Pippo Boero, lo scultore del busto di Giovanni Bovio, e i suoi Fratelli artisti. Onore a Franco d’Aspro nel 25.mo della scomparsa
di Gianfranco Murtas
Siamo arrivati in fretta a compiere tutto intero il nostro lutto per Franco d’Aspro che si è involato giusto un quarto di secolo fa. Di lui resta a chiunque lo abbia incontrato un qualcosa di specifico, di particolare: a qualcuno, nel privato, un segmento d’affettuosità o magari una suonata di violino, a qualcun altro, al liceo di via Sant’Eulalia, un indirizzo di composizione fra forme e volumi, ad altri, committenti religiosi o civili, il risultato spaventosamente bello, ora dolce ora inquietante, delle sue produzioni, ad altri ancora, in loggia, l’esempio morale ch’egli non poté mai dismettere, perché replicava quello degli avi, del padre massone scozzese anche lui e del nonno carbonaro addirittura, per la patria italiana una e democratica.
Scrivo di lui nuovamente. L’ho fatto tante e tante volte, dal 1980, dopo averlo frequentato allora già da almeno un lustro. Nel centenario della nascita su L’Unione Sarda e poi ancora, sullo stesso giornale, ricostruendo quanto, per Monumenti Aperti, avevo in suo onore potuto allestire di originale: un percorso cittadino facendo tappa, volta per volta, presso una sua opera collocata in un sito pubblico, ora una piazza o una chiesa ora un camposanto o una facoltà universitaria, ora il conservatorio o l’ex EPT, ora il museo diocesano o la Banca d’Italia, ora la Camera di commercio o l’Ospedale civile o la Biblioteca nell’ex seminario di via Università… più di venti stazioni, da un capo all’altro di Cagliari, dalle pendici del colle San Michele al Poetto, passando per i quartieri antichi e quelli moderni. All’insegna di “Umanesimo cristiano e umanesimo massonico nell’arte civile di Franco d’Aspro”, allestii una mostra di sessanta pannelli fotografici a palazzo Sanjust, nel 2012: proprio in quel palazzo Sanjust disgraziatamente offeso di recente, offeso proprio a partire da un manufatto d’arte presente nella stessa sala in cui s’alza un’altra bellissima opera di Franco d’Aspro, vale a dire il busto bronzeo di Armando Corona, già Gran Maestro dell’Ordine.
E’ del busto in gesso pesante di Giovanni Bovio che parlo, opera di Giuseppe Boero datata 1905, doppione del monumento in pietra bianca collocato in quello stesso anno nello square delle Reali. Ed è singolare, e rattrista assai che, proprio in questo venticinquesimo della memoria di d’Aspro, d’arte offesa, e offesa proprio nella casa massonica, si sia dovuto trattare e ancora lo si debba con tanto sfogo di malinconie. Credo – essendo lui con noi – ne avrebbe avuto oggi, d’Aspro, dolore indicibile: la barbarie dei sentimenti entrata in alcuni cosiddetti massoni (massoni del cartone con cui hanno costruito carriere di vanagloria) sotto l’occhio soddisfatto di altri barabba, sotto l’occhio chiuso di molti ignavi, sotto l’occhio impaurito degli innumerevoli nicodemici.
d’Aspro, maestro d’Arte e di Loggia
Ripenso a d’Aspro, al quale fui legato da grande personale affetto, in mille modi espresso, dal 1975. L’anno successivo lo ebbi, insieme con molti altri massoni non tesserati al Partito Repubblicano Italiano, sottoscrittore di un appello elettorale a favore dell’edera che era stata il simbolo della mazziniana Giovane Europa e per un galantuomo candidato, intendo Lello Puddu, allora presidente dell’EAF, l’Ente Flumendosa, in staffetta con Umberto Genovesi, altro massone galantuomo.
Nelle sofferenze dell’infarto poi superato ma non senza postumi, nelle difficoltà familiari anche quelle inaspettate, nelle fatiche della ripresa del lavoro ogni volta con volontà, e anche però nel bisogno di riordino di carte – quante me ne donò, e per gli aspetti massonici quanti ne donò al mio Archivio storico generale della Massoneria sarda! – per vent’anni cercai, in ogni luogo, di essere presente al suo bisogno e di essere pronto a ricevere il suo magistero di vita.
Così dopo, quante volte anche dopo. All’indomani della morte, quando passò una vulgata che lo dava, in limine, come abiurante la Massoneria cercai di correggere, ma L’Unione Sarda censurò; tre anni dopo, quando proposi al Maestro Venerabile della loggia Hiram di programmare un convegno sulla sua opera artistica e la testimonianza di libero muratore, e ancora non ebbi risposta né per il sì né per il no; in replay nel 2005, con analoga conclusione… Poi realizzai un libro biografico – Franco d’Aspro, maestro d’Arte e di Loggia (dopo una anticipazione, circa il suo Paganini, in un altro mio libro – Ricerche Ricordi Riflessioni Anno 2001) e questo potei presentarlo, per la gentilezza dell’allora presidente del Collegio circoscrizionale Andrea Allieri, nella sala doppia di piazza Indipendenza. In appendice al presente articolo riporto il testo, inedito, di quella conversazione avvenuta appunto in una casa massonica allora affollatissima.
Già nel settembre 2002, nella biblioteca comunale di Elmas, avevo presentato un recital – che sostenni, davanti al pubblico, io stesso (certamente non professionista del campo, ma incoraggiato almeno dalla buona volontà) e con la partecipazione del giovane Giuseppe Mazza (allora d’aiuto alla comunità di padre Morittu) – che della vita di Franco d’Aspro ripassava le fasi principali, da quel 1938 in cui aveva messo piede in Sardegna per la prima volta, per una mostra alla galleria Palladino di via Manno… Si esibirono con noi due giovani maestri del conservatorio di Cagliari: Giuseppe Pani al violino (quello stesso antico e prezioso dello scultore!) e Antonella Ferru alla pianola…
Dieci anni dopo, l’ho detto, la mostra dei sessanta pannelli fotografici e, a seguire, lo speciale che potei confezionare per L’Unione Sarda, maggio 2012.
