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Gianfranco Murtas

Per Matteo Porru, apostolo repubblicano della lingua sarda

di Gianfranco Murtas

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In comunità, a Campu’e Luas, dove all’inizio del secolo nuovo ebbi da padre Morittu l’incarico di subentrare a Zella Corona nella organizzazione delle conferenze quindicinali che sociologi e medici, economisti e letterati, storici e preti, avvocati ed artisti, professionisti di altre dieci o venti vocazioni e specializzazioni si dissero disposti e anzi felici di tenere suscitando e alimentando l’interesse dei ragazzi, invitai a venire anche lui – Matteo Porru – che ci fu prezioso tanto quanto oggi ci rende addolorati la sua morte intervenuta pochi giorni fa, dopo tanta malattia affrontata con il coraggio dei migliori.

L’ultimo incontro che ebbi con lui, ora è più d’un anno, avvenne in facoltà teologica, a Cagliari, dominus della serata don Tonino Cabizzosu e con lui qualche padre gesuita e qualche vescovo. Pesanti i segni nuovi del male (e delle cure e delle sofferenze), uguale a sempre la sua cordialità, che sempre mi aveva donato – lui con la sua tipica generosità di uomo di scuola – quando veniva alle presentazioni dei libri che per vent’anni e più, nel lungo passaggio di secolo, avevo esitato sulla storia della democrazia sardista – progressista e antifascista, di salda radice repubblicana e mazziniana – ed attorno ai quali avevo raccolto come in un ideale cenacolo uomini come Manlio Brigaglia e Vindice Ribichesu, Mario Melis ed Antonio Romagnino, Simonetta Giacobbe e Gianni Filippini, e con loro molti molti altri…

Venne in comunità a parlarci della lingua sarda, della storia della lingua sarda. E fu musica alle orecchie di tutti, e interesse sveglio. Numerose le domande, dai ragazzi, dopo la sua lezione e anche a cena, al termine di quelle due ore di full immersion nelle cose della nostra piccola patria attraversata per tempi e territori.

Credo di averli tutti i libri di Matteo, che sulla nostra lingua materna pubblicò anche un libretto di larghissima diffusione per le edizioni della Newton Compton (tascabili, 1995-1999), ma rilancio di quella Breve storia della lingua sarda che era apparsa nel catalogo delle edizioni Castello già nel 1991, assieme a molte altre cose che alla Sardegna come comunità storica e sociale, la sua identità peculiare nella più vasta famiglia costituzionale italiana, facevano riferimento: dal Pinocchiu (versione del gran capolavoro di Collodi) al gustosissimo La lingua sarda raccontata ai miei nipoti (Cagliari, arkadia, 2015), da Angelo Dettori e Antonio Sanna due bonorvesi illustri (Cagliari, edizioni della Torre, 2010) al quaderno, scritto a quattro mani con Tonino Langiu, dedicato a Francesco Masala (nella collana “Omines e feminas de gabbale”, Quartu, Alfa editrice, 2007)…

Figlio della Marmilla, di quella Villanovafranca/Biddanoafranca (cui dedicò, con speciale intelletto d’amore, il suo saggio più recente), studioso di linguistica fin dalla sua giovinezza, se alla materia legò pure la sua tesi di laurea discussa, nel 1957, con il professor Sanna argomentando il rapporto fra il dialetto locale e la lingua regionale (o chiamala nazionale, della nazione sarda felicemente radicatissima, per forza di democrazia politica, nello Stato repubblicano con Roma capitale), s’era battuto con grande credibilità per lo studio del sardo nelle scuole pubbliche. 

Docente di lingua e letteratura italiana nelle scuole medie per molti anni e poi anche dirigente scolastico sempre piegato sui prevalenti interessi pedagogici del mestiere, a lui si devono diverse curatele – come Cagliari e i suoi poeti in lingua sarda – e anche traduzioni (dall’italiano al sardo – come il lussiano Il cinghiale del diavolo/Su sirboni de su dimoniu – e dal sardo all’italiano – come Sa scomuniga de predi Antiogu arrettori de Masuddas. Antighissimu scherzu in versus sardus de autori incertu (edito dalle Nuove Grafiche Puddu).

