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Gianfranco Murtas

Ricordando Antonio Romagnino, nel nono anniversario della morte. Il suo primo articolo su L’Unione Sarda

di Gianfranco Murtas

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Per chi conosce le cose di Cagliari, o ha conosciuto quelle degli ultimi decenni del secolo scorso e dell’inizio del presente, per chi s’è nutrito di prima mattina, giorno dopo giorno e per lunghi anni, dei notiziari de L’Unione Sarda, delle sue cronache, dei suoi servizi speciali e dei suoi approfondimenti “letterari” tanto più nella terza pagina, il nome di Antonio Romagnino è stato tanto familiare quanto familiare può esser stato quello dell’amico quotidiano con il quale condividere l’energetica caffettata al bar o con il quale scambiare una opinione meditata.

Professore di italiano e latino al liceo Dettori, intellettuale a tutto tondo con una crescente vocazione civile – per un decennio (fra anni ’40 e anni ’50) militante e dirigente liberale, quindi fondatore e presidente della sezione cagliaritana di Italia Nostra, per tre lustri presidente degli Amici del libro, interlocutore del potere pubblico dal fronte dell’associazionismo cittadino, perfino candidato (sfortunato e tradito) ad un turno elettorale regionale (1979) – Romagnino è stato il degno continuatore di Francesco Alziator nella economia sentimentale di Cagliari. A lui vicino per genio letterario, più avanti di lui nell’impegno pubblico, politico in senso lato e tutto nobile. Professore anticipatore nelle liberali esplorazioni pasoliniane come in quelle dei profeti dell’umanesimo religioso Davide Maria Turoldo, Ernesto Balducci, Lorenzo Milani, professore europeista – presiedette per anni la commissione interscolastica della giornata europea –, professore ecologista, professore democratico nelle fatiche della dialettica cittadina. Ma anche scrittore prolifico e godibile, e sorprendente ricompositore di “frammenti” sul foglio bianco, e poeta, poeta – lui italianista – in lingua sarda variante campidanese.

E’ stato, il professore, una delle persone che di più hanno inciso nella mia formazione e gli sono grato naturalmente per quante opportunità sempre mi ha offerto, non soltanto nelle nostre comuni avanzate europeiste e nelle nostre consapevolezze ambientaliste, ma anche nelle sue arricchenti partecipazioni a vicende del Partito Repubblicano Italiano, il partito di Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini – magnifico il suo discorso al congresso regionale del 1973 in svolgimento all’Auditorium di piazzetta Dettori –, nelle interviste rilasciatemi negli ormai lontani miei sperimentali servizi televisivi (1981 addirittura), nella presentazione parlata e scritta di molti miei libri, nelle conversazioni accordatemi e di speciale valore (merito tutto suo) sia sulla esperienza di prigionia del 1943-45 negli USA – prima della uscita di Diario americano, sia sulla esperienza dettorina nei nessi strettamente personali e culturali anche di Alziator e Giuseppe Dessì, fra anni ’20 e anni ’70.

Al giornale arrivò relativamente tardi, quando esso era ancora sotto la direzione di Fabio Maria Crivelli e la terza pagina era affidata a Gianni Filippini, che al Dettori (nello stabilimento ancora alla Marina) era stato, molti anni prima, suo allievo.

Credo d’averne scritto in altra circostanza: all’indomani della dolorosa morte, avvenuta nel novembre 2011, press’a poco nei giorni in cui avrebbe compiuto i suoi 94 anni, mi detti a censire i suoi articoli usciti su L’Unione Sarda lungo un quinquennio circa (fino all’agosto 1975). Ne contai 147. Qualcosa potrebbe essermi sfuggito, naturalmente, ma la dimensione è quella. Tutto cominciò con le recensioni del sabato, nella pagina titolata “Nel mondo dei libri”, curata appunto da Filippini.

In quella pagina, la collaborazione concordata con il giornale previde all’inizio un contributo quindicinale: la firma apparve dunque, nei primi anni, quasi avareggiata, si fece poi più frequente, settimanale. Successivamente essa… straripò perfino, per la delizia di molti, la mia certamente: e dalle recensioni librarie (o con le recensioni librarie) passò, nella mobile foliazione, alla riflessione civile su fatti di costume e sulle emergenze ecologiche, ai profili dei nostri concittadini più meritevoli e via via, per debito di natura, perduti. 

