Ripensare la Chiesa, ripensare il lievito. Un pensiero anche ai giornali diocesani
di Gianfranco Murtas
L’arcivescovo (francescano conventuale) Roberto Carboni, da un anno ormai a capo della comunità diocesana di Oristano ed amministratore apostolico di quella alerese, che era sua prima del passaggio alla maggiore, l’aveva già annunciato in modo più o meno formale ai preti di Villacidro e Guspini, San Gavino e Mogoro, Sardara e Terralba: fra breve anche le diocesi di Oristano ed Ales saranno unite “in persona episcopi”, così come già avvenuto fra Nuoro ed Ogliastra con monsignor Antonello Mura. Ora è stato il nunzio apostolico in Italia, l’arcivescovo Emil Paul Tscherrig, ad ufficializzarlo con una lettera, datata 14 marzo 2020, indirizzata, per l’intero presbiterio alerese, al vicario generale don Piero Angelo Zedda. Il messaggio, molto bello sul piano espositivo, è stato pubblicato dall’ultimo numero di Nuovo Cammino, unitamente a quello che i 53 preti diocesani avevano inviato al papa. Un testo, anche questo, molto molto bello, ricco di argomenti, ma scritto e spedito quando non era agli argomenti che la Santa Sede voleva guardare: il suo obiettivo era ed è la riduzione numerica delle diocesi italiane, punto e basta.
Dunque, le diocesi rimangono ancora per qualche tempo autonome ma in capo allo stesso vescovo. Una terza fase s’annuncia nel giro di pochi anni ancora: e le 57 parrocchie della circoscrizione ecclesiastica che, fra medio Campidano, Marmilla e Terralbese, coprono il territorio delle antiche diocesi di Usellus e Terralba, unificate da Giulio II nel 1503 con sede in Ales, saranno assorbite interamente e organicamente nella maggiore di Sant’Archelao che già include in sé le soppresse di Santa Giusta e Fordongianus (quest’ultima, in verità, assorbita da Santa Giusta intorno al Mille). Non “assorbimento” – ha spiegato monsignor Tscherrig – ma cooperazione missionaria con le risorse clericali e laicali della archidiocesi oristanese. Parole chiave: comunione e corresponsabilità. Premessa ed obiettivo: allargare lo sguardo, integrare le storie particolari, arricchire “il tesoro di santità e di tradizioni” costituitosi nel tempo.
Aliena da modi spicci e forzati, e invece con la prudenza e la gradualità che le sono proprie, la Chiesa bimillenaria, pragmatica nella sua consolidata pratica delle “foglie cadenti” (perché lascia che sia il tempo a risolvere per il più le sue difficoltà storiche), ha deciso oggi quel che ha fatto, o fatto fare, al tempo, sempre. Si potrebbero scorrere i capitoli di Diocesi di Ales-Usellus-Terralba aspetti e valori, pubblicato dall’Azione Cattolica locale nel 1975, all’indomani del giubileo episcopale di monsignor Antonio Tedde, per i tipi della Editrice Sarda Fossataro, per averne contezza: Francesco Cesare Casula tratta della diocesi nel periodo giudicale, Giuseppe Meloni del sec. XV, e finalmente Giancarlo Sorgia della storia “unificata” fra Usellus e Terralba: “La Bolla pontificia emanata l’8 settembre 1503 da Giulio II per definire una nuova struttura delle diocesi sarde dispose, tra l’altro, l’unione di quelle di Usellus e Terralba con sede in Ales. Si trattava di un provvedimento deciso poco prima di morire da Alessandro VI anche in conseguenza delle suppliche rivoltegli dai re di Spagna Ferdinando e Isabella, in modo da consentire una migliore e più equa utilizzazione delle modeste rendite di cui godevano le diocesi isolane.
“Al governo della nuova diocesi di Ales fu confermato Giovanni Sanna, già vescovo di Usellus dal 1493 e in precedenza vescovo di Castro. Uomo dotato di particolari qualità di comando e di azione, egli si occupò con impegno degli affari della diocesi e di molte altre questioni religiose del momento”.
