Per la sen. Segre e la toponomastica civica: Antonello Angioni interroghi il Comune di Cagliari
di Gianfranco Murtas
Sull’ultimo numero (quello di dicembre 2019) de il Cagliaritano un articolo mi è doluto intanto per la titolazione che portava a logiche lontane e perfino ostili alle tavole di democrazia che ho imparato da bambino e rinforzato da adolescente nella Federazione Giovanile Repubblicana. E per la firma che accompagnava l’enunciato e la più argomentata riflessione. Il titolo: “La pacificazione: ben venga, con la speranza che non sia a senso unico”, la firma: Antonello Angioni.
Al centro di tutto la considerazione che chi oggi, nelle varie amministrazioni municipali, voglia risarcire la sen. Segre (e/o gli altri con lei) per quanto sofferto nei lager nazisti – risarcire oggi, in ideale opposizione ai trabocchi che qui o là vanno imbrattando la piazza, sulle disarmoniche note della destra tanto rinforzata nella società e nel palazzo –, abbia la magnanimità, e prima ancora la onestà intellettuale di vedere e giudicare la sequenza terribile dei misfatti del comunismo continentale e anzi intercontinentale lungo i decenni.
Ma chi potrebbe opporsi a un tale manifesto? Ricordo che nel 1976 – 44 anni fa – il direttore Crivelli, prima di lasciare il suo ufficio di direttore de L’Unione Sarda, vittima di una prepotenza padronale per aver pubblicato quanto la cronaca esigeva, seppure scomodo per la SIR-Rumianca (indiretto azionista della testata) – ospitò in seconda pagina una mia nota sullo scambio Bukowski-Corvalan, che i regimi dittatoriali di opposto colore (l’URSS di Breznev e il Cile di Pinochet) avevano concluso. Una volta almeno per il bene, ché un’altra – quella che aveva avuto per protagonisti Molotov e Ribentropp – non era stata per il bene e la Polonia fu infatti mangiata da ovest e da est.
Nei miei avi ideali c’è un libero muratore in cui mi piace specchiarmi perché mi dice come dovrei essere: è Francesco Nullo, un mazziniano-garibaldino che partecipò alle Cinque giornate di Milano (1848) e alla Repubblica Romana (per la quale si sacrificò ventiduenne Goffredo Mameli, 1849), partecipò alle guerre d’indipendenza (1848-49 e 1859) ed all’impresa dei Mille e finalmente, nel 1863, lottò con i patrioti polacchi e molte camicie rosse contro le prepotenze dell’esercito zarista russo non lontano da Cracovia. Perdendo la vita in quella causa. Perché mazziniani e garibaldini condividevano il credo riassunto nella formula “ogni patria è la mia patria”. Aveva onorato, bagnando di sangue il suo ideale, Francesco Nullo, quel programma che trent’anni prima Mazzini aveva lanciato sul continente: il programma della Giovine Europa, in cui le deboli ma coraggiose risorse della Giovine Italia si erano associate a quelle della Giovine Germania e, appunto, a quelle della Giovine Polonia.
Una storia tutta estranea al comunismo, al marxismo, o al marxismo-leninismo (ossimoro inveratosi nella dittatura sovietica di settant’anni), estranea anche al comunismo italiano fino a Gorbaciov. Come, ovviamente, estranea alla destra rozza e chiacchierona che oggi (e purtroppo non da oggi soltanto) saltabella in area di governo, nelle regioni, nei comuni. Anche in Sardegna e anche a Cagliari.
Avverto che non sto entrando in valutazioni d’ordine amministrativo, mi sto limitando alle impostazioni ideali, da cui tutto dovrebbe derivare. E me ne viene da intrattenere, in cordiale possibile conversazione, un qualsiasi passato militante del Partito Comunista Italiano di tanta complessa memoria.
Fra il sacrificio di Jan Palach a Praga, all’indomani dell’invasione sovietica, e le prese di distanza politica, nette e ferme, del PCI passarono altri, troppi anni. Non poteva bastare un comunicato della direzione del partito o un fondo de l’Unità a marcare la fedeltà ad un campo valoriale che doveva essere alternativo, seppure la marcia di allontanamento dall’applauso ai carri armati di Budapest doveva pure essa considerarsi cosa apprezzabile.
Infatti neppure avrebbe dovuto esserci il pregresso, ché il sistema capitalistico dell’occidente atlantico, socialmente temperato dalle politiche riformatrici delle sinistre liberali, ben poteva di tutta evidenza mostrare lo scarto anche nella generale qualità di vita della nazione realizzata e messa a confronto di quella d’oltre cortina, nella Germania dell’est come nella stessa Jugoslavia dell’“autogestione”, per non dire del blocco danubiano-balcanico. E illusioni furono ancora, negli anni ’70 – anni ’70, con il PCI vivo e vegeto, trionfatore alle amministrative del 1975 e alle politiche del 1976 –, quelli dell’eurocomunismo, impegnato a creare, con buona volontà ma senza i fondamentali, un’alternativa “socialista” alla camicia di forza dei regimi pansovietici.
E dunque? Quella certa parola riportata nel titolo dell’articolo di Antonello Angioni – “pacificazione” – che tanto rimanda alle ripetute istanze delle formazioni para-postfasciste, e così dai tempi di Almirante e anche di prima, magari mischiando la tragedia delle foibe con la tragedia dei lager come per compensare e delegittimare gli uni gli altri, è, tutto quanto, una sconveniente mistura che non può dare verginità ai destri di oggi, lontani da Benedetto Croce e Luigi Einaudi quanto la terra dalla luna, lontani da Benedetto Croce e Luigi Einaudi assai più che da Palmiro Togliatti e compagni Peppone sognatori della dittatura del proletariato. E tutto ciò dico non misconoscendo, ovviamente, il valore della prima fila rossa combattente nella resistenza insieme con le brigate Mazzini, quelle azioniste di Giustizia e Libertà, quelle socialiste di Giacomo Matteotti. Quando i partigiani si chiamavano, così nei manifesti e anche nelle raccolte di fondi curate dai giornali sardi, “patrioti”.
