Quel vento forte di Maestrale che soffia sui Monti di Mola e non tutto cancella.
Una riflessione di Daniele Madau sulla diffusione del coronavirus nel NordSardegna e sulle assurde accuse piovute sui sardi, che forse troppo sopportano e poco fanno valere la propria dignità
Ma nudda si po’ fâ nudda in Gaddura che no lu énini a sapi int’un’ora
di Daniele Madau
“Non basta incidere su una pietra il nome Costa Smeralda per cancellare la memoria di Monti di Mola. Costa Smeralda è nome d’acqua e viene dal mare, dice di un colore e di un approdo. Monti di Mola è voce che risuona nell’oralità del tempo, rimbalza sulla cresta delle rocce, sprofonda nell’abisso della valle, s’interra nelle radici dell’olivastro. E’ nome di terra, nato dalla qualità della pietra con cui si facevano le mole per macinare il grano e per affilare le lame dei coltelli”.
Sapevo che per parlare della Costa Smeralda – Monti di Mola, quando era solo terra di lavoro, più bella delle altre, però – o meglio, per esprimere il mio stato d’animo a riguardo della crisi sanitaria, le parole più adatte sarebbero state quelle dell’antropologo Bachisio Bandinu, che alla nascita di Porto Cervo e dei suoi corollari ha dedicato tanta parte della sua produzione: precisamente del suo romanzo L’amore del figlio meraviglioso .
Come il corona virus, anche il principe Aga Khan era venuto dal mare, con la sua visionarietà dovuta all’avere la mente libera, al non dover portare al pascolo le greggi e le mandrie, proprio come nella Grecia antica, dove tutto il lavoro manuale ricadeva sugli schiavi, e solo i liberi cittadini potevano dedicarsi alla cultura e alla politica.
Del resto, anche in Lombardia, in Italia, il virus è arrivato da fuori, da lontano: tutti noi, quindi, abbiamo potuto sperimentare il senso di violazione, di aggressione dell’intimità da parte di un agente alieno, esogeno, contro il quale non ci siamo potuti, o non abbiamo voluto, difenderci.
Si potrebbe pensare allora, potremmo pensare noi, sardi, che ora sia più forte l’empatia col Veneto, la Lombardia, l’Emilia, le regioni che maggiormante hanno sofferto nell’ondata epidemica di inizio primavera. Ma non ce n’era bisogno: l’empatia – spesso – sembriamo averla maggiormente verso gli altri che tra di noi, caratterizzati come male unidos dagli spagnoli, sia che l’avesse detto Carlo V che monsignor Antonio Parragues de Castillejo.
Eppure c’è una differenza tra i casi del nord e quello della Costa Smeralda; anzi, a ben vedere, due.
Non si vuole negare la sofferenza per quanto accaduto nelle altre regioni – non sarei degno di scrivere neanche una riga, nel caso – ma esprimere il disagio nel sentire ancora della Sardegna masticata nella bocca dell’informazione come del lontano pseudo–esotico in cui si annida un lato oscuro, diverso, non assimilabile dal resto d’Italia. Ancora. Come in tutto il novecento.
Non solo; questa volta, in più, c’è il fattore lusso e sbruffonaggine, ignoranza e imprenditoria d’assalto, che da ammaliatore e conquistatore del granito e della macchia mediterranea dei paesaggi galluresi, è diventato esportatore d’infezione. Sembra che solo in questo la Sardegna sia diventata esportatrice.
Non si vuole fare, ora, un’analisi politica: per quella serve la lucidità. Solo dare possibilità, ripeto, al disagio di manifestarsi, così da renderlo, forse, catartico.
Disagio, perché, al di là di tutto, dei soldi e dei posti di lavoro (sono cosciente della forza, e forse gravità, di quello che scrivo ma, se servirà, si potrà argomentare meglio), il “Sottovento”, il “Billionaire” e gli altri, sono una cicatrice, un grumo di sangue nero che il maestrale gallurese non è riuscito a cancellare e, forse, mai lo farà.
E’ questo il disagio: si parla di Sardegna ma, è chiaro, Sardegna non è. Non lo è nei nomi, nelle attività vagheggiate e realizzate, nelle relizzazioni architettoniche, nell’approccio ai rapporti umani e alla natura. Io non so se l’epidemia da noi si sarebbe mai diffusa senza i locali di Briatore e degli altri imprenditori, so solo che quella non è la mia Sardegna, né quella di Fabrizio De André (di cui avrete riconosciuto i versi prestati al titolo: ‘Niente si può fare in Gallura, che non si sappia entro un’ora’. Parlava dell’amore scandaloso tra un’asina e un uomo. Anche se puro, il potere lo impedì. Anche lì, purezza perduta), né quella dei protagonisti del romanzo di Bandinu.
Nel rimarcare il massimo rispetto e vicinanza umana ai lombardi, e a tutti gli altri, credo che solo noi sardi avremmo potuto vagheggiare sulla Gallura. Non l’abbiamo fatto, nostra culpa: paghiamo ancora il peccato originale dell’aver accolto, nuovi Montezuma, il principe ismaelita. Ma, come scrisse un altro autore, il più importante della storia delle letterature universali, ‘Non le farà sì bella sepultura, la vipera che Melanesi accampa, com’avria fatto il gallo di Gallura’ (La vipera che costituisce lo stemma dei Milanesi non ornerà il suo sepolcro così bene, come avrebbe fatto il gallo di Gallura, Purgatorio, canto VIII)
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