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Gianfranco Murtas

Rosabianca, signorilità e fermezza: la febbre mazziniana, i ristori della poesia

di Gianfranco Murtas

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La bellezza di essere e di sentirsi minoranza, fuori perciò dalle omologazioni di convenienza e dai rischi di riduzione della capacità critica, senza per questo voler piazzare in vetta, ad ogni costo ed in offesa o sfida a tutti gli altri, i propri ideali. Ma avvertendoli, questi ideali, come ampiamente spendibili per il progresso sociale e comunque come ispirazione certa ed alimento sempre maturo e sempre adeguato della propria vita e pubblica e privata. Una vita vissuta, mazzinianamente, come missione, volta dunque ad una causa di bene superiore.

Rosabianca Cadeddu Rombi io me la sento ancora, a dieci anni dalla morte giunta tanto prematura e così improvvisa e dolorosa nella sua casa di La Vega, come – a voler trarre dalla grande storia nazionale una figura paradigmatica – una Cristina di Belgioioso repubblicana in tempi di monarchia, democratica in tempi di assolutismo, rivoluzionaria in tempi di conformismo poliziesco, soccorritrice in tempi di prepotenze perfino fuciliere. Sobriamente elegante, di principi granitici, tanto capace di ascoltare (e riflettere dall’ascolto) quanto decisa nell’assunzione di personali responsabilità e sempre gustosamente all’interno di compartecipazioni, di solidarietà attive e finalizzate, educata al gusto musivo. Sicché Mazzini e la poesia, la scuola – le elementari come il liceo, il liceo come le elementari – e la repubblica, anzi la Repubblica, le attività dell’Endas e le assemblee dell’antico e modernissimo partito dell’edera azionista ed europeista, gli echi giovanili di Parte d’Ispi e della pratica pedagogico-sociale di monsignor Antonio Tedde così come le lezioni politiche di Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, gli afflati dei Quattro Mori e la grazia di Marisa Sannia (a Sassari e forse Nuoro) sopra i testi musicati di Cicito Masala e le letture di Marco Spiga, le fecondissime intese con Donatella Lissia e le domande in aula dei ragazzi – quelle suscitate ai grandi autori di versi venuti apposta a Cagliari –, appunto quei cinquanta poeti tratti dalle sedi del continente per la missione sarda e i viaggi nelle pagine Veterotestamentarie a lei richiesti da preti di frontiera amanti di don Milani e padre Turoldo, la chitarra di Luigi Puddu vibrante nel silenzio accogliente dei tutti ed i rapidi pilotini di Gianfranco Murtas portati in televisione o in casa massonica, e dai, altro e altro mettici dentro, perfino d’Annunzio e Leopardi recati in teatro a Cagliari e negli altri capoluoghi dell’isola nostra…

Dieci anni sono passati, molti e pochi insieme, dacché s’è congedata dai suoi, da noi, per abbracciare – umanità con umanità – coloro che qui da noi aveva accompagnato nei modi del pensiero e della fede, e dunque della cultura che è intelligenza del nuovo e del complesso, della combinazione di energie e volontà per servire una causa sociale di emancipazione.

Il 10 marzo (data mazziniana per eccellenza, sempre celebrata a Cagliari e Sassari, dai tempi di Bacaredda e Soro Pirino! e ancora nel secondo dopoguerra) e il 12 del 2015 nel sito di Fondazione Sardinia e di Edere Repubblicane, e poi ancora il 3 marzo del 2016 ancora nel sito di Fondazione Sardinia celebrai pubblicamente la memoria dell’amica scomparsa, lasciando all’intimità domestica ogni successiva ricorrenza.

