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Gianfranco Murtas

Per don Mario Cugusi, alla vigilia del suo cinquantesimo di messa, nel decimo anniversario del suo ingiusto allontanamento da Sant’Eulalia

di Gianfranco Murtas

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E’ di questi giorni il decennale della rimozione di don Mario Cugusi dalla presidenza parrocchiale di Sant’Eulalia a Cagliari: decennale che considero infausto per le modalità (arroganti) in cui il provvedimento venne assunto dall’allora arcivescovo Giuseppe Mani. Con un fare che a me, e ad innumerevoli altri, parve quello di un padrone, non di un servo della comunità. Rovesciò il vangelo e la chiesa stessa il presule, e ci raccontò che l’autorità (quella sua autorità canonica non attraversata neppure da uno spiffero evangelico) era servizio. Ritengo ancora che l’episcopato di don Mani complessivamente considerato, e dunque anche al netto della questione Sant’Eulalia, sia stato rovinoso, tanto più sotto il profilo della pedagogia dell’esempio, per la comunità cagliaritana, sia quella strettamente religiosa o ecclesiale sia quella civile alla prima evidentemente strettamente connessa.

L’eccellenza della sostituzione di don Cugusi con don Marco Lai – uno dei migliori presbiteri all’opera giorno e notte nella diocesi e nelle situazioni più difficili sempre – nulla cambia dal punto di vista della sgradevolezza dell’imperio antievangelico di cui si fece protagonista l’arcivescovo. Certamente la comunità parrocchiale, ma direi meglio la comunità rionale della Marina cagliaritana, in questo ultimo decennio si è sviluppata ancora secondo alcune linee in precedenza impostate; è indubbio peraltro, o tale è a mio avviso, che la caratterizzazione “Caritas”, che per forza di cose essa si è data, abbia anche modificato e arricchito, sotto vari aspetti, il quadro ereditato dalla precedente amministrazione sia di culto che di relazione.

Ed aggiungo per… pendant, e per quante notizie io abbia: che la “cessione” di don Cugusi alla missione nell’hinterland cagliaritano abbia costituito, in specie particolarissima per Serdiana, i suoi minori alla crescita nelle scuole e i suoi anziani, per la popolazione intera e in tutti i suoi segmenti, una benedizione autentica per la profondità umana, spirituale e culturale del parroco del SS. Salvatore, in paese ormai da sette anni, e per la propensione educativa – derivatagli anche dalla lunga esperienza di docente alle scuole pubbliche – che don Cugusi ha recato in dono supplementare dal giorno in cui l’arcivescovo Miglio lo ha presentato a tutti (peraltro lasciandolo solo, dopo pochi minuti… per andare a godersi una partita nello stadio interdetto di Is Arenas).  

Ma questo decennale cagliaritano – di cui sarà bene rifare la storia un giorno, con il tanto che c’è stato dietro – coincide con un’altra ricorrenza, stavolta giubilare, che conforta tutti quanti noi che di don Cugusi siamo amici ed estimatori: sono cinquant’anni dalla sua ordinazione presbiterale avvenuta nel paese natale di Siurgus Donigala. La diocesi allora era retta dal cardinale Sebastiano Baggio, e quel certo 25 di luglio 1970 essa, ma con essa tutta la Sardegna, godeva ancora delle atmosfere della recente visita di papa Paolo VI, presso il compendio mercedario cagliaritano, il santuario-basilica di Nostra Signora di Bonaria. E godeva anche – perché con dirlo? – della gioia che tutti ci fece allora migliori per lo scudetto dei rossoblù di Gigi Riva e Manlio Scopigno.

Preso prima dagli studi universitari (a Filosofia, di seguito a quelli teologici compiuti nel seminario regionale di Cuglieri), poi dall’insegnamento – con il tanto previsto dei concorsi pubblici e delle assegnazioni di cattedra, dei punteggi e degli avvicinamenti… - per svariati anni don Cugusi collaborò, con incarichi vicariali, in rettorie e parrocchie della provincia, da Senorbì (Santa Barbara) a Guasila (Beata Vergine Assunta), a Selargius (SS. Vergine Assunta), fino al balzo – vice dell’indimenticato mons. Salvatore Casu – a Sant’Eulalia. Era l’estate di giusto quarant’anni fa! ed aveva fatto precedere quell’incarico da un non meno impegnativo ufficio nel seminario regionale come animatore dei giovani teologi (e in abbinata fu allora e dopo anche assistente FUCI). Nel 1982 subentrò finalmente a don Casu come amministratore parrocchiale e con il titolo di parroco ebbe pienezza di responsabilità canonica nel 1988, per delibera dell’arcivescovo Ottorino P. Alberti che lo stimava moltissimo. Egli si rivelò da subito – ripeto qui la parola calzantissima – una benedizione piena per il quartiere tutto della Marina anche per lo spirito ecumenico e direi proprio laico – che bella parola: laico! -, d’abbraccio spontaneo ed intenzione inclusiva che informava la propria quotidianità ben oltre le tessere e i certificati.

