Quarantotto vescovi sardi nel tormentato Ottocento italiano: le loro biografie in un libro curato da Francesco Atzeni e Tonino Cabizzosu
di Gianfranco Murtas
In copertina il ritratto, piuttosto noto, dell’arcivescovo Giovanni Maria Bua – presule ad Oristano e per molti anni anche amministratore apostolico a Nuoro – rimanda alle fatiche preparatorie del Risorgimento politico (e costituzionale) italiano, quello attraversato dai moti del 1821 e del 1831, ora liberali ora carbonari, e degli altri ancora, naturalmente lui – nella logica del trono-ed-altare – dalla parte avversa: dapprima amico fidato e perfino protettore di Giorgio Asproni, presbitero della Chiesa barbaricina, e poi a lui ostile, causa (o concausa) forse inconsapevole e precoce del progressivo ma radicale cambio di riferimenti e ruolo del “canonico ribelle” fattosi dal 1848 rappresentante popolare e d’eccellenza nel parlamento prima di Torino, quindi di Firenze, infine di Roma. (Mi piace poter… tirare in ballo, senza per questo uscire dal tema nelle presenti libere e forse disordinate riflessioni, la figura di Giorgio Asproni, esponente repubblicano della opposizione alla destra cavouriana e postcavouriana, subalpina prima e nazionale dopo, dovendosi trattare dei vescovi sardi dell’Ottocento: meriterebbe rilevarne e indagarne più approfonditamente relazioni, ora di prossimità ora di contrasto, ed i singolari scambi dialettici con diversi fra essi, ad iniziare proprio dal Bua per arrivare, venti e trent’anni dopo, al Demartis – a lui soprattutto! –, e prima di lui al Marongiu Maccioni ed allo Zunnui-Casula… e ad altri ancora come il Varesini sassarese, anch’egli mandato in provvisoria supplenza a Nuoro. Il celebrato Diario riferisce di decine di incontri e “interessamenti” – sorprendenti interessamenti perfino per propiziare carriere o rovesci – aventi ora soggetto corrispondente ora oggetto di trattazione ecclesiastici e presuli sardi e protagonista attivo ovviamente il Bittese, nonostante tutto bene inoltrato nelle segrete stanze della Sede apostolica, o chiamala soltanto Curia romana).
La gloria della copertina concessa al Bua iniziatore – a dir soltanto di Chiesa e chiese – della cattedrale di Santa Maria della Neve in Nuoro e, già prima, del seminario diocesano, e con il seminario anche di un decoroso episcopio ed una ricca biblioteca, negli anni inquieti chiamati, nella grande storia, della Restaurazione post-napoleonica, allude ad una sorta di sua rappresentatività dei caratteri prevalenti nel ceto episcopale sardo di un secolo – l’Ottocento – di cui tratta uno dei più recenti libri curati da Tonino Cabizzosu, stavolta in associazione con Francesco Atzeni, già ordinario di storia contemporanea ed anche prorettore dell’Università degli studi di Cagliari. Dirò di entrambi i valorosi curatori, ma intanto ancora mi soffermo sulla copertina di questo Dizionario biografico dell’episcopato sardo, uscito per i collaudati tipi della PFS-University Press (la facoltà Teologica della Sardegna a conduzione gesuitica), tutto dedicato al secolo divenuto, decennio dopo decennio, il secolo della tremenda dilacerazione fra Stato e Chiesa in Italia, e volume secondo della serie dopo quello riferito al Settecento (1720-1800) uscito nel 2005 per i tipi della AM&D edizioni nell’ambito della collana “Studi e Ricerche” promossa dal cagliaritano Centro Studi “Damiano Filia” e dall’Archivio Storico Diocesano di Cagliari (a suo tempo egregiamente diretto dallo stesso Cabizzosu, oggi purtroppo spento nelle iniziative di pubblico richiamo).
Il programma editoriale prevede altri due volumi con focus temporali orientati rispettivamente al Seicento spagnolo (in due tomi) e al Novecento dalle numerose stagioni ormai però tutte saldamente italiane. Può dirsi così: al secolo spagnolo (o spagnolesco, barocco e controriformista, all’indomani del Concilio di Trento), in cui si distingueranno senz’altro, quantomeno nella prevalente area cagliaritana, dopo l’anticipazione del Parragues de Castilejo, figure come quelle di Francesco Desquivel promotore degli scavi paleocristiani e della sfida circa il “primato”, Ambrogio Machin il mercedario già di sede algherese e difensore della “sanctitatis beati Luciferi archiepiscopi calaritani”, Bernardo de la Cabra promosso all’episcopato dal pontefice che aveva condannato Galileo e rimasto infine vittima della peste parteollese, ed infine Pietro de Vico sassarese di nascita ed oristanese di carriera transitoria (promosso all’episcopato anche lui da Urbano VIII), cui si deve molto delle trasformazioni della monumentale cattedrale di Santa Maria regina dei sardi: quattro arcivescovi, sessantacinque anni di quasi ininterrotta guida diocesana all’ombra di Filippo IV d’Asburgo il grande.