Ripenso a questo e ripenso a Giuseppe Boero, scultore come d’Aspro, più vecchio di d’Aspro di 35 anni e deceduto, neppure sessantenne, quasi alla vigilia dell’arrivo di d’Aspro nella nostra Isola. Fu quasi un passaggio di testimone, un ideale passaggio di testimone.
E con d’Aspro e Boero – quest’ultimo, allievo alle Belle Arti romane e allievo di Ettore Ferrari, iniziato massone presso la loggia La Regola della capitale, affiliato nel 1902 alla Sigismondo Arquer e qui promosso fino al XVIII grado della piramide scozzese – ripenso anche agli altri scultori sardi (o di residenza sarda) che con loro condivisero, in un vasto arco temporale, le idealità umanistiche della Libera Muratoria e la stessa esperienza di loggia. Ognuno con le caratteristiche del proprio genio, in allargamento o meno alle altre forme d’arte come la pittura o l’incisione, la caricatura anche…
(di caricature fu un formidabile produttore proprio il Boero, basta vedere la collezione de La Domenica Cagliaritana, in uscita settimanale nel primissimo Novecento, le cui tavole sono in parte riprese dal bellissimo Casteddaius, a cura di Giuseppe e Attilio Della Maria, uscito mi pare nel 1977; una bella selezione ne proposi alla mostra, di cui altre volte ho riferito, che montai a palazzo Sanjust nel novembre 2013).
Arte e artisti nella Libera Muratoria, e Oterfut, Eterkin e Mohabon
Mi vien su un sentimento: di dedicare questa breve e sommaria ricostruzione a d’Aspro certamente, ma in modo speciale a quel Boero artiere della Sigismondo Arquer che donò alla città e alla sua loggia i due busti di Giovanni Bovio, in quell’inizio di Novecento: il primo, pubblico, fu abbattuto – secondo testimonianze, purtroppo non documenti, meno che meno fotografie – da facinorosi fascisti; il secondo, fra le suppellettili della sede di via Barcellona, dapprima sequestrato dai questurini nel 1925 quindi imprigionato nei magazzini del Comune per quasi mezzo secolo, e nel 2020 e anche prima dileggiato da presunti massoni (o veri contromassoni: Oterfut, Eterkin e Mohabon) con la copertura drammaticamente infausta dell’attuale presidente circoscrizionale, il dignitario apicale della Obbedienza. Incredibile. E incredibilmente doloroso. Segno dei tempi, mi si dice: ma sono tempi cui non mi voglio rassegnare.
Fu massone, degli scultori sardi di fine Ottocento primo Novecento, il carlofortino Aleardo Bonsignori, classe 1883, iniziato subito dopo la grande guerra in una loggia di La Spezia (l’Era Nuova) e qui promosso anche alla maestria. Fu massone Carlo Cantoni, iglesiente classe 1872, iniziato nel 1904 e fatto Maestro a Milano (alla Cisalpina-Carlo Cattaneo). Fu massone, e rinomato a Cagliari dove lasciò tante opere anche in luoghi pubblici, a cominciare dal municipio (tra fregi e stemmi bronzei) e dal cimitero di Bonaria, Andrea Valli, carrarese classe 1871, iniziato fra le Colonne della Sigismondo Arquer nel 1908 (appunto quando iniziarono le decorazioni interne al nuovo palazzo comunale di via Roma): studio a palazzo Chapelle, produsse soggetti religiosi per altari addirittura newyorkesi, un presepio per il Ricovero di mendicità cittadino (così nel 1902 e, molti anni dopo, un presepio “di guerra” o “del soldato”), la maschera del professor Raccioppi preside di Giurisprudenza a Cagliari, involatosi ancora giovane e amatissimo, ed altre opere per Iglesias e i camposanti del Sulcis…
Fu scultore a Sassari ed in forza alla Gio.Maria Angioy, iniziato lo stesso anno di Valli, Attilio Nigra (che fu anche musicista e artista di esperienze nazionali e internazionali), del quale molte opere si trovano soprattutto nella città natale, e fra esse nel cimitero civico. E scultore sassarese fu anche Riccardo Bovi Campeggi, che la sua attività artistica svolse per lo più sul continente (massonicamente incardinato nella stessa Cisalpina-Carlo Cattaneo del Fratello Cantoni).
Ci sarebbe poi da citare Francesco Ciusa – alla cui biografia tante e tante volte ho dedicato studio e scritti –, del quale qui richiamo soltanto l’origine nuorese e la militanza latomistica nella cagliaritana Sigismondo Arquer, dal 1912. E con Ciusa il grande scultore sarebbero da ricordare, maestri d’arte nello stesso periodo, i pittori e gli incisori, taluno dei quali forse non mancò di provarsi anche nelle attività plastiche: da Guglielmo Bilancioni ad Antonio Ghisu, da Melchiorre Melis a Mario Delitala, da Battista Rossino a Edoardo Perrotti, ecc.
