Ricordo di Lucio Lecis Cocco-Ortu
di Gianfranco Murtas

È di questi giorni il compleanno, purtroppo soltanto virtuale, o dillo sentimentale, di un amico valorosissimo, a me infinitamente caro e deceduto assai prematuramente: Lucio Lecis Cocco Ortu. Fu lui che, a me ancora adolescente, di otto anni più giovane di lui, e adottato come fratello minore, presentò la grande figura di Piero Gobetti – del quale il prossimo anno celebreremo il centenario del sacrificio per mano assassina fascista – e presentò anche gli altri del pantheon della democrazia liberale fra i quali era lo zio materno, Francesco Cocco Ortu jr., parlamentare morto allora da un anno e pochi mesi soltanto. L’incontro nostro avvenne nelle stanze de L’Unione Sarda, perché entrambi collaboravamo alla pagina dei giovani che con cadenza quindicinale e la regìa di Gian Tarquini Sini, il quotidiano andò pubblicando fra il 1971 e il 1972. Lucio firmò in quella sede undici articoli.
L’altro campo di incontro e lunghe conversazioni fu quello politico, lui appunto liberale di sinistra e gobettiano, io repubblicano piantato, tra fascinazioni azioniste, con radice risorgimentale e mazziniana. Con noi molti altri, dico molti – colonne nobili Gigi Dessì, Francesco Putzolu, Roberto Dessì… –, ma estrema minoranza eravamo (e di tanto in tanto con qualche accento di mutua concorrenza), essi liberali e noi repubblicani, sulla scena politica locale non meno che nazionale. Ma si viveva bene di ideali che ci nutrivano allora a pranzo e a cena.
Poi con Lucio un altro piano, questo professionale, ci accostò, seppure per breve tempo: a Villacidro lui direttore di una fabbrica tessile, io in banca allievo di Bachisio Zizi. E fummo ancora noi, integri fedeli all’ideale e l’uno e l’altro, in una stagione politica che pur era già profondamente diversa da quella della nostra prima giovinezza: ancora e sempre leali e coerenti alla rispettiva matrice ideale o ideologica e politica. Nella stagione di Valerio Zanone, dopo l’eclisse Malagodi (onorato sempre, anche nelle distanze), nella stagione di Giovanni Spadolini, dopo la morte tremenda di Ugo La Malfa padre della patria.
Sento il dovere di ricordarlo, Lucio Lecis Cocco Ortu, che poco più che quarantenne fu colpito da una malattia particolarmente cattiva e che egli affrontò con le risorse morali che ne avevano fatto, nei suoi anni troppo pochi!, un intellettuale lucido e colto e ammirato ed un meraviglioso testimone di valori, quale che fosse il campo d’intervento.
Ebbi modo, nel 2003 – vale a dire nel decennale della scomparsa – di organizzare a Cagliari un convegno di amici al quale parteciparono attivamente personalità care, particolarmente care, che, per debito di natura, purtroppo abbiamo perso negli anni, da Antonio Romagnino a Gianni Filippini allo stesso Valerio Zanone, già segretario nazionale liberale. Il profilo di Lucio emerse netto e da tutti fu condiviso nel ricordo e nel rimpianto.
In una piccola pubblicazione, diffusa in quella circostanza, cercai di riordinare memorie e documenti così da costruire una sorta di biografia, affettuosa e insieme dolente, dell’amico perduto, ripassandone le esperienze maturate presso la Congregazione Mariana dei padri gesuiti (e dell’indimenticato padre Cravero) in parallelo a quelle dettorine e poi della facoltà d’Ingegneria, ed anche a quelle del giornalismo sportivo (d’intorno al Cagliari che si preparava allo scudetto), esperienze tutte che egli aveva voluto compiere per quel gran gusto della vita che ne aveva segnato la formazione e ne accompagnava le aspettative di futuro. Tanto più cercai di dar conto di quanto incidessero in lui gli insegnamenti familiari che provenivano già dal bisnonno ministro giolittiano e, passando per il nonno avv. Giuseppe (sposato con una Canelles), arrivavano, per l’aggiornato rilascio pedagogico e perfettamente coerenti alla missione, ai suoi di casa: certamente, per molti versi, al padre ing. Dino ma per altri, e specificamente politici, ed attraverso la madre Anna, allo zio Ciccio parlamentare, maestro sempre, con la parola e con il silenzio, come già aveva dimostrato presentandosi a discutere la sua tesi di laurea, a Roma, con la camicia bianca (mica la nera della prassi di regime!).
Sono anni, questi ultimi nostri, dico questi della devastazione delle istituzioni da parte dell’incultura democratica della destra, e pessima prosecuzione del saccheggio civile operato lungo anni dal paganesimo berlusconiano, in cui la figura di alcune personalità eccellenti della politica passata – quella “costituente” della Repubblica e già prima quella della stabilizzazione unitaria – viene rivalutata nella saggistica e nella pubblicistica. Antidoto alla disperazione, costretti come siamo noi oggi a muoverci fra esponenti, di governo e parlamento e partito, di infima caratura. Fra quelle eccellenze capaci di restituire luce alla speranza che l’oggi passi presto, è senz’altro quella del ministro Cocco Ortu che, già ottantenne e già decano della Camera, non mancò di spendere, quel certo giorno dell’ottobre 1922, ogni sua energia argomentativa per convincere Vittorio Emanuele III, del quale era consigliere, a firmare il decreto per lo stato d’assedio presentato al sovrano, in chiave antifascista, dal governo Facta.