E, da quest’altra parte della storia, al secolo tutto italiano nei passaggi dal giolittismo al fascismo, dal guelfismo democristiano alla… come definirla? secolarizzazione modernista, era di avanzamenti civili e – nella ormai conquistata piena integrazione (a rischio finanche di omologazione) sociale – di crescenti inquietudini esistenziali, di nuovi orizzonti valoriali di massa, di ricollocazioni umanistiche determinate anche dalle sorprendenti e progressive scoperte scientifiche, fra genetica ed astronomia, fra dna e buchi neri, volte le une al dio troppo piccolo e le altre al dio troppo grande, inafferrabile l’uno e inafferrabile l’altro…
Missione vescovo
Meriterebbe forse ambientare, o riambientare, il magistero specifico della Chiesa cattolica e le funzioni materiali dei suoi leader territoriali – i vescovi appunto – nel difficile e complesso crinale fra principi algidi ed umanità calda, fra il cielo di Dio (o del Dio dei manuali di teologia) e la terra sociale, e rilevare quanto, nella storia data, sempre nuova e diversa, abbia saputo e sappia, quella classe clericale/episcopale inveratasi nella cosiddetta successione apostolica, sviluppare la sua azione pedagogica ben oltre le angustie sprecate del devozionismo o del miracolismo popolare. Direi anche: quanto, nella storia data, essa (e con essa ovviamente tutto il corredo delle collaborazioni canoniche strutturatesi attorno alle cattedre vescovili) abbia saputo, e ancora sappia, nel concreto, accompagnare e promuovere a più elevate consapevolezze anche civili – anche civili! – il popolo di missione consegnatole dai poteri del pontefice romano (per lunghi secoli in concordia con i poteri regi e profani).
Sotto questo profilo credo che lo studio della missione vescovile così come espressasi – metti nella nostra terra sarda – nella sequenza delle varie epoche storiche, fra dottrina e socialità, limiti imposti dagli ordinamenti pubblici (fino agli arrivi liberali e democratici) e sviluppi del quadro delle scoperte scientifiche (in giusta corrispondenza alla riduzione degli spazi riconosciuti all’ancestrale), possa rivelare in tutto l’Ottocento – seppure diversamente fra il prima e il dopo degli snodi costituzionali (per l’Isola in coincidenza con la “fusione perfetta” del 1847) – un piede lento, incapace, se non in rare eccezioni, di quella radicalità, o approssimazione alla radicalità, che le tavole evangeliche pure chiedono, chiedevano e chiederanno sempre, a ciascuno. In specie ai pastori del gregge appunto evangelico.
Gli è che l’intera complessione “ecclesiale” del secolo si schiacciava, in Sardegna come nell’Italia intera, e certamente per il più dei pesi temporalisti del papato, nella dimensione “clericale”. Se il patriziato nero titolare del parassitario latifondo romano, puntello della teocrazia dei Leone, dei Gregorio e dei Pio… in successione e aggiornamento degli ordinali, trovava corrispondenza, all’interno delle diocesi pur anche periferiche e povere, nelle paternalistiche reti dell’aristocrazia rurale che sosteneva con l’elemosina l’altare e l’immutabilità antiliberale, è chiaro che soltanto lo spirito profetico dei singoli avrebbe potuto portare il Vangelo in apertura della storia nuova che, invece, toccava a razionalisti e democratici di introdurre.
Nella gran pasta della storia, in cui è impossibile distinguere dove sia tutta virtù e dove siatutto vizio, il percorso compiuto dagli uomini di chiesa e dalle loro comunità (invero piuttosto suddite al pari o nella medesima cadenza del loro rapporto civile con l’autorità statuale) deve essere visto ovviamente nel chiaroscuro proprio della condizione umana e, nel caso, ricordare come accanto a personalità compromesse con le rigidezze forse senz’anima dei tempi s’alzavano figure esemplari per pietà e spirito caritatevole nei conventi e nelle famiglie.
