Per una storia del liceo Dettori, e in omaggio al professor Pianta che ha lasciato la presidenza. Fine anni ’80, i bei ricordi di Nicola Cois Steri e altro ancora
di Gianfranco Murtas
Chi avrà voglia e gusto di scorrere le pagine di Giornalia troverà diversi miei interventi sulla storia del liceo cagliaritano intitolato all’umanista tempiese Gio.Maria Dettori, religioso che ebbe fama nazionale, nel primo Ottocento – al tempo di Napoleone e della prima restaurazione – come professore di teologia morale dapprima all’università di Cagliari, poi, e più lungamente, in quella di Torino.
Il materiale che ho raccolto è enorme e meriterebbe tempo ed energie, e volontà, per lavorarci sopra, tanto più marcando il nesso che le attività formative di quel centro scolastico – per quasi un secolo nell’antico stabilimento gesuitico della Marina, e dai primi anni ’50 del Novecento nel nuovo plesso finalmente tutto luminoso, fra il palazzo di Giustizia (fresco anch’esso di inaugurazione) e Monte Urpinu – hanno sviluppato con la città nella sua interezza: né soltanto con la città ma, data la frequenza ai suoi corsi di innumerevoli ragazzi della provincia e della regione, direi con la Sardegna tutta. Dalle sue aule è venuta gran parte della classe dirigente isolana – non soltanto nella politica ma anche nella magistratura, nella pubblica amministrazione, nelle professioni liberali, nell’industria e nei commerci, ecc. – e al prestigio della sua tradizione si è legato il nome di un numero impressionante di docenti, molti dei quali – basti il nome del mitico professor Azzolina – ebbero cattedra anche all’università ed altri ancora – bastino qui i nomi del professor Valle e del mio carissimo amico e maestro Antonio Romagnino – furono iniziatori o dirigenti di associazioni d’alto profilo civile e culturale, da Italia Nostra agli Amici del libro.
Non soltanto Gramsci, dunque, ma anche Gramsci e con Gramsci il suo maestro Raffa Garzia, destinato poi all’insegnamento bolognese – la patria accademica del Carducci -, del Garzia che fu per lunghi anni anche direttore de L’Unione Sarda. Per dire di un altro nesso del liceo con un presidio civile, di libertà civile, della nostra Cagliari. Muovevano allora – prima della grande guerra – dalla piazzetta Dettori e dalla via Barcellona, in cui avevano allestito la sede del loro circolo intitolato a Giordano Bruno, i liceali indirizzandosi alla volta dello square delle Reali, di fronte al gran cantiere del municipio che ci mise quindici anni ad essere completato: e attorno all’erma di Giovanni Bovio – il filosofo del diritto che era stato il successore di Mazzini alla testa della democrazia radicale e repubblicana in quel tempo di monarchia – chiamando lui come testimone delle loro idealità, onorarono Carducci spentosi nel 1907 e propugnarono con qualche frequenza istanze di libertà e giustizia che i governi del gradualismo giolittiano (ma anche di Sonnino, Luzzatti e Salandra) non tutte e integralmente sapevano accogliere.
