidente del Consiglio si è totalmente identificato con la propria figura di capo morale dell'Italia partigiana. Ed è quindi convinto che il suo prestigio possa produrre, anche elettoralmente, risultati notevoli».

La sera del 7 febbraio egli, dopo essere stato accusato da un esponente della sinistra di aver tradito la sua funzione di guida imparziale del partito, abbandona l'assemblea e accompagnato da coloro che concordano con le sue opinioni, fonda (con La Malfa) il Movimento democratico repubblicano, che si illude possa rappresentare la nuova "spina dorsale" della democrazia italiana.

Le previsioni degli scissionisti si riveleranno errate. Il risultato delle urne, il 2 giugno 1946, sarà, per il Movimento, ben modesto: solo due seggi, invece dei venti e oltre messi in conto.

L'ingresso di Alcide De Gasperi al Viminale, e più ancora il suo rafforzamento elettorale, appunto il 2 giugno 1946, implicherà la "consegna" dell'Italia nelle mani della Democrazia Cristiana.


Maurizio Battelli: «Favorire lo sviluppo, non i monopoli industriali. Parola di Parri»  

È sicuramente interessante e molto istruttivo leggere i resoconti parlamentari del periodo in cui, si discuteva la Legge di Rinascita della Sardegna. Emerge che il dibattito fu ricco di molti illustri e dotti interventi. Ma non mancò anche tanta retorica e demagogia.

L'argomento permise alle migliori menti di cimentarsi in una materia affascinante: lo sviluppo economico di un'area cronicamente sottosviluppata.

Era il periodo della Programmazione, dei Piani di sviluppo. La Sardegna, al passo con i tempi e con gli slogan economici allora di moda, propose il proprio Piano di sviluppo. Un Piano che prevedeva l'utilizzazione di alcune centinaia di miliardi di lire, necessari per far uscire l'isola dalla storica dipendenza economica ed innestare lo "sviluppo autopropulsivo".




Il Piano individuava nello sviluppo di un sistema industriale il modello centrale di crescita economica: si ipotizzava un aumento del reddito pro-capite, una diminuzione della disoccupazione, e, più in generale, un miglioramento del livello di vita dei sardi e una riduzione del divario socioeconomico rispetto al Nord Italia.

Con il "senno di poi" si può dire che fu un fallimento. L'unico obiettivo che venne raggiunto, anche se in parte, fu l'aumento del reddito pro-capite, ma ciò fu dovuto soprattutto ai trasferimenti di denaro pubblico, piuttosto che ad una maggiore produzione ed accumulazione di capitale all'interno della Sardegna. Furono costruite le "cattedrali nel deserto" in cui la variabile socio-culturale non venne presa in considerazione: la conversione da pastore a operaio che nel Piano sembrava facile nella realtà si rivelò un'avventura. Le cattedrali fallirono miseramente e l'isola vide allontanarsi ancora una volta l'agognato sviluppo.

Probabilmente, l'unica cosa che si sviluppò fu la carriera dei molti politici che gestirono in modo clientelare i trasferimenti pubblici. Una classe politica completamente dipendente dalla élite politica nazionale, special modo quella governativa, la quale seguiva processi di scelta in cui l'interesse allo sviluppo della Sardegna risultava essere strumentale e subalterno rispetto ad altri obiettivi di clan e alla considerazione dell'isola come elemento di contorno del tutto ininfluente e marginale.

Non tutti però, anche allora, rimasero abbagliati dalla chimera dello sviluppo programmato. Tra tutti, un "non sardo" non ebbe paura di vestire i panni della Cassandra per dire in modo esplicito ciò che poi si verificò nella realtà.

Questo fu Ferruccio Parri, il "comandante Maurizio" della Resistenza.

Vediamo dagli atti della seduta pomeridiana del Senato della Repubblica del 21 novembre 1961 quale fu il Parri-pensiero circa il Piano di Rinascita della Sardegna. Per quanto riguarda gli aspetti generali del Piano la critica fu feroce: «Non basta, onorevoli colleghi, scrivere "Piano": qui non v'è nessuno dei requisiti che si debbono attribuire ad un piano. Non è un piano operativo che abbia dentro di sé il proprio organo esecutivo e preveda gli strumenti di azione e anche le sanzioni per la mancata attuazione. Non direi neppure che è un programma, come è scritto in testa alla legge. Potreste chiamarlo un capitolato di oneri dello Stato italiano nei riguardi della Sardegna [...]. Esiste insomma solo un impegno generico di spendere quei determinati fondi per un obiettivo del tutto generico, con un certo capitolato di oneri».