Prima del XIX, il XVIII secolo
Illuminava la raccolta di schede biografiche riguardanti il XVIII secolo – il secolo marcato dalla presa savoiarda dei destini isolani – l’immagine di Diego Gregorio Cadello (arcivescovo di Cagliari dal 1798 al 1807), certamente il leader, non fosse altro che per il rango cardinalizio concessogli da papa Pio VII, dell’episcopato isolano suo contemporaneo. Giunto alla mitria in limine di secolo, Cadello era stato comunque, da dignitario capitolare di Cagliari (e vicario del famoso monsignor Vittorio Filippo Melano coinvolto in positivo nelle vicende della ribellione antipiemontese del 1794), fra i protagonisti della scena ecclesiastica sarda di buona parte del Settecento, allenato al comando e alle negoziazioni dall’esser nipote (nel filone materno, essendo egli un Cadello-Cadello) del vescovo di Ampurias e Civita Salvatore Angelo… Rocchetto e, sopra, la mozzetta rosso sangue – così nel celebre ritratto che ne fissa i tratti fisiognomici e pare rivelarne la sincera pietas religiosa –, il cardinale era stato anche canonico di Santa Barbara a Villacidro, quando Villacidro – il centro di maggior rilievo nella vasta piana fra Cagliari ed Oristano – apparteneva alla archidiocesi metropolitana, prima che per le intese intervenute con il vescovo carmelitano Giuseppe Maria Pilo fosse permutata con Villamar e in direzione di Ales e Terralba.
Un riferimento, quest’ultimo, che mi è parso doveroso inserire qui per compensare, in qualche modo e misura, il ceto episcopale dal giudizio di riserva sopra espresso: ché il vescovo Pilo – ottimamente biografato in vari suoi studi da Giovannino Pinna, studioso di valore e sacerdote-parroco purtroppo prematuramente scomparso alcuni anni fa, e da Emanuele Boaga nel richiamato collettaneo Dizionario biografico dell’Episcopato sardo / Il Settecento, 1720-1800 – fu un autentico profeta sociale come promotore dei Monti frumentari in soccorso dei lavoratori della terra.
Dei ritratti figurativi e non solo: Giovanni Maria Bua
E dunque ecco adesso monsignor Bua, figura emblematica, nella riflessione e nella scelta finale dei cocuratori, dell’episcopato sardo dell’Ottocento, o almeno della sua prima parte, quella che precede le evoluzioni politiche e costituzionali chiamate a far cesura nel secolo. Il che a me sembra meriti una maggiore e ragionata specificazione, dopo aver certamente condiviso l’eccellenza della personalità premiata: che, cioè, quel secolo di tanta sofferenza fu come diviso in due parti polarizzate verso i due estremi temporali d’inizio e di fine, in rapporto alla storia generale, politica e non soltanto ecclesiastica o papale, dell’Italia in viaggio dalle campagne napoleoniche alle stabilizzazioni crispine e giolittiane, in mezzo mettendoci appunto tutto il buio della restaurazione – con i toni dell’alleanza fra trono ed altare (e Bua, pur con tutta la sua nobiltà, entrò in tale contesto) –, i moti risorgimentali e le guerre dell’indipendenza, le costituzioni e l’unità territoriale e politica infine con Roma capitale. Per vent’anni circa, dalla metà del secolo agli anni (per il grosso) ’70, l’Isola fu infatti privata dal potere governativo, prima sardo-piemontese, poi nazionale italiano, dei legittimi poteri vescovili, e le diocesi furono tutte – con l’eccezione interessantissima di Iglesias – affidate ai governi precari dei vicari capitolari. Fra i quali – sarebbe bene dirlo subito – eccelsero figure, come quella di don Tommaso Muzzetto, ordinario ad Ampurias e Tempio dal 1855 al 1871, ben degne di rappresentare, con valore di testimonianza appassionata, la missione evangelica nuce d’ogni ufficio clericale.
Bua fu un vescovo… credente. Con una sua spiccata spiritualità cioè, una dimensione sacerdotale che, forse perché unita ad una evidente e riconosciuta capacità di governo, ne fece un vero e proprio leader ben oltre i limiti della sua giurisdizione, egli prese mitria e pastorale ad una età che, per il tempo, era già avanzata: 55 anni, preceduto da una fama che Raimondo Bonu, nella ben conosciuta sua Serie cronologica degli arcivescovi d’Oristano, sintetizza nella formula del “fortiter et suaviter”, sintesi della più efficace ciceroniana “fortiter in re, suaviter in modo”.
Nel suo paese – Oschiri –, al tempo afflitto da contrasti perfino cruenti fra famiglie e fazioni (che rimandavano all’applicazione della legge sulle chiudende ed avrebbero un giorno indotto Vittorio Emanuele II a decretare lo stato d’assedio nel territorio comunale), egli portò parole ed azioni di pacificazione, comprendendo le ragioni di tutte le parti e insieme proponendo-imponendo ragioni superiori in cui tutti, o quasi, seppero infine riconoscersi. Questo fu alla vigilia quasi della ricostituzione della diocesi di Ozieri, in cui Oschiri sarebbe stata ricompresa, e quando cioè la parrocchia di Maria Immacolata dipendeva ancora, ma giusto sul punto di essere ceduta, dal vescovo di Alghero (deceduto monsignor Radicati, marchese e conte, domenicano in religione, la diocesi era rimasta allora scoperta per un decennio circa e avvenne in quel quadro temporale che quasi si dimezzò cedendo ampie porzioni del suo territorio alla rinata Chiesa othierensis. E dunque, fu allora una comunità, quella oschierese, doppiamente orfana in quel frangente, tant’è che ad ordinare don Bua era stato l’anziano monsignor Michele Pes, vescovo di Ampurias e Civita).