Verrà il momento, speriamo, di riprendere il lavoro di ricostruzione della trama di una memoria larga e complessa. C’è stato, ad esempio, il filone – per me interessantissimo da sviluppare – della docenza (in materie umanistiche e in materie scientifiche) di almeno cinquanta liberi muratori, sardi e continentali, nelle aule piccole e buie della Marina e anche in quelle moderne di via Cugia, direi a partire da Francesco Stara o da Angelo Arboit, il prete spretato e ripretato che aveva amato Garibaldi; vi è stato quello della docenza illuminata, dopo il concordato e fino a tempi relativamente recenti, di ecclesiastici (fra loro diversissimi) del valore di Antonio Bonu, di Elvio Sitzia, Vincenzo Corrias, Giuseppe Lepori, Efisio Spettu… Né sarebbe meno gustoso ripassare le vicende trascorse… ma dai banchi non dalla cattedra – di futuri gran maestri come Guido Laj e Armando Corona e di futuri vicari capitolari e vescovi come Luca Canepa (perfino canonizzato nelle pagine del sattiano Giorno del giudizio!). Vi è stato – campo tutto da esplorare con promessa di grandi soddisfazioni – il filone delle docenze continentali, e di rilievo nazionale (per il prestigio del professore insieme ricercatore e saggista di casa in editrici di nome a Firenze o Milano o Roma), e fra le tante direi quella del geologo e paleontologo toscano Dante Pantanelli o del filosofo (e parlamentare) Floriano Del Zio, od ancora, particolarmente combattuta – il solito amore-odio fra studenti e insegnanti – di Umberto Cosmo, dantista di fede socialista e coerenza antifascista…
Basta, a riprendere – passo dopo passo – la marcia anche soltanto delle sintesi verrebbe fuori non una nota introduttiva ad un articolo ma un libro intero. E invece qui, balzando da quegli anni lontani – giusto nella saldatura fra Regno di Sardegna e Regno d’Italia - in cui il liceo prese soggettività (e poi nome) a quelli a noi assai più vicini, della fine del secolo scorso, mi è caro, carissimo anzi, presentare una testimonianza di vita dettorina così come me l’ha consegnata Nicola Cois Steri, un… manager di formazione bocconiana e solida professionalità milanese, cagliaritano però, e cagliaritano vero, di ascendenze fra Villacidro (la Villacidro di Ignazio Cogotti sindaco storico e poeta popolareggiante, per tornare al Dettori!) ed Assolo, del quale conosco, per averla seguita da presso, la robusta iniziazione culturale e la splendida umanità.
Omaggio speciale a questo amico mio di speciale talento, ho anche piacere di presentare, di seguito, un altro suo scritto, questo di ventidue anni fa, quando egli ancora studiava e da Cagliari era appena balzato a Milano. Avevo allora dato alle stampe un volume – La città chantant, monarchica, clericale e socialista – che era poi un diario cagliaritano dell’anno 1909, l’anno di nascita di due dettorini anch’essi particolarmente onorati in quel testo: Francesco Alziator e Giuseppe Dessì (un libro che alcuni anni fa donai in cento copie al Dettori, per il tramite di Carla e Ludovica Romagnino, perché la presidenza ne facesse omaggio agli studenti che si fossero cimentati in un saggio sulla figura di Antonio Romagnino). Chiesi allora a Nicola, proprio per le sue ascendenze villacidresi (che lo riportavano all’autore di Paese d’ombre) di chiudere quelle trecento pagine zampillanti la nostra storia minore, quella dell’ordinario quotidiano di noi isolani e sardi, di noi cagliaritani… E da lui, da Nicola, vennero alcune magnifiche pennellate di spirito brioso, creativo e meditativo insieme…
Nicola Cois: «Fior di professoresse, soprattutto loro… e la genialità gioiosa/problematica di Andrea»
Gli anni del liceo Dettori (di via Cugia) sono stati tra i più intensi della mia vita da ragazzo. Per tanti motivi. Forse soprattutto perché sono stati gli ultimi che ho vissuto a Cagliari e a casa in famiglia: senza rendermene conto ora ho passato più anni della mia vita a Milano che in Sardegna, facendo in tempo a mettere su una nuova famiglia. Sono entrato al liceo che ero un bimbo appena uscito dalle medie e ricordo che dopo il primo giorno - presentazione in aula magna con l'eccellente Preside Francesco Floris, presentazione in classe della nostra professoressa di lettere, la giovane e talentuosa Laura Rossi - ero uscito felicissimo per un senso di indipendenza indescrivibile.
Mi sentivo grande tutto d'un colpo. Anno 1987.
Il triennio del liceo (credo che da poco abbiano tolto la dicitura ginnasio che effettivamente faceva troppo De Amicis) è stato un salto importante: ho iniziato di nuovo a prendere voti bassi. Mi succedeva già alle medie, ma non ero più abituato. Poi ho rimediato, ma credo di aver perso un'occasione fondamentale. Avrei dovuto festeggiare per quei voti e per la possibilità che mi stavano dando di sbagliare e di migliorare in un ambiente protetto, rafforzando la schiena come lo spirito critico, per capire cosa era essenziale e cosa no. Nonostante le professoresse che ho avuto la fortuna di incontrare, ho preso un crinale difficile della salita: faticoso e, temo per tanti aspetti, fine a se stesso. Fa nulla, piccole cicatrici di "guerra".