«[...]. Tra le fraseologie correnti quando si discorre di piani, c'è quella, che ricorre spesso tra noi, degli "squilibri regionali". È una frase ingannatrice! Non sono gli squilibri regionali che contano; non è la Sardegna, come fatto fisico, che interessa: interessa come vivono i sardi, interessa il tenore di vita delle popolazioni depresse! Se al limite, spendendo in un anno 30 miliardi e supponendo secondo il modulo SVIMEZ che essi producano un aumento annuo di reddito di due terzi (cioè 20 miliardi), e questo fosse assorbito da 20 sardi (nda - forse pensava ad alcuni esimi rappresentanti della classe politica?), il reddito di ciascuno dei quali crescerebbe di un miliardo, ebbene voi avreste migliorato lo "squilibrio regionale", ma non migliorato o peggiorato la situazione dei sardi!».

«[...]. Il primo obiettivo di un piano deve essere un trasferimento di carattere sociale, non territoriale: trasferimento di reddito agli strati e alle classi che hanno redditi insufficienti».

Per quanto riguarda gli aspetti più particolari del Piano, soprattutto la scelta del tipo di industrializzazione da attuare, i problemi vennero evidenziati in tutta la loro "futura" drammaticità.

«[...]. Quanto ai criteri da seguire nelle varie attività da promuovere, mi fermo un momento sulla parte industria perché è forse quella che mi è parsa o più difettosa o incerta [...]. Mi pare che essa sia rimasta nel vago e assai nel pericoloso. Qui non invano è stato ricordato che questo piano apre, spalanca la porta ai monopoli [...].

È giusto che la Sardegna faccia appello alle sue risorse minerarie; mi sembra però che esageri nella considerazione della utilizzabilità economica di queste risorse [...]. Non so che promesse abbia fatto la Montecatini: lo saprete voi del Governo regionale [...]. Supponendo che andasse in porto il progetto, di cui si favoleggia, di fabbricazione dell'alluminio dalla bauxite, si tratterebbe forse, con un calcolo grossolano, di 100 miliardi. E con quel vostro articolo siete disposti a dargliene 40? E cosa resta allo stato per l'industrializzazione vera e seria?».

Mai domanda, apparentemente semplice, fu tanto profonda, e soprattutto basata su una logica di fondo economicamente ineccepibile [...]: «Io affermo che imprese grandi, che per trasferirsi abbiano bisogno di contributi del 40 per cento del capitale oltre al resto, o sono sballate o sono parassitarie, e in nessuno dei due casi possono essere accettabili».

Quale allora sarebbe dovuta essere la linea guida per lo sviluppo della Sardegna se non un Piano «il più equilibrato e il più armonioso possibile, che confidi su tutte le risorse [...]. Si può fare in Sardegna una politica di industrializzazione sulla base di medie e piccole imprese».

Come si può notare era chiara in Ferruccio Parri l'idea dello sviluppo tramite le Piccole e Medie Imprese; idea che all'epoca era sicuramente "fuori moda" visto che alle menti politiche sarde apparirà solo dopo tre lustri... e dopo tanti fallimenti.

Esemplare fu anche l'accorato appello agli "amici sardi": «Voi sardi ve ne siete accontentati, ma 400 miliardi non sono molti, e se ve li lasciate portare via dai grandi monopoli voi industrializzate la Montecatini, non la Sardegna [...]. Ma soprattutto vorrei raccomandare agli amici sardi di non rimettere le sorti di questo programma e in genere dello sviluppo dell'economia del popolo sardo in poche mani, troppo potenti economicamente: questo sarebbe forse il maggiore degli errori che si possano commettere».

Il giudizio complessivo non dava adito a dubbi: «Il difetto maggiore di questo Piano, e quindi del disegno di legge in esame, che torno a ripeterlo, è estremamente manchevole rispetto alla sua intestazione, è quello dell'assoluta mancanza di organicità e di equilibrio nel disegno delle direttive di sviluppo».