Ripropongo qui di seguito i due interventi mossi dal cuore e dalla coscienza, andati in omaggio anche a quel “dogma” democratico della cittadinanza che distinse, da ogni altra, la cultura repubblicana già quasi duecento anni fa, e che tanto intensamente mi unì a Rosabianca (e a Marco con noi). Quella cultura repubblicana segnata dal nostro sardismo mazziniano e cattaneano, asproniano e tuveriano, che s’associava – profetica – alle istanze del suffragio universale (quello femminile compreso, ed oltre ogni barriera di censo e di istruzione), della costituente, della repubblica appunto, delle autonomie territoriali nell’unità politica presidiata dalla piena indipendenza da ogni soggezione dinastica antinazionale. Con i suoi diritti ed i suoi doveri, il cittadino, non il suddito, doveva rappresentare in democrazia il centro di un composito assetto sociale volto alla modernità nella giustizia distributiva pertinente al mercato libero e aperto nonché nella eguaglianza delle opportunità. In fraternità, cioè nella reciproca responsabilità, fra le classi, nel laico equilibrio (e nella distinzione) delle ragioni della chiesa e dello stato, nella tensione verso una progressiva pacifica integrazione – chiamala federativa – continentale .


1 - Repubblicani per sempre. La coscienza morale, la promozione culturale. Rosabianca con noi

Butto giù queste poche righe di ritorno da una visita solitaria e di prima mattina, lunedì 9 marzo – vigilia del gran giorno mazziniano –, al sepolcro di Rosabianca Cadeddu Rombi, creatura dolce, discreta, signorile, generosa, colma di valori. Direi meglio: valore enorme lei stessa, nell’essere e nel condursi. La sua stessa figura fisica – statuaria come un’opera di Francesco Ciusa – esprimeva dolcezza e signorilità, discrezione e generosità. L’abbiamo avuta con noi, fra repubblicani, e alcuni, incrociate alla militanza politica, per altre partecipazioni, per lunghi anni. Gliene siamo grati, perché ci ha migliorato, o amiamo pensare di essere stati davvero migliorati, perché rispondenti al suo appello: persone di qualità, cittadini e democratici di qualità, repubblicani che ci credevano e ci credono. Ancora fiori per lei, come quelli accosti alla lapide in attesa di incisione che ho trovato arrampicandomi fin lassù.

«Noi mazziniani», soleva dire con naturalezza e con orgoglio. Ho sempre dato per scontato la cosa e non le ho mai posto la domanda di come e quando l’amore al mazzinianesimo, al repubblicanesimo segnato dagli apostoli della democrazia italiana, fosse sorto in lei, e come fosse maturato nel tempo. D’altra parte siamo sempre parziali e in ritardo negli adempimenti, non sappiamo mai gestire al meglio l’agenda, che gira il foglio senza chiedercene mai conto, senza darcene preavviso, e peggio per noi.

Avevamo anche concordato, tempo fa, una bella chiacchierata di ricostruzione di una pagina di vita che la vedeva studentessa delle scuole di monsignor Antonio Tedde, e poi anche insegnante, in quel passaggio – fra l’una e l’altra esperienza – dagli anni ’50 agli anni ’60. Lei adolescente, lei giovanissima, all’esordio magistrale, prima di incontrare Marco. Ero stato relatore a un convegno per il 30° della morte del grande piccolo vescovo alerese, e le avevo riferito la cosa, e lei aveva iniziato a delineare il campo dei suoi ricordi, su cui avremmo dovuto tornare.
Il resto degli incontri e delle conversazioni riguardavano vicende civiche di Cagliari, la tribolatissima vertenza di don Mario Cugusi con l’arcivescovo Mani. Entrambi noi amici del parroco di Sant’Eulalia, impegnati, ciascuno a suo modo, chi a battagliare, chi a consolare o incoraggiare. E un altro prete sui nostri passi avevamo e… condividevamo nello stesso lungo periodo – diciamo in questi ultimi quindici-vent’anni: don Ettore Cannavera. Rosabianca collaborava o alle lezioni bibliche tenute da don Cugusi, all’Ostello della gioventù o all’ex Dettori, oppure alle serate culturali alla Collina, e il vertice lo aveva toccato con i versi del Cantico dei Cantici, nella cui superiore espressione di umanità si colloca il valore universale proprio del monoteismo ebraico-cristiano.