Ho pensato di onorare la persona stimatissima e le sue fatiche dedicandogli da oggi in poi, e fino ai festeggiamenti per il suo 50° di messa, dieci articoli. In parte, o forse in prevalenza, saranno suoi stessi scritti, appena presentati da me. Vorrei riraccontarlo, don Cugusi, intanto ai cagliaritani che nel giorno dell’arroganza episcopale lo perdettero, senza che i servizi curiali del Vaticano, imprigionati allora più di oggi nelle ipocrisie denunciate tante volte dallo stesso attuale pontefice, potessero o volessero rimediare. 

In questo primo episodio, ripropongo la relazione che tenni nell’aula del Consiglio comunale, a Cagliari, il 6 giugno 2013, quando, non per iniziativa del sindaco Zedda – che si negò e negò tre volte, non volendo scontentare l’arcivescovo (e ignorando platealmente quanto il cardinale Piovanelli aveva testimoniato in situazione analoga a Firenze: le cose del municipio le decida il municipio, la curia vescovile non ha diritto di metter bocca!) – ma per corale volontà dei consiglieri, don Cugusi ricevette un riconoscimento pubblico per le benemerenze acquisite, sul campo della promozione sociale e culturale, in tanti anni di quotidiano lavoro a Sant’Eulalia ed alla Marina.

(Ho già pubblicato questo pezzo il 7 giugno 2013 nel sito di Fondazione Sardinia).


Per un riconoscimento civico a don Mario Cugusi 

Don Mario Cugusi! Per trent’anni pieni egli ha catalizzato, nel quadrato della Marina di Cagliari, le migliori forze cittadine, anche amministrative, per la trasformazione evolutiva dell’ambiente fisico (all’inizio ancora diffusamente segnato dalle conseguenze della guerra) ma più ancora, sul piano sociale – e chiamalo educativo, di affiancamento e ascolto e soccorso – di quel soggetto collettivo che è la popolazione dei residenti condividenti spazi e interessi. Questo ha fatto con gli strumenti della promozione culturale, attraverso la scuola popolare nelle aule che un tempo erano le abitazioni dei parroci collegiati – scuola per i nostri che volevano recuperare gli anni persi, scuola di alfabetizzazione per gli immigrati in cerca di inserimento –, con il cine-teatro aperto agli esordienti e agli sperimentalisti ma anche ai più autorevoli per cursus honorum, con l’oratorio della pedagogia festosa e mondiale, con il museo d’ogni cosa bella dell’arte sacra e l’area archeologica che ha via via conquistato rinomanza internazionale. Con un esercizio del ministero essenziale e partecipato, con la cura delle anime che in nulla e mai ha occhieggiato alle aspettative venali dei guelfi di turno. Con la spinta alle attività “proprie” della Chiesa, riscoperte dal Concilio giovanneo e paolino e indirizzate all’umanesimo integrale. E dunque attivando un modello catechistico che insegna a guardare al “senso telentuoso” della vita da spendere evangelicamente in una realtà interculturale e addirittura interetnica dalle dimensioni sempre più impegnative…

Quella parrocchiale antica del Seicento, ma con preesistenze addirittura del XIV secolo, una chiesa bellissima e cara alla città come poche altre, salvata letteralmente dallo sfacelo dei crolli, delle fenditure, delle vene di umidità, dell’instabilità. Casa di tutti noi lapolesi e gioiello della città recuperato nelle profondità dei suoi tre livelli, giù giù, nel carnaio amministrato per secoli della Congregazione del SS. Sacramento, fino alle prime colonne monumentali, ai suoi percorsi interni… luogo di studio assolutamente entusiasmante per scuole di archeologi e di storici. E non soltanto recuperata questa chiesa parrocchiale preziosa, ma rilanciata con sistemazioni anche d’arte che rispettano la storia e insieme attualizzano la funzionalità liturgica.