Paradossalmente, e a dispetto delle visioni che considerano il "continentale", lo "straniero", un nemico della Sardegna, il senatore Parri, forse perché non coinvolto in interessi particolari e personali, vedeva delinearsi, con l'applicazione di questo Piano, un futuro non roseo per l'isola. Un futuro, ormai presente, caratterizzato in termini di rivendicazionismo e di accattonaggio nei confronti dello Stato e con un'azione politica regionale impegnata unicamente nella distribuzione clientelare, a tutti i livelli, delle scarse risorse ottenute.

Parri espose il suo pensiero a Palazzo Madama in modo molto lucido e presentò una serie di emendamenti per correggere le storture della legge in discussione. Naturalmente, non furono accolti. Né talune sue riserve di fondo trovarono risposte positive nella successiva e definitiva stesura del provvedimento legislativo (maggio 1962), che pure ebbe il consenso del gruppo parlamentare cui Parri, insieme con Lussu, aderiva. Oggi possiamo dire che aveva ragione. La storia, vera dispensatrice di onori e gloria, ha dato ragione al senatore Parri e torto alla classe politica sarda. Ma chi ci ha perso è l'intero popolo sardo.


Maurizio Battelli, Elio Masala: «Melis, la Sardegna fra sviluppo endogeno e subalternità»

Il secondo dopoguerra fu un periodo importante per l'Italia e per la Sardegna e molti furono gli argomenti sui quali ci si confrontò. Tra questi, ce ne fu uno che sicuramente impegnò le migliori menti sarde: il problema dell'autonomia. È questo, infatti, il problema centrale che inciderà su tutte le successive decisioni politiche inerenti i problemi sardi del dopoguerra.

Perciò, analizzare i discorsi parlamentari della I e IV Legislatura di Titino Melis, circa la sua visione di politica industriale e di sviluppo della Sardegna, senza inquadrarli all'interno del più vasto problema dell'autonomia sarebbe, a nostro parere, un'operazione inutile e di scarso valore.

L'azione di Titino Melis, e più in generale dell'intera classe politica sarda di allora - ma il discorso si potrebbe ampliare sino ad oggi - non può, in altri termini, essere disgiunta dalla situazione di autonomia in regime di dipendenza che l'élite politica ereditò dal passato e che non solo non si sforzò di modificare, ma anzi, esercitando un'azione politica caratterizzata in termini di adeguamento passivo allo status quo, aggravò ulteriormente i problemi della Sardegna.

La dipendenza a cui ci si riferisce si manifestò sin dalle prime azioni di politica industriale della Repubblica Italiana sino alla elaborazione del Piano di Rinascita della Sardegna. La Regione subì le decisioni assunte in sedi dove l'interesse allo sviluppo economico dell'isola risultava marginale, se non contrastante con gli interessi primari delle élites politiche ed economiche nazionali.

La classe politica sarda - ma altrettanta colpa la si può attribuire all'intero popolo sardo di cui probabilmente la classe politica non era che lo specchio più o meno fedele - aveva tradito, o non era riuscita a non tradire, l'ideale autonomistico che solo in alcuni brevi periodi della storia degli ultimi duecento anni la Sardegna aveva saputo esprimere.

Occorre tornare all'esperienza di Giommaria Angioy per ritrovare uno spirito illuminato che tentò di teorizzare e di applicare in Sardegna un sistema di reale autonomia, cioè una situazione di indipendenza politica ed economica. Ma, anche in tale occasione, mancò l'apporto del popolo, ormai assopito dal potere del dominante di turno: la corte sabauda.

Nel secondo dopoguerra era stata già accettata la dipendenza politica con l'occupazione di tutti gli spazi da parte dei partiti ideologici nazionali. Le istanze politiche del PCI, della DC, del PSI e dei partiti laici erano del tutto esogene rispetto alla cultura sarda, in quanto caratterizzate in termini di universalità avente come dimensione storica tutto il territorio nazionale. Tali ideologie, pertanto, dovevano necessariamente presupporre l'impostazione unitaria di Stato ereditata dalla tradizione risorgimentale.

La dipendenza politica venne fatta valere anche sull'unico partito che, almeno per il nome che portava, avrebbe potuto e dovuto contrastarla: il Partito Sardo d'Azione.

Il partito di maggioranza relativa, la DC, riuscì, forse senza nemmeno troppe resistenze, nell'intento di indebolire il PSd'A cooptandolo come partner privilegiato nella gestione del potere in Sardegna.