Un galoppo di tre secoli pieni, fino circa alla “fusione perfetta” del 1847 e alla proclamazione del regno d’Italia nel 1861: poco meno di trenta vescovi entrati nella cronotassi, per riprendere – dopo una breve vacanza a seguito della morte dell’anziano monsignor Pietro Vargiu, isilese di nascita – con monsignor Francesco Zunnui Casula, di radici fonnesi e a lungo già vicario capitolare a Nuoro (nella Nuoro del canonico, poi onorevole, Giorgio Asproni), prossimo padre conciliare e sostenitore del dogma sulla infallibilità pontificia.
Le foglie caduche, le foglie che cadono
Ma nel lungo arco temporale quante complessità non soltanto direttamente pastorali, ma anche canoniche, giuridiche cioè, afferenti alla diocesi-istituzione (inclusa la permuta Villacidro/Villamar del 1767, motori i vescovi Pilo e Delbecchi)! Sicché potrebbe non essere motivo di afflizione speciale o di sconcerto doloroso la decisione di papa Francesco di promuovere la semplificazione della ipertrofica rete diocesana italiana e, nel contesto, ridurre il numero delle presenze autonome anche in Sardegna: candidate, secondo la logica delle “foglie cadenti” (nel caso le dimissioni per raggiunta età degli ordinari Sanna ad Oristano e Marcia a Nuoro), Ales in conversione oristanese come già Lanusei in conversione nuorese. Se per il bene… lo si vedrà. A breve uno stesso passo si compirà fra Tempio-Ampurias (diocesi anch’essa risultato di storica riunione fra Castelsardo e Civita, cioè Olbia, con scelta di sede tempiese) ed Ozieri: dimissionario il vescovo Sanguinetti, sarà il vescovo di Ozieri (alerese di formazione e prima sua esperienza presbiterale) Corrado Melis ad essere incaricato della successione con interinato di amministrazione apostolica della minore circoscrizione di provenienza, per divenire successivamente presule ordinario di entrambe le diocesi unite “in persona episcopi”. E poi sarà, a Tempio-Ozieri, come anche a Nuoro-Lanusei e Oristano-Ales, una unificazione completa: una sola cattedrale (l’altra assumendo il titolo di concattedrale), una sola curia, una sola struttura organizzativa di uffici, commissioni e consigli.
D’altra parte, per restare in Sardegna, un caso simile si è avuto nella metà degli anni ’80 fra Alghero e Bosa. L’alternativa data alla Chiesa bosana era di confluire – ma il verbo, spiegano il papa e il nunzio apostolico, è sempre improprio, valendo piuttosto la locuzione “fare comunione” – nella maggiore Chiesa metropolitana di Sassari. Opportunamente il clero, chiamato ad esprimersi, rispose opzionando Alghero, e dal 1986 le due comunità diocesane – allora e da sette anni unite “in persona episcopi” di monsignor Giovanni Pes sono finalmente unite in pienezza giuridica e, si spera, di spirito ecclesiale.
Sostenendo alcune ragioni che avrebbero potuto rinforzare la causa del mantenimento in autonomia – e sia pure autonomia sempre relativa in campo di Chiesa! – della diocesi alerese, in più occasioni avevo rilevato che per Ales così come invero per Ozieri e Lanusei – per diocesi cioè destinate alla scomparsa per “assorbimento” o “integrazione”, o miglior “comunione” nella maggiore contermine – si sarebbe posto il problema non da poco di valutare – tanto più direttamente, e responsabilmente, dalle comunità interessate – se il principio dell’aggregamento “complessivo”, sospinto dalla consolidata tensione unitaria diocesana dovesse in assoluto e sempre far premio su altre considerazioni. Potendo cogliersi tali altre considerazioni in motivi di ordine più strettamente territoriale e di maggior richiamo, o affezione, ad altro polo ecclesiale e civile. In altre parole: le comunità del medio Campidano – quelle del Villacidrese-Guspinese o magari di… Acquapiana (direbbe Dessì), di San Gavino Monreale – potrebbero dirsi più attratte, per storia o sante convenienze attuali, da Cagliari e/o da Iglesias invece che da Oristano. Come quelle del Sarrabus o del Sarcidano incluse nella circoscrizione ogliastrina a rimando oggi nuorese – si pensi a Villaputzu –, potrebbero opzionarsi per Cagliari invece che per Nuoro. Così come quelle goceanine, propense, perché gravitanti, più per Nuoro più che per Tempio.
