Ricordo di Vindice Gaetano Ribichesu a cinque anni dalla morte. Per un’antologia dei suoi scritti migliori
di Gianfranco Murtas
Soltanto da pochi giorni di questo inquieto giugno sono trascorsi cinque anni dalla perdita di Vindice Gaetano Ribichesu, uno dei giornalisti di maggior storia professionale – direi proprio così – del Novecento sardo e amico mio illustre e leale e generoso.
A lui ho dedicato vari articoli ed interventi orali. Fra gli scritti ricordo, nel sito di Fondazione Sardinia, “Vindice Ribichesu, fra giornalismo e massoneria la via per la libertà e il progresso civile e materiale della Sardegna” (il 27 giugno 2015, all’indomani della morte) e “Vindice Gaetano Ribichesu, il servizio alla libertà nel giornalismo militante” (il 7 giugno 2016, al primo anniversario di quella sua morte tanto dolorosa e liberatrice), nel sito Giornalia “Sa die de sa Sardigna, con l’Italia, sempre, nella democrazia conquistata. Vindice Ribichesu e l’antifascismo” (il 28 aprile di questo stesso 2020): una cinquantina di cartelle piuttosto dense, con una prima bozza di repertorio dei suoi “pezzi” migliori – erano cento, potevano essere mille – su La Nuova Sardegna ed altre testate, specialmente Tuttoquotidiano ma anche su diversi periodici isolani, da Rinascita Sarda all’Almanacco di Cagliari, da Sardegna Fieristica a La Nuova Città, da Argentaria a Nazione Sarda, da Ichnusa a Il Solco, da La Grotta della Vipera a Il Cagliaritano, da Esse come Sardegna a Società Sarda, naturalmente anche a Sardegna Autonomia che a lungo diresse, ecc.), nonché dei suoi contributi a un’infinità di convegni, per fortuna poi trasformati in documento scritto rifluito negli “atti”: mi riferisco a produzioni dell’Istituto Gramsci, di Fondazione Sardinia, dell’Associazione della Stampa, della Massoneria giustinianea, e di altre dieci sedi.
Del molto o moltissimo da lui pubblicato con scrittura netta, elegante ma chiara, sempre concettuosa, ho anche presentato qualche articolo particolare: sulla figura e l’opera storiografica di Gianfranco Contu, su Lussu e la sua eredità politica e su Dino Giacobbe eroe della guerra civile spagnola, su Mario Melis fra la presidenza della Regione Autonoma e l’esperienza di europarlamentare – la scelta dei temi ha incrociato, lo ammetto, le mie stesse idealità pur con distinzioni – e sui valori resistenziali che attraversano (o devono attraversare) la vita della Repubblica…
Oggi m’importa, ricordandone il nome e la testimonianza civile, appena evocare alcuni passaggi della sua vicenda umana e professionale e poi offrire alla lettura/rilettura alcuni suoi contributi che meriterebbero una ordinata raccolta. In primo luogo quello che mi offerse (con Giuseppe Melis Bassu, Angelo Giagu De Martini ed Enea Selis) per il libro Per Alberto Mario Saba, uscito nel 1994 a dare onore a un dotto e sapido galantuomo della politica sassarese (e non solo), esponente della democrazia repubblicana che nel capoluogo e in tutta la provincia ebbe storia rispettata o ammirata partendo da Gavino Soro Pirino e ad arrivare a Michele Saba, passando per i Berlinguer e i Siglienti, i Pietro Moro e i Giuseppe Ponzi, i Satta Branca stessi, per voler richiamare nomi ricollegabili a La Nuova Sardegna…
Questo contributo ma poi anche altro: qualcosa di quel che pubblicò su due riviste fra le molte che a lui chiesero, in tempi successivi alla lunga stagione vissuta a La Nuova, un originale apporto d’intelligenza e cultura: Ichnusa, prodotta dal 1982 a Sassari dalla Edes (l’editrice alla cui fondazione egli stesso aveva partecipato e in ideale ripresa dell’antica e prestigiosa testata di Antonio Pigliaru) ed Esse come Sardegna, un raffinato trimestrale uscito a Cagliari (con direzione di Piercarlo Carta) negli anni fra ’80 e ’90.
Un breve richiamo alla storia professionale di Vindice Gaetano Ribichesu – Gaetanino era chiamato nella famiglia della Nuova, Vindice da me e da quegli altri che lo avevano incrociato nei mille diversi campi della vita sociale, forse noi tutti segnati dal sentimento aspro e tenero che aveva indotto Sebastiano Satta a chiamare così il suo piccolino fattosi poeta anche lui –, un richiamo rapido alla sua storia professionale pare importante farlo per presentarlo a chi non l’avesse conosciuto e rinnovandone agli altri la memoria dell’alto profilo umano e civile.
Sassarese laureato in giurisprudenza (fu a Cagliari al congresso universitario regionale del dicembre 1954 e di Cagliari e dei suoi incanti, per come li aveva percepiti da piccole coeteanee sfollate a Sassari nella tormenta della guerra, scrisse un mirabile ed ancora emozionato articolo molti anni dopo), iniziò la sua vita giornalistica nella goliardia della Voce Universitaria e anche di Ateneo Turritano) e poi come… sottocronista a L’Unione Sarda. Alla redazione locale de L’Unione Sarda già dal 1955-56, ancora studente e collaboratore di un altrettanto giovane professor Manlio Brigaglia e sotto le varie responsabilità affidate dal nuovo direttore, in sequenza, a Nino Ruju, Angelo De Murtas e Filippo Canu – ciascuno dei quali era un’eccellenza in proprio –, quindi, per seguire l’attività del Consiglio comunale, a Il Corriere dell’Isola in procinto però di abbassare l’insegna dopo il successo dei giovani turchi (Cossiga e Dettori e Soddu e Pisanu ecc.) nella partita democristiana ingaggiata contro i “destri” di Antonio Segni presidente del Consiglio e ministro di tanti governi…
Ancora giovanissimo finalmente fu a La Nuova Sardegna – dove firmò per la prima volta in terza pagina nel 1958 e dove avrebbe curato, l’anno successivo, i servizi a tutta pagina sulla scomparsa di donna Clelia Garibaldi, così ancor più mettendosi in luce per la scrittura rapida e ordinata, ma pure attenta ai particolari di colore che potevano essere riassunti da un aggettivo soltanto...
Per tre lustri e più – lungo tutti gli anni ’60 e i primi ’70 – sviluppò la sua carriera nel gran quotidiano di Sassari allora diretto dall’avv. Arnaldo Satta Branca, con condirettore Aldo Cesaraccio (dal 1971 direttore lui stesso della testata intanto passata, ormai da quattro anni, alla proprietà della SIR di Nino Rovelli, nuovo feudatario di Porto Torres e della provincia): redattore e cronista giudiziario, inviato del giornale ai grandi processi che fecero epoca (si pensi agli “amanti di Osilo”, con resoconti che coprivano una intera pagina così per settimane) e impegnato nelle inchieste sul banditismo degli anni 1966-1968 soprattutto – quello barbaricino e di Mesina – che riempivano anch’esse la foliazione interna del quotidiano a larga e prevalente diffusione nel Nuorese (per lunghi decenni, fino al 1927, circondario della provincia di Sassari).
Capocronista e poi caporedattore che pur non rinunciava a scrivere ancora i suoi editoriali, e nel 1967 fondatore e direttore, con Antonio Pinna, del numero settimanale de La Nuova, quello del lunedì che allora mancava e fu prodotto da una cooperativa di cronisti dello stesso giornale ammessi dall’avv. Satta all’utilizzo dei macchinari aziendali. Si pensava di fare concorrenza al cagliaritano L’Informatore del lunedì (della famiglia editoriale de L’Unione Sarda), subentrando a La Gazzetta Sarda che quello spazio aveva cercato di coprire, bene o male, per lunghi vent’anni, fino al 1967, grazie agli sforzi finanziari di Sebastiano Pani, patron delle autolinee granturismo sarde.
Fu una esperienza che non durò che un semestre soltanto: quei giornalisti che già avvertivano il peso, anzi l’invadenza della nuova proprietà azionaria – costretti a censure e autocensure ora su questioni di inquinamento ambientale ora su incidenti sul lavoro e molto altro ancora – s’erano illusi allora, svincolandosi per un giorno alla settimana dai condizionamenti della direzione (quella effettiva) di Cesaraccio, di poter con maggiore libertà offrire ai loro lettori una informazione a tutto specchio. Storia di un semestre soltanto, appunto. Ché la disponibilità della tipografia fu poi revocata, impedita cioè, con uno spropositato aumento del fitto, dalla SIR (mentre nel 1969, con Cesaraccio dominus, e dunque sotto altri statuti, il giornale avrebbe tentato una ripresa delle pubblicazioni di quel numero settimanale).
