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Gianfranco Murtas

«… per grazia di Dio e della Santa Sede Apostolica Vescovo di Bisarcio…»

di Gianfranco Murtas

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Ogni libro ha il suo fascino ed ogni libro di storia, anche di storia della Chiesa e perfino di sola raccolta di documenti di storia della Chiesa, ne rilascia uno di speciale quando, per la mano del suo autore o del suo curatore, sa portare il lettore, curioso di suo, all’interno di un complesso vissuto di cui sono tracciate le coordinate spaziali e temporali assolutamente inconsuete a chi vi è occasionalmente attratto e sia munito di adeguati strumenti esplorativi. Ché tutto accade – come nel caso che qui mi ha chiamato – in quel determinato e configurato territorio e in quella certa fase delle vicende sociali, all’interno di cui – dovrebbe dirsi attingendo al vangelo – i cristiani e il clero che ne cura e sostiene la fede dovrebbero essere come il lievito fermentante la pasta: elemento dinamico per propria natura, capace e mai stanco di testimonianza di quei certi valori ispirativi che connotano una comunità consapevole d’essere portatrice di una missione coltivata nell’ordinario quotidiano del lavoro e della solidarietà vicinale.

Questo ultimo volume curato da Tonino Cabizzosu come quinto della Collana Archivio Storico Diocesano Ozieri – Lettere pastorali Serafino Corrias (1872-1896) – risponde pienamente alla vocazione perché consente al suo lettore di entrare, con goduria, in un tempo enormemente “altro” dal proprio, impegnandolo a trovare le chiavi di… - per adoperare una parola tremenda – un’ermeneutica senza cui forse sarebbe impedita ogni comprensione. Perché noi viviamo oggi – anche noi sardi e noi logudoresi, noi goceanini e noi ozieresi – in repubblica e libertà democratica, secolarizzati il tanto che basta per non farci impaurire, come un tempo avveniva, dalle persecutorie minacce dell’inferno se ci concediamo qualche sperimentazione non prevista dai sacri codici, mentre il tempo che dalle lettere pastorali di monsignor Corrias – uomo di natura mite e cordiale – risalta come per essere pilotato a virtù dallo stallo vescovile e, per li rami, dai pulpiti parrocchiali (con annessi e ripetitivi apparati catechistici), è un tempo di perdurante diffidenza, per non dire scontro, fra le istituzioni pubbliche e istituzioni ecclesiastiche le quali ultime, non meno delle prime, e forse più di quelle, hanno plasmato mentalità e indotto a certe e non ad altre condotte tanto in casa quanto al lavoro o negli aggregati sociali, o ancora nel rapporto o nel confronto con lo Stato dei carabinieri e dei giudici e anche, perché no?, con il Municipio dei regolamenti indiscutibili.

Le materie che più direttamente attengono alla formazione della persona e della famiglia – della educazione scolastica alla benedizione dei matrimoni – sono oggetto di disputa e così è ancora motivo di tensione solo apparentemente silenziato dalla rassegnazione dell’impari confronto quel processo legislativo e amministrativo che ha fatto strage di ordini religiosi e di monasteri (nell’Ozierese di cappuccini ed osservanti con venti frati in tutto e “riciclati”, alcuni almeno, nei servizi diocesani), espropriando la manomorta e portando, dopo anche l’abolizione delle decime, quasi alla fame il clero delle campagne. Né si possono celebrare processioni pubbliche, se non dopo specialissime autorizzazioni…

La diocesi ozierese al tempo di monsignor Corrias gode comunque d’un pastore illuminato, portatore di un senso della misura forse raro nel largo panorama: «il Municipio ci pensi bene. Io non voglio certo trovarmi in opposizione con lui e colle leggi e regolamenti da esso sancite. Mio desiderio e mia meta fin dal primo momento che ho assunto ilo governo spirituale di questa diocesi, fu e sarà sempre quello di conservare e fomentare con ogni possibile premura e concordia, l’armonia, la pace, ma questo spirito di conciliazione di cui mi sento animato non lo posso spingere fino a richiedere dai miei subalterni la violazione delle leggi della Chiesa», sostiene quando si pone il problema di disciplinare (per ragioni igieniche) l’intervento religioso in caso di morte per malattia contagiosa…