Detto ciò ricordo ancora l'entusiasmo e l'eccitazione di chi, insieme ai miei genitori, ha messo tutto se stesso per insegnarmi a pensare. Ho scoperto la filosofia grazie alla Professoressa Lalla Sini, che inizialmente mi considerava un casinista da tenere d'occhio, e a ragione. Peccato che con il tempo abbia cambiato idea, peccato cavolo. Avrei dovuto seguire più spesso il suo invito a non smettere di farsi domande e di trovare una risposta sincera, per quanto sgradevole. Avrei voluto vedere con lei l'Apologia di Socrate recitata dal vivo da Carlo Rivolta (con la collaborazione di Giovanni Reale, autore del testo dove studiavamo). Socrate mi guardava in faccia, dritto negli occhi e mi chiedeva: perché non arrivi fino in fondo con quelle domande? Ha provato a proseguire lo sforzo titanico della Professoressa Sini, anche lui senza successo.
Poi la storia dell'arte con la Professoressa Licia Lisei che ancora oggi non smette di illuminarmi con una umanità e una cultura che non può essere descritta senza sminuirla: mi sentirò per sempre in debito con lei per la scoperta del Sublime, e di apollineo e dionisiaco nell'arte come nella vita (se solo fossi stato capace di afferrare "di più di tutto ciò"...).
Letteratura greca con la Professoressa Bianca Monni, apparentemente algida ma in realtà di umorismo fine, e capace di infiammarsi alla lettura o citazione di brani interi di Platone o delle tragedie greche (ovviamente in greco). Con lei un bellissimo lavoro sulla donna nella letteratura greca (e quindi nell'oggi, visto che molto poco o nulla è cambiato).
Ho studiato francese per 5 anni con la Professoressa Nicoletta Delogu (di nazionalità francese) di cui ricordo ancora i racconti della sua vita di avventure grandi e piccole, e le critiche che mi faceva per la mia incapacità di riassumere e scrivere con chiarezza (problema che secondo me ho ancora oggi). Il suo francese mi ha accompagnato per mezza Europa.
Non ultime le due Professoresse Francesca, che accomuno solo per il nome: Deplano per chimica e biologia (è riuscita a ricordarmi quanto mi piacevano le scienze, faceva finta di essere severa ma ci voleva un bene immenso e cercava di tirare fuori il meglio da ognuno di noi, anche da chi decideva di andare male in base ai risultati della Sampdoria), e Fadda l'insegnante di lettere, che provava a trasmetterci l'amore per una Europa che pochi riuscivano a vedere unita. Sicuramente ammirevole, ma credo che la risposta a quello slancio (con il senno di poi, mi rendo conto) sia purtroppo quello che i bambini stanno passando a Moria, dietro casa, o in mare. Mi sono sempre chiesto come potevano i tedeschi non rendersi conto di quello che hanno fatto i nazisti, la risposta è l'indifferenza mia, di tutti noi, di fronte al massacro di innocenti nati nel posto sbagliato.
La Professoressa Casu, di matematica, ci ha tenuti solo un anno e l'abbiamo fatta impazzire. Le devo come minimo il primo esame superato all'università (analisi matematica, gli dei me ne preservino).
Fin qui l'aspetto istruttivo, poi c'era tutto un altro mondo non meno formativo: i guai e le risate combinati in cinque anni con amicizie che ancora oggi durano (abbiamo quasi cinquant'anni e tempo 10 minuti che ci vediamo torniamo quattordicenni, con malcelato disappunto delle mogli, e dei figli più grandi, che ci guardano con tenerezza mista a compassione). Citare qualcosa è difficile, diventerebbe un romanzo e probabilmente farebbe ridere solo chi le ha vissute. Raccontavo ai miei figli che ero parecchio abile a non farmi beccare mentre facevo casino, sapevo passare dalle risate a lacrime alla faccia marmorea in tempo zero (se il professore si girava verso di noi) ed ero in grado di ascoltare con un orecchio i miei compagni, e con l'altro la spiegazione, nel caso ci venissero a cercare. Sarà la spensieratezza dei tempi, ma quante risate da mal di pancia, mamma mia.