Credo di ricordare che il padre di Rosabianca fosse un sottufficiale della Finanza, in giro per l’Italia per mandato d’ufficio. Negli anni della infanzia di Rosabianca, era stato assegnato al nord Italia, e nel Polesine – fra Rovigo e Ferrara – lei era cresciuta con le sorelle e la vigilanza della madre, in un ambiente rurale, per certi aspetti non così diverso da quello nostro del Campidano. In quella terra difficile e fra quella popolazione cordiale e laboriosissima s’era data, precocissima, a educare familiari e amici e amici degli amici, alle cose belle della letteratura, della musica, del teatro.

Così alle feste di paese, così ad ogni festa comandata: filastrocche, canzoni, poesie costituivano il canovaccio della esibizione di lei nove-decenne e degli altri coetanei che riusciva a coinvolgere negli spettacolini pensati veramente per educare alle cose belle. Esigeva il pagamento del biglietto: una caramella. Doveva essere il giusto compenso alla fatica sua e della sua troupe. Aveva cominciato a capire che l’arte e la poesia servivano a salvare il mondo, e s’era data all’impresa, anzi alla missione, che però richiedeva impegno in tutti. Doveva essere una conquista voluta e faticata non vinta alla lotteria. Lei dava l’esempio.

Aveva visto in quegli anni, lei attenta a tutto – a luoghi ed a persone –, di come si socializzasse in quella terra veneto-romagnola, povera e ricca ad un tempo. Con le donne a fare cerchio con i ferri o gli uncinetti, gli uomini più in là, la sera del riposo o la domenica senza televisione, a conversare con qualche bicchiere di rosso o al tavolo con le carte. Da quel dire mentre si lavorava a maglia, si sferruzzava con perizia d’artigiana e d’artista, aveva tratto ispirazione per lanciare, tanti anni dopo, un modulo nuovo e originale, a Cagliari, per proporre lo spettacolo poetico in teatro, al Massimo soprattutto. “Fili-e-Poesia” li chiamava quegli appuntamenti ai quali dava un contributo decisivo la sua formidabile amica e complice Donatella Lissia, mentre Maria Paola Masala era sempre lì a riferirne, da par suo, su L’Unione Sarda. Come anche di tutte le altre belle imprese dell’Endas, la nostra proiezione repubblicana nel sociale impegnato, che era partita decenni addietro anche in Sardegna (dal 1964, ma con altra formula, quella dei CAR – i circoli di assistenza e ricreazione curati da Giulio Andrea Belloni –, già dal 1950-51).

Evoluzione dei patti di fratellanza mazziniani, con l’obiettivo primario della emancipazione operaia attraverso l’alfabetizzazione e l’assunzione della coscienza e della responsabilità proprie del cittadino, l’Endas non avrebbe potuto non mettersi sulla strada di Rosabianca, né Rosabianca avrebbe potuto fare a meno dell’Endas repubblicana. Lei naturaliter educatrice, insegnante per vocazione, non poteva che collocarsi, con il suo senso insieme comunitario e d’eccellenza, con la sua sensibilità civica e la propensione ad una moralità applicata, nel range della democrazia repubblicana, che pone il centro della libertà nella tavola etica dei doveri, la sola che conferisce autorità, che innalza il lavoratore e nobilita il popolo consapevole della sua funzione storica.

Negli anni aveva seguito il tanto che l’Endas aveva messo in campo, e soprattutto aveva partecipato alle assemblee repubblicane della sezione Anedda, alle discussioni, ai congressi, alle elezioni. Presto – dopo 1988 – avrebbe dato la sua adesione alla associazione Cesare Pintus, lanciata da Salvatore Ghirra in logica di ecumenismo democratico, fra le molte militanze sarde della democrazia autonomistica, repubblicane e socialiste, sardiste e liberali o radicali.

Dal 1986 però era già entrata, per vocazione e per talento, nel grande giro delle promotrici di cultura che investono sul genio dei grandi, che sono pane per tutti. Lì il primo cimento, ora l’antologica poetica, ora Leopardi, ora D’Annunzio, ora Penna, ora Montale… Una valanga di cose belle sono venute da lì… E sono recital e sono mostre di manifesti, sono romanze da salotto belle époque e sono produzioni d’avanguardia poetica, magari con Dario Bellezza ed Elio Pecora, ma i nomi s’affollano molti o tutti per uscire da un immaginario magico imbuto del meglio: da Luzi a De Angelis, dalla Frabotta alla Spaziani, da Giudici a Franco Loi, ad Alda Merini a Wislawa Szymborska… “Il giorno dei poeti”, “I territori della poesia”, “Fili-e-Poesia” combinazione di Marta e Maria, secondo la felice definizione della Masala… Rassegne di altissima qualità, e magnifica risposta di pubblico, sempre, d’intesa con il Teatro stabile della Sardegna, con la Cedac, con il dipartimento di Filologie e Letterature moderne dell’Università.