Calibrato così il portato dialettico con l’autorità pubblica, è prioritariamente alla rinascita interna della sua comunità diocesana, da vent’anni senza guida effettiva, che guarda il nuovo presule. Deve rianimare, condividendo con il suo clero la passione missionaria e seminatrice di cui egli è da sempre testimone, una Chiesa periferica articolata in una ventina di parrocchie – taluna sprovvista del parroco titolare – e forte (o debole) d’una trentina di altre chiese o chiesette filiali, in specie di campagna e in prevalenza amministrate da confraternite laicali, diffuse fra Logudoro, Monte Acuto e Goceano, così fino ai confini delle Barbagie nuoresi e della Gallura come, ad ovest, dei domini metropolitani di Sassari. Nella “cura animarum” s’avvale della cooperazione d’una trentina sacerdoti, molti piuttosto avanti con gli anni per il mancato ricambio generazionale e cioè per la mancanza di nuove ordinazioni nel lungo periodo di vacanza “conflittuale”; egli conta molto sul rilancio del seminario minore dove sono una ventina gli studenti, alcuni dei quali, poi sempre di più, intenzionati (o invogliati) a proseguire gli studi al collegio teologico di Sassari: sarà da quel vivaio che l’antica diocesi di Bisarcio trarrà il suo miglior futuro anche come... ineguagliata produttrice di vescovi! (fra essi, piace citarlo, don Salvatore Scanu, ozierese, che di Corrias era stato il segretario particolare: per oltre vent’anni vescovo di San Marco e Bisgnano nel Consentino.

Tutta la vita religiosa locale è scandita, per prassi secolare, dalle devozioni di calendario e la partecipazione popolare è ampiamente sentita, secondo quanto lo stesso vescovo riferisce alla Congregazione del Concilio, dipartimento della curia romana con competenza di vigilanza sulle diocesi e di raccolta delle relazioni cosiddette “ad limina” (cosa che il Corrias, a tanto richiesto, fa nel 1879, quando anche segnala – a fronte di una sostanziale bonaccia sul fronte delle “insidie” liberal-massoniche e social-internazionalistiche – la “piaga” del concubinato di lato a quella delle faide e ruberie: lussuria, unioni illegittime… Ben 60 soltanto a Nughedu S. Nicolò, ma altrettante e forse di più, per cumulo, a Buddusò ed Ittireddu, Bono, Monti ed Alà dei Sardi. Le azioni dissuasive – non le preferite però – non funzionano: nessuna benedizione della puerpera, nessuna benedizione della casa a Natale e Sabato Santo, nessuna ammissione al padrinato o madrinato ai cattivi… La disciplina dei costumi convenzionali e la morale familiare incombono nella cultura e nella sensibilità del clero assai più che altro, ed è vero tormento di parroci e viceparroci di paese ogni licenza autocertificata da chi non vuole o non può altrimenti regolare le sue cose privatissime).




Da Serafino a Serafino

Curiosamente portavano lo stesso nome di battesimo – il non comunissimo Serafino – i due vescovi cui toccò, al primo chiudere la lunga serie dei vescovi di Bisarcio prima del gran conflitto con lo stato liberale (o che tale si apprestava ad essere entrandosi allora – alla morte di monsignore – nella fase costituzionale, ben prima che dell’unità e figurarsi dell’annessione di Roma capitale!), ed al secondo di aprire – un quarto di secolo dopo – la nuova serie che, nel suo svolgimento (precisamente nel 1915), avrebbe portato anche al cambio di titolo canonico, da Bisarcio appunto ad Ozieri.

Era, il primo dei due, Serafino Carchero, francescano del ramo cappuccino d’origini cuglieritane – che il suo ministero episcopale aveva iniziato, già 61enne, nel 1824 in Ogliastra, giusto all’esordio di quella diocesi con stallo vescovile a Tortolì – arrivato nel 1834 ad Ozieri qui reggendo il bacolo per tredici anni, fino al fatidico 1847 delle ancor timide ma effettive riforme liberali introdotte nella sua teocrazia da Pio IX neoeletto al soglio di Pietro.

