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Gianfranco Murtas

Ripensando Ottone Bacaredda. Il processo ai rivoltosi del 1906 contro il carovita e la disoccupazione. La parte dei repubblicani

di Gianfranco Murtas

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1907, martedì 19 febbraio. Per la città è davvero un giorno di festa morale. Sono ben quarantuno gli arrestati che, dopo nove mesi di detenzione, ora tornano in libertà. C'è anche Salvatore Diaz. La scarcerazione in massa è stata improvvisa e imprevista. Forse solamente Diaz la considerava probabile. Da buon avvocato egli sapeva che la Sezione d'accusa si riunisce ordinariamente di lunedì. Nel pomeriggio, poi, in città era corsa qualche voce... Li libereranno?

Fra due ali di soldati i detenuti escono da Buoncammino alla spicciolata. C'è chi trova ad aspettarlo qualche amico, qualche parente in attesa tutti i santi giorni là fuori... altri nessuno. Il viale dello splendido belvedere cagliaritano è quasi deserto.

Intorno alle 19,30 il cav. Bova, direttore delle carceri, accompagnato dal segretario e dal capo-guardia, comincia il giro delle celle per portare ai detenuti la notizia dell'imminente scarcerazione. Finalmente. Entra per primo dall'avvocato repubblicano, prosciolto dall'accusa di essere fra i promotori dei disordini di quei giorni di fuoco.

Quando rimette piede nella "città dei vivi" Diaz trova ad abbracciarlo la moglie. È un momento struggente. Nove mesi di lontananza e di lontananza ingiusta. E poi, quasi di corsa, insieme, eccoli dirigersi verso il Convitto, nazionale. Là studiano i bambini. Davanti alla scuola una piccola folla applaude, applaude ancora, insistentemente, è un segno commovente di affetto: Diaz tiene ora i figli per mano. Pochi passi e la famigliola ricomposta è a casa, nella stessa Costa della Marina. A separare la scuola dall'abitazione c'è solo l'antica chiesa dei SS. Giorgio e Caterina, amministrata dall'arciconfraternita dei Genovesi.

Nella tarda serata di mercoledì un corteo di cinque-seicento persone (ma il clericale Corriere dell'Isola ne conta solamente «una quarantina») va a rendere omaggio agli scarcerati, presso le rispettive abitazioni. Il convegno è in piazza Martiri; di qui puntata tra via Mores e via Barcellona, sotto le finestre di Ciro Guidi, poi di nuovo in via Manno, presso casa Diaz, quindi in piazza San Giovanni, da Raffaele Scano che saluta e ringrazia dal balconcino, da dove s'affaccia con Luigi Fadda e Arturo Businco, e ancora poi in via Garibaldi da Bonaria Cortis, la "pasionaria" della Manifattura.

V'è chi, dalla strada, grida: «Viva la giustizia! Viva i liberati! Abbasso L'Unione Sarda!»; il giornale non è stato solidale né con Diaz né con molti altri che hanno patito ingiusta carcerazione. Scrive lo stesso Diaz al Paese, il quotidiano concorrente dell'Unione, e anche al Corriere cattolico. «Carissimo direttore, [...] restituito, dopo nove mesi d'infame quanto ingiusta prigionia, alle innocenti carezze dei miei quattro teneri figlioli, all'affetto della mia giovine sposa, dei miei vecchi genitori, nell'impossibilità di rispondere agli amici, colleghi e clienti, che numerosissimi, con telegrammi, lettere, cartoline, vollero manifestare il loro compiacimento e meco congratularsi per la riconquistata libertà, tutti, vivamente commosso, ringrazio coll'assicurazione che mai avrò a dimenticare tale prova di stima, che è stata per me di sommo conforto». 




Martedì 14 maggio. «Cittadini, or è un anno il popolo pagava col sangue un'ora di generale riscossa dopo il secolare asservimento. Sia oggi, nel giorno anniversario della funesta tragedia, rivolto il pensiero più nobile dei cittadini consci, dei lavoratori tutti, alle vittime nobilissime.

«Degno sembri il ricordo quando non sia sterile rimpianto, ma significhi affermazione di libere coscienze contro la tirannia incombente, rivendicazione aperta del diritto alla vita, contro le insidie del privilegio politico ed economico, e della brutale sopraffazione violenta, e manifesti l'aspirazione ferma del popolo a conquistare a se stesso migliore destino.

«Lavoratori! nessuno tra voi si astenga dal recare oggi alla tomba dei martiri di maggio il fiore purpureo del ricordo imperituro».

La sezione repubblicana, con la Federazione regionale ed il Fascio giovanile, sottoscrive per prima il manifesto-appello che reca pure le firme delle sezioni socialista (col circolo giovanile) e radicale e delle diverse leghe di mestiere, e dell'Associazione anticlericale.

La mattina viene scoperta, in cimitero, una lapide commemorativa, la cui collocazione è stata significativamente autorizzata dal sindaco Bacaredda: «Alle vittime del 14 maggio, il popolo che non dimentica. La Sezione repubblicana». Le tombe di quei poveri morti sono cariche di fiori. Singoli cittadini e associazioni non hanno voluto negare il tributo del loro ricordo. I partiti avevano deciso saggiamente. In un'apposita riunione tenuta nella sede repubblicana di via Sant’Eulalia con la partecipazione anche dell'on. Viazzi – il deputato e avvocato giunto in città per partecipare al collegio di difesa degli imputati -, avevano escluso ogni manifestazione di piazza e prudenzialmente deliberato che soltanto una piccola delegazione di tre o quattro iscritti alla sezione si recasse al cimitero per assistere allo scoprimento della lapide e alla deposizione della corona di fiori.

Si celebra nella tarda primavera il processo, anticipato dai fuochi polemici di un primo maggio tutto speso da Umberto Cao in funzione anti Sanna-Randaccio. (Tale Arrais, proto al Paese, un suo dipendente cioè, ha concionato in odio a Sanna, di cui ha letto la deposizione resa in istruttoria. Sanna nemico del popolo pure lui?). Salvatore Diaz non è fra gli imputati, ma nel collegio di difesa, professionista lucido e "di sfondamento", appassionato e tonante nonostante il garbo del temperamento personale. Fra gli avvocati c'è anche un altro repubblicano, Raffaello Meloni, giovanissimo, quasi al suo debutto. E poi c'è appunto, sempre fra i difensori, Pio Viazzi, venuto apposta da Grosseto, dov'è il suo collegio elettorale.