Collaborazioni anche con don Cugusi, per le letture del Qohelet, lei voce recitante. Lettrice anche di cose mie, più modeste evidentemente, in televisione, un quarto di secolo fa, oppure a più recenti appuntamenti in casa massonica per onorare Fabio Maria Crivelli o dopo a Sant’Eulalia per celebrare don Efisio Spettu, e anche in Municipio, quando d’intesa con alcuni consiglieri comunali ero riuscito ad ottenere, nel giugno 2013, un sacrosanto riconoscimento civico per lo storico parroco della collegiata della Marina.

Presentazioni mirabili dei nuovi grandi del nostro teatro, come la Faa e Turno Arthemalle per “Sa scomuniga de predi Antiogu”, ed io a rendermi utile a lei, finalmente per sdebitarmi, raccogliendo a destra e a manca i materiali critici, le pagine del professor Del Piano illustrative del contesto storico-letterario-religioso della Sardegna di metà Ottocento…

Accanto ai grandi teorici, ai professori Maxia diciamo così, ai professori Virdis, ai professori Porru, ai professori Bandinu, e ne puoi elencare altri venti o trenta soltanto del nostro giro cagliaritano, lei pure saliva in cattedra, con il suo talento e la sua raffinatezza, per la soddisfazione di tutti.

Così ogni volta, anche in comunità da padre Morittu.
Eravamo saliti insieme, quella volta, a Sassari, per il concerto di Marisa Sannia che aveva messo in musica i versi di Cicito Masala, e anche a Nuoro dove l’Endas di Rosabianca Rombi – ormai responsabile nazionale per il settore culturale – aveva sfondato, per l’opera preziosa pure di Giannetto Massaiu e Annico Pau.

Aveva avuto quell’impegno fisso, di lungo periodo, con padre Piras, alla scuola di meditazione dei gesuiti, con altri quattrocento. Umile pedina che aveva ragione di sentirsi protagonista.

Volando così alto, ma anche tutta dentro la consapevolezza che la poesia era ed è la «voce del profondo», come lei stessa si esprimeva, l’abbiamo avuta “compagna” nel senso perfetto, etimologico, consueto fra i repubblicani, anche quelli sardi, d’inizio Novecento: materia – questa della storia repubblicana della Sardegna – alla quale, quando si aveva l’occasione di parlarne, s’appassionava. Del tempo in cui la sua Guspini era con Sassari la capitale mazziniana dell’Isola. E con la Guspini dei Murgia e degli Agus, e la Sassari dei Saba, anche l’Arbus dei Frongia, l’Iglesias dei Tuveri, e i circoli giovanili Giordano o Tola e i giornali di testimonianza e propaganda, dall’Edera alla Scure… esperienze del fare missionario nelle isolette dell’Isola.

Godeva, Rosabianca, dei microracconti di quella epopea fatta tutta di sogni di libertà e di giustizia e di repubblica. Per questo amava la figura di Cesare Pintus, per questo detestava, quanto me, e fin dal primo giorno, l’intervenuta decadenza insolente dei berlusconiani, pagani per statuto. E considerava che non potevano esser mai stati repubblicani sul serio quelli che erano passati, con il fagotto delle ambizioni spropositate, da quella parte brutta, dopo il 1994.

Gli amici non dovrebbero morire mai, meno che meno quelli che hai visto sempre servire la causa con l’energia della intelligenza e della coscienza morale. Ripenso a Rosabianca e sono affranto, la rivedo apostola che convoca, delicatamente, agli appuntamenti per una nutrizione comunitaria – nutrizione di ideali a tutti necessari contro le secchezze della prosa –, per il resto rimanendo nei ranghi, per illuminare i ranghi, le seconde e terze file, o le ultime, con Marco, amore vero e pieno, e tenero sempre, della sua esistenza, insieme con i figli e le famiglie dei figli.