Caporedattore che non si fece comprare, Ribichesu, dagli allettamenti rovelliani: gli fu proposta la direzione del giornale tout court nei primi anni ’70, in cambio… della normalizzazione redazionale, e da allora anzi, con lui leader educato ma tenace, le tensioni fra il corpo redazionale e la proprietà (schermata da Cesaraccio) si fecero più marcate. Egli fu infatti fra gli organizzatori di quello spirito condiviso dai colleghi orgogliosi della “missione” – che è cronaca vera ma è anche inchiesta scomoda – e cercando trovò nel 1973 uno sbocco importante nella pubblicazione… clandestina di un altro settimanale. S’intende: clandestina in quanto alle firme, che infatti non apparvero nella foliazione (trattandosi di dipendenti in servizio a La Nuova la cosa non sarebbe stata ammessa), non certo clandestina in quanto alla diffusione e anche al gradimento del pubblico. Si prestò allora il sempre generoso professor Brigaglia a caricarsi la “responsabilità” editoriale del giornale e Il lunedì della Sardegna comparve per un anno circa nelle edicole di tutta l’Isola: giornale gradevole e gradito, giornale d’inchiesta (quanti servizi anche sugli avvelenamenti ambientali nei vari territori, magari a partire da Santa Gilla e dall’area industriale cagliaritana sulla quale incombeva la Rumianca, seconda ammiraglia del gruppo Rovelli!)…
La storia di quell’impresa che fu onore del giornalismo isolano è stata raccontata più volte da me stesso, ma certamente le testimonianze presenti in La Nuova Sardegnaai tempi di Rovelli (da Frumentario al Principe), a cura di Sandro Ruju e con un saggio di Giuseppina Fois, pubblicato nel 2018 dalla Edes di Sassari, meglio ancora hanno descritto presupposti e sviluppo della vicenda.
Mentre il quadro nazionale, sociale e politico, si andava oscurando con i ripetuti attentati neofascisti e i depistamenti da parte di organi dello Stato, da Piazza Fontana (con i “casi” Valpreda e Pinelli e l’assassinio vendicativo del commissario Calabresi) a Peteano, passando per la rivolta di Ciccio Franco a Reggio Calabria e nel clima che montava per preparare – sarebbe stato nel 1974 – la strage di Piazza della Loggia e quella dell’Italicus… le storie di prepotenza in un onorevole giornale di provincia, chiuso dal fascismo nel 1926 e rimasto in cattività per più di due decenni, risorto ma adesso nuovamente imprigionato dal conformismo per l’utile della petrolchimica, parevano fare da pendant nelle pieghe di una democrazia formale e fra le mobili e strumentali alleanze del potere politico (democristiano e comunista e socialista e d’altri) con quello industriale… Sacrificata la libertà di stampa. Fatto fuori prima Enrico Clemente, poi Edoardo Pittalis, bocciata in Consiglio regionale una legge che avrebbe potuto restituire respiro all’informazione. Episodi di un tempo limaccioso.
Con Alberto Pinna e Giancarlo Pinna Parpaglia, Bruno Merella e Giovanni Pisano e gli altri, Ribichesu si caricò allora per un anno le supplementari fatiche degli week end, fra Sassari e Cagliari e Sassari, per far uscire puntualmente, dal 6 agosto 1973, Il Lunedì. Artigianato puro e di qualità. Nobile. Segnò, quel Lunedì della Sardegna, un capitolo importantissimo nella storia del giornalismo isolano moderno. Con la firma di responsabile, come detto, di Manlio Brigaglia esso fu stampato nella tipografia Fossataro del viale Elmas, e uscì fino al referendum sul divorzio ed alle elezioni regionali, nella tarda primavera 1974.
Cessata anche quella esperienza, e data la persistente invivibilità del clima aziendale (e redazionale), Ribichesu con altri otto colleghi – Alberto Pinna e Giancarlo Pinna Parpaglia, Giovanni Pisano (il decano) e Rosario Cecaro, Antonio Pinna ed Eliseo Sirigu, Gavino Piredda e Bruno Merella lasciò La Nuova Sardegna. Tutti si trasferirono a Cagliari costituendo la parte più rilevante del corpo redazionale di Tuttoquotidiano allora – luglio 1974 – al suo debutto nell’edicola sarda. Con la nuova testata Ribichesu collaborò intensamente anche nella fase della sua crisi e della trasformazione del giornale in prodotto cooperativo, ma preferì orientare le sue carte professionali verso l’ufficio stampa del Consiglio regionale che di recente era stato ricostituito, e che dal 1° luglio di quel 1974 quando entrò in organico e tanto più dal 30 maggio 1985 quando fu promosso capo dell’ufficio, gli dette l’occasione di sviluppare al meglio il potenziale della sua professionalità.
Ritrattosi in quiescenza nella metà degli anni ’90 (precisamente il 31 marzo 1997), prese a collaborare a numerosi istituti culturali ed a testate giornalistiche (periodiche) presenti un po’ in tutta l’Isola. Di indirizzo ideale radical-socialista, negli anni del rilancio politico ed elettorale del sardismo (e dopo l’insopportabile ubriacatura nazionalitaria e indipendentista dei tardi anni ’70), seguì con speciale interesse le vicende del PSd’A e fu collaboratore apprezzato e prezioso del presidente Mario Melis.
Conciliò al meglio, Ribichesu, con i dati culturali che possedeva robusti, la sua indipendenza intellettuale con la militanza nella Libera Muratoria che dal 1972 lo vide attivo dapprima nella loggia sassarese Gio.Maria Angioy, quindi in quella cagliaritana Risorgimento. In numerose occasioni, tanto più quando il Grande Oriente d’Italia dispose iniziative d’incontro e dibattito pubblico o di presentazione di libri, fu pronto alle funzioni sempre delicate di moderatore.
Come detto, qui di seguito riporto la sua testimonianza su La Nuova di un tempo, offertami ad impreziosire il libro Per Alberto Mario Saba. Titolo: “Per quel cenacolo che era la Nuova”.
Ecco poi, preceduti ciascuno da una scheda ricapitolativa della collaborazione offerta alle singole testate, gli articoli “Da quando quest’isola non è più l’ombelico del mondo”, uscito nel 1989 su Ichnusa e “Un’autonomia che guardi anche all’Europa”, apparso l’anno successivo nelle pagine di Esse come Sardegna.
Per quel cenacolo che era la “Nuova”
il 31 marzo 1981 l’ avv. Alberto Mario Saba scrive al dott. Luigi Bianchi, appena nominato direttore della Nuova Sardegna di Sassari, la seguente lettera (*):
«Egregio Direttore, sono certo che all’atto in cui ha assunto la direzione de La Nuova Sardegna, Lei avrà sicuramente cercato di conoscere la storia di quello che doveva diventare il suo giornale.
«Non so tuttavia se si sia reso conto che, in quelli che sono stati i periodi più felici della sua vita, la Nuova è stata per la nostra città qualcosa di più di un quotidiano destinato a riportare le più importanti notizie dell’Isola e del “continente” (espressione quest’ultima di cui, forse, Le era sino a poco tempo addietro sfuggito il particolare significato).
«Chi Le scrive ha vissuto intensamente uno di tali periodi (quello del secondo dopoguerra) e sente per ciò il bisogno di ricordare che, in quegli anni, il giornale è stato anche un “cenacolo”, un punto d’incontro, per un gruppo di uomini che, nonostante la loro diversa formazione intellettuale e la differente loro collocazione politica, trovavano modo attraverso quelle pagine di esprimere il loro pensiero e di liberamente “colloquiare”, movimentando con la vivacità dei loro scritti l’apatica indolenza della vita di provincia e suscitando l’interesse dei lettori. Oltreché dell’opera di pochi, valorosi ed apprezzati professionisti, il giornale si giovava così, a quei tempi, anche della collaborazione d‘una folta e mutevole schiera di volontari dei quali coltivava l’amicizia ed ai quali era lieto di offrire ospitalità sulle sue colonne e nei locali della sua redazione.
«Ed erano proprio questi ultimi che davano alla Nuova un apporto essenziale, con le loro firme e con le loro idee, contribuendo al suo prestigio e facendone l’oggetto di una particolare attenzione e simpatia tra il pubblico.