Tra l'altro siamo/sono riuscito a farci/mi cazziare dal preside in modo spettacolare: siamo stati richiamati all'ordine io e... suo figlio. Appena entrati nel suo ufficio, non ha lasciato che suo figlio finisse di dire buongiorno che ha minacciato la sospensione di entrambi perché di nostra iniziativa avevamo girato per tutta scuola saltando ore di lezione, per organizzare una gara di nuoto e nel frattempo conoscere tante nuove signorine.
Due perfetti cretini insomma.
Comunque secondo me c'era lo zampino della Signora Pittau (vedi poco sotto).
Ogni tanto andavamo dalla povera bibliotecaria (Mirella, mi pare) a chiederle libri impossibili per poter passare un po' di tempo a zonzo (Mirella grazie per i dolci consigli sul sonno, e forse sulla vita, che ancora regolarmente non seguo).
L'unica che aveva capito di che pasta fossi fatto (anche se con gli anni se n'è dimenticata) era la Signora Pittau, capo assoluto dei bidelli e vice preside funzioni facenti, non me ne vogliano la Prof. Lalla Sini, la Prof. Vassena, e il preside successore di Francesco Floris di cui purtroppo non ricordo il nome… no, lo ricordo, era Luigi Cao (sembrava Michael Keaton nel Batman degli anni 90, quello di Tim Burton. E come Batman ha avuto il non semplice compito di tenere la barra del timone dopo Francesco Floris).
La Signora Pittau dunque, Madre energica di tanti figli (tutti in gamba credo), che alla fine considerava figli anche noi. Se avesse voluto mi avrebbe preso a schiaffi dalla mattina alla sera. E non mi avrebbe fatto male (comunque un po' l'ha fatto Signora Pittau, avanti: il preside e la Prof. Sini non per nulla mi avevano sul radar...). Alla fine ero uno sbruffone (ancorché educato) come pochi. La stessa sensazione che aveva la Prof. Sini, per la quale secondo me il Colonnello Pittau seguiva tutta l'intelligence con straordinaria anticipazione di Internet e social network tutti.
Non credo di avere più foto di quel periodo, ma voglio chiudere parlando di una foto, quella di Andrea Sassu, nostro compagno di classe, geniale e di una umanità dirompente. Una delle prime cose che ho imparato da lui è stata quella di scivolare sui passamano delle scale di scuola. In verità mi ha segnato profondamente il suo modo di ragionare, di studiare, di divertirsi. Penso di aver cercato inutilmente di imitarlo a più riprese, e ancora nei miei amici vedo tante "tracce" di lui.
Provavo sempre una sana invidia per come riusciva ad affascinare tutti con una simpatia vulcanica ed una intelligenza fine. Ricordo ancora delle interrogazioni di filosofia durante le quali, lui sì, osava uscire dai binari e brancolare nel buio in cerca di una risposta.
Ha deciso di togliersi la vita il 23 maggio del 2001 e un "giornale" pensò bene di pubblicare un articolo pieno di cose quanto meno discutibili. Se ricordo bene l'autore riuscì a sbagliare addirittura la composizione della famiglia: neanche un neo sportellista all'anagrafe avrebbe la stessa difficoltà. L'ineffabile articolista poi aveva pubblicato una foto di Andrea, di cui mi chiedo ancora oggi quale sia stata la fonte e chi ne abbia autorizzato la pubblicazione. Di sicuro non sono stati i suoi genitori, e questo penso basti per capire lo scempio che è stato fatto. La foto di un figlio morto (era una fototessera di Andrea, una foto privata pubblicata dopo la sua morte, senza alcuna autorizzazione).
La sua tomba è vicino, vicinissimo a quella della Professoressa Sini. Chissà se stanno ancora chiacchierando e cercando risposte semplici e sincere a domande sempre più difficili.
Nicola Cois: «Dopo il Dettori, da Cagliari a Milano, con l'obiettivo della laurea bocconiana»
Per sentire il gridò della farfalla… Avventure emotive e ripasso di memoria di un sardo ventenne che, fattosi cittadino della middle Europa, scopre la criticità del concetto di regola. Il problematico rapporto fra identità e globalizzazione alle soglie del 2000: «La mia razza, la mia lingua, la mia anima, cambiano incessantemente»: la giusta affermazione personale consegue all'accettazione di tale inarrestabile cambiamento «dettato dal puro e semplice stupore nei confronti della realtà»
SILENZIO.
