Ricordando un illustre professore di storia e letteratura italiana: il prof. Angelo Di Chiara
Episodi di vita scolastica nell'Istituto tecnico commerciale Martini di Cagliari. In particolare ricordando il prof. Angelo Di Chiara
Istituto tecnico commerciale Pietro Martini di Cagliari, anno scolastico 1966/67 (III superiore). Una mattina di…
di Franco Meloni.
Il prof. Angelo Di Chiara, docente di italiano e storia, era sempre puntualissimo, così come ordinariamente tutti i suoi colleghi. Al riguardo il Martini era esemplare. Ma quella mattina giunse con una mezz’ora di ritardo. La ragione ce la spiegò lui stesso, facendone oggetto nel tempo che rimaneva a disposizione delle prime due ore della mattinata. Era successo che aveva avuto un incidente con la sua macchina: un banale tamponamento senza conseguenze per le persone, ma solo qualche ammaccamento delle auto coinvolte. Probabilmente la colpa era sua, ma questo a poco rilevava. La questione è che il tizio dell’altra auto, minimizzando sull’accaduto, propose di “aggiustare il tutto” con una artefatta ricostruzione dei fatti. “Signor Di Chiara – disse – mettiamoci d’accordo sulla ricostruzione dell’incidente, in modo che tutti i danni, della mia come della sua autovettura, siano coperti dall’assicurazione. So io come fare”. Ecco, a questo punto il prof. Di Chiara, nonostante possibile beneficiario di questa soluzione, saltò su tutte le furie. Non intendeva fare ricostruzioni menzognere per ottenere illeciti vantaggi. Semplicemente si dovevano riconoscere le responsabilità di ciascuno e subirne le conseguenze, in questo caso solo economiche. Tutto qui? No, perché il professore approfittò dell’accaduto per spiegarci che l’atteggiamento del signore accomodante era espressione di una certa impostazione purtroppo favorita dalla religione cattolica dominante in Italia. Secondo lui diversamente si sarebbe comportato per esempio un calvinista. E lì a spiegarci le differenze tra le due impostazioni culturali: quella più vicina al cattolicesimo rispetto a quella protestante, alla quale ultima mi pare andassero le sue simpatie. I guai della nostra società dipendevano proprio dalla prima cultura, che favoriva il compromesso, fino all’accettazione e perseguimento dell’imbroglio, di fatto e al di là delle dichiarazioni formali. Ora io la descrivo così, sommariamente, ma quella del prof. Di Chiara fu una vera e propria lezione, con approfonditi riferimenti storici e culturali, che lui maneggiava da Maestro. In conclusione il messaggio fu chiarissimo: ragazzi a qualsiasi religione aderiate – o anche a nessuna – cercate di comportarvi sempre onestamente, riconoscendo la verità, anche quando potrebbe costarvi. Questo era il prof. Angelo Di Chiara, di cui ho un bellissimo ricordo, generale e perfino nel dettaglio di alcune lezioni (per esempio su Dante e Boccaccio). Sarà anche perché non faceva le classiche interrogazioni; girava la classe, tra i banchi, chiedendo ora ad uno/a, ora ad altro/a. Al termine del trimestre compilava “regolarmente” i registri con le valutazioni individuali. E nessuno aveva da lamentarsi. Almeno così mi risulta. Certamente non io, che da questo metodo non fui mai danneggiato. Anzi.
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Chichibio, il gatto e il professor Di Chiara.
Istituto tecnico commerciale Pietro Martini di Cagliari, anno scolastico 1966/67 (III superiore).
La nostra classe era chiassosa e indisciplinata, spesso e volentieri. Ovviamente ci si approfittava dei professori che avevano difficoltà a mantenere la disciplina, come ad esempio la bravissima docente di matematica Angelina Cabras, nota Lillotta. Nella peggiore tradizione delle scolaresche terribili quanto vigliacche, inscenavamo dei casini pazzeschi. Non così con altri docenti, che ci facevano rigare dritti. Tuttavia con alcuni di questi non era difficile stare massimamente attenti, come con il prof. di italiano e storia Angelo Di Chiara, per gli amici Angelino. Perché lui sapeva coinvolgerci. Eppure non eravamo liceali, votati agli studi umanistici. Ammettevamo perfino che per noi, aspiranti ragionieri, il prof. Di Chiara era un po’ sprecato. Avrebbe meritato ben altro pubblico, come in effetti probabilmente accadde nel proseguo della sua carriera d’insegnamento. Ma il fatto di avere a che fare con noi e non con più degni discenti, a lui non sembrava pesare. Per nostra fortuna. Sì, perché lui si spendeva alla grande per accrescere la nostra cultura e farci appassionare alla storia, alla letteratura e non solo, svolgendo un programma scolastico comunque impegnativo. Gliene siamo grati tutti, per sempre. Facile oggi, direte voi: col senno di poi. E invece noi avemmo tutti quanti già all’epoca contezza del privilegio di averlo come docente e come educatore. Le sue lezioni erano davvero interessanti, memorabili, tanto è che ancora molti dei suoi alunni di allora, io tra di loro, le ricordiamo, passati, nel mio caso, ben 53 anni. Nei miei ricordi soprattutto Dante (L’inferno) e Boccaccio (Il decamerone). Ecco, solo con riferimento a Boccaccio e alle sue novelle voglio qui parlare. Ne ricordo diverse, fra queste: Frate Cipolla e la piuma dell’arcagnolo Gabriele, La storia di Lisabetta a cui i fratelli uccisero l’amante, Chichibio e la gru. Su quest’ultima mi soffermo perché che mi ricordi suscitò un grandissimo interesse e fu occasione per sviluppare un partecipato dibattito in classe. Il quesito posto dal professore fu “Chichibio è un candido scemotto o un furbo di quattro cotte?”. Arrivammo unanimemente alla seconda conclusione. Il professore, quantunque poco incline a elargire complimenti ne fu, credemmo, in tutta evidenza soddisfatto.
E mal gliene incolse. Perché? Seguite il proseguo del racconto.
Alcuni giorni dopo era fissata la data del compito in classe di italiano, che se ben rammento aveva frequenza di due compiti a trimestre. Il professore, dato il successo del programma fino ad allora svolto e, particolarmente, all’analisi delle novelle del Boccaccio, pensò bene di trarne spunto per proporre un tema letterario. Pressapoco: “L’alunno scelga un personaggio delle novelle di Boccaccio e ne tratteggi la personalità, attenendosi al racconto dell’Autore, ma svolgendo proprie personali considerazioni”. Non vi dico la reazione della classe, dai corali murrungi all’esplicita richiesta di cambiare titolo. Qualcosa di più facile. Il professore ci rimase male, ma capitolò senza troppa esitazione. “E vabbè – sentenziò – allora il tema che vi assegno ex novo è il seguente: ‘Il gatto’. Chi ne ha uno parli di quello, chi non ce l’ha se lo inventi!”. E così ci toccò svolgere proprio quel tema: “Il gatto”. Non ricordo precisamente gli esiti. Forse andò abbastanza male per tutti. Per quanto mi riguarda avrei di gran lungo preferito Boccaccio. Ma anche allora… col senno di poi!
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