Questioni, si dirà, non prioritarie, da affrontare ed eventualmente risolvere in tempi medi, nel quadro di un più organico ed armonico riassetto delle circoscrizioni per il lungo periodo. Materia delicatissima, è evidente, da non lasciare alle forbici o alla colla di qualche geometra di curia, ma da approfondire insieme dalle comunità interessate e dai responsabili ecclesiastici, sempre con spirito di comunione.
La questione dei giornali diocesani
E comunque. Nel quadro della salvaguardia delle salde relazioni consolidatesi, addirittura nei secoli, fra le comunità ecclesiali di territori circonvicini, parrebbe interessante mantenere dei livelli di coordinamento, oltre che nelle foranie, in capo a delegati vescovili di particolare autorevolezza e competenza – non necessariamente vescovi ausiliari (si va ora al risparmio nelle promozioni!) –, così come resterebbe da esaminare l’opportunità o meno di conservare degli organi di stampa quali sono quelli presenti nell’attuale panorama giornalistico isolano.
Questa materia, particolarmente suggestiva per chi ama la funzione della stampa tanto più come strumento di dialogo infra/inter comunità, fu trattata dal Concilio Plenario Sardo ed è presente negli “Atti”. Se ne può ricordare un passaggio: “prendere in esame la comprovata opportunità di creare per tutta l’Isola uno strumento unitario di comunicazione sociale, che sia espressione dell’intera comunità cristiana; realizzare concreti modi di collaborazione tra i mezzi di comunicazione diocesani”.
In tempi di informatica e di nuovi possibili affacci tecnologici, già presenti nella considerazione dei vescovi e di chi fu per il più l’estensore del documento – il sempre compianto padre Sebastiano Mosso –, certo parlare di giornali cartacei suona come fuori prospettiva. Ma pur qualcosa può dirsi, al riguardo, di sensato. Lo spirito concertativo e comunionale che ha ispirato, negli anni ’80 e ’90, i lavori del CPS va lentamente ma di necessità trasferendosi e traducendosi in azioni collaborative interdiocesane, tanto meglio dopo l’uscita di scena dell’arcivescovo Giuseppe Mani che da presidente della Conferenza Episcopale Sarda parve interessato più alle sue cose diocesane che a quelle della intera regione (si pensi al dirottamento dei giovani chierici cagliaritani alle varie università romane, lasciando… spazio a quelli delle altre diocesi nella facoltà di Teologia della Sardegna, di cui egli era oltretutto il gran cancelliere!).
Né è questione soltanto di ceto clericale, ché la Chiesa è fatta soltanto in minima parte dai preti e dai religiosi che, invero, l’hanno assorbita tutta o quasi (anche per insufficienze del laicato): la Chiesa è popolo, e popolo organizzato secondo missioni e mansioni, sempre per il servizio e la condivisione. I preti hanno il loro carisma, ma purtroppo sono formati alle leadership da pigliatutto o padri-padroni e spesso con poco costrutto; il laicato – intendo i laici – ha il proprio più vario e non meno importante, e anzi più avanzato e potenzialmente fecondo nelle postazioni sociali di apostolato, anche se spesso esso (il carisma) appare sprecato.