«Non mi sembra qui il caso di rievocare i nomi di coloro – molti dei quali assurti in seguito a ruoli preminenti sulla scena politica o professionale, italiana oltreché sarda – che non disdegnarono di fare del quotidiano locale la loro palestra, se non la scuola per le loro prime esperienze giornalistiche.
«Mi limiterò ad osservare che quella tradizione si è spenta, e quella sorgente si è esaurita.
«Ma oggi che la Nuova – a quanto apprendo – si appresta ad assumere con rinnovata energia un ruolo di maggior peso nella vita di Sassari e della Sardegna, sorge spontanea la domanda se non sia il caso di riprendere in considerazione quella felice formula, mettendo a disposizione di una rinnovata schiera di collaboratori esterni (se possibile giovani!) le pagine del giornale, per tentare ancora una volta di suscitare quel fermento di idee nuove e quel più intimo legame con i lettori, che costituì in passato la sua ricchezza ed il più valido strumento per la sua affermazione.
«Non ritiene sia il caso di parlarne?».
ll dott. Luigi Bianchi non ritenne, evidentemente, che fosse «il caso di parlarne» e non diede alcuna risposta all’avv. Saba.
Trascorsero più di due anni ed un nuovo direttore, il dott. Alberto Statera, fu nominato al posto del dott. Bianchi. Il giornale, pur rinnovato nella veste editoriale e pur avendo conquistato un pubblico molto più vasto del precedente, non aveva riassunto per Sassari e per la Sardegna quel ruolo che l‘avv. Saba aveva auspicato ed ecco dunque il brillante e focoso Alberto Mario indirizzare al nuovo direttore della Nuova la stessa lettera con poche righe in testa e in coda:
«Egregio Direttore, il 31.3.1981 ho indirizzato al Suo predecessore una lettera del seguente testuale tenore...». Due punti, virgolette e quindi il testo qui già riportato. L’avv. Saba concludeva così la sua seconda lettera:
«Non avendo ricevuto riscontro dal Dott. Luigi Bianchi, ripropongo a Lei la mia domanda, nella speranza che possa avere quella miglior sorte che, forse, meritava.
«O debbo proprio concludere che la sola “voce” (ritenuta libera) della nostra città è diventata un foglio di parte e di casta)».
Nemmeno il dott. Statera ritenne di dover rispondere e l’avv. Saba tenne per sé la sua opinione ed anche la conclusione che ne aveva tratto.
Questi dunque i fatti che però non possono essere appieno compresi se non vengono inquadrati nella particolare storia di Sassari e del suo giornale.
Le lettere, come detto, risalgono ai primi anni ’80 quando il quotidiano sassarese – dopo il crollo dell’impero petrolchimico di Rovelli che aveva acquistato il giornale nel 1967 – passò alla gestione del Gruppo Caracciolo. Il passaggio di proprietà avvenne con una formula distillata dal potere politico (istituzionale e non) nel corso di lunghe e complesse trattative.
La formula era apparentemente tale da garantire il ritorno del giornale alla sua tradizione di foglio, non certamente iconoclasta e rivoluzionario, ma senza alcun timore riverenziale di fronte al potere costituito. Un foglio che, nella sua lunga storia, aveva avuto infatti episodi di non secondario significato sia quando fu costretto alla chiusura nel ’26 dalle leggi speciali fasciste, sia successivamente, alla rinascita della democrazia.
La formula del passaggio di proprietà dalla finanziaria pubblica che aveva incamerato i beni dalla SIR di Rovelli ai privati prevedeva di mantenere il Gruppo Caracciolo che, come “editore puro”, avrebbe avuto comunque assicurata mano libera nella gestione editoriale del quotidiano in una posizione non di preminenza nell’azionariato della società. Il pacchetto azionario era stato infatti diviso in tre parti: il 48% al Gruppo Caracciolo; un altro 48% assegnato ad imprenditori e investitori sardi o operanti in Sardegna, mentre il restante 4% rimaneva alla Finanziaria pubblica SIR che aveva raccolto l’eredità dei beni residui del disastro petrolchimico rovelliano. (Le vicende della proprietà del giornale andranno successivamente in modo diverso da quello previsto, ma ora questa vicenda ci allontanerebbe dal tema).
In questo contesto, dunque, il nuovo editore nomina il direttore alla Nuova: è il dott. Luigi Bianchi, già capo del servizio parlamentare del Corriere della Sera a Roma. Non conosce a fondo la Sardegna, ma giunge nell’ Isola preceduto da una fama di giornalista molto bravo, professionalmente corretto, non fazioso e soprattutto non animato da pregiudizi nei confronti della cultura e della politica sarde.
Tutto ciò alimenta, in quei sassaresi che non si erano piegati né alle prepotenze né alle seduzioni dell’industrialismo rampante rovelliano, la speranza che il giornale possa tomare a quel ruolo di struttura portante della città che aveva svolto tradizionalmente prima di quel periodo di falsa modernità. In effetti molte innovazioni erano intervenute nella società sarda e sassarese in particolare: la nuova industria, qualunque fosse, aveva fatto superare d un balzo vecchi rapporti sociali, allargato le conoscenze tecniche, posto in contatto diretto giovani e non con tecnologie d’avanguardia e con problemi di mercato molto più vasti di quelli derivati da un’economia, per lo più chiusa, basata esclusivamente sul settore agro-pastorale e su industrie derivate da quello stesso settore.
Quella petrolchimica, però, era allora un’industria che dipendeva direttamente, sia per i finanziamenti sia per le necessarie autorizzazioni, dal potere politico-burocratico e ciò aveva, in un certo senso, “imposto” il controllo del sistema informativo e dell’industria culturale. In quegli anni, e non solo in Sardegna, si posero infatti le basi di quel sistema che oggi è saltato, almeno parzialmente, con lo scoppio di “Tangentopoli”.
Falsa modernità, dunque, perché si ripropose un sistema di potentati nuovi per l’origine, ma quasi feudali come struttura. Un sistema che vedeva Rovelli passare da controllato a controllore dell’apparato politico-amministrativo e sociale. E ciò proprio attraverso la pressione esercitata dal monopolio dell’informazione (dopo la Nuova Rovelli aveva acquistato anche l’Unione Sarda e aveva preso a controllare, attraverso agenzie di stampa e case editrici o semplicemente attraverso la pubblicità gran parte della stampa periodica e del mercato dei libri). L’intervento diretto della SIR nelle campagne elettorali o nella gestione politica non occorre argomentarlo: ne sono testimonianza i fatti. L’industria petrolchimica, infatti, riuscì a monopolizzare quasi tutte le risorse finanziarie della Sardegna sviluppando in modo abnorme l’industria di base e di fatto impedendo, (perché restasse Rovelli il solo interlocutore economico di fronte al potere politico), l’ingresso di altre industrie che avrebbero dovuto “scendere a valle”, come si diceva, nel processo produttivo.
Anche se una parte non irrilevante della borghesia, della cultura e della politica della città e della regione aveva accolto con l’entusiasmo dei neofiti la nuova situazione, un’altra parte non si era fatta travolgere acriticamente dai bagliori d’un temporaneo sviluppo che originava però molti pericoli per il futuro e che implicava un asservimento a temporanei interessi, sostanzialmente estranei alla Sardegna. Tali interessi infatti erano funzionali soltanto a quel tipo di industria basata sulla egemonizzazione da parte di questo o quel gruppo (era scesa in campo anche l’industria a partecipazione statale) dei finanziamenti pubblici, ottenuta spesso con la corruzione e comunque con il favore del potere politico. Un capitolo, cioè, di quella “guerra chimica” di cui un altro capitolo (e forse non quello finale) è quello che si celebra con il primo dei processi originati dalla vicenda Enimont.
E fu proprio all’interno della Nuova che cominciò quel moto di ribellione a questa nuova logica, imposta al giornale dal nuovo padrone. Non fu una lotta isolata e, in alcuni momenti, l’intera opinione pubblica soprattutto sassarese si schierò con i “ribelli’ e così anche, almeno nelle dichiarazioni, i principali partiti, sia di governo sia di opposizione. Di fatto però finì per prevalere il prepotere rovelliano e i “ribelli” furono costretti ad abbandonare il giornale.
