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Gianfranco Murtas

Spadolini a trent’anni dalla morte. Il suo ultimo discorso contro l’annunciata devastazione berlusconiana

di Gianfranco Murtas

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Fu un’operazione politicamente miserabile quella di Berlusconi e dei suoi servi quella di impedire a Giovanni Spadolini – statista vero e uomo di cultura con pochissimi pari in parlamento e oltre – la conferma nella presidenza del Senato (e in quella vicaria della Repubblica), nel 1994.

Privo di pur un briciolo di senso dello Stato, il capo e padrone di forza italia – formazione senza storia né idealità etico-civili – aveva imposto la sua visione padronale delle istituzioni a tutti i suoi e agli alleati elettorali che avevano combattuto nell’imbroglio palese la battaglia delle urne nella primavera di quell’anno. Nessuno dimentichi infatti che il cosiddetto polo di centro-destra comprendeva i missini che non riconoscevano dignità… patriottica agli alleati leghisti parasecessionisti, e questi ultimi non riconoscevano dignità democratica ai permanenti cultori della fiamma tricolore anch’essi radunati nella scalata al potere. E si volle fare un governo insieme, in queste condizioni! nella Repubblica di Terracini e De Gasperi, di Sforza e Ruini, di Saragat e Nenni, di Pertini e Lina Merlin, di Ugo La Malfa e Luigi Einaudi. S’annunciava il massacro perfino del buon senso, certamente dell’onestà intellettuale, così è stato nella collettiva tragedia moderna dell’Italia.

Chi aveva promesso un ministero finalmente costituito « dal meglio che l’Italia può vantare in ogni settore dell’amministrazione pubblica » subito inserì il nome del suo avvocato privatissimo addirittura al ministero della giustizia! Peraltro lui, il capo della corte indefinibile, aveva teorizzato di essere naturalmente concavo con i convessi e convesso con i concavi, mai pensando che se De Gasperi – statista vero – fosse stato di questo pessimo artigianato commerciale avremmo avuto i comunisti di Stalin o poi di Tito a Trieste!

Naturalmente ci fu, anche in Sardegna – così alla Regione come nei comuni, complice la grave modestia della sinistra di ogni fabbrica –, la corsa sul carro del vincitore, come sempre ci sono stati gli opportunisti di poco conto che si fecero, per personale e venale convenienza, obbedienti ad ogni capriccio che in quella stagione politica il prepotente di turno imponeva come una legge, frantumando ogni consistenza etico-civile materializzatasi per virtù di una storia quasi bisecolare: quella delle grandi scuole del pensiero politico, dalla liberale alla socialista, dalla democattolica alla repubblicana o radicale o federalista. E quando morì, nell’agosto di quello stesso 1994, Giovanni Spadolini così insolentemente umiliato, venne senza pudore alcuno, con somma ipocrisia, onorato anche da questi piccoli voltagabbana all’occasione recitanti.

Ho avuto diverse occasioni, personali e indirette, di contatto con Spadolini già dai tempi della sua direzione del Corriere della Sera (fu nel centenario di Roma capitale, oltre cinquant’anni fa) e dopo, lui già parlamentare e ministro fondatore dei Beni culturali nel governo Moro-La Malfa del 1974-1975 – si pensi alla tragicommedia di oggi della destra titolare dei Beni culturali! – e ministro poi anche della Pubblica Istruzione e della Difesa, e presidente del Consiglio nel 1981 e 1982, senatore a vita per nomina di Francesco Cossiga dal 1991.

Formatosi “gobettiano” all’indomani della guerra fu, Giovanni Spadolini, un enfant prodige della cultura storica già dalla fine degli anni ’40: elzevirista di quotidiani nazionali, scrittore rubricista precocissimo de Il Mondo di Pannunzio, professore universitario già a 25 anni al Cesare Alfieri di Firenze – quando la cattedra di storia moderna venne scissa aprendo ai corsi di storia contemporanea (da Napoleone in poi), autore in quei primissimi anni ’50 di un capolavoro come Il papato socialista – sapiente saggio sulla dottrina sociale della Chiesa dalla scolastica di S. Tommaso d’Aquino al Risorgimento nazionale e sulle relazioni fra le due sponde del Tevere fra Otto e Novecento – e poi dell’apprezzatissimo L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98 (uscito nel 1954)… Direttore dal 1955 (lui appena trentenne) del Resto del Carlino che era stato il giornale di Carducci e di quanti nostri sardi che studiarono o insegnarono a Bologna… da Sebastiano Satta a Raffa Garzia…. E direttore del Corriere della Sera dal 1968 e per quattro anni, capace di pilotare gradualmente il quotidiano della borghesia milanese verso una intelligente comprensione delle politiche del centro-sinistra moroteo.