Fra gli imputati il PRI cagliaritano ha due suoi militanti: Giuseppe Lampis, studente diciottenne sanlurese – cinquant’anni dopo destinato ad uno stallo nientemeno che… della Corte Costituzionale!! – e Rinaldo Ferrucci, operaio. Nell'aula giudiziaria compaiono anche Enrico Nonnoi, Carlo Sirigo, Giovanni Valli e Torquato Del Bianco, convocati come testi.

Lampis e Ferrucci. Il primo è accusato - da qualcuno, un poliziotto, che poi almeno in parte ritratta, asserendo di non essere molto sicuro della fisionomia del giovane - di aver partecipato alla sassaiola alla stazione, quella che scatenerà la reazione della truppa e avrà esiti mortali. Il secondo è accusato di resistenza e, più in generale, di aver avuto parte attiva nei disordini, bandiera repubblicana in pugno o tutto teso a recuperarla dopo il suo sequestro.

Ferracci - «un giovane basso, dal viso rubicondo e dai baffi rossi», così lo dipinge il cronista giudiziario dell'Unione - è interrogato nella terza udienza. Dice che la mattina del 14 andava di buon'ora ai lavoro: incontrandosi con un amico nei pressi del cantiere del nuovo municipio (dove incrociava Edoardo Rossi e l'ing. Barbera) s'avviò al mercato civico da dove aveva udito provenire delle grida. Qualcuno bisticciava con gli agenti. Raggiunse successivamente la Manifattura tabacchi e partecipò all'incontro che una commissione di operai ebbe con la direzione aziendale. Si diresse quindi nuovamente verso il mercato, il cuore delle agitazioni, imbattendosi nell'amico dottor Sirigo – medico psichiatra con un bel passato di giornalista progressista ed anticlericale –, col quale attraversò la via Roma. Da lì vide sbucare dalla perpendicolare via Porcile una processione socialista. Con Sirigo s'attivò, presso la stazione delle Secondarie, a calmare i più esagitati che volevano rovesciare i convogli. Nuovi incontri e poi march! alla volta della Scaffa, altro luogo di convegno dei dimostranti, non lontano dal casello della "quarta regia". La bandiera rossa con l'edera di Mazzini era disputata fra gli agenti e qualche alfiere d'occasione. Una donna la lasciò cadere a terra e fu definitivamente sequestrata. Veniva anche lui arrestato. Mentre era condotto alla Camera di sicurezza sentì alcune detonazioni...

Sulle circostanze di fatto esposte dall'imputato intervengono nei giorni successivi diversi testi: Francesco Bernardini, guardia municipale, ricorda poco del sequestro della bandiera, sa solo che il «Ferrucci è un giovane troppo allegro»; Agostino Galizia, brigadiere delle guardie municipali in servizio al mercato, precisa che «fu dopo gli spari che si sequestrarono le bandiere, fra cui quella repubblicana tenuta dal Ferrucci, che l'ebbe da una donna» ed assicura che l'imputato «non fece violenza alcuna»; Angelo Viola, delegato di PS, conferma la partecipazione del Ferrucci all'incontro col direttore della Manifattura e quindi ai crocchi e cortei presso le due stazioni ferroviarie, quella delle Secondarie («donde si fecero uscire gli operai») e quella delle Reali («erano le undici»): sempre bandiera in mano, il giovane repubblicano domandò di entrare ma - dichiara il teste - «mentre tentavo di distrarlo da questo proposito scorsi l'agente Gandini che colluttava con alcuni. Volò qualche sasso e solo allora si ordinò di innescare la baionetta»; conferma infine che «il Ferrucci incuorava la folla a non fare alcuna violenza». Piredda - l'operaio incontrato all'inizio della storia - ricorda che il sequestro della bandiera avvenne, presso il mercato del Largo, nel pomeriggio, sicuramente dopo gli spari e che «il Ferrucci, davanti alla Manifattura, raccomandava la calma»; così Terenzio Congiu, che alla Manifattura vide l'imputato «redarguire alcuni ragazzi che urtavano dei carabinieri», e ora conclude: «dovunque mi trovassi, il Ferracci raccomandava la calma». Idem l'amico Carlo Sirigo: «Vidi il Ferrucci in via Roma e seguii con lui la folla spiegando sempre un'azione pacificatrice. Da tutte le circostanze ho potuto vedere che non incitava a commettere violenze». Anche Antonio Lai definisce l'imputato «un bravo ragazzo»; analoga è l'opinione di Andrea Novembre, maresciallo dei carabinieri: «Credo che il Ferrucci abbia invitato alla calma», afferma, e aggiunge di averlo incontrato presso le scalette di Santa Chiara e sentito pronunciare un giudizio preoccupato sull'evolversi della situazione («adesso si è immischiata la teppa!») ed assicura che «egli non elogiò nessuno».

E Lampis? Carlo Sirigo lo scagiona completamente: «Non prese parte alle dimostrazioni; lo ritengo incapace di commettere alcuna violenza e di procurare dei disordini». Così Enrico Nonnoi: «Meraviglia l'imputazione fatta al Lampis. Lo vidi affacciato ad un balcone della sua casa di via Baylle al momento in cui avvenne la prima scarica. Ebbi conferma poi dalla padrona di casa - signora Basso - che il giovane si trovava a casa all'ora del conflitto e che, chiamato dalla stessa signora, si affacciò al balcone che dà al largo Carlo Felice per vedere i feriti che venivano condotti all'ospedale. Afferma il falso chi dice che il Lampis si sia trovato a quell'ora nel conflitto». Granai, il delegato di PS accusatore, non ricorda molto né dell'ora in cui avrebbe visto il giovane né di come questi fosse vestito; ricorda solo d'averlo visto lanciar sassi, ma al presidente che lo interroga sui punto specifico risponde di non poter escludere di aver scambiato l'imputato con un'altra persona! Terenzio Congiu: «Non vidi mai il Lampis, che conosco bene». L'alibi è confermato da Ettore Roncarino, da Cristina Laconi, dalla guardia municipale Antonio Speranza, da Torquato Del Bianco e da Giovanni Valli. Interviene pure il preside del Dettori prof. Federico Menghini, per testimoniare che Giuseppe Lampis «è un ottimo giovane, un ottimo studente».