Ebbe sì, lui più di altri, così a Nuoro – Chiesa povera – come ad Oristano – Chiesa ricca – il senso della cultura come servizio al popolo. Puntò ad alzare il livello generale di istruzione generale e teologica del suo clero, così come da parroco (vicario oschierese) aveva cercato di fare – attraverso la scuola primaria parrocchiale – con la sua popolazione, incoraggiata nel concreto anche a migliorare nelle attività agricole ed artigianali, mentre sugli amministratori civici intervenne per affermare i principi d’igiene tanto più nelle sepolture, così come enunciati nel famoso editto napoleonico di St. Cloud.
Era stato Leone XII, il papa dell’anno santo 1825 e anche della ghigliottina calata sul collo di Targhini e Montanari, nel cuore di Roma, a promuovere all’episcopato, nella sede arborense, Giovanni Maria Bua, dottore in teologia e in positive relazioni, dati gli studi di specializzazione compiuti per alcuni anni a un passo da San Pietro, con svariati prelati di prima grandezza dell’establishment curiale. Non fu travolto però dalle rigidezze teocratiche del tempo e – va ancora rimarcato – puntò il meglio dei suoi talenti in un “fare” che la storia avrebbe riconosciuto tutto “di servizio” alla cura animarum. Perché tali furono, nelle intenzioni e anche nella resa, le sue pressioni sull’autorità pubblica ora per l’apertura di strade ora per il sostegno a corsi scolastici – così ad Oristano come poi anche a Nuoro. Le menziona Ottorino Pietro Alberti nella scheda che dedica al presule – e che riprende, in forma più estesa, quanto presente nella relazione da lui stesso esposta al convegno nazionale di studi su “Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia” (“L’attività sociale di mons. Giovanni Maria Bua arcivescovo di Oristano e Amministratore Apostolico di Galtellì-Nuoro) svoltosi ad Oristano nel marzo 1990 (cf. Atti) –, ma così anche lo avevano ricordato nel citato suo studio (datato 1959) il can. Bonu e Giuseppe Murtas (don Giuseppe Murtas) nella lunga e bellissima introduzione alla monografia Salvator Angelo De Castro, edizioni 1980 e 1987, comprensiva del diario del celebre canonico e deputato e tante altre cose; e del pari, per la parte di competenza, Salvatore Bussu autore di Nuoro e il Senato del vescovo (2003). Perché – va precisato – l’amministrazione apostolica nuorese di monsignor Bua (dopo l’infelicissima parentesi del governo “epistolare” non “episcopale” di monsignor Casabianca, refrattario alla Barbagia) fu gemella dell’episcopato principale arborense.
Forse però la scelta dei due ritratti per le copertine di questi due primi volumi biografici dei quattro programmati – appunto Cadello per il Settecento, Bua per l’Ottocento – rimanda anche ad altro, a dar riconoscimento agli autori delle schede: il compianto professor Lorenzo Del Piano (maestro e promotor di Francesco Atzeni) nel caso del cardinale (e anche di suo zio cagliaritano/tempiese), monsignor Ottorino Pietro Alberti – indimenticato anch’egli e caro per molti motivi – nel caso dell’arcivescovo arborense/nuorese che, in quanto originario di Oschiri, insomma (pur attraverso tutte le complicazioni sopra esposte) della Chiesa antica di Bisarcio, si presenta condiocesano di don Cabizzosu, oggi parroco di Ittireddu dopo esserlo stato di Ardara, e direttore diocesano del servizio dei Beni culturali ozieresi. Invero, lo stesso Alberti, oltre che al Bua, come ho già riferito, anche al Cadello ha dedicato nel tempo varie attenzioni: prendendo lo spunto dalla nomina del cardinale Baggio ad arcivescovo di Cagliari, egli pubblicò su L’Osservatore Romano del 24 luglio 1969, un articolo (“Il card. Diego Gregorio Cadello arcivescovo di Cagliari”), ripreso poi in Scritti di storia civile e religiosa della Sardegna, Cagliari 1994.