In questa ideale galleria non mancherei certamente di collocare Giuseppe Bosich, di recente involatosi con i suoi infiniti meriti, radicato nella Massoneria oristanese, e Giustino Angioni, che divise la sua vita fra Sassari e Nuoro (dove operò nel gruppo P), mentre nel corrente vorrei collocare Carmine Piras, ancora fortunatamente e felicemente creativo nella sua Oristano, fra bottega d’arte e loggia Ovidio Addis…
Boero e il suo Bovio
E torno adesso a Pippo Boero e al suo Bovio destinato alla loggia. La Sigismondo Arquer aveva contribuito, e non per poco, a finanziare l’opera: con cento lire sulle 558,05 raccolte complessivamente nella questua popolare. La commissione dell’opera venne all’artista (già “padre” del Verdi, per il quale nel 1901 aveva chiesto soltanto il rimborso delle spese vive) il 13 giugno 1904, ad un anno e pochi mesi dalla morte del filosofo tranese. Subito egli si immerse nel lavoro, realizzando la maschera che sarebbe servita di modello per il busto in marmo. E riterrei che quello che ho sempre chiamato il “doppione in gesso pesante” sia proprio il modello in gesso realizzato in poche settimane dallo scultore. Si immaginava, da parte del comitato promotore (tutto di militanza repubblicana ma con… l’alito della loggia), di poter concludere l’intera operazione, e perfino inaugurare il monumento, a metà settembre. E invece…
Il Consiglio comunale – con presidenza dal 1900 affidata al sindaco Giuseppe Picinelli, un fedele bacareddiano più sul piano della amministrazione spicciola che non su quello dei grandi progetti né entro le coordinate ideali del liberalismo o addirittura della liberaldemocrazia proprie del fondatore, nel campale 1889, del partito della Casa Nuova – tardò a deliberare: così sul terreno da concedere per la erezione del solenne busto bianco come sulla dedica da autorizzare in accompagnamento. Circa il luogo, taluno ipotizzò poter essere la piazzetta Mazzini – dove un giorno sarebbe stato innalzato un altro busto non meno fiero, quello di Giordano Bruno –, poi invece si opzionò lo square (segnalato dal Consiglio d’arte del Municipio).
Enrico Sanjust di Teulada, il conte palatino capo riconosciuto del movimento guelfo cagliaritano già da almeno vent’anni, forse trenta – interlocutore privilegiato degli arcivescovi in successione Balma, Berchialla, Serci e Balestra, editore-direttore dei quotidiani La Sardegna Cattolica (dal 1896 al 1906) e Il Corriere dell’Isola (dal 1907 al 1913) –, non s’era tenuto per sé le ampie riserve che covava in seno: «voterà negativamente per qualsiasi ubicazione. Ad ogni modo se si venisse nella determinazione di permettere il collocamento del busto in una piazza pubblica propone che l’Amministrazione inviti il Comitato a modificare la scritta: “A Giovanni Bovio, la Sardegna” perché la statua non è una manifestazione dell’Isola ma solo dei repubblicani di Cagliari, che sono pochini», questo si legge nel verbale consiliare; il sindaco, già descritto press’a poco come un cattolico tirato verso i liberali da Bacaredda (assessore della giunta) e verso i clericali dai sanjustiani, aveva allora cercato di mediare: «la giunta, nel proporre che sia permesso al Comitato di erigere il busto a Giovanni Bovio, partì non da un concetto politico ma unicamente da quello di rendere omaggio all’ingegno del filosofo. Ma il Comitato non deve imporsi e non deve parlar a nome della Sardegna tutta: perciò ritiene che si debba rifiutare la legenda, quale è stata proposta». Così ancora il verbale della seduta.
Dionigi Scano, che parrebbe aver avuto una esperienza breve in loggia (la documentazione è scarsa), espresse nella circostanza un giudizio piuttosto largo e interessante: «un omaggio alla fermezza, alla cultura ed al carattere adamantino del Bovio non può e non deve essere manifestazione di un partito politico e questo l’intese il Comitato quando allargò la sottoscrizione a tutti i cittadini e questi, senza distinzione di partito e di scuola, accettarono l’invito e portarono il loro contributo pecuniario. Trova ridicolo l’imprimatur che si vorrebbe applicare all’iscrizione, quasi un ricordo d’altri sistemi cari al collega Sanjust, e propone che non si porti modificazione alcuna alla legenda proposta». Ecco un altro stralcio del verbale consiliare.
Altri intervennero ulteriormente con varietà d’opinioni, da Macis a Vivanet e, ancora, Sanjust. La conclusione fu che, per alzata di mano, il Consiglio condivise il “no” alla dedica (si sarebbero levate allora le proteste fuori palazzo, quelle dei repubblicani e dei socialisti, e anche quelle dell’Unione universitaria anticlericale), giusto in linea con la proposta Sanjust e contro l’opinione dei liberali e anche dei pochi massoni presenti (Macis e Gioda, a non contare Scano); circa l’ubicazione si sarebbe tenuto conto dei suggerimenti dell’Ufficio d’arte.
Infine, come sempre capita in democrazia, i… destri dovranno tener conto dei sinistri, e i sinistri dei destri. La dedica sarà “A Giovanni Bovio, 1905”. E tutti saranno, davvero o per finta, soddisfatti.
Pippo Boero s’è occupato di tutto: della base in calcare, del marmo bianco per il busto. Lo zoccolo di pietra, sobriamente squadrata, reca in bassorilievo una ghirlanda d’alloro sul limite del dado. Quest’ultimo, sul fronte, porta un fascio di verghe sormontato da un berretto frigio e una targa con la scritta convenuta: “A Giovanni Bovio, 1905”.
Le dimensioni sono quelle previste: una volta e mezza il naturale. Lo sguardo volge appena a destra, austero, pensoso. Bronzo scuro Verdi, marmo chiaro Bovio, e tutt’attorno il verde alto e basso dello square che da un lato guarda la stazione ferroviaria e, all’opposto, la via Roma e il porto; dalla parte dei cancelli s’erge il gran cantiere del nuovo palazzo municipale che sarà completato, in quanto alle murature, non prima di due anni ed accoglierà Consiglio e giunta non prima del novembre 1914.