Tale cooptazione comportò un grado di subordinazione estremamente elevato rispetto alla volontà politica della DC, in quanto ogni scostamento dal grado di subordinazione ottimale incideva negativamente sulla massimizzazione della gestione del potere. Comportava, in altri termini, una riduzione del consenso per entrambi i partiti. 

Nell'elaborare le strategie a livello nazionale e si potrebbe portare il caso della politica per il Mezzogiorno o del Piano di Rinascita della Sardegna - i grandi partiti nazionali, come la DC, seguivano e tuttora seguono, dei processi di scelta determinati su vari livelli.

Il primo livello è quello collegato all'ideologia di base, ed in questo è evidente che l'autonomismo del sardismo storico non poteva essere parte; dunque, non ne influenzava le scelte.

Il secondo livello è dato dalla consistenza territoriale dell'elettorato di ogni singolo partito. È evidente che anche in questo livello la Sardegna si trovava svantaggiata visti i limiti numerici del proprio elettorato.

Il terzo livello concerne il numero degli iscritti al partito presente in ogni area politica, in altri termini il numero di tessere presenti in ogni area. Da questo punto di vista si può dire che la Sardegna rispetto a tutti i partiti nazionali è sempre stata assolutamente marginale. E, dunque, anche la DC sarda del dopoguerra, alla quale il PSd'A per molto tempo fece da "ruota di scorta", non poté mai portare avanti le esigenze autonomistiche dell'isola all'interno delle grandi scelte della politica di sviluppo economico e sociale.

Il risultato di questo processo di scelta delle strategie nazionali sui precedenti tre livelli ha determinato due effetti importanti. Da un lato, ha comportato l'assenza della voce della Sardegna nelle sedi decisionali importanti. Dall'altro lato, mancando questa presenza a livello nazionale, che avrebbe presupposto una maturazione di tesi politiche ed economiche a livello locale, ha determinato la riduzione della politica regionale a una pura e semplice gestione del contingente nell'ambito delle sfere di autonomia in regime di dipendenza.

La politica in Sardegna, quindi, non si è realizzata come momento dialettico di partecipazione e di confronto con le grandi scelte nazionali, che avrebbero sempre dovuto interessare positivamente la Regione, ma si è realizzata come momento di emarginazione e di convergenza su problematiche locali prive di dimensione nazionale, cioè totalmente ancorate ai confini geografici e culturali dell'isola. Ciò ha comportato una situazione di strumentalizzazione e di subordinazione rispetto alla politica nazionale che ha sempre considerato la Sardegna come elemento di contorno del tutto ininfluente e marginale.

È questo l'elemento di dipendenza, che individua, non già una spinta autopropulsiva e innovatrice, ma un isolamento sterile e subordinato rispetto alla comunità nazionale supinamente e acriticamente accettata sul piano culturale e politico.

Conseguenza di ciò è stata la caratterizzazione dell'intera politica regionale in termini di rivendicazionismo e accattonaggio nei confronti dello Stato e la frantumazione dell'azione politica regionale impegnata unicamente nella distribuzione clientelare, a tutti i livelli, delle scarse risorse ottenute.

È la rivendicazione finanziaria il risultato costante dell'azione dell'élite politica sarda, ieri come oggi; rivendicazione volta, è bene ribadirlo, non già ad acquisire spazi nel processo di formazione della volontà politica nazionale, ma semplicemente ad ampliare la dimensione della delega di tipo amministrativo e gestionale. Purtroppo, il rivendicazionismo implica non solo il riconoscimento dell'autorità dello Stato nelle decisioni riguardanti l'isola, ma anche la conseguente rinuncia alla partecipazione dell'isola in tali decisioni.

L'autonomia che si è istituzionalizzata dopo la seconda guerra mondiale è un'autonomia in regime di dipendenza, cioè non è un'autonomia; essa trova la sua unica giustificazione nella più generale problematica meridionalistica del divario socio-economico tra Nord e Sud, e in tale problematica sfuma ogni specificità della Sardegna.

In tale contesto di dipendenza culturale e politica la Sardegna poteva far valere, a differenza delle altre aree meridionali, solo l'elemento della insularità. Ma ciò era troppo poco.

In definitiva, l'autonomia in regime di dipendenza realizzata da una classe politica totalmente integrata nelle ideologie dei partiti nazionali non può avere alcuna giustificazione culturale che non sia quella connessa alle diatribe giuridico-formali dei costituzionalisti.