Visse, Carchero, tutte le tremende ondate autoritarie della restaurazione e godette anche dei marosi generati dall’abbinata trono-ed-altare licenziata dal Congresso di Vienna postnapoleonico, con tutte quelle esercitazioni della ghigliottina nella città del papa e benedette dal papa stesso: pressoché coincidono la consacrazione episcopale di padre Serafino ed il patibolo tagliatesta azionato per Targhini e Montanari, cinquanta anni in due nell’anno santo 1825…

Avvenne nei primi anni del suo governo canonico in Logudoro la promozione di Ozieri al rango di città, per decreto di re Carlo Alberto. Era il 1836, e il nuovo status amministrativo (e fiscale) non comportò alcun miglioramento significativo per la popolazione in generale, ad eccezione che per qualche proprietario che seppe profittare di certa normativa per riassestare in termini di maggior lucro i propri fondi convertendoli da usi pastorizi a usi agricoli. Né però fu Chiesa tutta passiva quella del vescovo Carchero che, qualche anno dopo, cercò di sfondare il recinto dell’esclusiva devozionale per impegnarsi anche in uno sforzo prettamente sociale, teso giusto all’impianto dell’istruzione scolastica che appariva una delle maggiori urgenze del tempo e del territorio: fallì un primo tentativo esperito dal presule cappuccino, sovvennero quindi i gesuiti, almeno fino a quando non furono anch’essi soppressi e allontanati dal regno (così a Sassari e a Cagliari, per restare nell’Isola) e fu allora iniziativa e merito di qualche sacerdote con ufficio pubblico (al provveditorato agli Studi) il far qualcosa, mentre ormai il vescovo aveva chiuso gli occhi vecchio 84enne…

Tre vicari capitolari si susseguirono nei ventiquattro anni di vacanza episcopale: Giovanni Manca, Gavino Pischedda, Pietro Virdis: canonici facenti funzioni, abilitati alla burocrazia ma non al sacramento. E dunque, per tanto tempo, ecco nessuna nuova ordinazione di presbiteri e nessuna cresima (l’arretrato assommò a ventimila nel 1865 quando il papa spedì apposta ad Ozieri padre Giovanni Antonio Balma, già vescovo missionario in Asia e prossimo arcivescovo di Cagliari, per cercare di… assorbire il sospeso!).

E finalmente, passato il limbo, ecco la nuova guida. Nel giro di pochi mesi, ottenuto il placet governativo, Pio IX nominò sei vescovi, quasi tutti sardi, provvisionando le diocesi vedove: Balma a Cagliari, Soggiu ad Oristano, Filia ad Alghero, Cano a Bosa, Campus Chessa a Tempio, appunto Corrias ad Ozieri. Presto – l’anno era il 1876 – essi si incontrarono ad Oristano nella prima assemblea episcopale sarda dopo l’unità d’Italia, di cui m’è occorso di recuperare recentemente anche la testimonianza fotografica.




Corrias in pista: ancora relativamente giovane d’età – 49 anni – e prete già da 27, forte di una laurea in teologia ottenuta presso il Collegio sassarese e di molte esperienze: il parrocato della cattedrale di Bosa e poi lo stallo capitolare, la cattedra di filosofia al seminario e la consulenza, al Concilio Vaticano I, offerta al presule nuorese Salvatore Angelo Demartis che sarà quindi il suo vescovo consacrante (assistito dai teologi Grisoni e Lopez) nel duomo sposato di Ozieri.