Vero è infatti – mi concedo questa divagazione… di colore – che non sempre il laicato si mostra pronto ed all’altezza, e non è vero che i laici siano sempre più… laici, o meno clericali, dei preti. Valga l’esempio dell’ex responsabile della Comunicazione sociale della CES, e già direttore de L’Arborense (il giornale diocesano di Oristano) che, d’intesa segreta con l’arcivescovo Sanna, arrivò perfino a censurare, a rifiutarsi di pubblicare cioè, la locandina di un convegno che nel decennale della pubblicazione degli “Atti” doveva fare, con monsignor Tiddia, con padre Turtas, con don Spettu, con il prof. Bandinu e tanti altri, una riflessione corale su quanto deliberato e quanto compiuto, coinvolgendo anche l’Azione Cattolica, il MEIC ecc. Ma Piras e Sanna, il laico e il vescovo in compagnia, incapaci (almeno in quell’occasione) di libertà comunionale e certamente privi del gusto dell’ascolto, cestinarono. Nello stesso torno di tempo nel quale, invece, don Antonello Mura – attuale vescovo di Nuoro e di Lanusei e presidente della CES, al tempo direttore di Dialogo, periodico della diocesi di Alghero-Bosa, volle concedere una pagina intera all’evento prima pubblicizzato.
Un giornale unitario, di taglio regionale, con degli inserti diocesani, potrebbe essere una soluzione. I periodici soffrono, tutti o quasi, difficoltà di bilancio; Gallura&Anglona, il mensile tempiese, ha cessato le pubblicazioni da due o tre anni. La qualità dei contenuti – dico in generale – appare discontinua. L’Ortobene – che ben potrebbe coprire lo spazio lasciato libero sia da L’Unione Sarda che da La Nuova Sardegna, quotidiani entrambi in crollo di vendite all’edicola – avrebbe modo di offrire le sue pagine al notiziario e al dibattito cittadino e provinciale, ma pare vi abbia rinunciato dai tempi della direzione Bussu…
Certo si tratterà di pensarla in prospettiva: Nuovo Cammino (quindicinale) senza più la diocesi quale nuova veste adotterà? Potrà essere come L’Ogliastra (mensile) scandaglio e guida di territorio e non soltanto organo di parrocchia (pur sovente di buon livello e bella grafica)? Ma potrà Voce del Logudoro (che nella testata si sposa a un territorio particolare che non è né MonteAcuto né Goceano, né tanto meno Gallura e Anglona) essere organo condiviso da Ozieri con Tempio ed Olbia? Buone sintesi di interessi ecclesiali e sociali di territorio presentano SulcisIglesiente oggi e L’Arborense con le loro nuove direzioni, e forse il loro modello potrebbe servire al progetto futuro. Ma è forse intempestivo porre oggi anche tale questione, chissà.
Un articolo richiesto e poi buttato nel cestino
Mi era stato chiesto da Nuovo Cammino, quattro o cinque mesi fa, un articolo sì di sostegno al mantenimento della diocesi di Ales, ma con aperture – così come rientravano pienamente nella mia visione delle cose (e come ho prima cercato di argomentare) – a scelte selettive ovviamente motivate da parte della Santa Sede. Credo sia stato il direttore, il pur buon amico don Petronio Floris, a mettere il camice del censore, questa volta, sopra il clergyman nero. Non ne conosco le ragioni, forse poca condivisione di alcune analisi e proposte… Cosa comunque sgradevole. Il censore non ha quasi mai ragione, ed è punito dai tempi nuovi che sopraggiungono e mettono all’angolo chi si è proposto più papalino del papa. Chi mai, fra i preti, avrebbe immaginato che sarebbe stato un papa a definire “insopportabile” il clericalismo: non l’anticlericalismo (come sempre si era detto), ma il clericalismo!
Dunque, il pezzo l’ho scritto allora e lo pubblico adesso fuori da Nuovo Cammino. Lo pubblico sì per qualche novità che porto nel dibattito in corso, ma direi tenendo conto, e avvertendo, che diversi aspetti della mia analisi sono stati già prima esposti. Ripetizioni perciò inevitabili, ma pur valeva documentare una censura e un salutare rimbalzo… dal cestino.