È nostra opinione che il feudalesimo storico, che svendette la Sardegna alla dominazione prima spagnola e poi sabauda, si ritrova in termini più moderni nel Novecento.

Si tratta del feudalesimo politico, formato dai signori delle tessere e delle clientele presenti in Sardegna in tutti i partiti, sia di ideologia nazionale che sarda.

Questi, come i loro antenati storici, vivendo in regime di dipendenza di potere e di ideologia dalle segreterie nazionali, da cui ottenevano la linfa necessaria per le clientele, barattarono l'ideale autonomistico, e il conseguente sviluppo endogeno ed autopropulsivo della Sardegna, per sempre maggiori quote di feudo.

Alla lotta di classe dell'Ottocento tra proletari e capitalisti si sostituì nel Novecento la nuova lotta di classe: quella tra i feudatari politici e le masse di cittadini non organizzate.

I primi, vera e propria classe sociale con interessi generali diffusi e condivisi, si organizzarono col fine dell'autoperpetuazione. Mentre la massa di cittadini, non avendo precisa coscienza politica della sua autoconsistenza come classe sociale, cioè non riuscendo ad organizzarsi su interessi comuni e condivisi, restò in balia dei primi e degli interessi dell'élite economica nazionale.

I partiti politici, sia di maggioranza che di opposizione, se analizzati sul piano della "identificabilità palese" - cioè nei discorsi, nei programmi, nella propaganda, nelle dichiarazioni di principio - tendevano a distinguersi gli uni dagli altri agli occhi di chi li voleva scegliere e seguire. Diverso risultato lo si ottiene se visti sul piano della "identificabilità occulta", cioè sul piano delle relazioni informali che si creano tra i politici di diversi partiti che entrano in scambi, accordi e transazioni varie; se considerati su tale livello gli attori politici, gli stessi litigiosi della "identificabilità palese", tendevano ad essere stretti alleati per la soddisfazione di interessi aventi per oggetto la gestione del potere.

Si creò così, anche in Sardegna, una imponente nuova classe di professionisti della politica e una ancor più numerosa sottoclasse di clientes, che viveva della ripartizione di secondo grado delle risorse pubbliche.

Da tale classe politica non poteva nascere alcuna elaborazione politica funzionale all'obiettivo di far uscire la Sardegna dall'atavica situazione di dipendenza.

All'interno di questo inquadramento più generale, l'opera di Titino Melis come parlamentare ci pare pregevole per l'impegno profuso e la conoscenza dei singoli problemi, così anche per l'arte oratoria dimostrata.

Di alto livello appaiono i discorsi pronunciati durante la I Legislatura sui problemi riguardanti le miniere in Sardegna o la lotta portata avanti contro il monopolio elettrico, anche se per tale argomento sembra più una ripetizione di schemi ideologici esterni (nazionalizzazione, e qui regionalizzazione) invece che una risposta solo parziale per lo sviluppo endogeno e la fuoriuscita dalla situazione di dipendenza.




Ecco alcuni brani significativi:

«La Sardegna è l'isola dei metalli, la regione più intensamente mineraria dell'Italia e quindi la regione che ha nelle viscere della sua terra quelle risorse che a tutte le altre regioni d'Italia, le più evolute industrialmente, mancano [...]. Ma tutta questa ricchezza, onorevoli colleghi, ai sardi non dà risorse, non dà che il triste lavoro di miniera [...]. Il minerale scavato nelle viscere della terra viene portato altrove e altrove trasformato [... . Occorre fare la politica che ristabilisca non solo l'unità morale, ma l'unità delle opere del nostro Paese, occorre fare una sana politica meridionalistica; occorre che da questo Parlamento sorga veramente genuina, viva, operante questa volontà di redenzione umana che ha nel suo Mezzogiorno il suo più grande problema: l'unità della Patria» (discorso del 23 novembre 1948).

«La Sardegna, la regione dei metalli, non può diventare una zona industriale perché v'è un monopolio elettrico che contrasta lo sviluppo dell'economia industriale, perché ha interesse a che, attraverso l'alto costo, si determinino gli utili che questa società può avere senza bisogno di impiego di nuovi capitali per nuove iniziative. La Sardegna è in regime di monopolio elettrico» (discorso del l ottobre 1949).

