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Gianfranco Murtas

Per la speranza di “un futuro contro la storia”, nel Vietnam di cinquant’anni fa. La testimonianza di don Angelo Pittau

di Gianfranco Murtas

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Nel marzo del 1969, giusto mezzo secolo fa, don Angelo Pittau – presbitero villacidrese allora trentenne – licenziava un libro-bomba: Vietnam: una pace difficile. Lo pubblicavano le edizioni Dehoniane nella collana “il Regno attualità” con la presentazione di Gabriele Gherardi, al tempo forse non ancora vicesindaco di Bologna, della Bologna di Renato Zangheri e Renzo Imbeni, ma certo già personalità eccellente dell’intellettualità felsinea, uomo della sinistra socialista, di formazione aclista.

«Ultimo rifugio dei difensori della guerra è (per quanto inconsistente) la teoria della “guerra giusta”, ma una guerra per essere “giusta” si deve almeno dimostrare che può servire a qualche cosa. La guerra del Vietnam è stata, oltreché atroce, anche una guerra inutile», ecco cosa scrive Gherardi, che subito aggiunge:

«Ouesto non è un libro a tesi, ma un documentario autentico e giornalisticamente vivo di una situazione a volte grottesca, più spesso tragica, con appena qualche barlume di speranza.

«Dall'analisi della tragedia di un popolo deriva il giudizio sulla inutilità della guerra.

«Dopo quindici anni dagli accordi di Ginevra l'essenza della questione vietnamita sta ancora in un problema di convivenza etnica, religiosa e politica.

«Capire la realtà della guerra per cercare di capire i problemi della pace. Sarà una pace difficile perché anche nella preparazione della pace il problema vietnamita è condizionato da realtà esterne, ma il Vietnam è forse oggi in grado di giuocare un suo ruolo politico autonomo.

«Dobbiamo riflettere ancora su queste cose, affinché il rifiuto della guerra che in questi anni ci è scaturito nella coscienza cresca e si organizzi fino a una precisa e assoluta scelta storica e a una definitiva e irreversibile opzione politica».

Ci sarebbero voluti altri tre anni per la pace, per la presa d’atto della sconfitta militare americana che – dirà un giorno don Pittau invitato ad una conferenza conversata a Campu’e Luas, ai ragazzi riuniti da padre Morittu (e con un ruolo, magari marginale, riservato anche a me) – sarebbe però stata un paradossale successo di neocolonizzazione economica dell’Occidente umiliato, quella dei Levis o della CocaCola, dei costumi mentali (tutti pagani) prima ancora che materiali…

Ecco a seguire, di Angelo Pittau, il testo della sua premessa al saggio-documentario che costerà al suo autore la cacciata dalla terra vietnamita ed aprirà a lui nuove stagioni di vita non meno creative, e faticose, di quelle trascorse.


Don Angelo prete fidei donum e giornalista freelance (per la verità)

Io amo questo Vietnam, l'amo sino alle lacrime perché mi ha fatto fremere ed ha risvegliato in me sentimenti che credevo di non avere, di non dover conoscere mai e mi ha fatto uomo, mi sono scoperto uomo.

Questo mio libro è politica, appassionata politica però. Un giorno scriverò altro sul Vietnam, forse un romanzo, dei racconti e soprattutto poesie. Le poesie che ho scritto adesso sono piuttosto grida di dolore che lancio in questa mia amara esperienza di semplice presenza, quelle che scriverò saranno sul vero Vietnam, quello di cui adesso non si parla più ma che esiste: le sue risaie, i suoi fiumi lenti, le giungle, le montagne e soprattutto i suoi uomini. Il contadino vietnamita, la ragazza vietnamita, il bambino e la bambina vietnamita sono un mistero dolce che si cerca di possedere, dell'acqua che si vuole bere per la sua limpidezza e freschezza, un frutto primitivo che si vuole mangiare... un amico che si dà all'amicizia incantevole.

Adesso è la guerra. Una guerra più bestiale non la si potrebbe conoscere e fare. Sembra che il vietnamita mostri un altro volto come anche il Vietnam, il lungo corpo slanciato del Vietnam, mostra un altro volto mangiato dai bombardamenti, bruciato dal napalm, è nudo per le bombe chimiche e i suoi fiumi si sono intorpiditi. Ma tutto ritornerà come prima, io lo so.

Una notte, si era in mezzo alla foresta in una radura e pioveva, si era soprattutto un ammasso di relitti umani impauriti perché presi prigionieri dai vietcong. Si era fatto silenzio nel gruppo, una guardia vigilava su di noi, lui in piedi e noi seduti, lui con il suo fucile ma che teneva sulle spalle. Ad un tratto la giovane donna di fianco a me (cercavamo di appoggiare le nostre schiene al tronco di un albero) cominciò lentamente a piangere in uno sforzo di non piangere. I suoi due bambini avevano preso sonno, uno l'avevo io tra le gambe.

Aveva ragione di piangere... suo marito era stato preso dai vietcong, e gli uomini presi dai vietcong non ritornano: o si arruolano o vengono uccisi. Aveva ragione di piangere ma per piangere aspettò che i bambini fossero addormentati, che nessuno la sentisse, la notasse. 

Io pietrificato da questo pianto avrei voluto darle aiuto, magari stringerle la mano, ma non osavo perché non avrei saputo spiegare il mio gesto, non parlavo vietnamita, non era cattolica… sapevo molto di lei e della famiglia perché con il marito avevo parlato lungo tutto il viaggio nel taxi.