E con il ministro Cocco Ortu direi anche l’omonimo nipote dirigente liberale e parlamentare dal 1948, il quale da giovanissimo, dopo l’8 settembre 1943 fu aggiunto del commissario prefettizio Dessì Deliperi, al comune di Cagliari e nel 1944 assessore municipale all’annona (furono quelli i drammatici mesi del rientro degli sfollati in città e tutto – lavoro, casa e annona, sanità e scuola – era emergenza da risolvere fra le macerie create dai bombardamenti).
Ebbene, mi piacerebbe che qualcuno prendesse l’iniziativa di una pubblica larga riflessione, sostenuta ovviamente da forti studi, sul contributo, lucido e appassionato, che la famiglia Cocco Ortu seppe dare, nella successione delle generazioni, appunto fino a Lucio Lecis Cocco Ortu –, alla politica nazionale e regionale.
Ci spero. E intanto, onorando l’amico perduto nel 1993 e cogliendo l’occasione, pur soltanto di calendario ma motore certo di sentimento, di un compleanno, l’80°, che in questi giorni – l’8 di giugno per la precisazione – avrei voluto festeggiare con lui, di Lucio Lecis Cocco Ortu presento qui di seguito l’ultimo intervento sulla stampa, uscito su L’Unione Sarda il 17 aprile 1993, appena sei mesi prima della morte in un ospedale viennese.
Non è in gioco la governabilità ma la democrazia
Il Parlamento italiano elegge, in seduta congiunta, il presidente della Repubblica che designa il presidente del Consiglio e nomina un terzo dei giudici della Corte Costituzionale; vota la fiducia e la sfiducia al Governo; elegge un terzo dei giudici della Corte Costituzione e un terzo dei giudici del Consiglio superiore della magistratura tra i quali viene espresso il vice-presidente; approva le leggi; modifica la Costituzione con doppia votazione delle due camere senza possibilità di referendum abrogativo per votazione superiore al 75 per cento.
Ove si introducesse un sistema maggioritario per l'elezione dei due rami del Parlamento quindi non si interviene solo sulla "governabilità" ma si controlla quasi tutto il potere democratico.
Nessun altro paese occidentale, con sistema cosiddetto maggioritario, attribuisce al Parlamento tutti questi poteri, che invece sono frazionati fra più organi ed il principio di tutela delle minoranze è assicurato da un sistema istituzionale molto garantista.
Votare sì al referendum elettorale sul Senato e dare conseguentemente legittimazione morale alla analoga riforma elettorale anche della Camera dei deputati, vuol dire scardinare il nostro sistema istituzionale consentendo anche a una minoranza di cittadini, con l'alibi della necessità di governabilità del paese, di poter controllare una grande maggioranza del Parlamento con la possibilità di un vero e proprio "colpo di Stato legale" attraverso la revisione della Costituzione e l'approvazione di nuove leggi.
Ove si fosse voluto intervenire sulla governabilità del paese sarebbe stato sufficiente introdurre l'elezione col sistema maggioritario direttamente dal popolo o del capo dello Stato e del governo, all'americana, o del presidente della Repubblica che designa il presidente del Governo, alla francese.
E ove si fosse voluto imitare il sistema parlamentare uninominale maggioritario all'inglese si sarebbe dovuto anche intervenire per limitare i poteri del Parlamento. Infatti la Camera dei comuni inglese eletta con questo sistema non può modificare la Costituzione, non elegge il presidente della Repubblica (in quanto vi è una monarchia costituzionale); è in qualche modo equilibrato dalla presenza della Camera dei Lords e non può ad esempio condizionare il potere giudiziario che nella visione della giustizia anglosassone non è come in Italia un ordine separato soggetto solo alla legge.
Non vi possono essere argomenti da controbattere a chi sostiene che dopo la vittoria del sì il paese cambierà miracolosamente come nelle favole. Non vi sarà più il potere della conferenza episcopale e delle organizzazioni cattoliche ad influenzare il voto dei cattolici; non vi sarà più il peso delle organizzazioni sindacali nell'influenzare il voto dei lavoratori; non più quello delle lobbies legittime e illegittime; non più quello delle organizzazioni mafiose. Nasceranno come per incanto un'alleanza di moderati e una di progressisti che, onesti e incorruttibili saranno scelti dagli elettori non più soggetti al fascino del clientelismo e dell'assistenzialismo.
Da liberale non mi sento di dare credito a un tipo di avventurismo che dolosamente o colposamente dà la possibilità a una minoranza, divenuta maggioranza parlamentare, di sentirsi legittimata, magari interpretando il superiore interesse del paese, a fare leggi eccezionali o a sospendere alcune garanzie costituzionali. Darò quindi un cosciente e ragionato "No" al referendum per il Senato e mi batterò perché il Parlamento completi il sistema di riforme avviato tenendo conto sia dell'esigenza di governabilità che di quella della rappresentanza e delle garanzie per le minoranze.
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