Seguirono anni di “normalizzazione” durante i quali ci furono, nel settore dell’informazione, altri episodi rilevanti come Il Lunedì della Sardegna (che riprendeva I’ esperienza della Nuova del Lunedì, primo giornale in cooperativa fatto dai redattori della Nuova e costretto alla chiusura dalla SIR), TuttoQuotidiano, L’Altro Giornale e L’Isola. Episodi diversi, ma tutti originati dal primo monopolio dell’informazione instaurato da Rovelli. Tutti tentativi falliti, ma che avevano almeno tenuto viva la possibilità di un’alternativa al sistema instaurato.
Tutto ciò contribuisce quindi a spiegare oggi perché tanti sassaresi e tanti sardi – la lettera di Alberto Mario Saba, se pubblicata, avrebbe avuto moltissimi consensi – riponevano allora così larghe speranze nell’editore puro e, soprattutto, sul ruolo che avrebbe potuto riacquistare quel foglio che per tanto tempo era stato una bandiera per i Sardi ed anche il loro “difensore civico”. Ma perché proprio quel foglio?
Per la storia stessa della Nuova Sardegna. ll giornale è figlio di quella temperie culturale e politica - definita più tardi dagli storici come “democrazia sassarese”, laica, radicale e repubblicana che nel ventennio a cavallo tra i due secoli aveva non soltanto fondato la Nuova, ma ne aveva fatto l’organo di promozione politica e culturale della città, di controllo sociale del potere, di contatto con altre realtà, di dibattito e confronto di opinioni per Sassari e la Sardegna.
Soprattutto, la Nuova aveva fatto propria anche la tradizione anticonformista e laica della generazione che aveva preceduto quella dei fondatori del giornale. l fondatori erano tutti impegnati politicamente, alcuni di loro avrebbero più tardi e a lungo amministrato la città o l’avrebbero rappresentata in Parlamento. Era una tradizione di autonomia, di libertà e di pluralismo culturale. Un giornale certamente non rivoluzionario, si è detto, anzi profondamente borghese (nel senso che era proprio un prodotto del “borgo”, cioè della cultura della città), ma che non aveva alcun timore riverenziale nei confronti del potere costituito.
Anche se, con l'ironia suggerita dallo spirito di "cionfra" sassarese, quegli stessi repubblicani si autodefinivano «repubblicani per decreto reale», erano tali da non avere alcuna remora ad esporsi, anche in un periodo di monarchismo trionfante, contro la politica del governo, soprattutto quando si trattava di difendere i diritti della Sardegna. Ed anche questa era una tradizione di anticonformismo e di sensibilità alle idee nuove della città. Giustamente Giovanni Spadolini ricordò, parlando in Sardegna, che i sassaresi avevano chiamato una piazza centrale della città, "Piazza Tola", senza specificare se, dei due fratelli, la città volesse ricordare Pasquale (storico, magistrato, ossequiente alla monarchia) o Efisio, liberale e repubblicano che fu giustiziato a Chambery nel 1833.
Era quello stesso ambiente che aveva avuto suoi esponenti, come Gavino Soro Pirino (della generazione appunto che aveva preceduto quella dei fondatori del giornale), in continua corrispondenza con Giuseppe Mazzini, con Giuseppe Garibaldi e con Carlo Cattaneo, che aveva sostenuto Giorgio Asproni per il parlamento subalpino. Non fu certamente per caso se furono proprio Mazzini e Cattaneo a scrivere due pamphlet sulla Sardegna quando i Savoia volevano cedere l'Isola alla Francia. Era lo stesso tipo di cultura che, più tardi, dalle colonne della Nuova aveva duramente polemizzato contro il governo per le avventure africane. L'ambiente della Nuova era infatti fortemente influenzato dalle idealità mazziniane (sorse a Sassari la prima Società operaia sarda), ma anche dal radicalismo cavallottiano e dal costume massonico. Ciò tuttavia non aveva impedito al giornale di attaccare il massone Crispi, appunto per le guerre di conquista coloniali, con argomentazioni che oggi – dopo i libri di Levi Strauss e di Fanon – sarebbero giudicate modernissime anche da un anticolonialista. Nel resto d'Italia ci si commuoveva contro la "barbara zagaglia", nella Nuova si sosteneva che era sbagliato portare la guerra contro popoli che si qualificavano barbari soltanto perché diversi da noi: bene avrebbe fatto il governo a indirizzare verso la Sardegna, invece che verso l'Africa, le ingenti risorse impegnate nelle guerre coloniali.
Soltanto un cenno sulle caratteristiche di quel giornale, la cui storia meriterebbe un esame più approfondito e non inficiato da interessi attuali.
E’ ben vero che Alberto Mario Saba non era un lettore qualunque": avvocato, abbiamo detto, uomo di penna e di cultura ed esponente politico del Partito Repubblicano. Era stato egli stesso tra i collaboratori del giornale quando questo – dopo la ventennale pausa di silenzio imposta dal fascismo – risorse nel 1947. Anche suo padre, pure lui avvocato, giornalista e uomo politico, leader dei repubblicani sardi, Michele Saba, era stato tra coloro che più assiduamente avevano collaborato con la Nuova nel primo e nel secondo dopoguerra.
Alla rinascita della democrazia il quotidiano che allora usciva a Sassari, L’Isola, già di proprietà del Partito Nazionale Fascista, era stato affidato dagli Alleati al CLN sotto la direzione di Arnaldo Satta Branca, direttore della Nuova fino alla chiusura imposta dal regime. Michele Saba ne era, appunto, uno dei più autorevoli e costanti collaboratori.
Alberto Mario era allora uno studente universitario e già impegnato politicamente nel PRI. Il fascismo era caduto, i tedeschi avevano abbandonato la Sardegna e subito dopo erano sbarcati gli Alleati.
Lasciamo alla penna di Alberto Mario Saba la rievocazione di quel periodo. L’ha scritta – con lo pseudonimo di Antonio M. Sanna – nella prefazione del reprint del foglio goliardico Voce universitaria edito dalla EDES nel 1982.
«Il ciclone della guerra – scrive Saba – continuava, è vero, ad imperversare e la morte era sempre nell’aria; c’era la fame e ci si vestiva di teli di tenda o di vecchie coperte militari; ma almeno l’incubo d’una falsa austerità, rozzamente imposta e malvolentieri subita, che non si accordava in alcun modo con la primavera dei loro anni, era finalmente cessato. Quasi abbacinati dalla luce, all’improvviso risveglio da quel letargo nel quale erano sino allora vissuti, quegli studenti che non avevano conosciuto le aule dell’Università se non in occasione di brevi licenze per i frettolosi esami in grigioverde, si ritrovavano, spensierati e liberi, negli stessi locali ove erano stati adunati in camicia nera, matricole con la cartolina precetto in tasca. Era così bello per chi sino a quel momento aveva vissuto inquadrato, incontrarsi di nuovo, spontaneamente, esprimere in piena libertà le proprie idee, discutere per farle valere, decidere il da farsi, protestare, dissentire, senza che nessuno potesse più impartire ordini e senza che nessuna tromba intimasse l’attenti».
In questo clima nacque l’Associazione Turritana Universitaria (ATU) e, un anno dopo, nel novembre del ’45, uscì il primo numero di Voce universitaria, organo dell’ATU e palestra giornalistica per intere generazioni di sassaresi, alcuni dei quali continuarono poi il “mestiere” di giornalista anche nella vita. Foglio goliardico – pieno di battutacce, doppi sensi, scurrilità – ma anche foglio di dibattito culturale e politico al quale non disdegnavano di collaborare i professori più illuminati, esponenti politici e uomini di cultura come ricorda nella sua prefazione al reprint lo stesso Saba, che ne fu redattore fin dal primo numero. Voce universitaria, anche se saltuariamente, uscì fino al 1963.