(Piccolo scorcio di straordinarietà quotidiana).
Il giorno in cui sono arrivato a Milano, per restarci, ho potuto prendere possesso della mia camera solo alla fine di una giornata estenuante i cui particolari non ha ora importanza riferire.
«Così è qui che mi laureerò» dissi, con un tono che sembrava quello di un improbabile John Wayne alle prese con gli ultimi brandelli di frontiera da conquistare. Subito dopo aver scrutato l'West con sguardo superbo dovetti risolvere un prosaico quanto angoscioso problema: aprire la valigia.
In realtà avevo tre valigie stracolme (potenza dell'amore materno), ma quella valigia, l'ultima, non voleva saperne di aprirsi. Non so perché, ma ricordo che era una valigia importante. Non so, ma ho il forte sospetto che fosse importante perché non si apriva. Vabbé...
Insomma niente da fare: i primi frenetici tre minuti di tentativi andati a vuoto. A quel punto l'istinto: chiamo mamma!
Già. Peccato che mamma fosse a diverse centinaia di chilometri di distanza, non esattamente… di là in cucina.
Istinto "represso" dunque. Non ho fiatato e mezzo disperato ho aperto la valigia, in un bagno di sudore, circa dieci minuti dopo.
A posteriori mi sono reso conto che quel piccolo inconveniente nascondeva in realtà una sfida immensa: il silenzio.
In realtà durante gli ultimi anni a Cagliari non ho parlato tantissimo con la mia famiglia: con le mie sorelle la distanza di età era ancora molto forte, mio padre lavorava a Nuoro, e con mia madre parlavo soprattutto durante i pasti, unico vero momento di riunione della famiglia.
Non parlavo tanto, eppure non credo di avere mai sperimentato il silenzio.
Quando ho cercato aiuto per la valigia il silenzio non era "stare zitto" a smanettare la "Delsey" nera. Silenzio era aver bisogno di aiuto, non sapere a chi chiederlo, "sedersi", e scoprire che c'era qualcuno che prima d'allora era stato raramente interpellato: me stesso.
SILENZIO 2
(Piccolo scorcio di quotidianità straordinaria).
Una piccola conferma del senso di smarrimento suscitato in me dal silenzio (una sorta di languido "horror vacui" se vuoi) è stata la (le) mia prima preghiera a Taizé. Il silenzio nella Comunità è quanto mai pieno. Non mi è possibile definirlo se non con un aggettivo approssimativo: pieno.
E pieno anche perché sei "costretto" a parlare con te stesso, e a comunicare con gli altri (c'è chi "fa silenzio" per un'intera settimana) senza l' "artificio" della parola.
Per chi non sceglie la settimana del silenzio, si tratta di pochi minuti durante le tre preghiere quotidiane.
Risultato: il mio primo silenzio è stato scandito da una sfilza di "Padre nostro", "Ave Maria", "Gloria al Padre" ecc... un po' perché non sapevo che fare, un po' perché pensavo che in quel momento dovessi fare quello.
Immaginati il mio stupore quando una volta ho letto un brano di una lettera di Frère Roger (abate della Comunità) che diceva (più o meno): «Mentre qualcuno ti sta parlando e tu ascolti, approfittane per pregare per lui».
Pensa che bello: parlare, ascoltare, pregare.
Che strana equivalenza.
COGITO ERGO SUM. AH AH AH
(Se non si fosse capito questa è una risata sarcastica). Il sarcasmo non è certo diretto a Cartesio, ma a me stesso e all'uso, credo inconscio, che ho fatto del mio "logos" (inteso come pensiero e/o discorso). Ancora una volta le mie prime settimane a Taizé sono un utile esempio.
Spesso mi capitava di dare il mio contributo ad una discussione del gruppo in cui ero inserito.
Quante belle speculazioni filosofiche! Non riesco veramente a capire come facessi a produrne così tante. Forse i recenti studi liceali...
Non mi saltava in mente che se non avevo granché da dire potevo anche stare zitto...
Il tutto era supportato dalla mia tutt'altro che lontana esperienza scout, e dalla mia presunzione di poco inferiore al mio inestirpabile narcisismo.
Solo che la batteria prima o poi era destinata a scaricarsi.
