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Gianfranco Murtas

Riflettendo ancora sugli aggiustamenti territoriali delle diocesi sarde

di Gianfranco Murtas

La recentissima (ma informalmente annunciata da tempo) nomina di don Antonello Mura a vescovo di Nuoro, associando al nuovo ufficio quello di amministratore apostolico di Lanusei – sede quest’ultima di provenienza del presule, al governo ogliastrino ormai dal 2014 – conferma quanto risaputo essere nelle determinazioni della Santa Sede e della Conferenza Episcopale Italiana circa la riduzione delle circoscrizioni diocesane in Italia, e tanto più nel sud continentale e nelle due grandi isole. Il tanto era stato anticipato non più di due-tre mesi fa con il trasferimento di padre Roberto Carboni da Ales-Terralba ad Oristano e il mantenimento, da parte sua e ad interim, del governo alerese nella forma dell’amministrazione apostolica.

La modalità “dolce” scelta è stata quella di assegnare al più giovane vescovo della diocesi minore da accorpare la responsabilità canonica di quella maggiore di futuro (ipotizzato) aggregamento, lasciando a lui stesso l’amministrazione apostolica della circoscrizione appena lasciata. In tal modo le comunità parrocchiali, quelle religiose, quelle laicali di qui non avrebbero sentito (e non sentirebbero) la pena dell’orfanato, ma ancora avrebbero avvertito (e avvertirebbero) la custodia e l’accompagnamento dalla confermata confidenza del loro vescovo conosciuto ed amato. 

Sarebbe stata questa – tale è –, per la fase data, come una applicazione speciale della modalità canonica detta della unione “in persona episcopi”, che nella Sardegna anche degli ultimi decenni ha avuto un precedente a Bosa ed Alghero: nel 1972, infatti, il vescovo di Bosa Francesco Spanedda (nella cattedrale della Immacolata Concezione dal 1956) ebbe dalla Santa Sede la responsabilità diretta e piena anche della diocesi di Alghero, reduce da una prolungata amministrazione apostolica da parte di monsignor Paolo Carta metropolita di Sassari, e, nell’ultimo biennio (se ben ricordo) commessa a lui stesso. Le due diocesi dunque funzionarono unite “in persona episcopi” da allora e fino al 1986 (nel frattempo, esattamente nel 1979, a monsignor Spanedda, trasferito ad Oristano e poi fatto presidente della CES, era però successo monsignor Giovanni Pes), quando si procedette alla vera e propria fusione delle due circoscrizioni. Il titolo associò con il trattino i nomi delle due Chiese storiche di Bosa e di Alghero; la sede episcopale fu fissata in Alghero, il giornale che resistette fu quello di Bosa (Dialogo, a lungo diretto proprio da don Mura!), che per la sua cattedrale ottenne il rango di concattedrale. E tutto pare andò bene e va benissimo ancora oggi con un signor vescovo come don Mauro Maria Morfino salesiano di alta competenza biblica e dottrinale e fine spiritualità. 

(Vien ora da ripensare a tale esperienza algherese-bosana, e ai suoi vari passaggi, così come anche, per quanto poteva riguardarlo direttamente ancorché più da testimone che da protagonista, ne riferì monsignor Carta nel suo “Storia del mio sacerdozio, 28 luglio 1935-28 luglio 1985”, uscito in Miscellanea ieri e oggi Notiziario Diocesano, a cura di Gianfranco Zuncheddu, vol. II, Quartu S. Elena 2000. Così scrive il compianto arcivescovo emerito di Sassari: «Accettate le dimissioni per limiti di età del Vescovo Mons. Chiuchini, l’8 gennaio 1967 venne affidata a me la diocesi di Alghero come Amministratore Apostolico Sede Vacante. E per quattro anni sulle mie povere spalle, con la croce di Sassari, gravò anche la croce di Alghero, il cui territorio si estende da Alghero e Olmedo fino a Noragugume e Bolotana. […]. Partecipai a tutti i Convegni del Clero e del Consiglio Presbiterale, ma, purtroppo, come già a Foggia e a Sassari, commisi qualche errore negli interventi di autorità. Fui, però, leale nell’interpellare il Capitolo della Cattedrale circa l’aggregazione della diocesi, nella riforma allora in atto, a Sassari o a Bosa. E avuto il documento che esprimeva la preferenza per Bosa, non solo lo trasmisi a Roma con mio parere pienamente favorevole, ma di presenza convinsi il Prefetto della Congregazione dei Vescovi a decidere in favore dell’aggregazione a Bosa»). 