In quegli anni, inoltre, Sassari vide anche un altro “miracolo giornalistico” (come fu definito): il settimanale Riscossa che, sotto la direzione di Francesco Spanu Satta, riunì giovani di ogni tendenza politica per progettare il futuro che si apriva dopo la fine della guerra e del fascismo. Spanu Satta aveva ottenuto il permesso dalle autorità alleate perché il settimanale fornisse l’esempio d’ un giornalismo libero e di aperto dibattito. Anche in quel giornale Michele Saba ebbe un ruolo importante con articoli e rubriche fisse. Ad esso collaborarono numerosissimi intellettuali, sardi e non, e ne citiamo soltanto alcuni come esempio: Mario Berlinguer, Giuseppe Dessì (lo scrittore era allora provveditore agli studi a Sassari), Bruno Mura (massone, uno dei fondatori del Partito Comunista Sardo, PCS, con Giuseppe Cassitta e Antioco Mura; il PCS, federalista, fu cancellato dal PCl di Velio Spano), Salvatore Cottoni, Antonio Borio, Antonio Segni, Salvatore Mannironi, Carlo Manunta Bruno, Angelo Giagu, Fiorenzo Serra, Renzo Laconi, Camillo Bellieni, Emilio Lussu, Nicola Valle, Salvator Ruju, Joyce Lussu, Montanaru, Margherita Bellieni, Mario Paglietti, Gonario Pinna, Francesco Masala, Antonio Boi, Lorenzo Giusso, Enrico Carboni, Antonio Bua, Gavino Alivia sotto lo pseudonimo di Oeconomicus, Giovanni Lilliu, Aldo Capitini, Remo Branca, Filippo Addis, Manlio Accardo, Severino Delogu, Guido Calogero, Giorgio Bassani, Antonio Simon Mossa, Nino Giagu, Franco Dessì Fulgheri, Luca Pinna, Marcello Serra, Gaetano Salvemini, Giosué Muzzo, Luigi Polano, Vico Mossa, Mario Azzena, Carlino Sole, Toti Mannuzzu, Gavino Perantoni Satta, Angelo Mannoni e tanti, tanti altri di tutte le parti politiche e di varie formazioni culturali. C’erano cattolici e comunisti, socialisti e liberal-socialisti, sardisti e liberali, monarchici, repubblicani e separatisti. Ed anche Alberto Mario faceva sentire la sua voce in Riscossa intervenendo con articoli e lettere polemiche.
Il “miracolo” di Riscossa – oltre che nel saper uscire in condizioni proibitive (mancavano carta e inchiostri) – stava nel fatto che aveva avuto diffusione in tutta la Sardegna raggiungendo tirature giudicate astronomi che peri tempi. Ma soprattutto perché dimostrava che, proprio in un’epoca in cui le contrapposizioni tra i blocchi andavano delineandosi nettamente, era possibile il confronto civile tra opinioni diverse. Per esempio, nonostante il giornale fosse caratterizzato dal comune antifascismo, aprì le sue colonne anche chi ancora si ispirava al fascismo; per confutarne le tesi, certamente, ma con una tolleranza per le idee avverse che allora non era certo molto diffusa.
Il primo numero di Riscossa uscì il 24 luglio 1944 (ad un anno esatto dalla caduta del fascismo), l’ultimo il 16 dicembre del 1946.
Qualche mese dopo L'Isola cessava le pubblicazioni e si trasformava in Corriere dell’Isola di chiara impronta democristiana, diretto anch’esso da Francesco Spanu Satta, che era un cattolico e non lo aveva mai nascosto anche se la sua redazione a Riscossa era prevalentemente laica. Qualche settimana dopo usciva nuovamente, dopo un silenzio durato vent’ anni, La Nuova Sardegna, diretto da Arnaldo Satta Branca, lo stesso direttore che nel ’26 aveva chiuso il giornale dopo una serie di sequestri ordinati dalla prefettura e dalla federazione dei Fasci di combattimento. Nell’ultimo numero del ’26 pubblicò soltanto piccole inserzioni pubblicitarie (ernia, calli ai piedi, brodo vegetale, preparati contro le emorroidi ed altre misture) e soltanto un “pezzetto” diretto «ai lettori». Vedete, diceva il “pezzetto”, pubblichiamo soltanto pubblicità, ma il regime che si è instaurato troverà egualmente un pretesto per sequestrare il giornale: sospendiamo perciò le pubblicazioni e «arrivederci a quando in Italia tornerà la libertà». Nel ’47, dunque, la Nuova riprese ricordando quel commiato e ribadendo il suo impegno di rimanere una tribuna libera.
In essa si riversò quasi tutto il mondo culturale e politico che aveva gravitato intorno a Riscossa. Il contraddittorio con il Corriere dell’Isola (giornale della parte politicamente vincente e che stava acquistando sempre più potere in tutte le sedi) durò dieci anni e nel ’57 – nonostante fosse sostenuto dalla DC e soprattutto dall’ETFAS che era diventato un vero potentato ed una vera “fabbrica di onorevoli” delle varie categorie – il Corriere fu costretto alla chiusura, mentre la Nuova da giornale stracittadino divenne un foglio regionale di grande influenza politica.
Quando nella sua lettera Alberto Mario Saba rievoca l’ambiente culturale e il costume del giornale non dà soltanto un suo parere personale, ma si appella alla storia della città e del giornale che lui, come la città, sentiva “suo”, a chiunque appartenesse.
In quel giornale si potevano trovare fondi di Antonio Segni, già allora esponente nazionale della DC, come di Luigi Polano (uno dei fondatori del PCI poiché alla scissione di Livorno era segretario della gioventù socialista), di Giosué Muzzo, monarchico, di Francesco Cocco Ortu, liberale, di Michele Saba, repubblicano, di Bartolomeo Sotgiu Pesce, sardista, di Salvatore Cottoni (prima sardista poi socialista infine socialdemocratico) e di Gavino Perantoni Satta, comunista etc. Sarebbero moltissimi i nomi da citare...
Il giornale che, in continua espansione, aveva dovuto cambiare per tre volte sede era diventato per Sassari – e non soltanto per Sassari – il crocevia dove tutti si potevano incontrare e ciò pur senza che la redazione mai rinunciasse a dire la sua su tutte le questioni rilevanti di politica comunale, regionale, nazionale e perfino internazionale.
Ciò che avveniva alla Nuova non era un fatto comune in quell’epoca di radicalizzazione della lotta politica. In un’inchiesta condotta da Nord e Sud, la Nuova veniva segnalata proprio per questo suo costume di civile dibattito aperto a tutte le forze. La stessa Unità, in una sua inchiesta, definì la Nuova «l’unico giornale borghese» che apriva le sue pagine anche ad esponenti comunisti. Quando la Nuova si trasferì dalla sede di via dei Mille alla sede attuale (all’angolo tra via Porcellana e via Morroni) sull’ area che fu, ironia della sorte, del Corriere dell’Isola, Arnaldo Satta Branca volle dei grandi pannelli con gigantografie che rappresentavano l’ultimo numero “storico” del ’26 ed i pareri sul giornale di Nord e Sud e dell’Unità. Era la riconferma di una linea politica ed editoriale ben precisa.
Scrive Saba: «ln quegli anni il giornale è stato anche un “cenacolo”, un punto d’incontro, per un gruppo di uomini che, nonostante la loro diversa formazione intellettuale e la differente loro collocazione politica, trovavano modo attraverso quelle pagine di esprimere il loro pensiero e di liberamente “colloquiare”, movimentando con la vivacità dei loro scritti l’apatica indolenza della vita di provincia e suscitando l’interesse dei lettori». E giustamente rileva che la ricchezza del giornale era data anche e soprattutto dalla ricchezza delle collaborazioni di coloro che definisce volontari «dei quali – aggiunge – [il giornale] coltivava l’amicizia ed ai quali era lieto di offrire ospitalità sulle sue colonne e – sottolinea – nei locali della sua redazione».
Ed era proprio così. In redazione si davano convegno politici e scrittori, amministratori pubblici e poeti, sindacalisti e massaie che raccontavano magari del rincaro improvviso, e a loro parere ingiustificato, delle zucchine. E poteva accadere che l’uomo di governo incrociasse per le scale il cittadino che era venuto in redazione per depositare il ciondolo d’oro che aveva trovato in strada.
Anche quando il giornale s’era ingrandito ed il sistema della sua lavorazione era diventato meno artigianale che in passato, la redazione continuava ad essere sempre affollata di amici e collaboratori. Talvolta finivano perfino per intralciare il lavoro poiché «i pochi, valorosi e apprezzati professionisti» - anche la sottolineatura è di Saba – erano aumentati di numero così come le pagine da comporre. Ma è anche da quelle chiacchierate, da quegli incontri, da quei dibattiti che si accendevano a più voci che nasceva la vivacità del giornale, il suo essere nella società e rappresentarla senza schemi precostituiti e, soprattutto, senza influenze esterne. Nasceva da quel contesto anche la capacità propositiva che il giornale, in passato, ha sempre avuto.
Consenta il lettore una testimonianza a chi scrive che di quel giornale è stato redattore, capocronista, redattore capo e direttore dell’edizione del lunedì (quando era fatta in cooperativa): per il pubblico, e soprattutto per i sassaresi, il giornale era un vero “difensore civico”. Se un qualunque cittadino avesse subìto una prepotenza o avesse subito una multa che riteneva ingiusta non andava né dal sindaco né si rivolgeva all’autorità giudiziaria: scriveva prima al giornale sicuro d’ essere tutelato. Chi ha avuto nel giornale determinati ruoli può testimoniare di essere stato coinvolto perfino in vicende strettamente private. Casi limite, si capisce, ma significativi perché testimoniano di quanto la gente sentisse “suo” il giornale.