Con un quartiere che per tre lustri sbirciava gli ingressi di questo cantiere delle sorprese, che diventava un regalo per la Cagliari del primo Duemila riscoprente se stessa, anzi, che conosceva per la prima volta se stessa in questo largo settore delle sue edificazioni a monte dell’area portuale risalenti all’urbanistica romana… E prima c’era stato quell’altro cantiere del Santo Sepolcro, sito anch’esso pregevole per l’archeologia e l’architettura, per la storia religiosa e dell’arte. Tutto il bello offerto con legittimo orgoglio e gratuitamente alla comunità e ai suoi bisogni spirituali e sociali. Mentre un nuovo cantiere era in ultimo alle viste, a Santa Lucia, fra le vie Sardegna, Napoli e Barcellona. La chiesa abbattuta dalle bombe dopo una vita onorata di sette, forse otto secoli, nei suoi rifacimenti, la chiesa insediata vittorina visitata nel 1263 dal cardinale legato Visconti, arcivescovo di Pisa, in ispezione nella Cagliari murata, nel tempo delle dispute fra le repubbliche marinare.

La rinascita della Marina nel trentennio di parrocato di don Mario Cugusi è un film da un milione di fotogrammi. Socialità e cultura, la cultura come promozione di responsabilità e spirito civico, la religione come promozione di libertà personale e sociale, come chiave di scoperta del senso delle cose, in cui la trascendenza non è una evasione ma semmai un motivo supplementare di impegno nella comunità…

Ho rivisto i filmati dei primi anni ’80. La Marina della infanzia di molti di noi era ancora quella del 1944 o 1945, quando il sindaco Pintus contò nella cinta urbana ben 862 edifici completamente distrutti dai bombardamenti e 1.647 danneggiati, coinvolgenti circa 4.000 abitazioni. L’avarizia statale negli anni della ricostruzione, l’inadeguatezza di molte amministrazioni susseguitesi negli anni e nei decenni, non risolsero né tutto né molto… A cento metri dagli specchi della via Roma o del Largo, depositi di immondizia s’alzavano ogni qualche passo, sopra le macerie della guerra che la mia generazione non ha conosciuto altro che per le rovine persistenti.

Una generazione di abitanti della Marina, qui da tempo immemorabile, s’è via via consumata, per debito di natura. Sono scomparsi i lavoratori del mare: i pescatori del piccolo naviglio, gli scaricatori del porto commerciale, e le loro mogli che facevano comunità di vicinato d’estate e d’inverno, stendendo i panni ad asciugare anche sul piano di quei sottani o arrostendo pesci sul carbone in strada. Tutto adesso è cambiato, il porto s’è allontanato per lasciare spazio alle barche degli sportivi ricchi. Non è un male certamente, quando tutto è ordinato secondo la visione dell’interesse generale. Molti dei vecchi sono morti, e intanto i loro figli sono andati a farsi famiglia nelle nuove periferie cittadine. Senza perdere però il contatto con i parenti superstiti, con gli amici fedeli, con la parrocchia del loro battesimo e della cresima, del loro matrimonio molto spesso, dei funerali dei loro genitori.

Al posto dei vecchi scomparsi, al posto dei giovani che sono andati a crescere le loro famiglie in boccio a Mulinu Becciu o a Sant’Elia, o magari a Quartu e a Sestu, sono arrivati altri giovani e coppie con bambini di mezzo mondo: non soltanto i senegalesi e i marocchini, i cinesi e i filippini che sono ormai ovunque, di più: gli egiziani, i pakistani, gli indiani, e magari anche i malesi e gl’indonesiani, gli orientali dello Sri Lanka e del Bangladesh. Hanno riempito le case rimaste vuote, si accontentano di poco. Hanno aperto negozi d’artigianato e chincaglierie etniche o alimentari di supporto alla comunità immigrata, in diversi si sono impiegati in ristoranti con le qualifiche più modeste… Molti degli uomini, gli apripista, si sono fatti raggiungere da moglie e figli, ed i gruppi familiari si mostrano in una colorita e vivace espansione quasi come grappoli di relazioni nazionali e internazionali. Ma senza chiusure, anzi con una ansia di conoscenza di questo mondo nostro che è il mondo della loro nuova vita… Mentre i loro bambini che frequentano le elementari al Satta, o le medie alla Manno, e socializzano con i libri, tu li senti la sera ai campi dell’oratorio di Sant’Eulalia giocare a basket con istruttore un ragazzo del Senegal, e parlare tutti l’italiano – siano essi orientali o africani – e magari anche lo slang cagliaritano. Intuisci la fortuna che abbiamo noi di poter allargare le nostre conoscenze del mondo non dai libri ma dalle persone…