Qua e là andando per diocesi
Il libro – questo riferito all’Ottocento – non è dedicato, ma credo che idealmente lo possa essere – forse anche nelle segrete intenzioni dei due studiosi che ne hanno avuto la curatela – proprio a monsignor Alberti, studioso professionale egli stesso, autore di saggi storici importanti e documentati, apprezzati anche quando discussi e contestati: così come, sopra tutti, quel I vescovi sardi al Concilio Vaticano I, edito dalla Lateranese nel 1963, e tutto orientato – con qualche caduta apologetica – sulle figure dei monsignori Salvatore Angelo Maria Demartis, Francesco Zunnui-Casula e Giovanni Battista Montixi, vescovi rispettivamente di Nuoro, Ales – dopo aver a lungo retto Nuoro come vicario capitolare – e Iglesias. Specificamente sul Demartis e sullo Zunnui-Casula (più piini del Montixi) vale ricordare, a complemento di tutto il resto, due contributi dello stesso Alberti rifluiti infine in Scritti di storia civile e religiosa ecc.: circa il primo, il discorso pronunciato in occasione della traslazione dei resti morali dal cimitero alla cattedrale di Nuoro nel novembre 1968, circa il secondo, la commemorazione tenuta a Fonni nell’agosto 1967, nel centenario della ordinazione episcopale.
Impedito dalle ben note asfissie delle case editoriali isolane, sarebbe dovuto uscire già da alcuni anni questo bel volume di quattrocento pagine cui hanno offerto il loro contributo ben 23 studiosi di varia specializzazione: nel novero, lo specifico… occhieggiando alla colleganza che sa essere stata integrativa di altri saperi (quelli dell’esperienza vissuta in proprio a capo di una Chiesa locale) nella predisposizione dei medaglioni – tre vescovi: appunto Alberti e, con lui, Antioco Piseddu, oggi emerito di Lanusei, e Gian Franco Saba, oggi presule metropolita di Sassari.
Ad Alberti si deve, oltre alla scheda (sostantivo improprio qui, trattandosi di un vero e proprio saggio breve in replica) Bua, quelle ad nomen celebrative di altri due vescovi nuoresi, direi non particolarmente meritevoli di celebrazioni: soprattutto Antonio Maria Casabianca (1775-1848) e Emanuele Marongiu Maccioni (1793-1864). Alla penna di Antioco Piseddu si devono i ritratti ogliastrini: di Michele Todde Valeri (1789-1851) e di Salvatore Depau Puddu (1831-1899), mentre a quella di Gian Franco Saba i medaglioni dei tempiesi Filippo Campus Chessa (1817-1887) e Paolo Pinna (1813-1892).
Il grosso del repertorio è stato assunto, e brillantemente risolto, da Giuseppe Zichi, autore per il resto di diverse monografie di spessore (fra le altre ricorderei soltanto I cattolici sardi e il Risorgimento, uscito da FrancoAngeli nel 2015): a sua firma sono i medaglioni – qui in ordine alfabetico – di Pietro Raffaele Ardoino (1799-1863), Filippo Arrica (1784-1839), Pietro Bianco (1753-1827), Giovanni Maria Filia (1808-1882), Giovanni Antonio Gianotti (1784-1863), Eliseo Giordano (1820-1906), Salvatore Giuseppe Mameli (1737-1801), Alessandro Domenico Varesini (1798-1864), tutti presuli della provincia ecclesiastica di Sassari (fra la metropolitana e la suffraganea di Alghero: di quest’ultima speciali zoomate ha meritato il Filia, che fu a lungo anche vicario capitolare di Cagliari, negli anni del lungo esilio del Marongio Nurra).
Fra gli altri autori, pressoché tutti sardi, vorrei evidenziare i contributi speciali dei due Del Piano – nuovamente Lorenzo e Vittoria – rispettivamente sul prepotente e coraggioso Emanuele Marongio Nurra (1794-1866) e su Giovanni Saba (1775-1860), arcivescovi l’uno di Cagliari e l’altro di Oristano; di Raffaele Callia – cui si deve una bella lente d’ingrandimento delle personalità dei tre iglesienti Giovanni Nepomuceno Ferdiani (1756-1841), Raimondo Ingheo-Ledda (1821-1911) e, nel mezzo, Giovanni Battista Montixi (1798-1884, uno dei richiamati tre vescovi sardi partecipanti al Concilio del 1869-1870, non sottoscrittore del documento sull’infallibilità pontificia, presule cui lo stesso Callia ha dedicato anni fa un documentatissimo testo biografico: Giovanni Battista Montixi, un vescovo liberale nell’Ottocento, Cagliari, AM&D, 1998).