Ero nell'aeroporto di Da Nang; il Vietnam era immerso in un diluvio di fuoco, in un'inondazione di sangue. Avevo atteso invano un aereo per poter raggiungere Hué occupata dai vietcong, ormai cercavo un posto per passare la notte, inutile era tentare di raggiungere la città. Mi misi in una strada dell'aeroporto e fermai una jeep, una delle jeeps che continuamente abbagliavano i miei occhi stanchi. Era una jeep vietnamita, un capitano raggiungeva il suo posto di guardia al confine del campo: andai con lui. Non aveva più di trent'anni, ne mostrava ancora di meno, un ragazzo quasi ed era da dieci anni nell'esercito, dieci anni in guerra. La notte non dormii, nel bunker e poi all'aperto sotto le stelle e nella luce irreale dei flash restai con lui a parlare e soprattutto ad ascoltare. Parlò a lungo dei suoi desideri. Sposarsi, avere dei bambini, una casa in un villaggio a sud di Saigon, la casa in una risaia dal riso ben coltivato, i porci sotto la casa, le anatre nel canale, il pesce vivo nelle grandi giare, i banani tutt'attorno alla risaia e sull'acqua della risaia vedere il cielo: il cielo azzurro, nuvoloso, la notte con le stelle, il mattino con l'alba.

Pochi giorni dopo ero a Hué nella parte della città già liberata, la nuova Hué dalle strade larghe. Ero sulla riva della Riviera dei Profumi. All'altra riva era la guerra, la distruzione, la morte e la miseria, il tonfo sordo delle bombe, delle cannonate, il fischio dei bombardieri e il ronzio dei mitragliatori, il colpo secco degli F 40 dei vietcong. Il ponte Clemenceau era affondato, ancora qualcuno però si accostava alla riva con piccole e veloci barche. Lo si aiutava a rimontare la scarpata, a fare l'ultimo passo per la sicurezza. Un giovane, meglio un ragazzo (al massimo aveva 15 anni) mi si buttò al collo e cominciò a piangere, a piangere sulle mie spalle di straniero. Lo strinsi sin quando non smise, non si calmò un poco: aveva lasciato la sua famiglia nell'altra parte della città sotto le rovine della casa, tutti i suoi erano morti.

Vicino, come una prefica, piangeva una vecchia urlando i nomi dei suoi cari che da giorni attendeva nella riva liberata: i suoi figli erano morti anch'essi.

Io ero nella riva esitante, presi la barca del giovane e per poche piastre mi feci portare nell'inferno di Hué da liberare ancora...

Alla donna nel bosco, al capitano dell'aeroporto, al giovane e alla vecchia di Hué e ai cento altri cuori che ho incontrato in Vietnam dedico questo libro.

Un giorno il Vietnam non sarà più in guerra e la vita vietnamita fiorirà di nuovo. La vitalità, l'intelligenza, la bellezza, la ricchezza e la bontà spiegheranno ancora le loro ali e sarà un trionfo, il trionfo del bene sul male, del Vietnam sui nemici del Vietnam, il trionfo del futuro sulla storia. Questa guerra non sarà che una parentesi nel cammino armonico, spirituale di questo popolo e di questa nazione.


Quasi ancora al suo debutto, La Grotta della Vipera – la bella e preziosa rivista trimestrale di cultura fondata a Cagliari da Antonio Cossu – al suo numero 3, nel 1975, pubblicò i seguenti versi di Angelo Pittau da pochi mesi ormai rientrato in Sardegna dopo le missioni di lavoro e di vita in Vietnam, e in Francia e ad a Torino.


Hué

Vorrei continuare la mia poesia 

se un velo fragile

fatto più di paura che di pudore 

tristemente non mi fermasse


credo che ci siamo detti tutto

per incominciare a non essere soli 

per incominciare a parlare

non solo avere il malinconico desiderio 

di comunicare


un po' sono gli avvenimenti

un po' sono gli uomini

un po' siamo noi

forse anche questo nostro andare d'oggi 

nella coscienza del passato

e nell'orrore nascosto dell'oggi

che non trova giustificazione


abbiamo visto bufali lavorare le risaie 

donne mietere

case ricostruite

più che case rifugi sono - Io sappiamo – 

bambini andare a scuola

giovani amarsi


abbiamo visto tombe e troni

dell 'ieri

nella sera tremula sull'acqua

dei piccoli laghi ricchi di fiori di loto 

per i giovani in sogno


abbiamo anche giocato

riflessi negli specchi di favorite 

seduti sui troni d'imperatori 

svaniti


abbiamo visto 

ed era speranza

i nostri fratelli in guerra

che dicono d'odiarsi

e che si sono uccisi per lunghi anni

(ma si amano troppo)

specchiarsi allo stesso fiume

dissetarsi alla stessa acqua

rinfrescarsi

li abbiamo visti parlare

per dire di noi


quieti fiumi

dall'acqua chiara

Bo Ciang, Hai Ciang 

voi siete testimoni


ma abbiamo visto anche Quang Tri 

ed io non ho parole


ripenso al giorno che si è fatto

nella veranda del superbo imperatore stanco 

in questa pioggia di lacrime

serali sui fiori di loto


sei sconvolta, mi dici,

ma anch'io sono sconvolto

solo

la sicurezza mia non t'inganni.



In vista del suo ormai imminente compleanno giubilare – gli 80 canonici! –, ho pensato di presentare, da qui al prossimo dicembre – quando festeggeremo la ricorrenza di calendario in seminario, a Villacidro, con una mostra di pannelli dessiani, a memoria della tesi di laurea che don Angelo Pittau discusse alla Pro Deo nel 1967 e centrata proprio sul mondo cidrese nella letteratura di Giuseppe Dessì – una serie di scritti che lo stesso don Angelo ha firmato nell’arco ampio di mezzo secolo, fra saggistica o pubblicistica e poesia, cioè arte. 

Alla prossima!



Fonte: Gianfranco Murtas
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