Oggi non è più così. Forse non lo può essere più, ma quando Alberto Mario Saba scriveva ai due direttori “continentali” cercava di recuperare questo speciale rapporto che c’era tra la Nuova e i suoi lettori in tutta la Sardegna, ma con un particolare riguardo alla città di Sassari che non ha mai perso la memoria storica di essere stata repubblica e libero comune.
Il nuovo editore che tante speranze aveva suscitato non ha voluto raccogliere questa eredità che comprende anche le lotte che all’interno del giornale sono state fatte durante l’epoca rovelliana. Anzi, nella ricostruzione storica delle vicende del quotidiano scritta in occasione del centenario della Nuova, c’è solo un fuggevole accenno a quelle vicende come se anche il nuovo editore, che pure non aveva alcuna responsabilità, avesse bisogno di rimuovere dalla memoria quell’episodio di colonialismo culturale. Così come non ha voluto raccogliere il civile invito di Alberto Mario Saba, suggerito dalla sua sensibilità culturale e politica, certo non per interesse personale, ma per sentirsi a pieno titolo cittadino nella propria città e nella propria comunità. Ed anche, aggiungo, per rispondere meglio al nuovo ruolo che alla carta stampata ha dato lo sviluppo degli altri mezzi di comunicazione di massa. Oggi il giornale stampato non serve più per “dare la notizia” (a meno che non la crei con sue inchieste e altre iniziative) visto che quando il giornale esce la notizia è già risaputa perché diffusa da altri mezzi, soprattutto la TV. Oggi il giornale non deve dire che è accaduto questo o quello, ma deve aiutare a capire perché è accaduto.
L’editore avrà le sue buone ragioni per fare un giornale che nelle mitologie aziendali viene definito “di servizio”, ma che di servizio finisce per non essere; per essere invece – come scrisse Alberto Mario Saba – «di parte o di casta». Un giornale che può essere fungibile da qualunque altra testata purché abbia le necrologie, gli avvisi economici, qualche notizia di agenzia e un po’ di cronachetta. La Nuova è stata qualcosa di più.
(*) Le due lettere le ho avute in copia da quel formidabile “cacciatore” di documenti che è Gianfranco Murtas.
La collaborazione a “Ichnusa”
L’informazione alla porta di casa - n.1/marzo-aprile 1982
Nord contro Sud, centralismo contro autonomia - n. 3/dicembre 1982-febbraio 1983
Le elezioni regionali sono già cominciate - n. 4/marzo-luglio 1983
L’ottimismo della volontà può ancora vincere - n. 6/marzo-giugno 1984
Lentamente, ma cambiando - n. 9/ luglio-ottobre 1985
La stagione dei congressi e i conti in rosso dell’Azienda Sardegna - n. 10/maggio-giugno 1986
Si riparla della rinascita - n. 11/luglio-dicembre 1986
Vento sardista e aria da basso impero: elezioni, ma chi ha vinto? - n. 12/maggio-agosto 1987
Elezioni in archivio, le “cantonate” dell’informazione - n. 15/settembre-ottobre 1988
Da quando quest’isola non è più l’ombelico del mondo - n. 18-19/dicembre 1989
L’educazione a distanza: trasparenza anche… - n. 18-19/dicembre 1989
Criminalità, un tema che ritorna - n. 21/novembre-dicembre 1990
Parlamento nuovo, quasi Costituente. Aprile è il più crudele dei mesi.1 - n. 23/marzo 1992-febbraio 1993
Da quando quest’isola non è più l’ombelico del mondo (Ichnusa, 18/19, dicembre 1989)
Il cambio di maggioranza alla Regione dopo le elezioni di giugno scorso, pur importante, non è certamente da porre tra quegli avvenimenti di questa seconda metà del 1989 che possono essere definiti “storici”. Il fatto che PSI, PSDI e PRI – che, nei cinque anni precedenti, avevano dato vita a quella formazione “sardista, laica e di sinistra “ (l’ordine dell’aggettivazione cambia a seconda di chi parla) – abbiano scelto di formare il governo regionale con la DC anziché con PCI e PSd’A è certamente un fatto di grande rilievo, ma nemmeno lontanamente paragonabile a quanto sta avvenendo nel mondo. Eppure sono questioni che, in qualche modo, occorre coniugare. Vedremo perché.
Gli storici dell’avvenire paragoneranno senza dubbio l’estate e l’autunno di questo 1989 alle corrispondenti stagioni di due secoli prima, quel 1789 che dava inizio alla grande rivoluzione che fece compiere una svolta all’umanità; rivoluzione che, in un certo senso, continua ancora se si vogliono leggere alcuni fatti di oggi come il compimento di principi di allora rimasti inespressi nella nostra società. I cambiamenti in corso nel pianeta sovietico, lo stato più grande del mondo; la conclamata fine della ”guerra fredda”, la eco storica del crollo del “muro” di Berlino, un cattolico a capo del governo polacco, i russi che lasciano l’Ungheria e subito il locale Partito Comunista che cambia nome, le tensioni etniche, nelle regioni balcaniche, i tentativi di pace in Medio Oriente, il nascente mercato comune del Maghreb, il ritorno di Dubcek sulla scena politica, il ricordo di Tien An Men ed il ricambio generazionale cinese che persiste però in un comunismo che nemmeno il Centroamerica vuole abbandonare, il riemergere della questione tedesca, le tensioni monetarie all’interno della CEE, le grandi migrazioni di popolazione dell’Africa affamata verso l’Europa opulenta, il veterostalinismo albanese e il neostalismo rumeno; e poi il viaggio di Gorbaciov in Italia e soprattutto in Vaticano, il summit di Malta, l’ulteriore internazionalizzazione dell’economia, le paure del “sud del mondo” d’essere sostituito nei programmi di espansione dei paesi postindustriali con i paesi dell’est europeo, e insieme a tutto ciò il buco nell’ozono, il crescente inquinamento, l’effetto serra che minaccia di far innalzare gli oceani e sommergere molte isole, le crescenti siccità e i conseguenti dubbi sul tipo di sviluppo che si è affermato in questo secolo…
E, in casa nostra, l’annuncio a sorpresa del segretario del PCI Occhetto di mettere in discussione tutto, perfino il nome di comunista, per costringere tutta la sinistra (e in generale il sistema politico italiano) ad una riflessione, tuttavia con l’effetto di creare pericoli e sconcerto per la messa in mora di quello che si riteneva la “forma partito” (al di là dei contenuti) più riuscita.
Si potrebbe continuare a lungo. Tutti i temi molto più grandi e importanti delle piccole alchimie tra gruppi e partiti di un sistema politico come il nostro che per circa quarant’anni, pur asserendo di essere legato ai grandi avvenimenti internazionali, di fatto si è chiuso all’interno dei vari palazzi del potere e, comunque, in un provincialismo che serviva sempre a vantare una specificità che era soltanto di comodo per non avere controlli se non nel momento elettorale; un provincialismo scelto dunque, ma troppo spesso miope.
Di questa temperie politica – e quindi anche culturale ed estetica – la Sardegna è stata partecipe ed anche coinvolta. Ma non più di tanto se il cambio di direzione politica alla Regione è stato vissuto più come un fatto di cambio di alleanze tra vari gruppi di potere che come un fatto politico. Sarà forse perché tutti questi cambiamenti erano nell’aria, ma il dibattito sulle cause dell’insuccesso elettorale del PCI e, in parte del PSd’A, sulle delusioni della prima legislatura regionale tutta governata da una Giunta di sinistra, si è chiuso nell’ambito dei soli organi di partito. Quando, nel 1957 l’inaspettato successo dei monarchici popolari aveva ridimensionato tutti i partiti autonomistici, proprio “Ichnusa” si fece sede di un approfondito dibattito svoltosi senza eccessivi tatticismi. Questa volta la sinistra sarda non è stata capace di fare altrettanto e tutto si è risolto con un cambio di dirigenza nel PCI (come quando in una grande azienda va male la campagna di vendita di un nuovo prodotto) e con le 14 mozioni iniziali del congresso sardista. Sulle cause vere della crisi e, soprattutto, sulla crisi di “questa” politica, il dibattito è appena all’inizio e stenta a spiccare il volo. Ma, per paradosso, proprio il cambio di direzione politica e istituzionale, registratosi nella scorsa legislatura regionale, ha dimostrato quanto il sistema sia ammalato. Non è che la Giunta di sinistra non abbia fatto niente o che non avesse un obiettivo di rinnovamento e di riforma. Di fatto, però, il tatticismo tra i vari partiti della coalizione è stato tale che grandi cambiamenti non se ne son visti e gli elettori ne sono rimasti indispettiti.