2 - All’appello non manchi, Rosabianca

M’immagino di dire di Rosabianca avendola presente, nel mezzo di chi ascolta. Interessata a sentire – senza prevedibili sorprese però – com’è stata percepita da cuore e mente di chi ne ha coltivato l’affettuosa amicizia per lunghi quarant’anni. Saprebbe per certo, Rosabianca, della sincerità piena delle parole. Perché con le parole – tante parole vis-à-vis, al telefono (telefonate chilometriche) e per email (negli ultimi anni) – ci siamo scambiati anche altro: le lacrime, nella confidenza reciproca, in momenti difficili ora dell’uno ora dell’altra. Lacrime bagnate o asciutte, sempre discrete, pudìche, ma reali, vere, di uno sfogo che era purificazione, soprattutto purificazione. E a causarle erano per il più situazione personali ma anche, nella comune fatica del fare pubblico, i freni frustranti che lo scarto di sensibilità con i nostri più prossimi ci presentava: correvamo a cento, con i progetti della mente e le opere, pensando che tutti fossero convinti, come ci dicevano, della bontà di idee, premesse ed obiettivi. Poi, tanto spesso, la solitudine. Con eccezioni, naturalmente. Soprattutto per lei che le meritava tutte (Donatella Lissia in testa).

Va detto anche oggi come un anno fa: abbiamo avuto con noi una eccellenza. Eccellenza morale ed eccellenza civile, nel servizio della scuola prima – allieva e poi docente anche della scuola fondata da monsignor Antonio Tedde, poi nell’istruzione pubblica –, nella militanza entusiasta della poesia poi. A cucire i tempi dell’età giovane e dell’età matura una signorile e fedele presenza, insieme con Marco, nella politica, nella minoranza estrema di chi, come infinite volte ha sintetizzato il presidente Ciampi, sapeva unire – ma con un superiore sentire e “diligere” (proprio nel senso carducciano) – il risorgimento nazionale alla resistenza antifascista ed alla costituzione repubblicana.

Il gusto di Rosabianca era per una specie di ecumenismo delle intelligenze. Delle intelligenze rigogliose ed attive come i capitelli corinzi, ma – a nobilitarli di più e meglio – capitelli supportati da colonne semplici, le più semplici che si fosse mai dato d’incontrare. È un’immagine, questa, che forse mi è suggerita anche dalla figura elegante e bella di Rosabianca stessa, che a tutto partecipava con una femminilità scultorea, naturale e consapevole, perciò arricchente la misura d’ogni contesto.

I capitelli erano i luoghi e i modi della relazione sociale, dell’attività pubblica, dell’offerta a un bene da condividere; le colonne erano i luoghi e i modi della formazione personale nella famiglia, dello studio, dello sguardo cognitivo, delle prime sperimentazioni che lasciano l’impronta per sempre. E tutto era risultato di educazione: del “portar fuori” il patrimonio più intimo per affinarlo e, dopo, regalarlo. Un risultato che porgeva all’altro – così nella scuola come in teatro, nell’associazionismo, nel suo amato partito politico – sempre con il linguaggio della gentilezza. Anche in televisione, dove la portai ora è già un quarto di secolo, e in casa massonica per celebrare il nome caro di Fabio Maria Crivelli, e in municipio per onorare don Mario Cugusi e le sue fatiche trentennali alla Marina.

L’immagine scultorea della colonna e del capitello, evocatrice l’una delle matrici assimilate e l’altro della sua creatività – riflesso forse, ho detto, della sua stessa figura fisica – credo riporti nella memoria condivisa di tutti la realtà personale di Rosabianca Cadeddu Rombi e ne consenta declinazioni ulteriori e singolari. Perché nello slogan “Fili-e-Poesia”, a dirla senza abuso, pareva congiungere quel che la letteratura evangelica doveva, per necessità didascalica, proporre come elementi oppositivi: la contemplazione di Maria e l’operatività di Marta, nella casa di Betania. Forse, ma direi certamente, nel suo modello unitivo o combinatorio Rosabianca ritrovava se stessa, quella sua identità che cercava, anche in altre situazione, le stesse coordinate: pensiero e azione. Come in Mazzini, dopo che in San Paolo ma più ancora, molto più ancora, in San Giacomo il maggiore: le opere figlie della fede.