Anche Jago Siotto depone a favore dell'imputato: «Conosco il Lampis. E un ottimo giovane. Il suo arresto produsse in me, come in tutti coloro che lo conoscono, un senso di meraviglia e di profondo dolore. Nessuno mai avrebbe potuto supporre che si potesse arrestare il Lampis. Egli è incapace della minima azione che possa avere una lontana parvenza di colpa. Dopo che io ero già arrivato al luogo della tragedia - il terreno del conflitto alla stazione - vidi sopraggiungere il Lampis. Era costernato. Egli rimase con me buona parte della sera. Nella sua voce era lo strazio per il sangue versato. Ma nel tempo stesso deplorava vivamente la violenza della folla. Non può, in modo sicuro, averla voluta. A qualunque episodio delle giornate dello sciopero abbia preso parte, egli non può aver fatto che opera di pace: null'altro. Come dissi nello scritto, fui con il Lampis quasi tutta la sera nella quale si propose di chiedere le dimissioni ai consiglieri. Il Lampis non prese parte ad alcun fatto, in quella sera. Deplorava con me e più di me la violenza della folla; diceva che l'agitazione aveva degenerato in una forma teppistica».

Il PM chiede per Ferrucci - cinquantaseiesimo nell'elenco alfabetico degli imputati - una condanna a 2 anni, 9 mesi e 15 giorni; per Lampis - settantesimo - a un anno, 3 mesi e 20 giorni. Ma la difesa rovescerà la situazione processuale della maggioranza degli imputati. Lampis verrà assolto, la condanna di Ferrucci sarà contenuta nei 6 mesi di prigione già abbondantemente scontati e in 300 lire di multa. (Non sono mancati - durante il processo momenti cli forte tensione: c'è stato anche uno "sciopero" di qualche imputato, compreso Lampis, dalle udienze, quando s'è dovuto cedere la chiesa di Stampace a un altro dibattimento e le ultime fasi del processo sono state dirottate a Castello, nell'aula della Corte d'assise. Ora però gli animi certamente si faranno più sereni. I Lampis ringrazieranno l'avvocato Loy-Murgia come possono, con un pranzo, ma pieno di commozione nell'intimità familiare).

Il 7 maggio è interrogato Raffaele Scano, sul quale pendono due capi d'imputazione: il primo, di «attentato alla libertà dell'industria e del commercio per aver il 16 maggio 1906, in unione con altri, invaso il forno di Carta Domenico noto Cambarau in via Baylle imponendo con la violenza e minacce il licenziamento degli operai e la cessazione del lavoro e delle vendite»; il secondo, di «avere in unione a più persone usato violenza e minacce nel 15 e 16 maggio a più consiglieri comunali per costringerli a dare le dimissioni dalla loro carica conseguendone l'intento». La posizione giudiziaria di Scano aiuta a comprendere qualche passaggio degli avvenimenti richiamati nel processo e soprattutto il clima di quelle giornate terribili.

Chiamato dal presidente del Tribunale a deporre, l'imputato afferma: «Mi trovavo con l'Orano nella sede del Comando della Divisione militare perché richiestone. Nel mentre che colà mi trovavo, il col. Finiguerra per telegrafo ci fece sapere che era stata sospesa l'imbarcazione del bestiame in darsena. Fui anzi incaricato di annunciare questo agli scioperanti. Mi si disse: per carità, vada subito, porti questa notizia alla folla. Corsi in via Roma, cercai gli scioperanti, non li trovai. Erano invece in via Baylle. Avvicinatomi a loro dissi: desistete dall'andare alla darsena perché il col. Finiguerra ha proibito l'imbarco del bestiame sequestrandolo tutto. E consigliai loro di recarsi al Bastione, come mi aveva pregato di dire il col. Finiguerra.

«Vidi però che nessuno voleva seguire le mie proposte. Tutti stavano fermi davanti al forno del Carta-Cambarau. Nel mentre io mi affaticavo e sbracciavo cercando di togliere da quel punto la folla, si fece alla porta del forno [...] dove purtroppo penetrò mio malgrado [...]. Tornai quindi al Comando dell'isola per annunciare il risultato della mia missione. Presi parte al comizio dell'avv. Diaz che annunciò le dimissioni della Giunta. L'Orano incitava tutti alla cessazione dello sciopero, ma tutti gridavano: no, no. Un operaio, certo Basciu, chiese la parola in favore dello sciopero. Egli pure fu applauditissimo. Non compresi ciò che la folla realmente voleva e proposi che si addivenisse ad una votazione per divisione. Trionfò l'idea della continuazione dello sciopero generale fino a quando si fossero ottenute le dimissioni dell'intero Consiglio. Si andò tutti alla Prefettura. Vi entrai con l'avv. Orano, il Curreli e pochi altri. Guidi certamente non v'era. Esponemmo i desiderata del popolo al consigliere delegato De Odeardi. Questi ci disse: ottenete le firme dei consiglieri comunali e io sciolgo il Consiglio in ventiquattro ore [...]. Nel mentre la folla rumoreggiava...».

Calmare la folla come? Anche qui Scano si sentì di obbedire a un'autorità militare. Arringò su suggerimento del col. Ponza di San Martino. Ma intanto restava il problema delle dimissioni del Consiglio. Certamente non si intimò ad alcuno di lasciare il posto. Ricorda l'incontro con l'avv. Sanna-Randaccio: «Badi, noi non imponiamo nulla, lei è libero di firmare o non firmare...», gli aveva detto. (Anche Enrico Nonnoi, chiamato come testimone, confermerà la circostanza, riferendo dell'incontro di Orano con Sanna, e della piena condiscendenza di quest'ultimo ad abbandonare il seggio). Altro che prepotenze...




Otto maggio. Già dalla mattina presto la piazzetta di Santa Restituta, all'ombra delle cupole cli Sant'Anna, nel cuore di Stampace, è piena di gente: imputati, parenti di imputati, curiosi. Una ventina di soldati, agli ordini del sottotenente Marogna, vigilano sulla tranquillità pubblica.