Della cerimonia di scoprimento e dei discorsi e delle contestazioni al sindaco ecc. ho riferito altre volte. Una processione laica, con musica – l’Inno di Garibaldi e altro – e rappresentanze di numerosi sodalizi cittadini, delle scuole, delle società sportive, ecc. da palazzo Valdès allo square, in discesa, un misto di umori per il risultato ottenuto e malumori per il modo nell’assemblea all’aperto sotto un cielo nuvolo e minaccioso, e quel solito intervento del delegato di PS che zittisce uno degli oratori quando accenna qualche critica alla monarchia e ai ministri sabaudi bacchettanti in città, a spese del bilancio comunale che invece non ha trovato risorse per sostenere, neppure in minima parte, i costi del monumento... Da palazzo Valdès – dove ha sede modestissima, tutta francescana, la sezione repubblicana, con ingresso nella via Sulis – allo square dunque, e poi la risalita per la via Manno, con le bandiere rovesciate al momento di passare davanti al consolato austriaco, per dover pensare alla Triplice e ai nostri irredenti. Di sera una bicchierata in onore di Boero, l’allievo di Ettore Ferrari, di quel mazziniano d’acciaio da un anno ormai Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, successore di Ernesto Nathan. Di quel Ferrari autore dello spettacolare monumento a Giuseppe Mazzini commissionatogli nel 1902 e il cui bozzetto fu pronto anche quello nel 1905 ma divenne opera piena soltanto nel 1922 ed inaugurata addirittura nel 1949 – saltando la dittatura e la guerra –, oggi all’ammirazione nel grande piazzale Ugo La Malfa.
Delle arti plastiche e dell’ars regia
E’ un gran bel mondo, e ricco di personalità geniali, di talenti sorprendenti, seducenti e incantatori quello dell’arte che si sposa, e quando si sposa, alla cosiddetta ars regia, al lavoro delle logge cioè, naturalmente delle logge che credono alla missione ed hanno matura consapevolezza dei loro doveri, in linea con la Tradizione umanistica dei secoli.
Nei dizionari biografici che puoi consultare ovunque (e ve ne sono anche editi dal Grande Oriente d’Italia ora con Erasmo ora con Mimesis – si pensi a Mille volti di massoni, curato da Giordano Gamberini, che rimonta addirittura al 1974, oppure a L’Italia dei Liberi Muratori, di Vittorio Gnocchini, del 2005) – trovi nomi e profili quanti ne vuoi. Certamente, la lista dei figurativi, dei maestri delle più varie tecniche e del colore, dei ritrattisti, ecc. è la più folta ed almeno cento ne trovi di nomi, sui livelli alti e altissimi riconosciuti dalla critica, soltanto nel Novecento. Né la Sardegna manca alla chiamata: basterebbe pensare a Mario Delitala, artiere della Karales, iniziato nel 1914, intimo di Francesco Ciusa, e già prima evocato. Gli scultori però costituiscono una corporazione nella corporazione – intendo il termine nel senso migliore ovviamente – ed i nomi appaiono eccellenti fra le varie nazionalità e nelle diverse epoche… E peraltro andrebbe rilevato – ma la cosa è nota e quasi ordinaria invero – che lo stesso artista che lavora con lo scalpello, la creta, il gesso e la pietra e il bronzo non disdegna di misurarsi con i pennelli e la spatola, la matita e la china… e viceversa.
Mi sono preso la briga di una rapida scorsa dei profili biografici degli scultori, come mosso dal desiderio di voler dare oggi, io, compagnia d’eccellenza ai miei d’Aspro e Ciusa e Boero…
Valga l’intenzione: Jean Antoine Houdon, francese del tempo della Rivoluzione, autore fra l’altro dei ritratti di diversi confrères suoi contemporanei come Voltaire e Franklin e poi anche George Washington; con lui e suo contemporaneo anch’egli, il danese Bertel Thorvaldsen, amante del classicismo greco (fu considerato il successore del Canova!) e autore di un celeberrimo monumentale Cristo realizzato a Roma ma destinato alla cattedrale di Copenaghen; l’americano – lui a scavalco di secolo, fra XIX e XX – Charles Keck, accademico a New York, autore di qualche decina di sculture architettoniche e di memoriali tanto negli USA quanto in Canada e nell’America latina (dal Brasile all’Argentina) e fra i protagonisti al concorso d’arte associato alle Olimpiadi estive del 1932…
E metti ancora il nostro connazionale, piemontese di Casale Monferrato, Leonardo Bistolfi, figlio di scultore e autore di opere diffuse in patria (un Garibaldi a Sanremo, un Carducci a Bologna, un gruppo chiamato della Croce a Staglieno, un gruppo del Sacrificio sul Vittoriano a Roma, ecc.) e all’estero (a Zurigo, a Parigi, perfino in Giappone), un’attività intensissima e un tardivo stallo vitalizio nel Senato regio… Metti Camillo Broggi, milanese, studi a Brera, esposizioni e premi a Barcellona, Londra, Buenos Aires, Andermatt, Lugano, Milano… (sgradito al regime fascista e marginalizzato per la sua trascorsa appartenenza massonica)… Metti Elmo Palazzi, perugino, anch’egli a scavalco, come i più, fra Otto e Novecento. Sua un’opera grandiosa a Città di Castello, evocatrice della liberazione della città, da parte dell’esercito piemontese (non ancora italiano) dal dominio pontificio nel fatidico 1860, lo stesso anno della spedizione dei Mille! Collaboratore di Ettore Ferrari (e suo discepolo anche nel repubblicanesimo e nell’arte massonica) e fondatore dell’umbra Scuola Operaia Bufalini, suoi lavori impreziosiscono il Vittoriano e il ponte Vittorio Emanuele nella capitale, celebrano il grande intellettuale radical-mazziniano Matteo Renato Imbriani a Canosa di Puglia... Metti Vito Pardo, veneziano: suo il monumento al gen. Cialdini e ai combattenti di Castelfidardo, nell’Anconetano liberato dalla teocrazia di Pio IX, lavoro apprezzato per l’originalità delle soluzioni spaziali (“cinematografiche” si disse)…
Metti Arturo Dazzi, carrarese, affermatosi già appena diciottenne a Roma e chiamato poi a Genova e Bolzano, Pallanza e Brescia… Metti Emilio Gallori, fiorentino, verista, autore di opere soggetto patriottico o religioso sul Gianicolo (un Garibaldi, tanto per cambiare!) ed a Pisa, a Firenze (un San Pietro nella facciata del duomo) e ancora nella capitale (un busto di Giuseppe Giusti, un San Giacomo per la facciata della basilica di San Paolo fuori le mura)… Metti Vincenzo Pasquali, maremmano di Grosseto ma con prevalente residenza ligure, con opere soprattutto a Sanremo e Staglieno (e a Genova con un monumento ai caduti nella grande guerra destinato a rimozione nel 1940 per essere fuso nel Centro Raccolta Metalli!).