Fede e opere, pensiero e azione, fili e poesia

Credo che per capire profondamente Rosabianca e il suo humus morale, intellettuale e civile, non si possa mancare di entrare in questo schema. Lei battezzata cristiana e frequentatrice dell’eucarestia, lei associata alla pratica di meditazione zen di importazione ed impianto gesuitico, lei educatrice negli affetti domestici e nella missione della scuola, lei militante mazziniana (laicissima nel servizio della politica, perché lo stato è la casa comune di credenti e non credenti, o variamente e liberamente credenti), lei dirigente dell’associazionismo culturale repubblicano, lei apostola della poesia come strumento che sa riportarti, fra le complessità e complicazioni della vita, all’essenziale e al senso delle cose.

Ritorna qui, proiezione della sua figura fisica, l’icona della colonna semplice e del ricco capitello, della persona e della relazione sociale cioè, della disciplina che lancia la creatività: ritorna come sua chiave esistenziale il nesso fra la fede e le opere, fra il pensiero e l’azione, fra la cultura – da intendersi come mezzo interpretativo del reale – e l’impegno civile e politico, per una società inclusiva e ordinata, libera e giusta.

Non andrò per aneddotica, mi sforzerò di raccontare Rosabianca com’era dal di dentro per come l’ho conosciuta e capita, seppure diversi altri potrebbero dire meglio e meglio ancora.

Per spiegare i suoi amori intellettuali e civili, e limitando oggi a questo tema la mia testimonianza, rimando soltanto ad una scena relativamente recente, rivelatrice del trasporto patriottico – non sembri espressione datata e retorica questa –, di lei sardissima ma con formative esperienze di vita sul continente, nel 150° della unità politica dell’Italia, pur ancora, allora, in monarchia.

Nel quadro delle manifestazioni di “Fili e Poesia”, all’insegna di “Poesia per l’unità”, lunedì 18 aprile 2011 al ridotto del teatro Massimo di Cagliari, con i poeti Biancamaria Frabotta ed Elio Pecora, entrambi fra i più cari a Rosabianca, e più volte presenti alle iniziative dell’Endas repubblicana, ora in teatro ora in un liceo. La Frabotta e Pecora a dire di Cattaneo e Mazzini, “protagonisti, testimoni e artefici dell’unità d’Italia”. Nel sogno magari, appunto ancora non soddisfatto, di una unità nella piena libertà ed in repubblica, di una unità nel pieno rispetto delle autonomie territoriali, civiche per Mazzini, regionali per Cattaneo.

E prima e dopo l’una e l’altro dei relatori, ecco i testi letti al microfono da Rosabianca con Marco Spiga.

Un 150° da onorare nelle sue radici risorgimentali, destinate a trovare conferme e purificazioni nella lotta antifascista, nella resistenza e nella costituzione repubblicana. Ripartire da Mazzini, soprattutto da Mazzini, forse il maggior amore ideale di Rosabianca: partire dal suo pensiero e dalla sua testimonianza di vita, la vita di un esule, la vita di un democratico in tempo di autocrazia e poi di costituzionalismo autoritario, prigioniero anche il 20 settembre 1870 quando provvidenzialmente Roma veniva liberata dal malgoverno papalino e dalla teocrazia di Pio IX con i suoi arnesi peggiori, ghigliottina compresa.