La concorrenza di Tuttoquotidiano esigette un rinforzo anche qualitativo de L’Unione e Alberto Rodriguez, curatore della terza pagina in ricambio di Filippini divenuto intanto vicedirettore (e prossimo alla direzione che avrebbe tenuto dal 1977 al 1986) assicurò quel rinforzo del quale Antonio Romagnino si rivelò una colonna sicura, una colonna portante. (D’altra parte non si dimentichi che la tesi di laurea nell’a.a. 1938-39 del giovane castellano di via Lamarmora aveva riguardato proprio la stampa cagliaritana, la stampa del secondo Ottocento: Lineamenti storici del giornalismo politico sardo dal 1848 al 1870).

Quella firma portava in sé, così l’ho sempre vissuta e curata, un carico di esperienza umana e di cultura per studi e pratica associativa, e pulsioni morali inesauste.

L’abbiamo perduto nove anni fa, il nostro professore, e lo ricordiamo e lo onoriamo sempre. Di lui abbiamo ancora, felicemente, i libri e gli scritti sparsi in giornali – non solo “nel giornale” – e nelle riviste a migliaia, tanti quanti sarà difficile completarne un repertorio. Ancora, e finché potrò, questo censimento infinito lo porterò avanti almeno per tranche, come una rapsodica messa laica, che valga a insinuare, nelle conoscenze della nuova generazione, anzi delle nuove generazioni cagliaritane e sarde l’onesta singolarità di un Maestro dotto e generoso come pochi. (E mi permetto in tale contesto già oggi di rettificare, o meglio integrare, quanto riportai in un contributo postato in Giornalia lo scorso 18 dicembre 2019 sotto il titolo “Antonio Romagnino, qualche passaggio sulle collaborazioni alle riviste d’informazione e cultura”. Nella sezione dedicata a Sardegna Economica, la rivista della Camera di Commercio, omisi di citare il suo articolo, uscito nel numero 2-3/2000, titolato “Giuseppe Cossu, un economista sardo dimenticato”. Ne tenga conto chi domani lavorerà alla biografia).    

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L’articolo che segue è forse il primo che Antonio Romagnino ha pubblicato su L’Unione Sarda, nella pagina “Nel mondo dei libri”, il 17 ottobre 1970. (In quella stessa finale frazione d’anno uscirono altri quattro articoli, tutti strettamente legati alla letteratura: sulle “Elegie” di Properzio, sulla figura di Alfredo Oriani, sul verismo di Capuana, sulla “rivoluzione” sognata da Ippolito Nievo).


Il poeta Poerio esce dall’ombra

Alessandro Poerio, che un “classico” sicuramente non è, appartiene a quell’area più vasta degli “scrittori” che la collana laterziana degli “Scrittori d’Italia”, da sessant’anni, ripropone, con un’attenzione all’inedito, al mai noto, con una concezione nuova della storia letteraria, che accanto alle cime e cioè ai “classici” scopre il valore delle creazioni più lontane dalle voci canoniche. Vi compare ora A. Poerio, Poesie a cura di N. Coppola, nella veste editoriale severa di sempre, appena temperata dalla novità di una sovraccoperta col ritratto dell’autore. Sono quasi novecento pagine, il frutto del lavoro di quasi tutta una vita, che il curatore ha strenuamente speso per consultare manoscritti dispersi, fondi fortunosamente sopravvissuti, correggere edizioni infedeli, avendone avuto come un viatico dal Croce e più di recente incoraggiamenti ed esortazioni dalla figlia di lui, Alda.