Le lettere pastorali

Il volume appena dato alle stampe da don Cabizzosu, per lunghi anni professore di storia della Chiesa presso la facoltà teologica della Sardegna ed autore di oltre sessanta fra saggi e monografie, ecc. – tutte opere di riconosciuto rigore scientifico ancor più apprezzate per la scrittura piana che ne avvicina la lettura anche ai non specialisti – presenta i testi di ben diciotto lettere pastorali delle trenta diffuse dal vescovo Corrias nei 25 anni del suo episcopato. Un venticinquennio, di cui una prima tranche – dal 1872 al 1878 – già fatta oggetto di studio (e di pubblicazione) da Cabizzosu stesso con riguardo particolare al Registro di provvidenze – così anche il titolo del volume uscito nel 2018 ad iniziativa dell’Associazione don Francesco Brundu –, che si dilata fin quasi a chiudere il secolo e che corre in parallelo con gran parte del pontificato di Leone XIII, il papa della Rerum Novarum e dei primi cauti accenni di conciliazione con lo Stato liberale nell’avvio della stagione giolittiana.

Di rilievo, nei capitoli introduttivi, è una corposa biografia articolata in tre capitoli (“Curriculum vitae”, “E’ la mia coscienza che mi vi spinse dopo aver meditato la questione innanzi a Gesù Crocifisso”, “La relatio ad limina del 1879” – materia quest’ultima trattata a suo tempo, in occasione dei convegni di studi in preparazione al bicentenario della diocesi di Ozieri, anche dal compianto don Renato Iori), nonché – a semplificazione dell’approccio – il regesto di tredici lettere diffuse dal presule bisarchiensis in diverse occasioni fra il 1872 ed il 1895: ora in occasione della Quaresima (così, fra le altre, nel 1874, nel 1876 e nel 1884, quest’ultima riferita ad “educazione” e scolarità), ora per il giubileo del 1875, ora per la consacrazione di tutti i fedeli al Sacro Cuore di Gesù (nel secondo centenario della sua apparizione alla beata Margherita Maria Alacoque), ora per la morte – nello stesso 1878 – prima del re Vittorio Emanuele II poi del papa Pio IX, e così ancora a commento dei documenti pontifici (di Leone XIII) annuncianti l’anno “del perdono” universale, a richiamo devozionale alla Vergine del Rosario, ad omaggio del giubileo sacerdotale di papa Pecci, a… prova di personale esame di coscienza, infine, in vista dell’imminente cinquantenario della propria ordinazione sacerdotale nel familiare episcopio bosano… Singolarissimo documento, quesst’ultimo, cui risponde – ed sono parole ancor più singolari e belle, piene di ammirazione e soprattutto di affetto – un indistinto diocesano (del quale converrà dire) e corrisponde, in perfetto e giustificato latino di tradizione, il decano del capitolo di Tempio can. Saragato: «Tempora dulce seni viridis revocare juventae…».

Del primo vescovo Serafino s’era perfino perduta la memoria – per colpa di quella dannata vacanza di causa liberale – quando don Serafino Corrias, di provenienza del clero secolare di Planargia e Montiferru (originario della frazione norbellese di Domusnovas Canales) arrivò alla bella ed antica cattedrale intitolata alla Madonna Immacolata e ridisegnata dal Cima proprio alla vigilia della morte del vecchio Carchero. Ne ho accennato: era già di buona esperienza (anche come perito al Vaticano I) quando papa Mastai Ferretti, rassegnato alla perdita di Roma caput mundi ma rincuorato dal poter procedere alla provvisione di molte decine di diocesi italiane (fra cui le sei sarde) rimaste scoperte ormai da lunghi anni, gli donò la mitria.

Certamente troppo diversi fra loro i tempi storici, pur se come in simmetria di calendario fra primo e secondo cinquantennio del XIX secolo, gli episcopati di Carchero e di Corrias, per trovare una sequenza naturale del secondo dal primo: quel vuoto di governo diocesano dilatatosi dal 1847 (l’anno della “fusione perfetta”) al 1871, “anarchizzando” le parrocchie, esponendo cioè al rischio della disunione o almeno della disarmonia il clero e il tanto di associazionismo confraternale messo in piedi da tempi più o meno remoti, aveva come definito una certa reciproca alterità, cui il passaggio generazionale aveva ovviamente caricato di suo.