Amava Rosabianca, che era stata insegnante e che la vocazione pedagogica l’aveva nel suo dna, lo spirito religioso e missionario di Mazzini: lo scopriva profeta. Lo sapeva triumviro nella Roma del 1849, la Roma repubblicana per cinque mesi, da febbraio a luglio. Papa Mastai Ferretti fuggiasco a Gaeta e poi invocante l’intervento degli eserciti borbonico ed austriaco, spagnolo e francese, per recuperare il suo trono già fuori della storia; Garibaldi che difende la conquista democratica al Gianicolo, Garibaldi sconfitto infine dall’esercito di Luigi Napoleone – poi Napoleone III – interessato al consenso clerical-cattolico in patria; nel massacro è vittima anche Goffredo Mameli, genovese di sangue paterno cagliaritano, ventuno anni, una gamba in cancrena per un mese prima della morte, Mazzini e Garibaldi come fratelli maggiori attorno al suo letto per consolarlo ammirandolo, ed informare la madre lontana delle condizioni drammatiche del ragazzo. Per lui una palla di moschetto francese; mortali fucilate austriache, benedette dal papa, anche su Ciceruacchio e Lorenzo, suo figlio tredicenne, fucilate su Ugo Bassi prete barnabita schierato con i repubblicani; centinaia i morti – giovani e giovanissimi popolani e borghesi, cristiani e repubblicani –, centinaia i morti per una causa che alcuni onoravano e i più, contro lo spirito della storia, combattevano.

La Repubblica Romana affermò, nella sua costituzione – cui quella nostra del 1948 fa ideale riferimento –, il suffragio universale esteso per principio anche alle donne (al tempo ancora senza status civico); affermò l’abolizione della tortura e della pena di morte (che il papa Beato Pio IX, detto vicario di Gesù nazareno, avrebbe ripristinato tornando al trono pochi mesi dopo e applicandola per altri 19 anni, quando venne fermato dallo scandalo nazionale sollevato dal deputato sardo Giorgio Asproni);  affermò anche la piena autonomia spirituale del vescovo di Roma ma nei limiti dell’esercizio ecclesiale.


Cattaneo, Mazzini, il nostro Goffredo Mameli

Rosabianca mi chiese i materiali per poter raccontare Cattaneo – il Cattaneo de “Un primo atto di giustizia verso la Sardegna”, del 1862, e già di “Geografia e storia della Sardegna” – e soprattutto Mazzini, il profeta dell’unità, nel rapporto con la nostra Isola. Le rimisi un dossier di 70 cartelle da cui avrebbe potuto piluccare liberamente, secondo la sua sensibilità. Quel che le importava davvero e soprattutto, e che racconta molto, moltissimo di lei, era l’idea di Italia che, come me, identificava con la missione provvidenziale e universale della terra di Dante e San Francesco, e identificava, anche e necessariamente, con la causa della libertà, mazzinianamente della democrazia – cioè nella sovranità attiva del popolo –, e della unità pur nella articolazione delle culture territoriali, quella nostra isolana fra esse.

Riferendomi alla varietà di tali culture di luogo, municipali o regionali secondo gli intagli della storia, osavo chiamare l’Italia come “la comunità delle comunità territoriali”, e la definizione piaceva a Rosabianca, ed era anche questa una fede che ci univa impegnandoci sempre a pensare in grande, onorando così i nostri comuni maestri.

E dunque il Mazzini dei “Doveri dell’Uomo” – che la stessa monarchia Savoia accettò entrassero, come catechismo laico, nella scuola pubblica dal 1905 (l’anno centenario della nascita del profeta) –, il Mazzini dei “Ricordi agli italiani”, il Mazzini che pubblica, nel giugno 1861, tre articoli sulla Sardegna scongiurandone la cessione alla Francia (come pareva fosse il proposito cavouriano), il Mazzini che scrive a due bambini di Sassari nella primavera del 1870 – cinque mesi prima della breccia di Porta Pia che avrebbe in qualche modo recuperato l’eredità del 1849 –, il Mazzini che commemora il suo giovane fratello Goffredo Mameli poeta.

Poche righe qui adesso, immaginando Rosabianca al microfono, quel giorno di cinque anni fa, davanti a un gran pubblico. Nella convinzione – dico io – che non avrebbe avuto paura di essere equivocata, oggi ancora parlando di guerra alla Collina, che è terra ispirata alla scuola di don Mazzolari, di don Milani, di padre Turoldo, di padre Balducci, di don Tonino Bello. La guerra del risorgimento italiano contro l’oppressione austriaca e papalina era la stessa che, in altre circostanze, avrebbero combattuto i partigiani contro i nazifascisti. Drammaticamente necessaria, pagando prezzi indicibili, per conquistare al popolo la sua libertà e la sua emancipazione civile.