Metti ancora Antonio Ugo, palermitano (accademico di San Luca e nella sua città professore dell’Accademia di Belle Arti), i cui successi maggiori si legano a Roma e Milano per opere per lo più celebrative di uomini ed eventi della grande storia… Metti Ettore Ximenez, palermitano anche lui, naturalista e ritrattista passato poi al liberty, premiato a Parigi e Torino, con opere in patria a Roma e Pesaro, Parma ecc. ma anche a Buenos Aires (mausoleo del gen. Belgrano) e New York (monumento a Dante e a Giovanni da Verrazzano) come anche a Kiev… Metti Giovanni Prini, genovese, docente di decorazione plastica all’Accademia di Belle Arti della capitale e anche professore onorario a Milano ed al San Luca, ceramista legato ai temi specialissimi del mondo infantile, suo è il gruppo Caino e Abele per il palazzo di Giustizia di Milano e quello della Pietà per la città universitaria di Roma…
Metti in ulteriore Riccardo Ripamonti, milanese, propenso ai temi sociali anche nella scrittura, secondando la parallela vocazione poetica, esposizioni ed opere e premi a Parigi e Milano, Torino e Londra, tante e tante le pagine a lui dedicate dalla Treccani… Metti Filippo Cifariello, barese di Molfetta, verista e ritrattista, autore della statua di Giuseppe Mazzini nel centro storico della sua città e, a compensare i dinastici, del monumento equestre di Umberto I nel capoluogo pugliese… E mettine altri e molti altri, magari come Giuseppe Guastalla, fiorentino, marmi al Pincio di Roma (per celebrare Mario Pagano, giurista sostenitore della Repubblica Partenopea del 1799), bronzi a San Ginesio di Massa Carrara (per celebrare Alberico Gentili, padre del pensiero giuridico europeo) o a Pietrabbondante (con sette metri in verticale a dar onore ai caduti nella grande guerra), ecc., un presente come Maestro Venerabile della romana loggia Gian Domenico Romagnosi e prossimo Sovr. Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico e Accettato…
Provenienze ed esperienze, e logge e città, Valli e Orienti: compagini rituali e simboliche di storia remota o vicina come Les Neuf Soeurs a Parigi e la Zorobabel a Copenaghen, la Greehpoint a Brooklyn, la Giuseppe Mazzini a Sanremo (quante volte e per quanti artisti!) e la Dante Alighieri a Torino, la Cavalieri di Scozia a Milano e la Alberto Mario a Sansepolcro, l’Universo a Roma e la Fantiscritti a Carrara, la Centrale a Palermo (anch’essa coagulo di talenti d’arte) e ancora le romane Romagnosi e Rienzi, la senese Arbia, la milanese La Ragione… Di Francesco Ciusa diremmo la cagliaritana Sigismondo Arquer con delega iniziale, nel 1911, alla oristanese Libertà e Lavoro… E del nostro Franco d’Aspro diremmo la cagliaritana Mazzini Garibaldi d’impianto scozzese nell’immediato secondo dopoguerra – sede in via Macomer –, qui iniziato e subito promosso, fatto poi Venerabile della Leonardo da Vinci che ambiva raccogliere proprio gli artisti, pittori e musicisti… regolarizzato nel Grande Oriente d’Italia nel 1963, presentatosi al Tempio della loggia Nuova Cavour al secondo piano del distintissimo palazzo Chapelle, e sì, qui presentatosi per il giuramento con un testo carbonaro, lo stesso ricevuto in famiglia dalle generazioni…
Aria buona, aria sana, quanti maestri, anzi Maestri! Aria buona, aria sana per dover adesso tornare a quella maligna cui gli infiltrati a palazzo Sanjust negli ultimi anni, privi dei fondamentali etici e culturali della Tradizione liberomuratoria e di quelli storici specifici del Grande Oriente d’Italia, hanno… veneficato, intossicato parte non trascurabile dell’ambiente. Così, con le sregolatezze e gli abusi, le corruzioni vere e proprie dei valori alti della testimonianza civile recata dai galantuomini grembiulati per decine e decine d’anni, dal risorgimento e fino alle soglie della dittatura come nuovamente nel secondo dopoguerra e fino a tempi non saprei più dire quanto prossimi all’oggi.