Certo il cuore e tante ragioni ci portano a difendere la permanenza canonica della diocesi di Ales-Terralba. La direttiva papale per la riduzione di circa un terzo delle diocesi attive sulla scena nazionale si configura, comunque, come un intervento semplificatore che non andrebbe enfatizzato in assoluto né in negativo né in positivo. Naturalmente ciò sempre che si sappia collocarlo in un quadro d’intensità pastorale e sociale che soprattutto sia in grado di restituire alla Chiesa tutta contenuti di nuovo alto profilo comunitario e comunionale. Sennò tutto resterebbe nelle logiche amministrativo-burocratiche come si trattasse di rimodulazioni aziendali.
Occorrerebbe dunque riattingere dal Concilio Plenario Sardo (messo in non cale dall’episcopato nostrano) gli elementi di concertazione operativa fra gli agenti di missione che potrebbero, in una qualche misura, prescindere dagli assetti strutturali, giuridico-materiali, delle diocesi. A poco servirebbe, infatti, opporre alle volontà esposte dalla maggiore autorità le benemerenze particolari, storiche od attuali. Cedendo però a superiori volontà di geometria semplificatrice, si potrebbero salvaguardare soggettività (più che autonomie) ove, ad esempio, una Chiesa locale destinata al sacrificio potesse oggi qualificarsi, sotto l’aspetto della proposta di nuovi scenari, per una spinta originale volta a più maturi obiettivi.
Ove le linee-guida del CPS trovassero ricezione e pratica e convinta applicazione da parte delle Chiese locali, il range canonico come è stato finora definito – con quel tanto di organi deliberativi o consultivi, con le complessità di curie e tribunali e commissioni, ecc. – avrebbe minor importanza e le macrodiocesi, da scorgersi infine nelle storiche province ecclesiastiche (rette da un arcivescovo metropolita) ben potrebbero soddisfare i due corni del problema: da una parte favorire nel concreto la circolarità ed efficacia della pastorale, dall’altra rispettare le antiche identità socio-territoriali, pur se col rango di macrovicarie, delle circoscrizioni abbattute. Ogni diocesi abbattuta potrebbe poi ridisegnare se stessa promuovendo ogni legittima particolarità e tradizione cultuale come i tempi nuovi consiglierebbero: ma tutto sempre riconducendo alla imprescindibile e sola orientatrice matrice valoriale, recuperando il senso di sé dal pugno di lievito che gioca in dinamica con la pasta da fermentare, senza volerla assoggettare ma sviluppandola, come ha detto tante volte papa Benedetto XVI, per “attrazione”. Rispettando autonomie e laicità piena dell’ordinamento pubblico e della stessa prassi politica, e invece partecipando al gioco sociale in chiave puramente oblativa della propria esperienza spirituale e culturale.
Se la sostanza della missione tornasse ad essere il centro degli interessi di tutti, il fatto puramente organizzativo e giuridico perderebbe di rilievo. E tutto dovrebbe partire – di lato a una purificazione della tensione spirituale, base sempre di tutto – con una riflessione critica ed aggiornata sullo stato presente della Chiesa locale stessa, ivi comprendendo i dati anche delle… consistenze di partecipazione: così alla messa festiva, così ai sacramenti (dal battesimo alle cresime – speriamo con ripensamenti incisivi circa le modalità – e i matrimoni), così alle occasioni promosse per un utile generoso e solidale.
Nella Chiesa fatta comunità, che è lievito per la maggior pasta, entrerebbe bene il volontariato idealista ed operaio, d’affiancamento, istruzione e soccorso, ed entrerebbe allora, mosso dalle nuove sensibilità sociali, tutto il faticoso impegno per una società pienamente inclusiva, in accompagno ai sofferenti estremi dirimpettai delle “regole” finora ingessate della bioetica libresca. La parresia dovrebbe impegnare il dovere della responsabilità evangelica, e non cercare altre aggettivazioni. Quando il clericalismo oscura lo spirito ecclesiale, è la controtestimonianza che si afferma e purtroppo le schiene curve di tutti i vescovi sardi di questo hanno misurato la portata, così come, in altro campo, è stato per la sorte del CPS, andato in malora per la prepotenza di uno e l’acquiescenza complice della platea.