SILENZIO 3
«Hello darkness my old friend...» [«Ciao oscurità mia vecchia amica», da "The sound of silence" di P. Sirnon e A. Garfunkelj]
Dal primo anno di università ho abbandonato qualsiasi attività extra. Ma soprattutto ho abbandonato ciò che fino a quel momento era stato il mio impegno ufficiale: la partecipazione attiva al movimento scout.
Me ne resi conto a posteriori, ma quello fu un vero e proprio vaso di Pandora.
Lo stato d'animo che mi pervadeva i primi tempi può essere paragonato ai primi giorni delle vacanze scolastiche. I primi giorni delle vacanze scolastiche io ho sempre fatto una sola cosa: ho dormito. E ho sempre provato un immenso piacere a galleggiare nell'ozio.
Il primo anno dell'università è stato in gran parte ozio (e non quello dei romani): niente amici, niente impegni, "solo" studio.
Già, ma come dicevo prima o poi la batteria si sarebbe scaricata.
A un certo punto (tra il primo e il secondo anno) infatti, non solo realizzai che più tempo stavo da solo più provavo piacere ad isolarmi, ma realizzai che in testa, dentro la mia testa che credevo pensante, c'era in realtà molto rumore, di un tipo difficilmente orchestrabile. Rumore. Tanti suoni, tante voci, tanti occhi. Ma in realtà niente. Silenzio.
E stavolta veramente poco piacevole.
SILENZIO 4
«… I want to bear the scream of tbc butterfly» [«Voglio sentire il grido della farfalla», da "The Doors"}
Poi è successa una cosa strana. Ho iniziato a incuriosirmi.
Non che prima non lo facessi, ma dopo tanto tempo la curiosità nasceva "da me", visto che potenziali condizionamenti di gruppi esterni erano molto poco probabili a quel punto.
Per capirci iniziai a cambiare modo di ascoltare musica: fino a quel momento conoscevo 5 o 6 artisti/gruppi molto bene, ma finiva lì.
Da quel periodo iniziai ad ascoltare e a registrare ogni cosa che mi capitasse a tiro. Adoravo registrare a caso trasmissioni radio che per qualche motivo mi attiravano, ma di cui mi affascinava soprattutto la casualità con cui le trovavo e l'ora (spesso) tarda in cui andavano in onda.
Come ho fatto per la musica ho fatto per i libri, gli amici, le emozioni. A volte ho preso un'iniziativa personale, altre volte sono stato spinto da persone per me molto importanti.
La mia curiosità morbosa mi ha accompagnato fino alla fine del mio percorso universitario, fino ad oggi cioè.
Accanto alla curiosità, insieme con le infinite scoperte fatte, è naturalmente cresciuto in me un senso di continuo e intenso stupore per l'infinitudine delle cose che mi circondano (lungi da me il voler fare filosofia, ma è proprio così).
È stupefacente, se ci si pensa troppo si rischia di diventare matti. Il mondo stesso, nella sua "empiricità", nella sua "quotidianità", può diventare un'incredibile esperienza metafisica, sconvolgente.
Ciò non è sempre stato uno stimolo positivo. Non sempre lo sconvolgimento è piacevole, anche se gli esiti possono esserlo (è vero, spesso si impara solo attraverso il dolore). Di fatto il mio (assolutamente) temporaneo punto di arrivo è questo. È una specie di fobia per la "permanenza".
Non pretendo che sia "giusto", né che sia un ragionamento "da persone mature", ma io sono così.
La mia razza, la mia lingua, la mia anima, cambiano incessantemente e affermare la mia identità comporta necessariamente accettare questo inarrestabile cambiamento dettato dal puro e semplice stupore nei confronti della realtà.
È mediocrità?
Può darsi.
A mia sola "difesa" posso solo dire che quando sono arrivato a Milano avevo delle regole fortemente impresse nel mio bagaglio genetico. Ho avuto l'occasione di metterle in discussione, l'ho fatto, e ora ho la presunzione di capire l'importanza e la criticità del concetto di regola.
Solo mettendomi in discussione ho potuto intraprendere il cammino verso la ricerca di me stesso.
Non resta molto da aggiungere, solo una cosa. Prima di laurearmi ho cambiato casa tre volte.
Devi accedere per poter commentare.