Di labari violati e d’ogni sentimento offeso
Per una volta, portando la mente ai tempi onesti di Franco d’Aspro ed a quelli più lontani, ordinati – ancorché di segno monarchico e di un liberalismo non ancora democratico – di Pippo Boero, mi era parso che la pagina buia vissuta a palazzo Sanjust in questi ultimi tempi potesse saltarsi e potessimo noi tutti respirare nuovamente l’aria pura della creatività dei migliori. Potessimo, noi che siamo i quidam della scena, limitarci ad ammirare il bello prodotto dallo spirito e dalle mani prodigiose dei nostri artisti. Ad ammirare, nel molto altro, quella delicata composizione detta La Vita che Francesco Ciusa compose alla fine degli anni ’30 – la coppia d’amore e nel mezzo la loro creatura – che la loggia intitolata al grande scultore nuorese usa collocare, ad ogni sua tornata, sull’ara, accanto alla menorah, agli strumenti simbolici del lavoro architettonico, e soprattutto accanto alla Bibbia aperta alla pagina del prologo dell’evangelista Giovanni. Dico limitarci ad ammirare, come prima tavola ispirativa, il decoro dei labari di loggia, delle logge.
Di labari e del loro protagonismo scenico ho scritto altre volte e non vorrei ripetermi. Nella storia massonica cagliaritana si ricordano gli episodi, più o meno clamorosi, del 1872 – l’anno stesso della morte di Giuseppe Mazzini – e del 1907. Nel ’72 fece bella mostra di sé quello della Libertà e Progresso (e forse anche quello della Fede e Lavoro, che aveva sede nel quartiere stesso della Marina): sfilò quel labaro, con il gruppo dei massoni noti alla città, per la via Barcellona, la via Roma e il viale Bonaria, di mezza mattina domenica 10 novembre, cioè giorno dei funerali di Enrico Serpieri. E restò al monumentale, accanto alle spoglie del Fratello passato all’Oriente Eterno, mentre altri ne ricordava le benemerenze, e anche Federico Mereu, delegato della loggia aggiungeva elementi non soltanto della biografia civile ma soprattutto della biografia intima, spirituale, appunto liberomuratoria, dello scomparso. S’inquietò perciò il nuovo arcivescovo Giovanni Antonio Balma, minacciando la sospensione a divinis a quei preti che non avessero da allora in poi abbandonato seduta stante un qualsiasi corteo funebre segnato da presenze ereticali. Perché Serpieri, patriota con radici ideali nell’avversione alla teocrazia di papa Mastai e nelle vicende gloriose della sfortunata Repubblica Romana del 1849 e generoso quanto ricco, fu un… eretico, evidentemente, editore di quel Corriere di Sardegna che ebbe soci proprietari anche i Fratelli Gavino Scano, preside di Giurisprudenza e prossimo magnifico rettore e anche senatore, e Antonio Giuseppe Satta Musio, magistrato e già deputato al Parlamento subalpino, rappresentante del GOI presso le logge sarde (una sorta di ispettore generale) in quei primi anni ’70, intimo di Asproni e fratello germano di quel don Francesc’Angelo rettore di Orune che sarebbe presto caduto per le fucilate di sicari sul ponte di Marreri...
Di labari massonici a Cagliari potrebbe anche ricordarsi, in questa rapida e spero gradevole affabulazione, quello del luglio 1907: nella nuova sede di via Barcellona (i numeri civici riportano ancora alla abitazione ex Serpieri, ma la cosa è da chiarire), la loggia Sigismondo Arquer, già attiva da diciassette anni fra la via GesùMaria (poi Eleonora d’Arborea) e il palazzo Vivanet, da febbraio alla Marina, aveva voluto festeggiare coram populo il centenario della nascita nizzarda di Giuseppe Garibaldi: aveva perciò osteso il proprio labaro verde, con questo irritando i guelfi e tanto più il capo dei guelfi, appunto l’avv. Enrico Sanjust direttore de Il Corriere dell’Isola, che ne aveva fatto un caso di religione. Lo stabile che ospitava la loggia – il palazzo Fulgher – era infatti un prestigioso edificio di storia già bisecolare che la famiglia proprietaria aveva lasciato in eredità alla Congregazione del SS Sacramento nella Marina, che a sua volta faceva capo alla parrocchia di Sant’Eulalia. Doveva essere un edificio da mettere a reddito nei suoi tre (poi quattro) piani per finanziare le attività sociali della Congregazione a favore dei poveri del quartiere e a sostegno delle spese del culto divino da curare particolarmente fra le incombenze stipendiate della storica collegiata parrocchiale.
Labari verdi, talvolta azzurri. Quello della loggia Risorgimento messa su da Alberto Silicani alla fine del 1944, proprio per il “risorgimento” massonico cittadino, oltreché in memoria delle passioni patriottiche liberali e democratiche da tener sempre vive, era celestino, quasi grigio. Esiste ancora, fortunatamente, a palazzo Sanjust ed è ancora oggi, mi dicono, orgoglio di memoria di chi sa cos’è la memoria.