E’ apparso evidente infatti che il funzionamento del sistema non era causato soltanto dal mancato ricambio dovuto alla “conventio ad excludendum” nei confronti del PCI, ma che vi è qualcosa di più profondo e specifico del nostro sistema politico che impedisce che, per esempio, quel minimo di servizi elementari forniti dallo stato sia proporzionale alle tasse e imposte che pagano (o che dovrebbero pagare) tutti i cittadini.
Per quanto riguarda la Regione sarda è stato evidenziato qualcosa di più che va al di là dell’argomentazione sulle “norme strette” dello Statuto speciale o del risorto centralismo ministeriale romano. C’è l’inadeguatezza di un personale politico troppo abituato al solo rivendicazionismo assistenzialistico e tutto informato alla mediazione tra i centri di potere romano e la distribuzione delle briciole ai gruppi che stazionano all’ombra dei singoli campanili elettorali.
Le grandi emergenze economiche, sociali e politiche degli ultimi decenni più che motivo di riflessione sono state spesso prese ad occasione per abbandonare ogni progettualità e per limitarsi alla gestione delle risorse che si riusciva a trasferire in Sardegna: tutti d’accordo nel raccattare quante più risorse possibile, l’uno contro l’altro per la divisione delle spoglie.
L’intreccio tra politica e affari, male comune dell’Italia e di altri Paesi sviluppati, in Sardegna, proprio per la elementarità della sua economia, significa ricondurre tutto ai soli trasferimenti pubblici, cosicché perfino le lotte tra le correnti, anche in un piccolo comune, finiscono in denunce anonime alla magistratura. E non si sa quasi mai quanto si stia facendo opera di moralizzazione o si stia “tirando la volata” a qualche altra cordata. Anche per questo, forse, il dibattito non si è fatto, e sempre di più sembra che la politica sia faccenda di pochi addetti ai lavori.
Eppure questo mondo che cambia così in fretta richiede un’altra qualità della politica, un’altra qualità del personale politico. Gli ultimi avvenimenti economici che riguardano la Sardegna – la questione del polo del vetro e la questione della gassificazione del carbone – sono paradigmatici. Dimostrano inconfutabilmente che il ruolo di mediazione tra Roma e Cagliari non basta (se mai è stato sufficiente) e che nell’economia di oggi occorre un altro tipo di classe dirigente che sappia partire, per restare ai due esempi fatti, dalle sabbie silicee e dal carbone Sulcis non solo per chiedere a Roma le risorse per sfruttare queste materie prime, ma per realizzare gli stabilimenti e mettere Roma (e con essa gli oligopoli e le partecipazioni statali) davanti al fatto compiuto. Se la specialità dell’autonomia non vuol dire anche questo, diventa inutile. Come inutile è la lotta politica se tutti i partiti fanno le stesse cose.
Non c’è grande dibattito, dunque, sul cambio della guardia alla Regione, né sul fatto che un governo di sinistra è ancora numericamente possibile, né sulle ragioni del “disincanto”. I grandi avvenimenti, internazionali e no, hanno forse suggerito un attimo di perplessità e di attesa, ma la velocità dei cambiamenti non consente pause troppo lunghe e occorre discuterne. “Ichnusa” ha cominciato a farlo.
La collaborazione a “Esse come Sardegna”
Piano delle acque o piano per il potere? Una programmazione che sta nel cassetto - n. 1/gennaio-marzo 1989
Saremo collegati con l’Europa in tempo reale: un “sistema nervoso” che spezza l’isolamento - n. 2/aprile-giugno 1989
Nove sono passate e la decima è quella dell’Europa: aperta la nuova legislatura della Regione sarda - n. 3/luglio-settembre 1989
Energia a volontà dal carbone gassificato del Sulcis: se finisse l’ostruzionismo di Enel ed Eni - n. 4/ottobre-dicembre 1989
L’informazione locale diventata un grande ‘business’: non essendo più il semplice supporto del potere - n. 5/I trim. 1990
Oggi è la Barbagia che invoca più regole e più Stato: secondo la commissione d’inchiesta regionale - n. 6/II trim. 1990
Un’autonomia che guardi anche all’Europa: la riforma dello Statuto della Regione sarda - n. 7/III trim. 1990
Non è più tempo di governi ‘assembleari’: una legge scomoda intralcia l’esecutivo regionale - n. 8/IV trim. 1990
La parola d’ordine per l’industria è ‘investire in cultura’: la nuova fase del processo di sviluppo - n. 9/I trim. 1991
70 anni di storia di un partito sardo e diverso: è stata celebrata la fondazione del Psd’az.- n. 10/II trim. 1991
Un ”occhio” a Bruxelles non basta per stare in Europa: è necessaria anche la riforma della Regione -n. 11/III trim. 1991
Non è solo questione di lingua: la legge che tutela la cultura delle minoranze - n. 12/IV trim. 1991
Un’autonomia che guardi anche all’Europa (Esse come Sardegna, n. 7/III trimestre 1990)
La “volpe argentata” per i giornalisti politici americani è la “first Lady”, la moglie del presidente Bush e sua più ascoltata consigliera. La stessa definizione ambientata in Italia, non può che attagliarsi alla figura del presidente del consiglio dei ministri, Giulio Andreotti. Da oltre quarant’anni sulla cresta dell’onda in ruoli sempre importantissimi, sottoposto ad attacchi durissimi, sospettato di essere il manovratore occulto di cento trame, è sempre riuscito a restarne indenne e, a tratti, ad essere addirittura esaltato, anche da antichi avversari. Una volpe, sì, ma non argentata, poiché i suoi capelli sono ancora scuri, appena incanutiti sulle tempie, a dispetto dei suoi settant’anni.
Alla volpe si attribuiscono abilità, astuzia e soprattutto una certa maligna furbizia nel volgere a proprio vantaggio le debolezze e le ingenuità dei suoi antagonisti o avversari. Andreotti ha certo queste qualità e, come si sa, la furbizia è una delle doti che gli italiani apprezzano di più. Eppure il discorso che Andreotti ha fatto a Cagliari, in apertura alla festa nazionale dell’Amicizia, non è stato un discorso furbesco o volpino. Almeno a proposito della questione che ai dirigenti politici sardi dovrebbe interessare di più: la questione dell’autonomia. O, meglio, l’adeguamento dell’autonomia sarda alla nuova situazione europea e alle previste riforme istituzionali. Su questo punto Andreotti è stato molto chiaro: l’Italia e la Sardegna di oggi non sono quelle del ‘47 quando sono stati elaborati Costituzione e Statuto. E, aspetto importante, ha parlato dell’autonomia sarda in rapporto alle necessarie revisioni costituzionali e intervenendo alla lontana nella polemica delle più generali riforme istituzionali. Qui sì che è stato astuto e alle questioni che dilacerano partiti e coalizioni di partiti ha fatto soltanto un cenno, ma sulla questione sarda non ha avuto incertezze. Anzi l’ha posta come esempio d’una questione più vasta, quella delle autonomie in generale. Sbaglia – ha sostenuto – chi ritiene che la nuova struttura che va assumendo l’Europa renda anacronistiche le autonomie. Anzi ne esalta il ruolo.
Dopo aver ricordato che la legge costituzionale che reca lo Statuto sardo è firmata da De Gasperi e che la più genuina tradizione democratico-cristiana ha sempre fatto delle autonomie un suo punto di forza, Andreotti ha rivendicato all’attuale Costituzione e all’attuale quadro istituzionale i successi dell’Italia democratica, le profonde trasformazioni economiche e sociali, il suo essere giunta ai primi posti tra gli Stati più sviluppati. In altri termini, Andreotti ha detto: sono necessari adeguamenti, correzioni, trasformazioni anche, ma con giudizio e in un quadro costituzionale non molto diverso da quello attuale.