Nei passaggi della storia  

Ragioni storiche secolari e addirittura millenarie avevano radicato in microterritori le chiese cattedrali con tutto quello che ne sarebbe derivato in termini di corte episcopale ed organizzazione ecclesiale. 

Le dinamiche demografiche e socio-economiche hanno via via diminuito oppure accresciuto l’importanza di quei territori e, magari per converso e in compensazione, di altri viciniori, per cui sono cambiate le scale, chiamiamole gerarchiche, nella definizione dei complessivi assetti interni delle Chiese regionali. E d’altra parte basterebbe vedere un momento soltanto quel che è avvenuto in Sardegna stessa nel corso dei due millenni di vita cristiana per rendersi conto degli appassimenti e dei nuovi sbocci di realtà diocesane qua e là diffuse per zone e province, coste e montagne.

Si andò, in quanto a formali costituzioni canoniche, come a ondate nei secoli del primo cristianesimo e poi in quelli dell’alto medioevo (età bizantina), seguì un’ondata nella piena era giudicale mentre ai primi del Cinquecento – alla vigilia rinascimentale e, nell’Isola, in epoca già spagnola (esauritasi quella aragonese) – si marciò per formidabili ed imperativi abbattimenti e per correttive aggregazioni. Nuovi aggiustamenti si ebbero nel Settecento e anche nell’Ottocento, e dopo ancora…

La nostra Isola conta una decina di diocesi storiche di cui è rimasto soltanto il titolo attribuito oggi a un vescovo per lo più dei ranghi della diplomazia vaticana o dei supporti pastorali e amministrativi di diocesi e archidiocesi anche estere. Diversi di loro sono religiosi, benedettino quello di Castro, immacolatino quello di Tharros (deceduto di recente), ecc. e rappresentano il mondo: tedeschi quelli di Castro e Fordongianus, di Sorres e di Dolia (quest’ultimo anch’egli scomparso di recente), polacco quello di Ottana, brasiliano quello di Ploaghe, africano del Cameroun quello di Suelli, italiano quello di Santa Giusta

 Altre diocesi hanno poi conosciuto vicende parzialmente diverse: mantenendo il titolo ma associandosi a diocesi contermini: Ampurias (vale a dire Castelsardo) con Tempio Pausania (in rimpiazzo di Fausania, e ancora Civita, in Olbia, dal VII e dall’XI secolo rispettivamente e da qui per oltre quattro secoli); Terralba con Usellus, e perciò Ales (nei rimaneggiamenti impegnativi anche qui svariati secoli muovendo dal basso medioevo fino alla stazione cinquecentesca); in epoca più recente Bosa (l’antica Senafer, o Sanafer, riecheggiante Cornus, del V secolo) con Alghero. Oppure mutando denominazione, come Galtellì diventata ormai soltanto Nuoro, o Sulci (del IV secolo) diventata Iglesias.  

Nel territorio oggi della Chiesa diocesana di Ozieri erano un tempo (dal sec. XI al XVI, al 1503 per la precisione) le due distinte diocesi di Castro (o Castra) e Bisarcio; al polo opposto, nel Cagliaritano cioè, pure dall’XI sec. e fino al 1503, sotto l’impero pontificio di Giulio II (succeduto a papa Borgia), era la diocesi di Dolia e, fino al 1420, sotto il governo di papa Martino V, quella di Suelli: entrambe inglobate nella metropolitana di Cagliari, così come per quasi tre secoli anche quella stessa di Galtellì (soltanto all’inizio aeque principaliter); inglobate così come quelle del Logudoro-Monteacuto-Goceano, sia pure passando per Ottana, e poi dopo per Alghero, risvegliate centocinquant’anni fa nella circoscrizione ozierese (inizialmente detta essa stessa, nuovamente, di Bisarcio), come al pari risvegliata sarebbe stata, nei primi decenni dell’Ottocento Suelli ma nelle forme diocesane di Ogliastra, prima con sede di curia a Tortolì poi a Lanusei.

Fra i due capi isolani ecco l’Oristanese: Fordongianus (certamente fra le sedi più antiche, rimontando addirittura al IV secolo) fu accorpata intorno al Mille, forse prima, a Santa Giusta, e con quest’ultima – costituitasi formalmente nell’XI secolo per le glorie giudicali (e a doppio territorio! con Barigadu e Guilcer e perfino Barbagia – soppressa nella… ecatombe del 1503 a favore della metropolitana di Oristano. In tale contesto, ma con una datazione più remota, stabilendosi fra il V e l’XI secolo – secondo lo stesso percorso di Fordongianus – sarebbe collocare la diocesi di Tharros, rievolutasi in quella di Oristano (anche perché le origini del capoluogo arborense parrebbero doversi situare proprio intorno al Mille, con il trasferimento della popolazione dalla più antica città che fu colonia fenicia).