Quasi tutte le logge sarde e cagliaritane, come quelle della penisola e della Sicilia, hanno il loro labaro di color verde. A Cagliari fanno eccezione poche logge: taluna ha preferito il color azzurrino o cilestrino. Comuni a tutti è l’acronimo dedicatorio o vocativo AGDGADU ed il riferimento alla Comunione nazionale (“Massoneria Universale – Grande Oriente d’Italia Palazzo Giustiniani”). Ciascun labaro reca il titolo distintivo della loggia, il numero d’ordine e l’Oriente d’incardinamento. Soltanto in epoca recente – con i rifacimenti le più anziane, con quelli d’esordio le nuove – le logge cagliaritane hanno introdotto elementi figurativi invero gradevoli e sempre pertinenti, oltre il cliché della squadra intrecciata al compasso e magari a qualche intreccio o qualche corona di rami d’acacia, magari alle lettere indicative delle canoniche Colonne B e J distintive delle Camere d’Apprendista e di Compagno rispettivamente. Qualcuna – dicevo – ha dato spazio a qualche moderata variazione o integrazione – come la sagoma della nostra Isola ricamata con fili dorati sullo sfondo verde nel labaro della loggia Sardegna, nata nel 1979 con la vocazione di saldare, con spirito frizzante di gemellaggi nazionali e intercontinentali, lo specifico culturale regionale al quadro universalista della Libera Muratoria. (Quel labaro – mi dicono – è stato poi pensato diverso, con ricorso addirittura a Silius Italicus di duemila anni fa nel motto e in nuove vivaci figurazioni di femmine e rigogli di campagna).
Oggi nella gustosa esposizione che vedi nei Passi Perduti dei sette Templi (disposti nei due piani) e nei corridoi di palazzo Sanjust - esposizione includente anche i labari dei diversi Riti o delle diverse Camere rituali – trovi stilizzazioni esteticamente efficaci della simbologia latomistica: la stessa loggia decana (la Nuova Cavour n. 598 cioè, fondata nel 1959 come gemmazione della regolarizzata Cavour n. 574, proveniente dall’Obbedienza detta AALLAAMM o di via Panisperna – dov’era Sovr. Gran Commendatore il sardo sassarese Federico Farina) dopo il suo restyling presenta al centro del gonfalone un tondo contenente il libro sacro con sovrapposti squadra e compasso ed il triangolo radiante con la G di God; la Francesco Ciusa e la Giordano Bruno hanno condiviso uno stesso modello che riporta, in un tondo circondato dai rami d’acacia, la simbologia dell’operativo, mentre un tondo recante il volto di Mozart è stato prescelto dall’omonima loggia (fondata a suo tempo dal Gran Maestro onorario Vincenzo Racugno, musicofilo d’ottima competenza) senz’altro fra le più attive dell’intero Oriente cagliaritano.
Di taglio araldico sono i labari della Heredom e della figlia Kilwinning – praticanti l’Emulation ritual (così come, di più recente costituzione, la Temple) – ed anche della Kipling: stemmi e motti, “Nisi Dominus, Frustra” la Heredom, “Lux et Veritas, ut incepit fidelis sic manent” la Kipling; la loggia Libertà ha optato per le Colonne e il pavimento-scacchiera del Tempio, con la Bibbia aperta e i più classici e identificativi strumenti della squadra e del compasso sovrapposti, mentre la Quatuor Coronati – nata come loggia di ricerca e nel sistema delle QQ.CC. nazionali e continentali – s’è presentata alla scena, ora sono più di dieci anni, con la più nota rappresentazione delle quattro corone e della spada del martirio di chi patì sotto Diocleziano… Festoso e familiare il quadro della loggia intitolata al Gran Maestro Corona, con la sua stessa immagine accompagnata dal motto ciceroniano “Dubitando ad veritatem pervenimus”…
Cose magnifiche che associano, con il filo del simbolismo, la storia e la spiritualità, il programma e la santità del lavoro, del percorso, della umanità spesa per una causa alta.
E’ però difficile, e forse sarebbe anche ingiusto – lo ripeto –, pur ora nell’abbrivio alle cose belle e sante, dimenticare come, nella stagione nefasta alle spalle (alle spalle?), una figurazione rigogliosa fra le rigogliose, presente nel labaro di una delle 29 logge cagliaritane sia stata lordata, ferita, umiliata da un qualche spirito belluino vagante fra le stanze, in giro soltanto con il suo diavolo custode a suggerirgli il peggio, sempre il peggio. Quella volta vittima fu lo stemma della loggia Heredom – la loggia madre di quella Kilwinning del quale è, o sarebbe, Venerabile – ma Venerabile in che senso? – il personaggio delle pagliacciate con Bovio e senza Bovio, il personaggio degli insulti nientemeno che al presidente della Repubblica ed a quello della Camera, il personaggio dello scherno alla stessa Tradizione rituale liberomuratoria, il personaggio dei motteggi parafascisti, delle insolenze sessiste e del linguaggio correntemente scurrile, lui sul tronetto ancora lì, anche se forse non per molto.
(Mi autorizzo qui una licenza, avvertendo che non conosco direttamente la loggia Kilwinning, e invero neppure la loggia madre Heredom; gusto, leggendolo, il rituale Emulation ma non ho esperienza personale d’esso. Considero l’introduzione di quella ritualità nelle pratiche ordinarie del circuito giustinianeo una ricchezza, perché ha potenziato, in questi ultimi tre lustri, aspetti che una maggior propensione al "pensar civile" delle logge del GOI forse marginalizzava o conteneva entro limiti meritevoli invece di superamento. Studiando i lavori che dal sistema Emulation, come da quello più lato, chiamalo civile per brevità, sono pervenuti e pervengono al mio Archivio storico generale della Massoneria sarda - peraltro sovente alla ribalta di convegni aperti nella sede di piazza Indipendenza o di pubblica conoscenza per il riversamento in articoli e saggi validissimi strumenti di diffusione dei valori etici e spirituali dell'Ordine massonico - ho compreso come vi siano state stagioni, in Sardegna e a Cagliari, di magnifiche produzioni e non so capacitarmi del crollo verticale che, nello specifico della loggia Kilwinning, si è verificato, se non ricollegandolo a presidenze inappropriate, inadeguate, sbagliate, radicalmente contrarie ai fondamentali della Libera Muratoria e civile e rituale. Un Venerabile da definirsi "venticinqueaprilestopardecojoni" è anche più che un Venerabile inappropriato, inadeguato, sbagliato: è uno scandalo, una contraddizione in termini. Amerei molto che, da fuori della porta d’Occidente, mi fosse dato di registrare presto correttivi che dalla stessa loggia sofferente potessero venire a restituire onore e prestigio al consorzio).