Un lungo fortissimo applauso si leva improvviso quando arriva l'avv. Viazzi che, entrato nell'antica chiesa sconsacrata trasformata ora in aula giudiziaria, è fatto oggetto di stima e simpatia anche dai colleghi della difesa e soprattutto dagli imputati i quali s'alzano tutti in piedi. Non è una scena solita. Si grida: «Viva Viazzi!» e dai gabbioni molti fiori piovono su di lui, sull'onorevole-avvocato.

L'avv. Celestino Loy-Murgia gli presenta il collega Efisio Orano e alcuni degli imputati maggiori. Altri battimani lo salutano allorché entra - sono le 9,10 in punto - il Tribunale. Gli scampanellii del presidente avvertono che non si è a teatro. «L'applauso rivolto all'on. Viazzi è la spontanea manifestazione dell'animo nostro e dei detenuti, è il saluto entusiastico al forte avvocato testé venuto fra noi. E a questo saluto credo non possa fare a meno di associarsi pure il Tribunale», dice l'avv. Loy. Replica il presidente: «Il Tribunale s'associa al doveroso saluto all'on. Viazzi, ma non può però permettere alcun applauso».

Viazzi parla il 4 e il 5 giugno. Le prime battute della sua arringa non sono di carattere giudiziario. Rileva la singolarità della presenza in toto della sinistra politica locale sul banco degli imputati. «Al prof. Guidi non bastava la conquista ottenuta del seggio consiliare, il pubblico ministero gli ha fatto dono anche di 15 mesi di reclusione! E questo è per il Partito radicale. Il Partito socialista è più largamente rappresentato. Si temeva che mancassero i repubblicani, specialmente dopo la fuga dell'avv. Diaz, ma c'era il povero Lampis, e contro di lui si scagliarono i fulmini superni... Ma in verità sono proprio stati gli uomini dei partiti ad impedire che avvenissero guai maggiori», afferma.

E rivolgendosi al PM aggiunge: «Perché durante i moti non si è presentato lei a portare la parola di pace, leggendo gli articoli del Codice penale e le sanzioni che si applicano per l'infrazione alle norme in essi esposte? Ascolti anzi un consiglio: in altra consimile occasione scenda pure in piazza e legga ad alta voce la sua requisitoria. Vedrà che la calma subentrerà anche negli animi più accesi». E ancora: «I soldati hanno sparato, ma non s'inveisca contro di loro che eran comandati. Ma andare a stringere loro la mano e plaudire al fratricidio non poteva essere che idea bestiale dei promotori delle contro-manifestazioni!».

Dura alcune ore e s'articola in due sedute l'arringa difensiva di Viazzi che passa ad esaminare i singoli episodi di violenza. Su ciascuno si sofferma con gli argomenti del buon senso prima ancora che con quelli del diritto. Esclude ad esempio l'imputabilità per rapina di coloro che raccolsero qualche pane dopo l'assalto ai carri, «poiché non vi fu concorso voluto né accordi fra questi e i primi che eran mossi all'assalto. Non si voleva il lucro del tozzo di pane, ma si fuggiva il dolore della fame». Di qualche imputato, appartenente alla schiera degli esagitati, tratteggia la psicologia anormale...

«E veniamo a parlare di giustizia, mentre il mondo è pieno cli ingiustizia - dice. I cittadini preposti agli affari del Comune non provvedevano al caro dei viveri, c'erano aggiotatori, sofferenze. Il popolo vuol fare giustizia e s'incendiano i casotti del dazio e si innalza la bandiera: il popolo, a modo suo, faceva giustizia. E poi vennero altri a far giustizia. Il popolo credeva in quei modi di far giustizia, e credevano di farla quegli altri che consideravano i casotti bruciati, i carri gettati a mare, i consiglieri comunali portati all'amarezza delle dimissioni [...].

«Si pretende che le dimissioni dei consiglieri siano frutto della violenza. Ma allora non sono serie, non sono valide perché il consenso era viziato. Come dunque l'autorità prefettizia le ritiene per valide e scioglie il Consiglio? Vuol dire che l'autorità ritenne valide le dimissioni e che quindi non le ritenne estorte con la violenza. Una sentenza di condanna sarebbe il finimondo del diritto amministrativo [...].

«Or voi, o signori del Tribunale, li conoscete, variando le singole responsabilità, gli uomini che dovete giudicare in quest'ora e per l'avvenire, e li giudicherete alla stregua della vita loro, valutando le circostanze; e voi - conclude Viazzi - potrete vedere quale fu il loro atteggiamento, e voi farete giustizia assolvendoli, non perché manchino le prove, ma perché alcuno di loro non fece niente, altri ha agito col preciso convincimento di compiere il proprio dovere».

Tutto finisce abbastanza bene, forse anche meglio di come si sperasse. La sentenza è d'innocenza per 60 imputati, gli altri sono condannati a pene miti (inferiori al nove mesi). Il Tribunale ha visto nei fatti di maggio «il fenomeno della suggestione che è la causa prima di ogni manifestazione della psiche umana, che fa subire gli stimoli delle azioni altrui...». E se la volontà non è perfettamente libera, rimane «conseguentemente attenuata la responsabilità individuale».

La sentenza riconosce esplicitamene che «questa cittadinanza, ordinariamente tranquillissima, insorse improvvisa, esasperata da fatti che sembravano un'ingiustizia ed un insulto insieme»: chiara è l'allusione al caro-viveri. Sottolinea ancora che non ci fu, nei rivoltosi, «malvagità e temibilità», se è vero che, a fronte di distruzioni e danneggiamenti materiali di ciò che in qualche modo simboleggiava la politica economica rovinosa per le classi popolari, mancarono le offese all'integrità personale dei cittadini e la proprietà privata fu rispettata.

«Non è vero che tutti i magistrati della Sardegna sono dei cittadini indegni dell'alta carica che ricoprono. No, Cagliari ha oggi dimostrato di avere giudici sereni, imparziali, integerrimi. Essi hanno oggi fatto sventolare la bandiera della verità e della giustizia», dice Raffaele Scano dal balcone di casa ai molti che, subito dopo aver udito la sentenza di assoluzione, sono andati in corteo ad onorare chi patì ingiustamente.