Ne esce un Poerio completamente nuovo non solo perché lontano, per la mole della raccolta, dalla evanescente figura di poeta romantico, che si affidava a pochi versi, come era apparso perfino ad Ettore Janni, ma anche perché finalmente liberato dalle storture delle infedeli edizioni precedenti, piene di errori testuali e di attribuzione, come quello più famigerato, che era una vera e propria profanazione della sua grave immobile austerità, di affibbiargli il saporitissimo e celebre Re Tentenna di Domenico Carbone, troppo scherzoso per essere anche appena di lontano del serissimo Poerio. Ma ancor più, già la stessa inclusione nella collana famosa è una autentica canonizzazione per questo poeta napoletano, che ora si attende e si merita, sul fondamento di un testo filologicamente corretto, un discorso critico più ampio, che finalmente dia corpo al giudizio crociano: «Dopo il Manzoni e il Leopardi, nel periodo che va dal 1830 al ’48, l’opera di Alessandro Poerio è, accanto a quella di Tommaseo e del Giusti, la sola che meriti di suscitare ancora lo interessamento dell’amatore di poesia». Si aspetta un discorso più approfondito, che gli ridia la dimensione dello scrittore, finora messo in ombra dall’esemplare figura del patriota alla cui leggenda ha contribuito proprio il Croce con Una famiglia di patrioti, che è la storia appunto della famiglia del Poerio, tutti oppositori tenaci dei Borboni, esuli e combattenti della libertà dal padre alla madre, a Carlo, Alessandro e infine al nipote Vittorio Imbriani. E lo merita più del Mameli, con cui spesso si confonde e di cui spesso rimane intatta e non correggibile, anche da una rilettura della sua opera, la figura del martire, appena apertasi ad una tenue vena di canto.


Certo non è facilmente obliabile l’uomo miope e malaticcio, che nel 1821 segue il generale Pepe e, ancora nel ’48, quando già le truppe napoletane erano rientrate nel regno, sempre fedelmente al seguito del vecchio Pepe, accorre, quarantaseienne, a Venezia e muore in quell’anno per le ferite riportate nella sortita di Mestre. Ma lo scrittore ritrovato impone che si riesamini la sua vicenda letteraria che è, tra quelle dei nostri scrittori dell’Ottocento, delle più aperte agli stimoli più vari. Solo il Tommaseo può stargli vicino per la ricettività dei più diversi umori europei del tempo. Perché il Poerio, quando finalmente poté liberarsi degli odiati studi giuridici, per i quali si era spinto fino a Gottinga, fu unicamente uno scrittore votato alla poesia, impegnatissimo nei contatti col mondo letterario, disposto a succhiarne le linfe più vitali, infaticabile nella esperimentazione, lontano dalla facile contabilità ed estemporaneità romantiche. In questo impegno acquistano centralità i suoi studi delle lingue straniere, in cui fu versato come pochi, aggiungendo alla conoscenza delle più importanti, cui sono legate le grandi letterature dell’occidente, perfino quella del polacco, quasi omaggio alla nazione sorella nel martirio, e soprattutto le traduzioni e le riduzioni. La sua abilità di tradurre era anzi tanto consumata che il Goethe col fedele Eckermann lodò la felicità della traduzione della sua ballata La sposa di Corinto, che il Poerio gli aveva portata nella sua visita a Weimar nel 1825-26, insieme con quella della Ifigenia in Tauride, andata perduta. Che è un episodio della frequentazione degli artisti più notevoli del suo tempo di quell’esule dalla patria anche per amore del bello, che fu il Poerio, che si legò tra l’altro ai letterati dell’Antologia del Viesseux e più a lungo e assiduamente al Tommaseo e al Leopardi. Anche se non era facile rimanere amico di entrambi. Perché se il primo riconosceva nelle sue Memorie poetiche del 1838: «A mantenere in me la soave fiamma del bello, giovarono i colloqui di Alessandro Poerio, solo col quale io potessi ragionare d’alta poesia, quella ch’egli con potente vocabolo chiamava intensa», il Leopardi, in un eccesso di stizza, non dimentico della malevolenza usatagli dal Tommaseo, e come ingelosito, nel 1835 aveva scritto al De Sinneri: «[Il Poerio] assorto nella profonda sapienza di un asino italiano, anzi dalmata, chiamato Niccolò Tommaseo, le cui sublimi lezioni lo tennero occupato negli ultimi giorni della sua dimora in Parigi, non ebbe agio di rivedere gli amici…».


Fonte: Gianfranco Murtas
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