Mazzini in premessa ai versi di Goffredo, quattro mesi dopo la morte del poeta:

« … tale io lo conobbi, dopo ch’ei s’era da oltre un anno affratellato meco per lettera e unità di lavoro, la prima volta nel 1848 in Milano. E ci amammo subito. Era impossibile vederlo e non amalo. Giovine allora, … egli accoppiava i due estremi, sì rari a trovarsi uniti, che Byron prediligeva, dolcezza quasi fanciullesca ed energia di leone da rivelarsi – e la rivelò – in circostanze supreme… Militava, capitano di una squadra di volontari, con poca fiducia nell’esito immediato dell’impresa, ma con valore cavalleresco… Rovinata la guerra, ei passò, appena si aprì la via alle nuove speranze, in Roma. Di là mi scrisse un biglietto, riassunto eloquente della sua fede, che non conteneva se non tre parole: Roma! Repubblica! Venite! e la data, 9 febbraio. E colà lo rividi, raggiante di novello entusiasmo, nelle file condotte da Garibaldi… Colto nella gamba da una palla di moschetto il 3 giugno, giornata che ci rapì Masina, Daverio ed altre vite preziose, e portato all’ospedale dei Pellegrini, ei sostenne, scherzando e lieto di patir per la patria, dolori e timori pur troppo avverati dall’avvenire: il coraggio era natura in Goffredo… Esempio raro nella milizia, egli aveva ricusato il grado offertogli di capitano, allegando che v’erano altri più atti di lui, per esperienza, a coprire quel grado, e non l’accettò se non giacente nel letto, dove gli fu dato. La ferita s’andò aggravando e la gangrena invadente rese, il 19, indispensabile l’amputazione. Fu fatta maestrevolmente, e allora sperammo di averlo salvo. Egli andava chiedendo se una gamba di meno gli contenderebbe di guerreggiare a cavallo. Gli pareva di non dover morire che sulla terra lombarda, in faccia all’Austriaco… Era deciso altrimenti. Mentre il cannone francese s’avvicinava lentamente alle mura, ei s’accostava ai momenti supremi. Avresti detto ch’ei dovesse morir con Roma. E morì il 6 luglio, tre giorni dopo l’occupazione, quando pei suoi più cari era cominciato e s’apprestava l’esilio. Come il fiore delle Floride, egli sbocciò nella notte: fiorì, pallido, quasi a indizio di corta vita, sull’alba; il sole del meriggio, del meriggio d’Italia, non lo vedrà».

Mazzini a due bambini sardi, Elvira e Ausonio Soro Pirino: «L’abbraccio dell’infanzia e della vecchiaia mi è sempre sembrato una cosa santa: un raggio d’innocenza, di speranza, di fede comunicato dalla vita crescente alla vita che fugge… Dio v’ha messo un istinto di amore nell’anima, mi ha fatto un bene che io non posso esprimervi… [La vostra parola di fiducia] m’è giunta in uno di quei momenti di stanchezza e di sconforto che visitano talvolta chi ha dovuto correre un lungo e penoso viaggio e mi ha diffuso intorno un senso di sollievo, di forza rinnovata, di ringiovanimento che durerà… Amate la vostra patria che è l’Italia, la vostra culla che è la Sardegna, la povera, la buona e leale Sardegna che non risorgerà se non sotto una bandiera di Popolo. Amate i parenti che hanno protetto e proteggono la vostra giovane vita, gli amici che vi circondano d’affetti e di cure, i buoni che lavorano pel bene del paese, quei che soffrono abbandonati ed hanno più degli altri bisogno d’amore: Dio in essi tutti… Io non vi vedrò probabilmente mai sulla terra, ma rileggerò di tempo in tempo la vostra letterina e amerò sempre la vostra immeritatamente negletta Sardegna».

  

Fonte: Gianfranco Murtas
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