Fu sporcato, fu oltraggiato, quel labaro con segni indescrivibili, volgari oltre ogni limite. Nello stesso periodo, e prima e dopo, in cui furono manomesse alcune segreterie, alla ricerca forse di carte credute preziose, forse del denaro raccolto per qualche iniziativa sociale, secondo il costume antico e preservato delle logge migliori, vorrei dire di tutte le logge pensanti… Scomparso anche, una volta, il libro della Torah, che si soleva aprire ad inizio dei lavori, di lato alla Bibbia con il Vangelo giovanneo ed al Corano, a richiamare l’ispirazione e la pedagogia dell’incontro non delle divisioni…
Impossibile farsene una ragione. Vincenzo Racugno, allora ex Maestro Venerabile della loggia Hiram, aveva donato alla Fratellanza cagliaritana – non all’URBS – la casa massonica, così per certo: aveva sognato dei grandi saloni di “stazione civica”, una biblioteca per la pubblica fruizione, tanto più dei giovani; per parte sua l’allora Gran Maestro Corona aveva mediato, cercando sì di capitalizzare la società immobiliare del Grande Oriente, ma insieme preservando, per l’oggi e per sempre, quella destinazione (e infatti il professore, prossimo Gran Maestro onorario del GOI, donò anche un terreno di elevato valore nella periferia di Cagliari perché, alienato, potesse offrire le risorse finanziarie necessarie alla ristrutturazione radicale, naturalmente nel rispetto dei vincoli della Soprintendenza, dell’edificio di piazza Indipendenza)…
Un gran disegno ferito pezzo a pezzo dalle disattenzioni (?) di chi avrebbe dovuto custodire e impreziosire, come fosse opera di religione, perché la Massoneria del Grande Oriente d’Italia, anche nella sua quota sarda e cagliaritana, è “patrimonio morale” della nazione e lo è anche nelle sue dotazioni funzionali.
Sono dolentissime queste considerazioni. Dovevano essere fra loro speculari le pertinenze materiali – nobili per storia e significato – e la libertà dialogica da esprimersi nella serietà dell’impegno e nella cordialità – etimologicamente: cordialità – del rapporto fraternale. Oltre l’associativo, nella dimensione comunionale. E ferite sono venute invece e fanno sangue da tutte le parti e come cagliaritano, oltre che come appassionato alle idealità liberomuratorie, patriottiche e democratiche, mazziniane e repubblicane, ne sono coinvolto.
Io confido che l’autorità e l’autorevolezza dell’Oratore circoscrizionale sardo – vertice di quel sistema interno preposto alla onorabilità dei profili sia personali che delle opere – sappia tempestivamente farci conoscere che nessuna volgarità possa essere tollerata, nessun insulto agli uomini delle istituzioni e tanto meno al presidente della Repubblica possa passare come non udito, nessuno scherno alla secolare tradizione rituale della Massoneria – quella stessa vissuta e praticata dal Gran Maestro Mazzoni e Giorgio Asproni, da Ernesto Nathan e Guido Laj, da Alberto Silicani ed Armando Corona – possa derubricarsi fra le goliardate, pur della classe delle imbecilli, nessuna canzonatura possa imporsi alle suppellettili d’arte della casa massonica.
Per ottenere il risultato occorre che l’Oratore circoscrizionale, davanti a tutti, mostri quella indipendenza intellettuale, quella specchiata coscienza che peraltro ci è nota, quel santo orgoglio del suo ufficio che non cede a pressioni di qualsiasi genere ed a tentazioni al quieto vivere. I materiali di cui egli dispone per le sue valutazioni sono abbondantissimi, altri – tutti purtroppo a carico dei responsabili già segnalati – se ne potrebbero ancora produrre. Ma bisogna fermarci per onorare la misura. E’ l’ora della verità. E’ l’ora della responsabilità dinnanzi alla storia civile della nostra piccola patria sarda e della Comunione liberomuratoria nostra regionale che negli anni ’20, d’ostacolo al fascismo spadroneggiante ed alla ineunte dittatura, poteva godere di uomini come Annibale Rovasio e Mario Berlinguer a Sassari, come Alberto Silicani e Pasquale Scuderi («perseguitato, arrestato e condannato, fedelissimo») a Cagliari, i quali alle convenienze miserabili di parte non si chinarono mai.
Ogni anno escono nelle province d’Italia almeno quindici volumi d’argomento storico massonico. Un giorno uscirà, magari confinato nel paragrafo d’un capitolo – e non importa –, la storia che abbiamo vissuto quest’estate nella nostra Isola. E il giudizio dei posteri calerà sui nostri nomi: per allietare o per mortificare coloro che alla nostra memoria avranno fino ad allora guardato?
E intanto seguo le cronache bielorusse, le prepotenze e le violenze imposte all’opposizione dal dittatore Lukashenko («amato dal suo popolo» disse nel 2009 un presidente del Consiglio italiano, estimatore anche di Putin, tenente colonnello del mai rimpianto KGB, il Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti comunista sovietico, e collaboratore della Stasi tedesca). I dittatori sono padroni della scena per un giorno, un giorno – un giorno anche se lungo – nella storia, ma non saranno padroni della storia. Credo alla storia da «indagare» per «reagire», come scrisse uno dei massimi interpreti del pensiero crociano attribuendo al grande filosofo liberale un’ansia morale da spendere nel presente, nell’urgente presente…
Devi accedere per poter commentare.