Sono cresciuto con il mito di Cesare Pintus, galeotto per antifascismo dall'età di 29 anni, e del suo "gemello" Silvio Mastio, il mazziniano cagliaritano sacrificatosi trentenne per la libertà del Venezuela. “Ogni patria è la mia patria”. Sono stato in sintonia con il direttore Fabio Maria Crivelli, che per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò – lui allora ventiduenne, come quell’altro suo Fratello di un secolo prima combattente della Repubblica Romana (quanto di più diverso poteva esserci dalla RSI!) – aveva subito la deportazione nei campi di prigionia, dodici campi fra la Polonia assoggettata al Reich e la Germania.
Poteva lui, per vita vissuta – lui istriano di origini, lui costretto al cambio del cognome dalla campagna sciovinista del fascismo –, mettere in guardia dal conformismo dell’antifascismo. Lui poteva. E lo fece in diversi editoriali pubblicati sul suo giornale in occasione del 25 aprile (e da me ripubblicati in questo sito alcune settimane fa). Ne aveva l’autorità morale, più di qualsiasi consigliere comunale della destra cagliaritana. Lo potevano, lo possono autori di quelle terre di confine, autori di ieri e di oggi, da Carlo Sgorlon a Claudio Magris… così intimamente legati alla cultura democratica del repubblicanesimo italiano.
Gli amici di Israele, amici di ieri e di oggi, sono in questa stessa area democratica: che c’entra, in questo fronte, la destra pasticciata oggi per nascondere l’inverecondia del suo passato remoto e recente, che c’entra in una petizione di nettezza ideologica, morale e politica, anche di prossimità alle sorti di Israele? Di Israele e di tutte le popolazioni, di tutte le nazionalità che sappiano giustificare e nobilitare con un impegno di pace la rivendicazione territoriale.
Chi governa Cagliari e la Regione viene in prevalenza da quel passato che non può dettare regole etico-civili o politiche a nessuno, né agli amici di Israele, né agli atlantisti che nel 1949 vollero la NATO, o nel 1957 i trattati di Roma, o nel 1978 il sistema monetario europeo. Chi potrebbe mai immaginarsi Pietro Mastino o Titino Melis – non dico Emilio Lussu – consentire con il disegno politico che discende da li rami di Forza Italia la berlusconiana, di Fratelli d’Italia (titolo usurpato volgarmente dalla più bella epopea risorgimentale) della “statista” Giorgia Meloni, della Lega che villaneggiava il tricolore e l’inno nazionale e tutto il meridione d’Italia ipotizzando padanie giù dal dio Po ieri come oggi convergenze polari con Putin e altri neodittatori di pronta presa…
Come faccia un intellettuale di tanta civiltà e garbata presenza (e non dico del professionista, ché è risaputo fra i migliori del nostro foro) come Antonello Angioni a mischiarsi in questa nebbia e a manovrare scimitarre dialettiche contro chi, proponendo la cittadinanza onoraria alla Segre, non pare avvertito della necessità ed urgenza dei ripudi di ambiguità o addirittura collusioni con prepotenze e ingiustizie di colore opposto al nero dei fascisti, ecco… questo io non lo capisco.
Proponga lui, il consigliere Angioni, la cittadinanza onoraria alla Segre. Ritengo che i consiglieri di minoranza non si opporrebbero. In più proponga finalmente – io l’ho fatto dieci volte e mai sono stato ascoltato – la intitolazione di una strada di Cagliari a due democratici variamente e fortemente legati alla città, alla sua umanità, alla sua storia, sempre in chiave democratica e fieramente antifascista, come poi alla politica autonomistica della Rinascita: Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis.
Ho conosciuto e intervistato Enrico Endrich, e non ho mai avuto motivo di contestarne la probità personale e l’intelligenza amministrativa del tempo trascorso: non dimentico però che è stato un gerarca, e di primo piano, della dittatura razzista e guerrafondaia che ha privato della libertà l’intera nazione per due lunghi decenni, il che non ha dissuaso l’Amministrazione civica dall’intitolargli uno spazio viario (e botanico) d’eccellenza. Come all’industriale ed editore Ferruccio Sorcinelli, gloriosamente fascista duro e puro. Titolari di strade e piazze (e qui ometto, per brevità, il caso di Vittorio Tredici tardivamente salvatore di ebrei, sul conto del quale il Comune a trazione berluscono-parafascista tempo fa diffuse una biografia risibile facendolo addirittura deputato del Partito Sardo invece che del PNF!). Mentre a Ugo La Malfa, coscritto sbattuto nelle nostre caserme di San Bartolomeo perché scoperto antifascista e prossimo alle celle di San Vittore nel 1928, ed a Titino Melis, anch’egli ospite delle regie galere milanesi, negli stessi mesi (e poi consigliere comunale di Cagliari per ben 19 anni) niente… Strabismo?
Cosa può e vuole fare Antonello Angioni, storico della città, scrittore gustoso e amico della verità e delle cose belle, dopo che proporre lui la cittadinanza onoraria alla senatrice a vita, docente del miglior umanesimo, per la intitolazione di uno spazio pubblico qualificato a uomini come Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis?
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