Pregevoli e, per alcuni aspetti, anticipatori della realtà i discorsi sulla istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e i suoi potenziali problemi di gestione, soprattutto per quanto riguardava il molo complementare e non sostitutivo di tali finanziamenti:

«Approvo [...] il criterio di realizzare la legge per il Mezzogiorno attraverso una speciale organizzazione, con speciale procedura, con uomini mobilitati a questo unico e grande compito, disinnestati dalla complessa burocrazia statale per un programma di grande avvenire [...]. Voglio immaginare il presidente della Cassa come un pioniere, investito di una missione di civiltà, dalla volontà fervida, bruciante, che abbia il senso nazionale delle sue responsabilità e dei suoi compiti; e perciò stesso ho bisogno di saperlo libero dalle pastoie inutili [...]. Abbiamo stabilito che i programmi della Cassa sono indipendenti dal normale bilancio dei vari dicasteri. Questi hanno sempre una loro disponibilità e un impegno alla spesa per le varie branche dell'amministrazione dello Stato: lavori pubblici, agricoltura, industria, commercio, ecc. Se per caso e per traversi disegni di falsamente intelligenti e veramente perfidi sistemi di Governo si volesse distrarre dal bilancio normale somme per spenderle attraverso la Cassa [...], anche questa sarebbe frode, e per questo si concreterebbe un nuovo tradimento: tradimento e frode che è bene denunciare in anticipo affinché non intervenga un sistema di questo genere, che non potrebbe trovarci complici né subietti» (discorso del 22 giugno 1950).

Non ci si può, invece, esimere da evidenziare forti perplessità circa il sostanziale appiattimento dei discorsi della IV Legislatura sulle proposte di natura esogena agli interessi sardi portate avanti dalla DC - soprattutto concernenti il ruolo delle partecipazioni statali - circa lo sviluppo della Sardegna.

«Lo strumento e la leva per dare concretezza al progresso industriale del Sud, che è determinato dalle grandi iniziative, promotrici di industrie di base, non può affidarsi all'iniziativa privata, ma esige, nel termine più breve, che venga predisposto dallo Stato, con investimenti massicci delle grandi industrie [...]. Solo forze di rottura di tanto peso possono rimuovere l'inerzia e mobilitare, di conseguenza, in tutti i sensi, attività e iniziative di privati operatori e collaterali, in tutta l'economia dell'ambiente. L'iniziativa privata, infatti, difficilmente affronterà, a grandi cifre, il grave handicap finanziario iniziale [...]» (discorso del 10 ottobre 1963).

«È col primo Governo di centro-sinistra, presieduto dall'on. Fanfani e del Ferrari Aggradi ministro dell'Industria, che si è resa possibile l'ormai imminente decuplicazione di energia a prezzi competitivi. E nelle solidarietà del primo Governo di centro-sinistra che è stato possibile varare il Piano di Rinascita che costituisce il primo esperimento nazionale di programmazione [...]. È dallo Stato, nello strumento della programmazione, che noi attendiamo l'installazione, in Sardegna, di quelle industrie di base che utilizzino i cinque miliardi di Kw di energia di imminente produzione [...]. È dallo Stato, nella distribuzione razionale e giusta delle iniziative, che rivendichiamo, per la nostra Isola, la presenza industriale dell'ENI, dell'IRI, della Finsider, ecc. totalmente assenti qui. È dalla necessaria, doverosa comprensione del centro-sinistra che la Sardegna dei metalli attende la creazione del V centro siderurgico. Se è vero che la Sardegna si proietta verso l'Africa come naturale e più vicina base di incremento produttivo, che deve cercare le vie di sbocco verso questo grande Continente per integrarlo nell'economia mondiale» (discorso del 17 dicembre 1963: dichiarazione di fiducia al I Governo Moro).

«[...]. Alle difficoltà obiettive del settore privato, con più grave responsabilità, si è aggiunta l'assenza di ogni iniziativa dei vari ministeri, ed in particolare di quello delle Partecipazioni Statali che aveva ed ha l'obbligo di disporre specifici programmi di opera di investimenti nel territorio regionale [...]. Non potete, oggi, amici del centro-sinistra, farci fare il cammino a ritroso, annullando quanto è stato utilmente impostato» (discorso del 3 agosto 1964: dichiarazione di fiducia al II Governo Moro).