Ad un successivo dibattito alla stessa “FestAmicizia” ha approfondito questi temi, talvolta con analisi molto precise e pertinenti, tal’altra tenendo più presenti le tattiche all’interno delle fazioni interne alla Dc o ai futuri rapporti con il Psi o con il Pci. La questione, comunque, è matura perché si riparli quanto prima della revisione dello Statuto sardo. Il capogruppo della Dc al consiglio regionale, Antonello Soro, infatti, ha annunciato che il suo gruppo chiederà la ricostituzione della commissione consiliare speciale per le riforme istituzionali e per la riforma dello Statuto, decaduta col decadere della passata legislatura. Come si ricorderà, il tema della riforma dello Statuto non è di oggi. Già allo scadere dell’VIII legislatura in relazione al nuovo piano di rinascita, ma non solo a quello, si era sviluppato un dibattito politico intenso tra i partiti autonomisti e pareva abbastanza vicina un’intesa sui punti principali di questioni così centrali per l’autonomia. Le polemiche pre-elettorali avevano impedito che si giungesse ad una risoluzione comune, ma il tacito accordo prevedeva un’immediata ripresa di questi temi subito dopo le elezioni. Non fu così. Tutta la IX legislatura è trascorsa senza che su quelli che venivano definiti i “temi fondamentali dell’autonomia” si trovasse una piattaforma comune. Anche il terzo piano di rinascita si è arenato nelle secche parlamentari e soltanto in questi mesi (e siamo alla decima legislatura regionale) pare che qualcosa si stia muovendo.
Per quanto riguarda invece lo Statuto qualcosa accadde nel corso della IX legislatura. Il consiglio, con legge, istituì due commissioni speciali, una per un’indagine conoscitiva sulle nuove forme di criminalità nelle zone interne, ed una, appunto, sulle riforme statutarie. Prima il rinvio del governo e poi le questioni interne nella maggioranza di allora per la presidenza della commissione (rivendicata sia dai sardisti sia dai comunisti) fecero sì che i lavori cominciassero molto tardi, quasi a ridosso della campagna elettorale. Sotto la direzione dell’onorevole Francesco Cocco, la commissione speciale per lo Statuto svolse un lavoro abbastanza produttivo, poiché si giunse ad una sintesi che, a parere di molti, può essere assunta come base di discussione oggi. Tale documento, però, non fu mai reso ufficiale ed oggi ne riparlano i sardisti che, come si ricorderà, presentarono nella scorsa legislatura un progetto di legge d’iniziativa popolare. Ora hanno ripreso quel testo riproponendolo come legge d’iniziativa regionale presentata dai consiglieri sardisti e dichiarandosi, nel contempo, disponibili alla discussione con gli altri partiti autonomisti, appunto su questo testo, non trascurando però né la sintesi operata dalla commissione speciale, né i documenti che in materia avevano presentato il Psi, la Dc ed il Pci.
I sardisti hanno colto il momento buono per presentare un disegno di legge – che, assicurano, s’inserisce perfettamente nel quadro costituzionale e normativo generale della Repubblica – che soltanto qualche mese fa avrebbe scatenato molte polemiche; oggi tutti i partiti maggiori – spinti dal successo delle leghe – parlano di “regionalizzazione” dello Stato e degli stessi partiti.
Tutto il primo anno della decima legislatura è trascorso senza che la questione fosse riproposta all’ordine del giorno e ora finalmente è ritornata d’attualità proprio con la festa grande della Dc.
La questione, però, si è fatta ancor più intricata: non soltanto perché si avvicina la data della più stretta integrazione europea, ma perché è avanzato anche il dibattito sulle riforme istituzionali e sul referendum sul sistema elettorale con tutte le conseguenze che è facile immaginare per i rapporti interni ai partiti e per i rapporti tra Dc e Psi nella coalizione di governo.
E’ evidente infatti che un buon sistema delle autonomie (e delle autonomie speciali in particolar modo) che possa funzionare in un’economia aperta a tutta l’Europa deve essere coerente con le riforme costituzionali annunciate. Se, per esempio, si dovesse conservare il sistema bicamerale, c’è il problema di differenziare le competenze delle due camere e, secondo le tesi più diffuse, il senato potrebbe diventare una “camera delle Regioni” a rappresentanza paritetica in modo da costituire la camera di compensazione in uno Stato caratterizzato da forti differenze regionali e da forti divari di sviluppo tra regione e regione. Le sparate propagandistiche delle varie leghe denunciano analisi certamente sommarie e superficiali, ma costituiscono pur sempre il sintomo di un malessere che non può essere sottovalutato. Soprattutto in regioni come la nostra dove, a seconda delle soluzioni che saranno trovate, si rischia di veder aumentare il divario in senso negativo con le altre regioni italiane e con le altre regioni europee.
L’accenno di Andreotti ai tempi cambiati relativamente agli anni della Costituzione e dello Statuto, non è stato casuale. I dirigenti politici italiani (ma non soltanto loro) si trovano oggi nella non facile posizione di chi deve riparare il treno mentre continua a correre. In un Paese come il nostro in cui si è accettato con troppa facilità che accanto alla Costituzione scritta siano potuti crescere una prassi, un costume, un modo di pensare e di agire che pur non discostandosi molto dalla norma non coincidono con essa e in cui si è accettato di essere in pratica governati dalla cosiddetta “costituzione materiale”, in questo Paese – dicevamo – è ben difficile progettare profondi cambiamenti necessari per adeguarlo al nuovo contesto europeo e internazionale senza toccare interessi ben radicati, senza provocare reazioni.
Ancora maggiori, dunque, i pericoli per la Sardegna che, nonostante la specialità del suo Statuto, è stata sovente trascurata o ignorata. Le regioni più forti e più sviluppate, infatti, avranno interesse ad appiattire le specialità di alcune regioni marginali ed a ritagliarsi uno spazio di contrattazione più ampio – e più libero dagli impacci romani – con altre regioni parimenti o più sviluppate. Ciò che sta avvenendo con l’organizzazione dell’Alpe Adria, che riunisce regioni italiane, jugoslave, svizzere e austriache, è significativo e spiega perché, per esempio, il ministro Bernini (ex presidente della Regione veneta) chieda per le Regioni, nella stessa occasione della “FestAmicizia”, un più ampio potere di trattazione in materia di commercio internazionale nell’ambito della Cee e degli altri Paesi europei.
Difficilmente gli stessi poteri potrebbero essere dati alla Sardegna e alla Sicilia per trattare, poniamo, i problemi della pesca nel Mediterraneo direttamente con gli stati dell’Africa settentrionale che sono frontalieri. O, vista dall’altra parte, ben difficilmente la Francia darà alla Corsica – che pure gode di uno statuto particolare rispetto alle altre regioni francesi – più poteri per trattare direttamente con la vicina Sardegna, perché dovrebbe dare molti più poteri anche ad altre regioni di confine limitando così il suo tradizionale centralismo.
E’ ben vero che nel nostro quadro istituzionale – creato all’indomani del fascismo e dopo l’esperienza della presa di potere da parte di una fazione che, conquistata la Capitale, ha conquistato tutto il Paese – il potere esecutivo (il governo) è spesso imbrigliato da una serie di controlli che ne limitano la capacità di intervento tempestivo. E’ però altrettanto vero che, per esempio, il terrorismo non è riuscito a colpire (come sosteneva) il “cuore dello Stato” proprio perché lo Stato di cuori ne ha tanti e la struttura regionalistica ne costituisce uno.
Mettere insieme efficienza di governo e garanzie di pluralismo non è dunque facile. Soprattutto quando ci si prepara ad entrare in un contesto di tipo statuale più ampio quale sarà l’Europa unita, almeno sotto l’aspetto economico. Ancora più ardua la selezione quando sono irrisolti i problemi posti dai forti divari di sviluppo esistenti tra le varie regioni del Paese o quando – come nel caso della Sardegna e della Corsica – vi sono ragioni non temporanee di diversità: la lontananza dal resto del continente, ma anche la posizione strategica nel Mediterraneo occidentale.
Sono aspetti che, seppure presenti anche nel passato, sono diventati oggi di estrema attualità; e forse alcune delle elaborazioni del passato devono essere aggiornate, in relazione anche alla crisi dei partiti e delle istituzioni e alla necessità invece di avvicinare quest’ultime ai cittadini. Le discussioni sui sistemi elettorali, al fondo hanno questa motivazione. Ma anche la questione del sistema elettorale non può essere disgiunta dalla struttura costituzionale generale in mondo che, per esempio, le limitazioni della rappresentanza parlamentare non diventino limitazioni ulteriori per le regioni meno densamente abitate e meno sviluppate.
Soltanto alcuni accenni, dunque, per indicare su quali tipi di problemi dovrà incentrarsi la discussione. Sono questioni difficili, ma occorre affrontarle senza perdere altro tempo.
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