Certo i tempi lenti delle progressioni (sociali ed economiche) isolane potevano attenuare le scosse che il mutato quadro politico nazionale imponeva, per fatto suo, alle popolazioni ovunque radicate, ed a quelle rurali sarde e logudoresi fra esse. Ciò non di meno le attuazioni legislative e le normative di ministero, con quanto si riferiva ad una statualità in cerca di approdi progressivamente moderni tanto nell’amministrazione pubblica quanto nel governo economico (e di quanto squilibrio fra nord e sud!), colpivano e, quando prima quando dopo, se ne sarebbero pagati i prezzi, metti nel collocamento delle faticate produzioni, nell’import-export soprattutto con la Francia, nella guerra dei dazi di cui pativano le conseguenze le campagne per i ristori invece dell’industria settentrionale. Montavano tutte le premesse per le correnti migratorie da cui nessuna zona dell’Isola si sarebbe fatta franca e intanto si pagava, nel sociale, il salasso imposto dalle scellerate guerre coloniali d’Africa…

Ed è proprio in tale quadro, io credo, che vadano lette le lettere pastorali del presule di Ozieri, rilevando quanto l’osservatorio di questi recepisse, per avari risultati, delle pene materiali della popolazione locale e quanto dall’altra parte cogliesse, per il vero o per il supposto, di un insoddisfatto bisogno spirituale. Di più: quanto il bisogno spirituale fosse accompagnato o sostenuto da una più avanzata e necessaria alfabetizzazione – e chiamala istruzione o scolarizzazione –, dunque da una certa emancipazione sociale, e quanto da appagati ripiegamenti puramente cultuali rafforzativi di un’identità religiosa da presentare all’autorità civile, com’era stato in antico ed ancora era in tempi di Opera dei congressi e di revanche antiliberale in varie parti d’Italia, dalla “società perfetta” certificata dalla storia come deposito di verità intramontabili.

Di tanto, da questo punto di vista, potrebbe anche cogliersi una conferma proprio nella lettera di presentazione che Corrias indirizza ai «Venerabilibus Fratribus ac Filiis in Christo dilectissimis, Archipresbytero, Canonicis, universoque Clero et Populo Bisarchiensis Ecclesiae» marcando – invero secondo l’uso del tempo (sotto forme diverse rimasto ancora oggi) – le priorità corporative del clero, lasciando in ultimo e nel generico la società credente ed ignorante, ignorante anche quel latino del messaggio anche ad essa rivolto nel giorno stesso della solenne consacrazione episcopale (episodio occorso in una data che, nella grande storia, anticipava soltanto di due-tre settimane la morte, in ingiusta clandestinità presso casa Nathan-Rosselli, dell’odiato e pur meraviglioso Giuseppe Mazzini).

Certamente tutti figli della storia – e noi stessi oggi, della nostra storia, come il vescovo Serafino della sua – non poteva quella autopresentazione formularsi in modo diverso. Richiamandola negli abstract, Cabizzosu così appunta: «Corrias […] descrive i tratti salienti della sua esistenza ricordando momenti e figure, tra cui i vescovi di Bosa Francesco Maria Tola e Antonio Uda, i quali svolsero un ruolo incisivo nella sua formazione umana, spirituale e pastorale. Il nuovo vescovo, consapevole delle difficoltà in cui versa la Chiesa italiana a causa del dissidio con lo Stato, che per circa cinque lustri aveva privato la Chiesa bisarchiense del suo legittimo Pastore e aveva penalizzato la cura animarum, esprime particolare attenzione verso il clero diocesano e lo esorta a non lasciarsi intimidire dalle difficili circostanze, ma anzi a rinnovare la propria azione per venir incontro alle esigenze materiali e morali della popolazione: “Siano lontane da voi le contese, gli alterchi, le divisioni, non solo circa le questioni che riguardano la disciplina ecclesiastica, ma anche quelle che riguardano il mondo e la società civile, verso la quale vi supplico di astenervi”».