In gioco nel centro isolano fu anche la diocesi di Ottana, resistente con la sua cattedrale di San Nicola per quattro secoli, dall’XI al XVI (fino cioè alla falcidie giuliana della Aequum reputamus), e ricondotta quindi ad Alghero, che infatti mantenne a lungo sorprendenti (all’apparenza) presenze barbaricine. 

Nel Sassarese, fasti religiosi con regali giudici e monaci vallombrosiani e camaldolesi (a Saccargia) visse la diocesi di Ploaghe (egualmente dall’XI al 1503) e del pari quella di Sorres (ad alta concentrazione di monasteri anch’essa), entrambe assorbite dalla metropolitana sassarese, sorta anch’essa, con sede episcopale in Turris nei tempi rimasti noti come quelli di Ambrogio e Agostino, in Sardegna di Lucifero, e dal Mille (e per quattrocento anni) con il titolo di Torres.

Neppure si dimentichi che, tanto più nella Sardegna centrale, in varie circostanze è capitato che il trasferimento canonico abbia interessato soltanto alcune comunità parrocchiali, in capo a singoli comuni: se Villamar e Villacidro furono oggetto di permuta fra le diocesi di Cagliari ed Ales al tempo dei vescovi Delbecchi e Pilo nel 1767, ben più di recente – nel 1938 – toccò alle comunità di Ottana, Orotelli, Orani, Oniferi e Sarule passare dalla diocesi di Alghero a quella di Nuoro, e dalla provincia ecclesiastica di Sassari a quella di Cagliari. E gli esempi, pur marginali, potrebbero moltiplicarsi.

A gettare come un soffio di umana vanità in cerca di legittimazione nelle datazioni martirali della Chiesa delle origini, contribuirono a tutti questi rivolgimenti, invero non tutti santi, anche le rivendicazioni di primato fra le metropolie di Cagliari e Sassari (e Pisa), che la Santa Sede, o la curia romana o il papato in prima persona, gestirono per secoli con le diplomazie dell’equivoco… o l’equivoco delle diplomazie, fino alla decadenza o prescrizione del contenzioso, secondo la logica delle foglie secche che cadono dall’albero nell’autunno che verrà, nel primo Novecento, quando peraltro ancora sulla carta loro intestata si faceva eguale curioso (e anche bizzarro) riferimento al primato della propria mitria da parte dei presuli sommi di Cagliari e Sassari… 

Ripensare la Chiesa, ripensare il lievito

La vicenda d’oggi – l’invito-direttiva papale agli organi di curia e della CEI di lavorare per la semplificazione e la riduzione di circa un terzo delle diocesi attive sulla scena nazionale – si configura dunque, anche per quanto ci riguarda, come un flusso di rettifiche territoriali, che forse non andrebbe enfatizzato in assoluto in negativo (e invero neppure in positivo). Naturalmente ciò sempre che si sappia collocarlo in un quadro d’intensità pastorale e sociale che, oltre a giustificarlo con ragioni di beata efficienza e magari di bilancio, sia pure in grado di contenere e restituire alla Chiesa tutta e alla società tutta contenuti davvero nuovi, d’alto profilo comunitario e comunionale. Sennò tutto resterebbe nelle logiche amministrativo-burocratiche come si trattasse di rimodulazioni aziendali, d’una banca o – come anche è in discussione nell’Isola oggi – d’un sistema sanitario. 

E dunque? Dunque occorre almeno riattingere dal Concilio Plenario Sardo (messo in non cale dall’episcopato sardo degli ultimi due decenni quasi) quegli elementi espressamente individuati di concertazione operativa fra gli agenti di missione – chierici soprattutto – che potrebbero, in una qualche misura, prescindere dagli assetti strutturali, giuridico-materiali, delle diocesi.

A poco servirebbe, infatti, opporre alle intenzioni e anzi alle volontà esposte dalla maggiore autorità – che ben sa come in Argentina le diocesi siano molto meno della metà di quelle italiane – le benemerenze particolari, quelle storiche non meno delle correnti. Argomenti forti, s’intende, ragioni virtuose da raccogliere perché altri impari, da raccogliere e magari diffondere per modello sperimentale… Ma pure, io credo, cedendo a superiori volontà di geometria semplificatrice, si potrebbero salvaguardare soggettività – soggettività più che autonomie – ove, ad esempio, una Chiesa locale destinata al sacrificio potesse oggi qualificarsi, sotto il profilo della riflessione e della proposta circa i nuovi scenari possibili, ipotizzati e forse necessari, per una spinta originale volta a diversi e più alti, o maturi obiettivi.  