Settembre, però, sarà una doccia fredda. La Corte d'appello rovescerà completamente il giudizio di primo grado. Sottolineerà le responsabilità individuali, e di conseguenza calcherà la mano sulle pene. La vittima più illustre sarà Efisio Orano, con una condanna più che decuplicata: quattro anni, quattro mesi e dieci giorni di detenzione, e 190 lire di multa. Latitante per lunghi anni, l'esponente socialista troverà riparo in Corsica, Svizzera e Tunisia.

Non tarderà il canto solidale di Sebastiano Satta e la sua invettiva all'establishment reazionario: «No, tu non hai paura / Della loro galera. / Essi vanno nell'ombra della sera / Tra larve e mostri, e tu guardi all'aurora. / ... / Chi darà vita al nostro sogno, grande / Come il cielo? Chi ai pallidi profeti / Ombreggerà la fronte di ghirlande? / Ah! non Tartufo giudice, e non Ponzio / Pilato in tocco, e non Perrin Dandin / 0 sua Eccellenza Càifas daranno / Fiori ai fatali araldi. / 0 anime tementi, onesti gufi / Appollaiati fra le crepe e i tufi / Della Legge, voi quando in cittadine / Rabbie latrò la fame e negli spazzi / E per le vie rombò negra la piena / Del dolore, e gocciò su li arsi sassi / Il sangue, ben voi dietro le cortine / Con le mani agli orecchi, scialbi e pazzi / Di terrore, agognaste questa bianca / Ora della vendetta. / Sì, quest'ora. / Ecco dite: - O benedetta / Pace tornata al desco cristiano. / Madama or potrà accedere all'argentea / Sea sicura, e i figlioli dalle suore / Avran bocche di dama e gelsomini; / E dormiremo placidi, nei letti / Presidiati dalle zanzariere / E dalla legge. Or morda la canea / Il ferro delle gabbie. / Ai rosei pesciaioli e ai macellari / Nitidi, oggi è dovuto questo omaggio: / E in dolce vassallaggio / A Sua Eccellenza gialla / Questo dono è dovuto. / ...».

Amaro anche il commento della sezione repubblicana. Protesterà contro la sentenza della Magistratura «la quale ha inaugurato un nuovo periodo di dolore nella nostra città», affermerà che «l'elevamento politico, economico, e morale del popolo non sarà assolutamente impedito con mezzi che ripugnano ad ogni sentimento di giustizia».

Fra i cinquantacinque imputati rinviati all'appello - la maggior parte cli questi difesi dall'avv. Diaz - c'è anche Ferrucci, che si vedrà confermare la condanna nonostante la richiesta di raddoppio avanzata dal PM.

La sentenza provocherà qualche manifestazione di protesta popolare con accenni di prepotenze inevitabilmente regolati alla fine da nuovi processi per direttissima e da condanne delle teste più calde... La sera stessa della lettura del dispositivo, diversi iscritti alle leghe di mestiere ed ai partiti della sinistra animeranno un comizio ed un corteo che, tagliando la città da Stampace a Villanova, si concluderà in via San Domenico, sotto le finestre di casa Orano, per un doveroso tributo cli solidarietà all'esponente socialista. Miscelando qualche "abbasso" e qualche "evviva" (rispettivamente ai "giudici assassini" ed a Bresci e all'anarchia) e gridando a squarciagola l'Inno dei lavoratori, torneranno press'a poco al punto di partenza, all'Associazione commessi e impiegati di commercio, in via Angioy, da dove la Commissione esecutiva della Camera di lavoro emetterà un comunicato fortunatamente moderato nel tono e nei contenuti. Non sembra proprio il caso di replicare più di tanto all'autonomo giudizio della Magistratura e di aizzare la rabbia sociale...




Brevi note bibliografiche

La letteratura sui moti del 1906 fa necessariamente riferimento innanzitutto alle cronache dei giornali del tempo, quotidiani e periodici, indipendenti o dichiarantisi tali e di partito. Fra i saggi merita ricordare quello di Francesco Manconi "Il PSI in Sardegna dalle origini alla grande guerra", in Storia dei partiti popolari in Sardegna, 1890-1926, EE.RR. che, fra le cause sommerse della crisi del 1906, include il gioco sottile e pesante della stampa cagliaritana: «Sulla diffusa insofferenza della popolazione si innestarono con intenti opposti i tentativi di strumentalizzazione delle consorterie politiche locali. Da un lato L'Unione Sarda, impegnata in quel periodo in una vivace campagna di stampa contro il governo Sonnino (dal quale Cocco-Ortu era stato escluso), solidarizzò con la popolazione, appunto in funzione antigovernativa, in occasione delle prime dimostrazioni pacifiche contro il carovita. Allo stesso tempo la minoranza radicale nel Consiglio comunale ed il suo giornale Il Paese tendevano ad indirizzare la protesta contro il sindaco Ottone Bacaredda, il principale fiduciario politico di Cocco-Onu nel capoluogo, nell'intento cli provocare una crisi comunale...». (Vale - su quest'ultimo particolare - precisare che Giuseppe Della Maria, nel suo L'Unione Sarda. Storia e scritti, sostiene la tesi della differenziazione politica o d'interesse politico, fra Bacaredda e Cocco-Ortu, fino al 1907, cioè fino a un'epoca successiva ai tumulti del maggio. Scrive infatti: «Intorno al 1907 il Partito di Cocco-Ortu si fonde con quello di Bacaredda, L'Unione esalta le benemerenze di quest'ultimo che, nel marzo dello stesso anno, è rinominato sindaco di Cagliari». Potrebbe forse immaginarsi che aveva allora, in qualche modo, operato una formula secondo cui "il nemico del mio nemico è mio amico". Certo è che - come scrive Della Maria - «i noti fatti cagliaritani [...] trovano L'Unione Sarda riservatissima nei commenti». Ed è questo, infatti, il rimprovero che la folla rivolge al giornale di viale Umberto).