Naturalmente qui scrivo di Matteo non per… competenza particolare ma per amicizia e nel rimpianto del suo valore di uomo e di intellettuale appassionato. E come si trattasse di un suffragio laico alla sua memoria, di lui stesso riporto qui di seguito un testo di cinquanta e più anni fa. Egli era allora professore – professore trentenne – alla scuola media “Cima” di Cagliari (in piazza Dante, poi Giovanni XXIII) e curava in particolare una classe cosiddetta “differenziale”. 

In uno contributo apparso su L’Unione Sarda del 29 gennaio 1964 difese da inopportune e infondate accuse non soltanto la sua esperienza docente, ma lo stesso istituto della scolarizzazione separata, avvertendo non trattarsi assolutamente di “scuola segregata”, ma, al contrario, di “scuola particolarmente curata” per il recupero in tempi dati di alunni in difficoltà per situazioni anche familiari o sociali, dunque non intellettive o cognitive, da superarsi in logica civica. Quasi l’offerta di un supplemento di scuola – supplemento anche e forse soprattutto affettivo – per il ristabilimento, in tempi utili, dell’“aggancio” alla comunità dei coetanei e, un domani, anche del lavoro, di chi – appena undici-dodicenne – nel presente rivelava rischi, palesi elementi di marginalizzazione.

Le classi differenziali

L’art. 12 della legge 31 dicembre 1962 n. 1859 prevede l’istituzione di prime classi differenziali in scuole medie particolarmente popolate di discenti, nelle quali sia quindi dato come possibile reperire alunni giudicati scolasticamente “disadatti”, ma comunque recuperabili.

L’esperimento di cui al sopraccitato articolo è recente in Italia (nell’anno scolastico 1962-63 funzionarono varie classi nelle città di Roma, Milano, Genova, Bologna, Palermo) e del tutto nuovo in Sardegna (l’unica classe differenziale funziona dal 10 dicembre 1963 presso la scuola media statale “A. Cima” di Cagliari). E sia nella penisola che in Sicilia e, particolarmente, in Sardegna si è avuta la veemente protesta dei genitori dei preadolescenti o dei ragazzi assegnati a tali classi, che si sono inalberati, in preda al dubbio ed alla diffidenza, persino contro i capi d’istituto e gli insegnanti preposti all’insegnamento differenziale stesso.

La sfiducia dei genitori di fronte alle innovazioni apportate alle strutture scolastiche non risulta del resto nuova a chi vive da anni nella scuola, dedicando le proprie energie alla difficile e nobile opera di docente. Quando, ad esempio, venne introdotto l’esperimento della scuola media unificata, senza latino nella prima classe, i genitori degli alunni assegnati a quel corso di studi non mancarono di far pervenire ai capi di istituto le loro rimostranze, chiedendo che i loro bambini studiassero il latino. Eppure è noto agli uomini di cultura che molti genitori hanno sempre stigmatizzato l’insegnamento del latino.

Nel caso dell’unica classe differenziale oggi esistente in Sardegna nella nuova scuola media, le proteste non hanno tardato a farsi sentire: e mentre L’Unione Sarda del 19 gennaio parla di un esposto indirizzato alla Procura della Repubblica, l’ultimo numero di un periodico contiene una lettere di «tutti i genitori della classe “sperimentale” riunitisi presso un legale» (sic!). 