Ove le linee-guida del Concilio Plenario Sardo potessero trovare ricezione e pratica e convinta applicazione da parte delle Chiese locali – dei vescovi in primo luogo, per il grosso palesemente inadeguati –, il range canonico come è stato finora definito – con quel tanto di organi deliberativi o consultivi, con le complessità di curie e tribunali e commissioni, ecc. – avrebbe minor importanza e le macrodiocesi, da scorgersi forse nelle storiche province ecclesiastiche, quelle rette cioè da un arcivescovo metropolita, ben potrebbero soddisfare i due corni del problema: da una parte favorire e supportare nel concreto la circolarità ed efficacia della pastorale, dall’altra rispettare le antiche identità socio-territoriali, pur se col rango di macrovicarie e non di diocesi, delle circoscrizioni abbattute. Ogni diocesi abbattuta potrebbe poi, nel concreto, ridisegnare se stessa promuovendo ogni legittima particolarità e tradizione come i tempi nuovi consiglierebbero: ma tutto riconducendo, ovviamente, alla imprescindibile e sola orientatrice matrice valoriale, recuperando il senso di sé dal pugno di lievito che gioca in dinamica con la pasta da fermentare, senza volerla assoggettare ma sviluppandola, come ha detto tante volte papa Benedetto XVI, per “attrazione”. Rispettando autonomie e laicità piena dell’ordinamento pubblico e della stessa prassi politica, e invece partecipando al gioco sociale in chiave puramente oblativa della propria esperienza spirituale e culturale.

Se tornasse ad essere la sostanza della missione il centro degli interessi di tutti, il fatto puramente organizzativo-burocratico e giuridico od ordinamentale ecclesiastico perderebbe di rilievo. E tutto dovrebbe partire – di lato alle riconsiderazioni di coscienza prettamente evangeliche del vissuto di singoli e comunità, di lato cioè a un rilancio o a una purificazione della tensione spirituale personale e d’associazione, che è base sempre di tutto – con una riflessione critica ed aggiornata sullo stato presente della Chiesa locale stessa, ivi comprendendo i dati anche delle… consistenze di partecipazione: così alla messa comunitaria festiva, così ai sacramenti (dal battesimo alle cresime – speriamo con ripensamenti incisivi circa le modalità – e i matrimoni), così alle occasioni promosse per un utile generoso e solidale. 

Nella Chiesa fatta comunità, che è lievito per la maggior pasta rispettata nella sua complessa identità, entrerebbe bene il volontariato idealista ed operaio, d’affiancamento, istruzione e soccorso, ed entrerebbe allora, mosso dalle nuove sensibilità sociali, tutto il faticoso impegno per una società pienamente inclusiva, in accompagno ai sofferenti estremi dirimpettai delle “regole” finora ingessate della bioetica libresca: e un orientamento deliberativo come fu quello del cardinale Ruini (praticamente ateo, svuotato di vangelo fino all’estremo) riguardo all’accompagnamento religioso di un Piergiorgio Welby in partenza per il paradiso sarebbe riconosciuto vergognoso svarione di un sinedrita. Per il che: entrando in dibattito sulla grande riforma emancipata finalmente dalla sola esibizione delle forbici diocesane, la parresia dovrebbe rivendicare il diritto e prima ancora impegnare il dovere della responsabilità chiamala pure evangelica, e non cercare altre aggettivazioni. Quando il clericalismo oscura lo spirito ecclesiale, è la controtestimonianza che si afferma e purtroppo le schiene curve (o le bocche chiuse) di tutti – tutti – i vescovi sardi di questo hanno misurato la portata, così come, in altro campo, è stato per la sorte del Concilio Plenario Sardo, andato in malora per la prepotenza di uno e, come detto, l’acquiescenza complice della platea senza dignità.