Sul contesto economico-sociale della Sardegna nel passaggio fra '800 e '900 ed in particolare sui flussi migratori dall'isola cfr.:

- Gio. Maria Lei-Spano, La Questione sarda, Lib. Editr. Dessì – Sassari 1922 (in ristampa anastatica 1975; altra riedizione anastatica l’ha prodotta il Centro Studi Autonomistici Paolo Dettori nel 1990);

- Leopoldo Ortu, Bruno Cadoni, L'Emigrazione sarda dall'Ottocento ad oggi. Contributo ad una storia della questione sarda, Ed. Altair 1983.

Il saggio di Manconi - come peraltro quello di Girolamo Sotgiu Lotte sociali e politiche nella Sardegna contemporanea (1848-1922), Edes - merita ancora una segnalazione per l'acutezza, coniugata ad un'estrema sintesi, con cui riesce a delineare lo scenario generale in cui i moti del pane si verificarono nei paesi dell'interno, minerari e/o agricolo-pastorali, dopo che in città: «Per qualche aspetto si trattò - è vero - di un fenomeno di psicologia collettiva, ma esso non potrebbe giustificare, da solo, la vastità e la rapida diffusione dei tumulti. Se il motivo immediato fu quasi dovunque il rincaro dei prezzi e la rarefazione dei generi di prima necessità, le ragioni di fondo venivano individuate pressoché unanimemente dalla stampa e dalle forze politiche nell'arretratezza dell'agricoltura, nell'analfabetismo, nell'usura, nell'esosità del fisco, nell'assenza dell'intervento statale, nello sfruttamento di tipo coloniale delle risorse naturali ed umane dell'isola, piaghe secolari la cui consapevolezza diventava più acuta nei momenti di crisi».

Anche Giancarlo Sorgia - e forse soprattutto lui - ha studiato e scritto (e prosegue le ricerca coll'Istituto cli storia moderna e la Scuola di specializzazione in studi sardi dell'Università di Cagliari) sui moti del 1906. Oltre a numerosi contributi per la pagina culturale de L'Unione - ultimo l'articolo apparso il 20 luglio 1986 ("I fatti del 1906 a Cagliari. Quel processone d'ottant'anni fa nella chiesa di S. Restituta. Bacaredda non pronunciò le parole che incendiarono la città") - vanno ricordate le pagine contenute in Cagliari, sei secoli di amministrazione cittadina, scritto col compianto Giovanni Todde e, recentissimo, l'intervento sull'edizione 1987 dell'Almanacco di Cagliari ("Invece delle triglie, il baccalà. La rivolta di Cagliari del maggio 1906 nella scorta degli atti giudiziari").

Assai più recenti i lavori curati da Giovanni Murgia. Segnalo I moti sociali nella Sardegna giolittiana 1906, Dolianova, Grafica del Parteolla 2000 e – di poco precedente e con focus sul Gerrei – Quel maggio del 1906. I moti sociali nella Sardegna giolittiana e l’eccidio di Villasalto, Dolianova, Grafica del Parteolla 1997. Il primo dei due qui elencati comprende saggi dello stesso Murgia e di Gianfranco Tore, Aldo Accardo, M. Concetta Dentoni, Franco Masala, Mariarosa Cardia, Francesco Manconi, Carlo Pillai e Stefano Pira; il secondo di Giuseppe Serri, Salvatore Pilia, Carlo Pillai, Maria Rosaria Cotza, Elsa Lusso e Anna Melis, oltre che dello stesso curatore. Entrambi i volumi raccolgono i contributi portati dai diversi studiosi in convegni promossi dall’Amministrazione Provinciale di Cagliari e/o dal Comune di Villasalto

Fra le ricostruzioni giornalistiche di quei fatti di violenza, apparse sulla stampa locale negli ultimi anni, meritano di essere particolarmente segnalate le seguenti:

- Paolo De Magistris, "I gravissimi tumulti del maggio 1906. La Comune a Cagliari", in Almanacco di Cagliari 1974;

- Francesco Manconi, "Il maggio di sangue del 1906 a Cagliari per i moti popolari contro il carovita. La rivolta della pagnotta"; "Maggio 1906. Da Cagliari la rivolta si estende provocando nuovi eccidi fra i minatori. Insorge anche il Sulcis"; "I moti popolari in Sardegna nel 1906. La rivolta dei contadini", in L'Unione Sarda rispettivamente del 22 e 24 giugno e 15 luglio 1975;

- Sergio Atzeni, "Cagliari 16 maggio 1906: la popolazione scende in piazza", in Tutto Quotidiano, 11 settembre 1976;

- Umberto Cardia, "1906, anno cruciale nella storia moderna della Sardegna. Minatori e piccoli borghesi", ibidem;

- Sebastiano Dessanay, "Stessa radice dei moti de Su Connottu: il rifiuto del capitalismo. Un no alla dipendenza dell'isola", ibidem;

- Paolo De Magistris, "A scatenare il moto non fu una meditata coscienza popolare. Conflitto della borghesia", ibidem;

- Eugenia Tognotti, "La tumultuosa rivolta popolare che sconvolse la Sardegna all'inizio del secolo. Al grido di 'abbasso i caseifici' l'isola visse la sua rivoluzione"; "La rivolta popolare che sconvolse l'isola all'inizio del secolo. La collera dei dimostranti si rivolse contro la rete tramviaria di Cagliari"; "Una svolta politica nei tumulti sardi ai primi del secolo. La rivolta dei contadini segnò l'inizio della stagione di lotta", in La Nuova Sardegna rispettivamente del 5, 11 e 19 ottobre 1978;

- Sergio Atzeni, "La sollevazione popolare di Cagliari nel maggio del 1906. La guardia regia sparò contro la folla affamata", in La Nuova Sardegna, 30 aprile 1978;

- Antonio Romagnino, "Maggio 1906. Ottant'anni fa a Cagliari la rivoluzione contro Bacaredda", in L'Unione Sarda, 4 maggio 1986.

Di Sergio Atzeni è anche da ricordare una pièce teatrale - Quel maggio 1906. Ballata per una rivolta cagliaritana - pubblicata nel 1977 dalla Edes, e recensita sulla stampa isolana rispettivamente da Aquilino Cannas ("Rievocata in un testo teatrale la rivolta cagliaritana del maggio 1906. Quando scesero in piazza le sigaraie della Manifattura", in L'Unione Sarda, 13 luglio 1977), e da Silvano Rejna ("Una pièce teatrale sull'insurrezione. L'ottantanove cagliaritano", in La Nuova Sardegna, 25 giugno 1977).