L’apprendistato missionario prima dello stipendio talarino
Sono veramente le grandi questioni della bioetica – del fine vita – e dell’etica familiare che meriterebbero il primato di analisi e giudizio responsabile a dover dare nuovo sapore alla testimonianza attrattiva del lievito che fermenta la pasta; ma molto è da fare e rifare nella preparazione dei chierici nei seminari, da cui stanno uscendo a centinaia i giovani che fanno i preti mascherandosi con il vestiario dell’Ottocento e scambiando l’anticaglia per la tradizione, e la banalissima omelia catechistica per pedagogia cristiana; molto è da fare nelle parrocchie dove tutto o troppo è ancora nelle mani di preti onnipresenti, cresciuti alla scuola di un modesto leaderismo autoreferenziale che si traduce in una sconfitta atomistica delle comunità particolari.
Ripensare gli assetti diocesani implica prima di tutto porci davanti alla realtà sociale come è oggi per proporre un libro di vita, fatto di esempio ispirato. Significa qualificare l’immissione pastorale dei giovani sacerdoti con un apprendistato di uno, due anni in terra di missione, prima del rientro fra le sicurezze e i conforti della casa canonica, della retribuzione dalla cassa ex 8 per mille, ecc. Per diventare samaritani bisognerà saper essere soccorsi dai samaritani, accettare il ruolo cadetto di chi ha l’umiltà di ricevere, non l’inconfessata supponenza di chi può permettersi di dare il suo superfluo… E affacciandosi sul nuovo sociale bisognerà saper imparare dalla umanità più improbabile, per esempio dalla bella umanità delle famiglie allargate (extracanoniche) e delle famiglie arcobaleno (peccatrici per definizione).
Mi sovvengono le osservazioni del card. Carlo M. Martini sul ritardo di secoli della Chiesa cattolica, o dei suoi apparati, sui tempi della storia che sono i tempi sociali e più drammaticamente i tempi dell’uomo solo e insicuro che necessita, in urgenza, di fraternità e non di paternalismo comunque sciroppato.
Ripensare i nuovi assetti diocesani dovrebbe impegnare a nuove condotte nell’ordinario, a nuovi stili coerenti a più evidenti motivazioni: si tratterebbe di imparare a fare comunità mattina e sera in mix fra battezzati (chierici e laici e cento volte laiche e religiose), dando corpo a quelle formazioni pastorali che muovono se stesse soltanto per il servizio nella dimensione comunionale. Si tratterebbe anche di fare cultura e dibattito sulla stampa e l’web, senza gli impedimenti censori del malvezzo clericale, che ha finora impedito, anche in Sardegna, che il giornalismo cattolico fosse altro dalla pratica dell’ufficio-stampa.
L’amore speciale alla propria cattedrale come “chiesa madre” del territorio – che è più che al campanile inteso nel vieto senso municipalistico e rivaleggiante – meriterebbe d’essere preservato così come ogni carattere identitario educato però all’incontro dialogico.
Il prossimo avvicendamento al vertice della Chiesa cagliaritana [ora compiutosi, gfm] potrà dare quel tanto di sale alla assemblea ecclesiale che fra meno di due anni dovrebbe convocarsi, a norma del CPS, dopo la diserzione colpevole del 2011? Ricordiamo le parole dell’arcivescovo Tiddia, che fu segretario generale del Concilio, in occasione dell’incontro che Fondazione Sardinia organizzò allora, in sostituzione, e col dispetto dei vescovi Mani e Sanna; ricordiamo le parole serene e qualificate del prof. Antonio Pinna, le parole severe e istruttive del compianto padre Raimondo Turtas, le parole dotte ed ispirate dell’indimenticato amico nostro don Efisio Spettu sacrificato come qualche diocesi d’oggi su un altare profano, di calcoli e convenienze, fra l’acquiescenza dei più, o dei tutti.
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