Di gran livello sono i saggi di Giorgio Puddu sull’arcivescovo di Cagliari Nicolò Navoni e di Cecilia Tasca sul successore del Navoni (e già presule ad Ales) Antonio Raimondo Tore (1755-1836 il primo, 1781-1840 il secondo). Si tratta dei due metropoliti e primati sardo-corsi (Sassari permettendo… se è vero che nella carta intestata a monsignor Cassani, nel Novecento inoltrato, ancora apparivano i titoli primaziali attribuiti all’ordinario turritano!) che precedettero immediatamente quel monsignor Emanuele Marongio Nurra che farà, della propria, molta storia della Chiesa isolana del XIX secolo: è toccato proprio a Lorenzo Del Piano stendere, in limine della sua vita, la scheda sul presule che fu soggetto di studio speciale del mio amico indimenticato don Efisio Spettu per la tesi da discutere all’università di Sassari. Il Marongio resse il bacolo cagliaritano per otto anni, fino al 1850 quando fu esiliato… a Roma, capitale dello Stato Pontificio non ancora d’Italia, per i contrasti insorti, a proposito delle notifiche informative circa le decime ecclesiastiche, con il governo di Torino. Tornò a Cagliari sedici anni dopo, ma fu per qualche mese soltanto – in quell’anno che fu lo stesso della terza guerra d’indipendenza – perché poi chiuse la sua giornata, amareggiato e consolato allo stesso tempo: a Cagliari egli è sepolto nella cappella congregazionale del Santissimo Sacramento nella Marina, al monumentale di Bonaria.
Merita ancora ricordare che Antonio Virdis s’è caricato l’onere, non facile ma pienamente soddisfatto, di biografare i sassaresi Carlo Tommaso Arnosio e Diego Marongio Delrio (rispettivamente 1774-1829 e 1819-1905) i quali aprirono e chiusero il secolo episcopale a Sassari: di specialissimo interesse è, mi pare, proprio la vicenda di vita, culturale ed ecclesiale, del Marongio, sulla cattedra di San Nicola per ben 34 anni!
Carlo Pillai ha tratteggiato con la minuzia dell’archivista i profili di Gavino Murru (1739-1819) e Stanislao Mossa (1765-1825), residenziali rispettivamente di Bosa (e poi, quasi soltanto per un flash, Sassari) e di Ampurias e Civita (leggi Olbia), nonché di Giovanni Antioco Azzei (1760-1821), passato dal governo lungo di Bisarcio a quello breve (e più agiato, perfino lussuoso) arborense. (Sul conto di quest’ultimo presule rammento un importante contributo di Tonino Cabizzosu apparso su Voce del Logudoro, 5 marzo 2003: “L’episcopato di G.A. Azzei tra entusiasmo e rischio di soppressione”, poi in Ricerche socio-religiose sulla Chiesa Sarda tra ‘800 e ‘900, vol. II).
Firmate da Tomaso Panu, Alessandro Ponzelletti e Antonio Sedda sono i brevi saggi dedicati (dal primo) a Giuseppe Stanislao Paradiso (1747-1822), Diego Capece (1774-1855) e Antonio Maria Contini (1837-1914) – tutti e tre di originario governo gallurese e successivamente marmillese (Paradiso) o ogliastrino (Contini) –, (dal secondo) a Domenico Pes (1757-1831) vescovo di Bisarcio, (il terzo) a Alberto Maria Solinas (1740-1817) vescovo galtellinese anch’egli in cattedra nel primissimo Ottocento. In particolare dei presuli biografati da Panu ricorderei che il solo rimasto formalmente in sede lungo i 22 anni del suo episcopato, fu Capece anch’egli peraltro soggetto a un qualche trasferimento perché nel 1833 la residenza diocesana venne traslocata da papa Gregorio XVI da Civita, cioè Olbia, a Tempio Pausania.
Emanuele Boaga, come ho prima ricordato, ha scritto del carmelitano Salvatore Angelo Maria Demartis (1817-1902), vescovo di Nuoro e personalità interessantissima per la tanta letteratura che ne ha descritto tempra, amicizie (compresa quella col pontefice Pio IX che lo promosse all’episcopato) e inimicizie (fra cui quella vivacissima di Asproni e di uomini del clero diocesano come il famoso rettore di Orune Francesc’Angelo Satta Musio, rimasto vittima di un’accolta di assassini prezzolati sul celebre ponte di Marreri).
Di indubbio rilievo il contributo offerto da Antonio Francesco Spada che da buon bosano (ancorché elettivo) ha lavorato ai medaglioni dei vescovi suoi diocesani: in diretta successione Francesco Maria Tola (1758-1843) e Antonio Uda (1771-1845), Eugenio Cano (1829-1914) dopo la restituzione di correntezza degli exequatur.
Su questa stessa linea del focus territoriale – nel caso si tratta dell’Ogliastra, e perciò sulla linea Piseddu – si pongono i lavori di Giampaolo Salice su Serafino Carchero (1763-1847) – primo vescovo diocesano, al tempo con cattedra a Tortolì, per un decennio fra anni ’20 e anni ’30, quindi di Bisarcio per quasi tre lustri – e Giorgio Manurritta (1757-1844), suo successore, dopo breve sede vacante.
Anche Gianfranca Masia ha puntato sulla territorialità, quella alerese: Pietro Vargiu (1792-1866), Francesco Zunnui-Casula (1824-1898) e Palmerio Garau Onida (1825-1906), residenziali in immediata successione (con i titoli anche di Usellus e Terralba).