Ho sopra accennato alle pagine che l’indistinto diocesano (certamente clericale, forse parrocchiale, forse capitolare, forse seminariale: «noi tutti, componenti il Clero ed il popolo, della Diocesi di Ozieri» è detto nel testo e vale come firma collettiva) indirizza al suo pastore, ora quasi vecchio – 73 anni - e già alla vigilia della propria morte (forse accelerata da amarezze varie provocategli in epoca recentissima da qualche prete del giro). Sono parole di rimando biografico, stagione per stagione, con tocchi poetici che colpiscono: «nacque a Domus Novas Canales paesello dell’Isola di Sardegna che pare voglia andare a spopolarsi completamente dopo la partenza della famiglia Corrias, la quale ha piantato onorevolmente le sue tende in varie città e varii borghi dell’Isola e del Continente.

«A dieci anni il giovine Corrias entrò nel numero degli alunni del venerabile Seminario Tridentino di Bosa e vi rimase fino al 1840. In quello stesso anno portavasi a Sassari e vi conseguiva il Magistero e successivamente nel 1841-43-44 vi otteneva con grande onore i gradi accademici di Baccelliere, Prolyta, e laurea in sacra Teologia nella R. Università.

«Nel 1842 fu iniziato agli ordini sacri da Monsignor Francesco Maria Tola, Vescovo di Bosa, il quale conferivagli la Tonsura ed i quattro minori.

«Don Antonio Uda successore de Tola, conferivagli il suddiaconato ed il Diaconato e […] lo chiamò nel 1844 al delicato ufficio di suo segretario prima di consacrarlo sacerdote…».


L’eroe del 1855

Così ancora in tema di biografia per trattare, nel molto altro, delle attività centrate nel tragico 1855 della epidemia colerica e, sotto tutt’altro aspetto, del 1869-70, di perito al Concilio piino: «Ricordiamo semplicemente che nel 1855, in quell’anno di così infausta memoria per l’isola di Sardegna, in quell’anno disseminatore di morte e di strage; in quell’anno di messi così abbondanti sotto la falce dl colera; in quell’anno in cui il Clero sardo diede tante chiare prove dell’eroico suo coraggio, il Vicario Corrias fu tra i più arditi sprezzatori della morte, tra i più generosi soccorritori degli appestati e perseverò e stette saldo, come un piccolo Borromeo, nell’assistenza magnanima dei poveri colpiti, fino a che a Dio piacque di ritirare dalle afflitte plebi il suo flagello. La fama della Sua intrepidezza volò fino ai gradini del trono dei Reali di Savoia, e il Corrias n’ebbe per terreno compenso la medaglia al valor civile…».

E sul Concilio: ecco inscritto «nell’albo dei Teologi suoi assistenti» dal vescovo di Nuoro (tanto nemico di Giorgio Asproni quanto buon amico di papa Mastai) cui era giunta notizia della chiara fama del presbitero bosano: «proprio come i circoli concentrici prodotti sulla mobile superficie d’una piscina alla caduta di un solido…».

Infine la preconizzazione vescovile, in un recupero, con qualche maggior ottimismo tutto d’orgoglio campanilistico, delle luci invero semispente: «S’io dicessi che quando Monsignor Corrias venne dal Santo Padre destinato ad Ozieri, questa Città e questa Diocesi erano stremate, o povere di morigerati ed istruiti ministri del Santuario, io non direi il vero. La Città compariva invece decorosamente nel novero dei Capitoli Sardi, e la Diocesi, non aveva di che adontarsi del contegno e della dottrina dei suoi sacerdoti al cospetto di qualunque altro Clero per buona fama commendevole.

«Ma la maggior parte di questo Clero, benché numeroso e valido al disimpegno dello spirituale ministerio, era costituita da individui, per età, cadenti, o volti verso il tramonto. Tramonto che faceva proiettare ombre sinistre, quasi piramidi solinghe sulle vicinanze del deserto, all’elegante campanile ed alla considerevole mole della Cattedrale di Ozieri, che quasi allora di fresco sorgevano. Ed era un contrasto rilevante che rattristava l’animo…».