A prescindere dal fatto che una classe sperimentale non può essere figlia di tanti genitori, è opinione dello scrivente che non sia stato capito lo spirito della disposizione ministeriale che concerne l’istituzione di simili classi né il giusto senso dell’aggettivo “differenziale”, che, evidentemente, è stato frainteso. Se infatti è vero che le classi differenziali in funzione nella scuola primaria ospitano bambini in qualche modo psichicamente ed intellettualmente tardivi, è verissimo che, nella scuola media, la classe affidata al sottoscritto ospita 14 alunni scelti tra i più vivaci e a volte indocili, irrequieti e disattenti, tutti comunque dotati di un quoziente normale d’intelligenza e passibili perciò di più o meno rapida ripresa. Non si tratta di “alunni cavia”, ma, piuttosto, di bimbi che nel giro di uno o due anni potranno tornare ad inserirsi nelle classi normali. Si tratta, molto spesso, di alunni che hanno ulteriore bisogno di una particolare vitamina, quella dell’amore e dell’affetto, e che hanno bisogno di vedere nei loro insegnanti l’ancora di salvezza nel vuoto che li circonda.

Nelle classi di provenienza (e si sa che queste sono numerose) molti di essi sarebbero incorsi di continuo nelle sanzioni disciplinari che si sarebbe reso necessario adottare per moderare e rattenere i loro impulsi e sarebbero stati molto spesso allontanati dalle classi e dalla scuola, a scapito del normale scolastico rendimento: giacché è anche giusto pensare ad una e una sola limitata pazienza degli insegnanti. Non si vuole con questo affermare che gli insegnanti preposti alla classe in oggetto sono dotati di pazienza illimitata; si vuole semplicemente dire che seguire 14 alunni è sotto certi profili meno gravoso che seguirne 25 oppure 30, con la possibilità per il docente di conoscere dell’allievo tutti quegli elementi che possono sfuggire nelle classi numerose e di meglio penetrare nel suo animo, nel quale non è punto semplice leggere sempre qualità, doti e tendenze, a causa dei conflitti interiori non ancora risolti nei giovinetti.

Di particolare conforto agli insegnanti riesce l’assidua collaborazione dei medici che, con ogni cura, si adoperano per seguire gli allievi nelle manifestazioni della loro personalità incerta, proponendo e studiando con i docenti l’introduzione delle metodologie più recenti sia nel campo pedagogico che in quello psicologico.

L’insegnamento condotto in tali classi non riesce, nei complesso, meno gravoso che nelle normali: richiede forse più amore e più abnegazione, doti del resto comuni a chi si è votato e si vota alla missione di educatore, nell’esercizio sereno e paziente del lavoro che a null’altro mira se non a far sentire ai giovani la dolcezza che nell’animo deriva dalla graduale conquista del vero e del bello.

Se gli effetti delle letture scientifiche avessero in Italia raggiunto il livello cui sono giunti nelle altre nazioni, non avrebbero certo le proteste dei genitori ragione di essere ancora. All’estero, infatti, come nelle Comprensive Schools inglesi, i genitori sono tranquilli quando sanno che i loro figlioli vengono assegnati alle classi differenziali. In Sardegna e nella Cagliari del XX secolo si pensa ancora, invece, che dette classi siano sorte semplicemente per consentire ai capi di istituto e agli insegnanti preposti stipendi più lauti di quelli normali, per una genia particolare di riprovevole speculazione. Non si capisce, infatti, in base a quale gretta e pusillanime piccineria sia stato detto che al capo d’istituto e ai professori responsabili spettano emolumenti extratabellari, mentre è noto a tutti coloro che seguono la vita della scuola che il mensile attribuito consente appena, al corpo direttivo e docente della scuola italiana, di tenere desta nel cuore la fiaccola dell’entusiasmo e del sacrificio. Ma ciò che maggiormente dispiace constatare, nel perfido mondo in cui si vive, è che – se risponde a verità che la lettera pubblicata da altro giornale è effettivamente stata scritta dai genitori degli alunni della prima classe differenziale, della qualcosa si dubita assai a causa delle sediziose notizie che essa contiene – esistono ancora degli avvocati che, piuttosto che dire a simili clienti che quanto si propone la scuola non può tornare se non a beneficio degli alunni e dei genitori, si rivelano propensi a far impugnare cause prive di senso.

Vista quindi nella sua giusta luce, la classe differenziale è un provvedimento salutare, se non certo atto a risanare tutte le piaghe inveterate e cancrenose della nostra scuola degno perlomeno di maggiore comprensione.



Fonte: Gianfranco Murtas
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