Antonio Piras ha guardato alla metropolitana di Oristano ed in particolare ai presuli della seconda parte del secolo, dopo la cennata ripresa del rilascio degli exequatur (per il grosso dal 1871): Antonio Soggiu (1803-1878) e Bonfiglio Mura (1810-1882).
A Carla Uras è toccato trattare dell’oblato di Maria Vergine Vincenzo Gregorio Berchialla (1825-1892) ed a Francesco Atzeni del suo predecessore (e confratello religioso) Giovanni Antonio Balma (1817-1881) così come del suo successore Paolo Maria Serci Serra (1827-1900), nella sede metropolitana di Cagliari dal 1892, dopo aver, quest’ultimo, guidato le diocesi di Ogliastra/Tortolì dal 1871 e di Oristano dal 1882 (esperienze canoniche e pastorali fissate nelle preziose pagine di I miei tre episcopati, 1897).
Un pur breve riferimento mi pare necessario aggiungere relativamente all’appendice documentaria riguardante quattro vicari capitolari biografati in rapidità (eccessiva rapidità) da Tiziana Mori: Antonio Biancareddu (Tempio-Ampurias, dal 1819 al 1823), Tommaso Muzzetto (anch’egli Tempio-Ampurias, dal 1855 al 1870), Bonaventura Richeri (Sassari, dal 1820 al 1822) e Pietro Maria Sisternes De Oblites (Cagliari, dal 1807-1819). Quel che importa qui evidenziare che se Biancareddu, Richeri e Sistenes appartennero alla stagione remota che si situa fra il declino napoleonico e il rilancio terribile della Santa Alleanza, il Muzzetto invece emerge come figura spiritualmente (e patriotticamente) alta nel passaggio del regno di Sardegna verso lo stato unitario: al centro del suo governo diocesano fu la sensibilità, nazionale oltre che religiosa, alla questione romana e, in particolare controtendenza ad ogni apparato curiale, alla rimozione di ogni impaccio temporalista. I lavori su questa figura di dignitario ecclesiastico che pagò cara la sua profetica “disubbidienza”, vanno fortunatamente infoltendosi e meriteranno una sistematizzazione da parte di un qualche studioso capace di cogliere e valorizzare i tratti di modernità evangelica oltre che storica del monsignore gallurese.
Nella produzione di Cabizzosu ed Atzeni
Tonino Cabizzosu ha affidato a se stesso il compito di scrivere di Serafino Corrias (1823-1896) e Filippo Bacciu (1838-1914), presuli entrambi della sua diocesi di battesimo e formazione: Bisarcio/Ozieri cioè. Andrebbe detto, al riguardo, che ad entrambi egli aveva volto i suoi studi biografici in diverse occasioni. Mi limito qui soltanto a rapidamente ricordare, relativamente al primo, Registro di provvidenze del vescovo Serafino Corrias (1872-1878), uscito per iniziativa dell’Associazione don Francesco Brundu nel 2018, e la zoomata inserita nel suo contributo (“La diocesi di Bisarcio dalla sua ricostituzione - 1803 – a fine Ottocento”) in Duecento anni al servizio del territorio, 1803-2003, Atti dei Convegni di Studi in preparazione al Bicentenario della Diocesi di Ozieri, curato dallo stesso Cabizzosu ed uscito nel 2003 da Carlo Delfino editore. Opportunamente riprodotte – sia la scheda Corrias che quella Bacciu – compaiono nel terzo volume di Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ‘800 e ‘900 (2009), una collana editoriale giunta ormai alla sua quarta uscita, davvero anch’essa preziosa perché riunisce interventi a conferenze e scritti d’occasione o saggi brevi, recensioni ed articoli diffusi fra testate diverse che l’autore ha offerto in progress (e adesso siamo, ad aprire e provvisoriamente chiudere, già quasi ad un quarantennio).
Merita riferire, a tal riguardo, che nella serie sono inclusi contributi biografici relativi, oltre che al Corrias e al Bacciu, anche ad altri presuli ricompresi nel Dizionario e specificamente nel volume del quale mi sono qui occupato: su monsignor Bua (“Azione socio-religiosa di Giovanni M. Bua nel primo Ottocento sardo”), su monsignor Vincenzo Gregorio Berchialla (“La pastoralità di V.G.Barchialla arcivescovo di Cagliari dal 1881 al 1892”), su monsignor Montixi (“Presentazione del volume di R. Callia Giovanni Battista Montixi un vescovo liberale nell’Ottocento”), su monsignor Sisternes de Oblites (“La collazione dei benefici del delegato apostolico Francesco Maria Sisternes de Oblites, 1809-1811).