Fra il vangelo e la storia, con la nostra responsabilità

Sono veramente le grandi questioni della bioetica – del fine vita – e dell’etica familiare che meriterebbero il primato di analisi e giudizio responsabile a dover dare nuovo sapore alla testimonianza attrattiva del lievito che fermenta la pasta; ma molto è da fare e rifare nella preparazione dei chierici nei seminari, da cui stanno uscendo a centinaia (e fortunatamente i numeri dei licenziati non sono più migliaia: dono di Provvidenza!) i giovani che fanno i preti mascherandosi con il vestiario dell’Ottocento e scambiando l’anticaglia per la tradizione; molto è da fare nelle parrocchie dove tutto o troppo è ancora nelle mani di preti onnipresenti, cresciuti alla scuola di un modesto leaderismo autoreferenziale che si traduce in una sconfitta atomistica delle comunità particolari e della più grande comunità appunto diocesana (non disturbo per non essere disturbato, e al diavolo chi dice “ma dove eri tu quando quella ingiustizia si è compiuta per mano del tuo collega parroco, o per mano del tuo vescovo?”).

Ripensare gli assetti diocesani implica prima di tutto porci davanti alla realtà sociale come è oggi per proporre un libro di vita, non fatto di fogli ma di esempio ispirato. Significa ad esempio qualificare l’immissione pastorale dei giovani sacerdoti con un apprendistato di uno, due anni in terra di missione, prima del rientro fra le sicurezze e i conforti della casa canonica, della retribuzione della cassa ex 8 per mille, ecc. Per diventare samaritani bisognerà saper essere soccorsi dai samaritani, accettare il ruolo cadetto di chi ha l’umiltà di ricevere, non l’inconfessata supponenza di chi può permettersi di dare il suo superfluo… E affacciandosi sul nuovo sociale bisognerà saper imparare dalla umanità più improbabile, per esempio dalla umanità delle famiglie allargate (extracanoniche) e delle famiglie arcobaleno (peccatrici per definizione).

Mi sovvengono le parole di un gran prete che fu per mille giorni nel Vietnam in guerra e dal Vietnam in guerra fu cacciato dal potere militare e coloniale per l’incompresa parresia ch’egli non frenava: “Non ho neppure trent’anni, vorrei incontrarmi, confrontarmi con i preti giovani come me. Ho bisogno di tornare all’infanzia quando volevo crescere per diventare prete, invece che diventare uomo. È cambiata oggi la prospettiva”. 

Mi sovvengono anche le osservazioni del cardinale Carlo Maria Martini sul ritardo di secoli della Chiesa cattolica, o dei suoi apparati, sui tempi della storia, che sono i tempi sociali e più drammaticamente, in tanti campi, i tempi umani, dell’uomo solo e insicuro che necessita, in urgenza, di fraternità e non di paternalismo comunque sciroppato.

Ripensare, per accettare o non accettare, i nuovi assetti diocesani dovrebbe impegnare a nuove condotte nell’ordinario, a nuovi stili coerenti a più evidenti motivazioni: si tratterebbe di imparare a fare comunità mattina e sera in mix fra battezzati chierici e battezzati laici, dando corpo a quelle formazioni pastorali che muovono se stesse per il servizio e soltanto per il servizio nella dimensione comunionale, senza conformismi, con equa santità. Si tratterebbe anche di fare cultura e dibattito sulla stampa, quale che sia per il tanto di tecnologia disponibile, senza gli impedimenti censori del malvezzo clericale, che ha finora impedito, anche in Sardegna, che il giornalismo cattolico fosse altro dalla pratica dell’ufficio-stampa.

Concludendo

L’amore speciale alla propria cattedrale come “chiesa madre” del territorio – che dunque è più che al campanile inteso nel vieto senso municipalistico, d’un orgoglio quasi egotistico e addirittura rivaleggiante – meriterebbe d’essere preservato così come ogni carattere identitario educato però all’incontro e alla comunionalità. 

La prossima fuoriuscita dalla compagine episcopale dell’arcivescovo Miglio e la sua sostituzione con un confratello che non porti più il bacolo operaio soltanto per scena, potrà dare quel tanto di sale alla assemblea ecclesiale che fra meno di due anni dovrebbe convocarsi, a norma del CPS, dopo la diserzione colpevole del 2011? Ricordiamo le parole dell’arcivescovo Tiddia, che fu segretario generale del Concilio, in occasione dell’incontro che organizzarono allora, in sostituzione, e col dispetto dei vescovi Mani e Sanna soprattutto, gli amici di Fondazione Sardinia; ricordiamo le parole serene e qualificate del professor Antonio Pinna; ricordiamo le parole severe e istruttive del compianto padre Raimondo Turtas; ricordiamo anche le parole dotte ed ispirate dell’indimenticato amico nostro don Efisio Spettu sacrificato come qualche diocesi d’oggi su un altare profano, di calcoli e convenienze, fra l’acquiescenza dei più, o dei tutti. 

 


Fonte: Gianfranco Murtas
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