Si coglie infine l'occasione per rilevare e correggere un errore nel quale Francesco Manconi è caduto sia nel citato articolo uscito su L'Unione del 22 giugno 1976 ("La rivolta del pane") che nel saggio "Il PSI in Sardegna dalle origini alla grande guerra", in Storia dei partiti popolari etc., circa l'appartenenza repubblicana invece che - come effettivamente era - socialista di Raffaele Scano, uno dei quattro arrestati "politici". Come già illustrato, i repubblicani coinvolti nella rivolta ed arrestati furono Salvatore Diaz (poi prosciolto in istruttoria), Rinaldo Ferrucci e Giuseppe Lampis.

Con riferimento particolare ad altri centri isolani parimenti sconvolti dalla rivolta maggio cfr. ancora:

- Antonello Mattone, "1906: la protesta dei pastori di Bonorva. Moschetti e baionette contro la folla", in La Nuova Sardegna, 7 giugno 1981; 

- Francesco Pinna, "Gli anni della rabbia. Nell'isola covava la rivolta", ibidem;

- Raffaele Serreli, "San Vito: quando i poveri incendiarono il Municipio. Il paese riavrà presto lo stemma e il gonfalone, distrutti nella rivolta del 1906", in L'Unione Sarda, 9 ottobre 1981.

Notizie sui fatti del maggio 1906 sono anche contenute e commentate fotograficamente nell'opuscolo La nostra storia per immagini, a cura di Virgilio Lai, pubblicato da Casa Gramsci nel 1973, e ripreso in una terza pagina di Tutto Quotidiano curata da Giampiero Licheri. Cfr. "I moti dei primi del '900 furori idee progressiste. Sconosciuto 'Novecento' della Sardegna", in Tutto Quotidiano, 8 settembre 1976.

Dopo alcuni giorni di sciopero proclamato dai suoi operai poligrafici, L'Unione Sarda il 17 maggio (1906) riprendeva le pubblicazioni quotidiane. A caratteri di scatola in prima pagina annunciava: "I tragici avvenimenti di questi giorni. Lo sciopero generale a Cagliari. Le quattro giornate". Ed i sottotitoli scandivano i ritmi di quelle giornate di fuoco:

"La prima giornata: i primi moti".

"La seconda giornata: lo sciopero generale; si rifiuta di pagare la tassa al Mercato; alla Manifattura tabacchi; la passeggiata del corteo; alle Ferrovie Reali; a "s'Arrendu" (Quarta regia); si ritorna alle Ferrovie Reali; dopo la tragedia; spettacolo doloroso; il secondo conflitto; scena pietosa; l'arrivo delle autorità; la folla si abbandona ad atti di distruzione; l'arrivo dei rinforzi; il comizio al Bastione; il comizio si scioglie; all'Ospedale; i feriti".

"La terza giornata: il comizio al Bastione; al Municipio; si liberano gli arrestati; la passeggiata del corteo; si riporta la bandiera alla Sezione socialista; si continua la passeggiata; gli atti di vandalismo dinanzi al Consolato di Francia; il comizio al Bastione; ai Municipio e in Prefettura; si ritorna a Cagliari; piccoli episodi; il corteo si scioglie; la fine della giornata; l'arrivo di altri rinforzi".

"L'ultima giornata, quella di oggi: una controdimostrazione; altri rinforzi; quattro legni da guerra; i manifesti affissi per la città; ad Iglesias; un nuovo tafferuglio al Mercato".

E ancora: "I terrorizzanti fatti del Campidano. Interrogazioni parlamentari. Echi sulla stampa. Intervista Cocco-Ortu".

"La quarta giornata: la riunione al Bastione; la passeggiata del corteo; si saccheggia il pane; al Bastione; al comizio al Bastione; una controdimostrazione; un ingombrante corteo; l'incontro tra avversari; la passeggiata del corteo; i carabinieri inflorati; un incidente; si scioglie il corteo; si parla alla folla; i capannelli; una nuova dimostrazione al Mercato; si carica la folla; un comizio per domenica; i militi feriti nel conflitto; i morti; il nuovo prefetto; i rinforzi e le regie navi; i panettari; scuola normale; i manifesti affissi; il manifesto del commissario prefettizio; la lettera del delegato Viale".

"Nel Campidano: lungo le strade; a Pirri; a Monserrato; a Selargius; a Quartucciu; a Quartu".

"Nell'Iglesiente: formidabile sciopero".

E più oltre: "Il manifesto del nuovo prefetto; le prime disposizioni del commissario prefettizio; altri particolari ed episodi; gli incidenti di ieri alla Scaffa; la squadra e i rinforzi, i contingenti della forza armata; lo stato dei feriti; lo stato d'assedio a Quartu; i manifesti; i fatti di Cagliari ai Senato; gli scioperi nell'Iglesiente".

Sui fatti del maggio cfr. anche:

- La Lega (socialista), 20 e 27 maggio 1906;

- La Sardegna Cattolica, 20 e 27 maggio 1906.

Nel suo numero del 20, La Sardegnetta (ormai trasformatasi in settimanale e in procinto di cessare le pubblicazioni e passare il testimone al Corriere dell'Isola, la nuova testata cattolico-clericale) riportava pure un interessante giudizio, di chiara impronta reazionaria, sullo scenario politico generale nel quale anche i fatti di Cagliari, come quelli di altre parti d'Italia, si inserivano. Ecco alcuni stralci dell'articolo del giornale del conte Sanjust:

«L'on. Sidney Sonnino non ha molto propizia la fortuna. Salito (finalmente) al potere con intenti amministrativamente lodevoli, vide infrangersi la sua buona volontà contro uno scoglio che avrebbe potuto evitare, ma contro il quale parve che egli deliberatamente, ad occhi chiusi, dirigesse la sua malsicura navicella.

«Volle sfatare la leggenda che lo aveva sempre ritenuto e proclamato un reazionario forcaiolo: cominciò col compromettere la solidità del Ministero chiamando a farne parte un radicale ed un repubblicano i quali, colla loro dedizione, perdevano il favore dei loro correligionari senza acquistare quello degli avversari. Poi tutto un sistema [...] di tira e molla con una inclinazione assai marcata verso l'Estrema, con una preoccupazione costante di tenersi buoni i capi ed i gregari dei Partito socialista, una paura maledetta di sentirsi ripetere da ministro la parola che salutava il deputato di opposizione costituzionale: forcaiolo.