«Lo Stato di centro-sinistra deve rompere risolutamente con la dittatura degli interessi che i partiti servono e valersi dei suoi strumenti. Le partecipazioni statali tra il 1957 e il 1964 hanno investito nel Sud 1.418 miliardi e sono sorti Taranto, Ferrandina, Gela, ecc. Meno di 49 miliardi su 1.418 sono stati spesi in Sardegna [...]. Non è certo facile il mandato che noi vi affidiamo. In esso si connatura la stabilità definitiva del nostro Paese e della sua stessa civiltà [...]. I governi di centro-sinistra hanno preso coscienza ed impostato gli strumenti senza adeguare le soluzioni, e troppo spesso sono stati richiamati e deviati da forze e verso interessi imperiosi e sopraffattori» (discorso del 14 marzo 1966: dichiarazione di fiducia al III Governo Moro).

Se, dunque, nella I Legislatura almeno parzialmente appare uno sviluppo endogeno basato sulla produzione di energia, nella IV Legislatura lo sviluppo endogeno lascia spazio ad ipotesi economiche basate su decisori esterni all'isola e su maggiori aree di dipendenza.

Da queste esemplificazioni, ma più in generale da tutti i discorsi da noi analizzati, ci pare che manchi la visione generale del problema dello sviluppo economico e della sua soluzione endogena, soprattutto per ciò che concerne la necessità di effettiva partecipazione alle decisioni che riguardavano lo sviluppo della Sardegna.

Ciò, probabilmente, a causa dell'allineamento prevalente del dibattito sardo dell'epoca all'ipotesi dei poli di industrializzazione secondo le tesi teoriche dello sviluppo squilibrato di Perroux e Hirschman. Teorie economiche che erano state sviluppate in relazione all'economia internazionale e, più esattamente, con riferimento ai problemi dei Paesi sottosviluppati e non a quelli di Regioni da sviluppare all'interno di uno Stato sviluppato.

Per la Sardegna, infatti, non fecero che da schermo agli interessi, molto meno teorici e più materiali, delle élites di potere nazionali e dei grandi gruppi oligopolistici, pubblici e privati. Interessi che, purtroppo, poco avevano a che fare con la soluzione del problema dello sviluppo economico e sociale dell'isola.

Titino Melis di questo non si accorse o, se si accorse, fece poco per evitarlo specie dalla posizione di dirigente politico che ricoprì nel PSd'A a livello regionale, e comunque da leader incontrastato dal 1945 in poi (salvo la breve parentesi dell'Avv. Piero Soggiu dal 1948 al 1951). Ciò forse a causa dell'esistenza di una scarsa capacità (o possibilità) di dibattito all'interno del Pd' A di quegli anni.

In altri termini, ci pare che la sua azione politica per lo sviluppo della Sardegna sia stata poco efficace proprio a livello regionale, dove, accogliendo la cooptazione da parte della DC e, quindi, il relativo adeguamento ai programmi democristiani, dovette accettare una ipotesi di sviluppo che poi si rivelò fallimentare.

D'altronde, forse anche lui era un "feudatario" e doveva curare il proprio feudo.

Riferimenti bibliografici:

Atti Parlamentari - I e IV Legislatura repubblicana. Discorsi dell'Onorevole Giovanni Battista Melis.

Giulio Bolacchi, Autonomia in regime di dipendenza, in Per un'altra Sardegna, a cura di Paolo Savona, Franco Angeli, 1984.

Gianfranco Contu, La questione nazionale sarda, Alfa Editrice, 1990. Andrea Manzella, La casa comune partitocratica, in MicroMega, 411990.

Gianfranco Murtas, Titino Melis, il PSd'A mazziniano / Fancello, Siglienti, i gielle, Eidos, 1992.

Alessandro Pizzorno, Categorie per una crisi, in MicroMega, 311993.

Dionigi Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, Edizioni della Torre, 1985. 

Marcello Tuveri, “La scissione sardista del 1968 - Una testimonianza”, in Il movimento democratico e repubblicano nella Sardegna contemporanea, Archivio Trimestrale (Rassegna storica di studi sul movimento repubblicano), Luglio-Settembre 1985.

Giuseppe Usai, Le imprese minori e il loro ambiente, Cedam, 1981.

Fonte: Gianfranco Murtas
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