E dunque? Con espressioni di grande raffinatezza letteraria e quasi di mistica poetica, l’autore di questa parte del documento restituisce a monsignor Corrias tutto il merito del riordino e del rilancio del composto diocesano: «Cominciò dal riordinamento del Seminario […] ed il Seminario di Ozieri venne ridotto come ad un vero vivaio di iniziandi […]. E vi fu tempo in cui, per l’educazione ed istruzione dei suoi giovani. Egli sopportava delle spese e dei sagrifizi assai considerevoli» attivandosi miracolosamente anche per il risanamento ed il rilancio «della Facoltà teologica turritana che moriva d’anemia… l’84, salvo errore, di ventiquattro studenti in Teologia della Facoltà di Sassari, sedici erano d’Ozieri e gli altri otto raggranellati dalle varie diocesi isolane».

Il ringiovanimento del presbiterio diocesano e l’indubbio suo rinforzo culturale marcarono la stagione Corrias cui si volle dare il merito di aver suscitato «negli altri Ordinarii, questa santa emulazione, questa gara quanto altra mai nobile e sublime, di formare per la Chiesa buoni sacerdoti; il Nostro si può onorare del vanto di aver fatto trascorrere per le sarde diocesi come una scintilla elettrica per invitarle ad un risveglio salutare»…

Un nobile consuntivo che la dirittura personale, il profilo intellettuale, la pratica pastorale del vescovo autorizzavano e di cui le lettere, tutte di necessità inquadrabili nel recinto di una storia per tanti versi ingrata e però anche orientata a conquiste nuove e impensate nel passaggio di secolo, costituivano testimonianza, riflessione e nuovo progetto.

M’importa in conclusione accostare due brevissimi stralci da tanta produzione che, nell’assortimento massimo dei temi, mi parrebbe giusto illuminare per il sentimento ispirativo delle considerazioni apertamente espresse e da Cabizzosu tanto opportunamente evidenziate.

Così, per quanto di stretto interesse “ad intra”, in vista del «misericordioso» giubileo apostolico calendato al 1875 (21 febbraio-31 dicembre): «Dappertutto, salve rarissime eccezioni, voi non troverete, segnatamente nella classe ricca e benestante, che abbandono della Chiesa e dei santi sacramenti, inosservanza e profanazione dei giorni festivi, sconosciuta l’astinenza ed i digiuni comandati dalla Chiesa e per soprapiù una immoralità che fa schifo nella turpitudine delle unioni illegittime ed anche incestuose che spudoratamente si verificano anche nei più umili villaggi. Dapertutto, dove più dove meno, l’odio, la gelosia, l’invidia armano i fratelli contro i fratelli; dapertutto la bestemmia, l’imprecazione, la menzogna, il furto, l‘adulterio, l’omicidio, la perfidia, i più orribili delitti inondano, e talvolta ancora, specialmente in alcune località, il sangue tocca il sangue…». Fotografia di una realtà sgradita, forse enfatizzata nelle sue dimensioni e nel suo portato di perversione, ma che rimanda alla funzione salvatrice di Santa Madre Chiesa.

Così infine, certamente calatosi anche negli abiti di “Grand’uffiziale della S. Relig. Ed Ord. dei SS. M. e Lazzaro”, scrive sua eccellenza il vescovo di Ozieri per la morte di Vittorio Emanuele II, il re che il papa aveva scomunicato per aver donato Roma all’Italia nonostante ogni protesta teocratica: «l’invitto soldato d’Italia, il Re Galantuomo, fu sempre il primo ai pericoli delle patrie battaglie, il primo ai travagli ed alle fatiche, il primo al sagrifizio di sé non soffrendogli il cuore che per l’onore della patria e per il bene della nazione cui si era tutto dedicato rimanesse in sì nobile palestra a niuno secondo».

Certo un bell’epitaffio, né esso fu il solo esitato dagli episcopi d’Italia, dell’Italia scomunicata nella sua anima unitaria e liberale da un soglio pontificio che, da Costantino in poi, aveva imprigionato la libertà della miglior storia nella macina della dogmatica…

Senza necessità di espliciti atti di contrizione in capo alla sua Chiesa tardamente temporalista, un vescovo di periferia, di onesta coscienza ed abilità pastorale, comprendeva le ragioni della storia e le secondava. Così altri avrebbero fatto dopo di lui, nelle tempeste della grande guerra e successivamente.

Fonte: Gianfranco Murtas
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