L’oratorio parrocchiale ma in generale tutte le strutture educative e ricreativo-sportive o teatrali di Sant’Eulalia reimpiantate da don Mario Cugusi, da lui accudite e sviluppate lungo tre decenni con agenda quotidiana, ed oggi affidate alla abile, esperta ed amichevole regia di don Marco Lai, sono la sede centripeta di una variegata platea di soggetti che hanno cambiato ed arricchito Cagliari.

La parrocchia: accoglienza, orientamento, accompagnamento

La parrocchia ha funzionato in progress come luogo di accoglienza, orientamento e accompagnamento, ma con una pratica di pedagogia civile che ha saputo smorzare ogni rischio o pericolo che nell’angiporto di tutte le città importanti di mare l’immigrazione massiva porta inevitabilmente con sé. E tutto questo con poche, quasi nulle risorse materiali. Piuttosto, con la qualità delle donne e degli uomini offertisi alla missione. Perfino con gli allungamenti fuori sede, si pensi all’opera in Kossovo.

Se ne potrebbe dire, della Marina e della sua parrocchia, e di coloro che si sono prestati al servizio comunitario con una umiltà pari soltanto alla intelligenza ed al valore del progetto in cui al sostantivo “integrazione” mai si è accompagnato l’aggettivo “omologante”! Della fraternità offerta alla comunità ortodossa nelle sue varie declinazioni e obbedienze autocefale. Della prossimità ai fedeli dell’islam, incoraggiati concretamente fin dall’inizio, con intuito anticipatore, e in ogni modo all’adempimento dei loro precetti, alla pratica delle loro devozioni.

C’entrano i santi martiri Sigismondo Arquer e Giordano Bruno, vittime dell’inquisizione e qui onorati con una strada bacareddiana e un busto inquietante che a lungo ha vegliato i passaggi da-e-per Castello, in quest’articolazione della trentennale pastorale sociale di don Mario Cugusi prete e filosofo? C’entra il sentimento della distinzione fra le istituzioni della Chiesa e quelle dello Stato, laico secondo la Costituzione repubblicana, così come lo vive questo prete colto e alla mano, popolare? C’entra la sua consapevolezza della necessità e della urgenza di una continuativa e cordiale collaborazione in ogni “materia mista” fra il pubblico (aideologico per definizione) e l’ecclesiale? L’esperienza ha dettato i titoli: dal rilancio dei manufatti architettonici e di ogni opera d’arte che ha attraversato i secoli affinando il gusto anche estetico della popolazione, alla difesa dei presìdi educativi per la formazione delle giovani generazioni, o assistenziale per l’accompagnamento, ma nella aggregazione non nell’apartheid, degli anziani e dei deboli, degli stranieri…

Tutto c’entra, mente e cuore giocano sempre nella stessa squadra. Egli ha guardato, mi sembra, con l’occhio di chi ha imparato che i cristiani non sono una società perfetta, autoreferenziale e autosufficiente, ma soltanto quel po’ di lievito che, gettato sulla pasta, di questa fermenta la massa e non si distingue più da essa perché concedendosi ha esaurito la sua funzione: fuor di metafora, vince la promozione della fraternità. Questo don Cugusi ha fatto applicandosi anche alla ricostruzione, sugli archivi storici, delle vicende lontane della parrocchiale integrata con le generose sollecitudini della Congregazione del SS. Sacramento, cui ha dedicato un bellissimo libro. Applicandosi anche alla riscoperta geniale delle tradizioni liturgico-sociali in lingua sarda: sposando all’universalità degli ideali la fierezza delle radici.

A Firenze, pochi anni fa, il sindaco ha premiato la fatica umanitaria di don Enzo Mazzi con il fiorino d’oro. A Cagliari l’iniziativa è stata dei consiglieri comunali, ed è bello che siano stati proprio gli uomini dell’Assemblea municipale così ampiamente rinnovata e ringiovanita nel 2011 a cogliere e soddisfare il bisogno morale di premiare il merito civico di questo presbitero cagliaritano di Siurgus, per l’offerta che egli ha fatto della sua intelligenza e delle sue energie per il bene di molti.


Fonte: Gianfranco Murtas
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