Ancora con riguardo alle Ricerche socio-religiose ecc., ma relativamente al Settecento, varrà invece richiamare, di Cabizzosu, alcuni scritti riferiti in particolare alla personalità e all’azione del Cadello tante volte qui citato, ed in particolare, nel vol. II, “La visita pastorale di Diego Gregorio Cadello in Ogliastra nel 1800”, “La relatio ad limina di Diego Gregorio Cadello dell’anno 1801” (nonché, dato il protagonismo del presule, “Contributo della Chiesa sarda alla liberazione degli schiavi carolini, 1798-1803”) e “Diego Gregorio Cadello ‘Ci sta molto a cuore che il popolo sia ben istruito nel catechismo’”; nel vol. III, “Capitolare don Diego Cadello abate di San Giovanni di Sinis decano di questa primaziale Chiesa”.
Su altri versanti di storia generale, politica sociale ed economica, si colloca la non meno vasta produzione storiografica di Francesco Atzeni che peraltro ha da sempre riservato uno spazio d’attenzione al mondo ecclesiale isolano, così fin dal 1975 con La prima stampa cattolica a Cagliari: 1856-1875 (edizioni Gallizzi, ma saggio anticipato in Studi Sardi del 1973) e, nel 1987, La stampa cattolica e popolare sarda dalla fine dell’età giolittiana al fascismo (e specificamente a il Lavoratore – periodico “inventato” da don Virgilio Angioni in quel di Villanova a Cagliari nel 1904 – ha dedicato un bel saggio breve in Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico, 1985). Ancora ricorderei , in parte collegato al tema, Il movimento cattolico in Sardegna agli inizi del ‘900 e il circolo democratico cristiano Leone XIII (Gallizzi 1978, ma già in Studi Sardi, 1975) e altri lavori ancora, tutti estremamente documentati e premiato risultato di una approfondita esplorazione delle fonti: da Aspetti del movimento cattolico in Sardegna dallo scioglimento dell’Opera dei congressi alla fondazione del Partito popolare: appunti e documenti (1980) a Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915, dedicato in particolare allo storico circolo San Saturnino (1984), da Chiesa, cattolici sardi e dibattito politico durante la Costituente (AM&D, 2001) a Chiesa, cattolici e questione sociale in Sardegna tra fine ‘800 e fascismo (2005), da Clero e società sarda dagli anni cinquanta agli anni settanta del Novecento (AM&D 2005) ai contributi offerti a Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti, 1998 (“Vescovi, religiosità e associazionismo cattolico nella Sardegna del primo ‘900”) ed a La Sardegna nel regime fascista, Atti di congressi, CUEC 2000 (“Chiesa, movimento cattolico e fascismo”), agli ulteriori titoli ora su personalità d’eccellenza come Salvatore Mannironi ora sull’associazionismo economico-sociale cattolico e/o le cooperative ed i sindacati bianchi… Fino all’ultimo, Chiesa e cattolici in Sardegna tra ‘800 e ‘900: vescovi, movimento cattolico e azione sociale (Grafiche del Parteolla, 2013) che riprende e sviluppa diverse piste di ricerca utilmente seguite in precedenza.
E’ in questo quadro che sono venute, feconde, le mutue collaborazioni di Atzeni con Tonino Cabizzosu e la promozione delle collane editoriali sopra cennate anche in asse alle intese fra il Centro Studi “Damiamo Filia” e l’Archivio Storico Diocesano di Cagliari e in parte anche la Conferenza Episcopale Sarda, ora sui vescovi (con la pubblicazione di lettere pastorali e circolari: sono usciti i volumi relativi agli arcivescovi Balestra, Rossi e Piovella), ora sulle undici (adesso dieci) diocesi isolane.
Il rapporto fra i due studiosi è di antica data e vale a darne compiutezza sommare ai titoli sopra riportati e a quelli in cantiere altre due curatele che meritano, a mio avviso, una giusta evidenza: intanto a Salvatore Vico nel contesto sociale e religioso del Novecento sardo, con presentazione di Pietro Borzomati (Rubettino 1998) – atti del convegno svoltosi a Tempio Pausania nell’aprile 1997(con gli interventi, fra gli altri, dello stesso Borzomati e di Carbizzosu, nonché di Pasquale Bellu, Manlio Brigaglia, Tomaso Panu e Gian Franco Saba); quindi a Congregazioni Religiose e Istituti Secolari sorti in Sardegna negli ultimi cento anni (CUEC, 2000), primo volume di quelli promossi dal Centro Studi “Damiano Filia” e dall’Archivio Storico Diocesano di Cagliari (stavolta con il contributo della Fondazione Culturale Sant’Eusebio).
Non era mia intenzione proporre alcuna recensione di questa pregevole raccolta biografica ma soltanto segnalarla a chi ami il genere e non disdegni le riflessioni disordinate ma si spera non banali di un… cultore extra moenia, religioso nella ricerca di senso, laico nel rispetto degli ordinamenti. Alla scuola, si spera ben intesa, di Arturo Carlo Jemolo ma anche di Giovanni Spadolini.
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