«Conseguenza di questa condotta equivoca la evaporazione del Governo, il discredito delle istituzioni, il vilipendio dell'Esercito, il trionfo della demagogia e il ripetersi dei sanguinosi conflitti che giungono troppo tardi per mantenere forza alla legge, e giungono in tempo per scuotere le basi del Ministero e gettare nel paese la costernazione e la sfiducia.

«Ora in seguito ad una sequela di piccoli e grandi avvenimenti, abbiamo le dimissioni dei deputati socialisti e le conseguenti nuove elezioni, nelle quali il Governo, se sarà ancora vivo, patrocinerà la rielezione dei peggiori nemici delle istituzioni...».

Il manifesto del PRI cagliaritano, contenente l'invito ai lavoratori a riprendere le loro occupazioni ordinarie, interrompendo scioperi, agitazioni e soprattutto violenze, ingiustificate e inconsulte, è in L'Unione Sarda del 17 maggio 1906. Esso segue all'adesione che l'assemblea della stessa Sezione aveva espresso all'ordine del giorno votato dal Comitato centrale del partito sui tumulti di Torino: cfr. Il Paese, 12 maggio 1906.

Sulle fugaci ambientazioni "di colore" cittadino ed in particolare sul debutto della cinematografia a Cagliari, cui s'è fatto cenno nel testo, cfr.: - Marcello Serra, "Questa sera andiamo all'Iris. Settant'anni di cinema a Cagliari", in Almanacco di Cagliari1976;

- Giuseppe Podda, "Cazzotti e languori. Tra il 1906 e il 1924 l'Iris fu il tempio del cinema muto a Cagliari", in Almanacco di Cagliari 1987

- Giuseppe Podda, "La fine dell'Eden", in Tutto Quotidiano, 2 gennaio 1977;

- Giuseppe Podda, "Il cinema ha novant'anni. Ma a Cagliari la vela incantata arriva nel 1905", in L'Unione Sarda, 28 dicembre 1985;

- Giuseppe Podda, "Al cinema nel baraccone dell'Iris. Il gigante di Cabiria, Maciste arrivando a Cagliari diventa Margistu", in L'Unione Sarda, 20 aprile 1986.

Sulla visita in Sardegna degli onn. Eugenio Chiesa e Domenico VaIeri cfr.:

- L'Unione Sarda, 29, 30 e 31 maggio, 1° e 4 giugno 1906;

- Il Paese, 30 e 31 maggio, 1°, 2, 3 e 4 giugno 1906 (il 3 giugno, in prima pagina è riportato un articolo di Eugenio Chiesa col titolo: —L'eccidio di Villasalto" e con la seguente premessa redazionale: «Ecco l'articolo che l'onorevole deputato Chiesa ci ha cortesemente inviato. La serena autorevole parola dell'infaticabile e veramente degno rappresentante della Nazione suoni monito fecondo a tutti»);

- La Lega (socialista), 3 e 10 giugno 1906. (In quest'ultima data il settimanale socialista di Cagliari lamentava l'apparente disinteresse dei parlamentari sardi rispetto ai fatti accaduti. Scriveva fra l'altro: «Che fanno intanto i nostri deputati? Chi lo sa! Due soli han dato segno di vita: l'on. Carboni-Boy, che si strugge di non veder ancora i suoi fidi sardi convinti delle sue postume e ahi quanto stupide giustificazioni; e l'on. Cocco-Ortu, che, nel mentre nella sua terra si muore di fame di palle... regie, egli si arrabatta per conquistare un portafoglio nel Ministero! Il che vale quanto dire che la Sardegna gli chiede pane ed egli diventa… carabiniere per servirla a dovere...».

Pomeriggio del 22 giugno 1906. Camera dei deputati. A rispondere alle interrogazioni presentate al Governo sui fatti del maggio sono due sottosegretari: Facta, che rappresenta l'on. Giolitti, presidente del Consiglio e ministro degli Interni, e Colosimo, delegato dal guardasigilli on. Gallo. (I protagonisti, dietro il tavolo del Governo, sono cambiati da qualche giorno appena, sono altri rispetto a quelli che han dato le direttive di repressione e di sangue nel mese "di fuoco". Sidney Sonnino - che con un'abile manovra antigiolittiana per primo nella storia d'Italia era riuscito, lui uomo di destra, a far giurare come ministri un esponente radicale e addirittura un repubblicano, l'on. Pantano - dopo appena cento giorni ha dovuto rassegnare le dimissioni del Gabinetto. Dopo che nella piazza - esplosa nel nome delle dieci ore lavorative giornaliere, a Torino, a Milano, a Bologna, a Firenze, a Roma, ecc., e contro chi altro non ha saputo fare che ordinare di sparare e uccidere - Sonnino è stato travolto nella paludata aula di Montecitorio dalle nuove intese che il suo avversario di sempre, il "gigante" di Dronero, è riuscito a reimbastire fra settori politici eterogenei. Riprendendosi infine la guida del Governo).

La seduta si protrae a lungo a Montecitorio. Le interrogazioni iscritte all'ordine del giorno sono otto. La prima porta la firma degli onorevoli Pais-Serra, Giordano-Apostoli, Carboni-Boj, Pinna e Castoldi; la seconda dell'on. Pala; la terza degli onn. Pala e Abozzi; mentre le altre le hanno presentate, congiuntamente o separatamente, i deputati repubblicani Chiesa e Valeri. Ed è proprio in essi che i repubblicani sardi - privi di propri rappresentanti eletti nei collegi isolani - trovano documentati e combattivi interpreti dei loro sentimenti e risentimenti, della loro protesta e della loro volontà ferma di giustizia. Chiesa e Valeri inchiodano il Governo alle proprie responsabilità, ne denunciano le inefficienze, la grossolanità dell'azione repressiva, e soprattutto l'incapacità di comprendere i bisogni della Sardegna altro che con i vuoti slogan d'occasione.



Fonte: Gianfranco Murtas
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