Con la Sardegna ebbe, Giovanni Spadolini un rapporto segnato da una marcata eredità ideale paterna: ché Guido Spadolini, professore e pittore fra i maggiori della sua epoca (morto nel 1944 sotto i bombardamenti presso Firenze, lui ufficiale della Croce Rossa), aveva accompagnato nell’Isola Vittorio Alinari nel 1914, per quella meravigliosa ricognizione fotografica che è presente su carta in tutte le biblioteche di rango.

« Odorava di bucato » Giovanni Spadolini: così secondo la nota espressione di Indro Montanelli che lo aveva conosciuto e frequentato per mezzo secolo, e dell’allora giovane autore aveva recensito quel Papato socialista che anche un nostro grande sardo – l’avv. Michele Saba repubblicano di Sassari, per tre volte incarcerato per antifascismo – aveva letto e studiato, scrivendone tempestivamente nelle pagine de La Nuova Sardegna.

Quel Giovanni Spadolini presidente del Senato dal 1987 fu sconfitto per un voto dal suo avversario berlusconiano Scognamiglio. E nelle tornate di discussione sulla fiducia al nuovo governo delle illusioni – governo che si presentava tronfio e demagogico – intervenne, Spadolini, con un discorso come quello che soltanto uno statista vero e uno storico che conosceva la differenza fra la storia e la cronaca vignettata poteva fare, annunciando infine la sua astensione che, nel regolamento di Palazzo Madama, significava voto contrario.

Cagliari – s’intende la sua amministrazione – non ha dedicato una strada o altro a Giovanni Spadolini così come indifferente s’è mostrata verso un padre della patria e resistente come Ugo La Malfa e verso il miglior fratello sardista di questi: Giovanni Battista Melis. Troppo spesso la sinistra è stata uguale alla destra: vedremo se l’amministrazione Zedda, così equivoca nella sua precedente edizione, saprà differenziarsi questa volta dalle giunte Truzzu, o Floris e Delogu che l’hanno preceduta, trovando sempre modo di celebrare, queste ultime, con pessimo esercizio di pedagogia civile, i fascisti.

Eccolo il magnifico discorso di Giovanni Spadolini che fu anche il suo testamento politico.


« Lei non è chiamato da nessuna Provvidenza o nessun destino »

Signor presidente del Senato, signor presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, un autentico privilegio del presidente del Senato è quello di non votare. E mai come nel momento attuale rimpiango questa regola, che mi ha accompagnato per tutti gli anni della mia presidenza, anni in cui mi sono ispirato ai principi dell'arbitrato e della mediazione super partes, connessi alla stessa istituzione presidenziale, istituzione che cancella, o dovrebbe cancellare, le stesse origini politiche del titolare dell'ufficio, imponendogli tutte le necessarie cautele e tutte le necessarie rinunce.

Mi richiamo a questo lungo periodo di presidenza del Senato per dirle, signor presidente del Consiglio, che non potendo accordarle la fiducia, ma tenendo conto della mia esperienza al vertice di Palazzo Madama per tanti anni, mi asterrò dal voto.

Nel suo programma, che è un vasto e composito programma, frutto di un'alleanza vasta e composita, che non si era presentata come tale ed in modo definito all'elettorato italiano (altro che svolta maggioritaria!), ci sono elementi accettabili, ma ci sono anche elementi che debbono essere rifiutati o rettificati o reinterpretati. Ci sono speranze condivise da tutti gli italiani – la lotta per la maggiore occupazione, in primo luogo – mescolate a trasformazioni, talora confuse, che richiederebbero anni o decenni.

Noi non vogliamo impedirle di mettere alla prova quel che deve essere messo alla prova, di sottoporre al giudizio delle Assemblee, sia di questa sia della Camera, quelle misure da cui possa emergere un consenso parlamentare più vasto di quello su cui si regge la sua coalizione di governo, solcata da dissensi che hanno riempito le cronache di queste settimane e confermato posizioni fortemente divaricanti e, in taluni casi, dilaceranti.

Ma c'è soprattutto un elemento dal quale, forti della nostra lunga esperienza parlamentare, noi vorremmo metterla in guardia con spirito di amicizia: quello di ritenere che col suo governo cominci una nuova storia, che il nuovo si contrapponga meccanicamente e insieme impetuosamente al vecchio, che tutto il vecchio (la costruzione della Repubblica attraverso la lotta di Liberazione, la scelta atlantica ed europeistica degli anni '50, il salto dall'Italia silvo-pastorale all'Italia industriale, la mediazione, in vari periodi feconda, fra forze laiche e forze cattoliche), che tutto questo vecchio sia da respingere o da abbandonare. E che il nuovo – e quale nuovo! – sia da esaltare in modo indiscriminato ed acritico, in omaggio ad una fiducia nel futuro che sembra prescindere dalla gravità dei problemi aperti (pensi solo al debito pubblico), delle difficoltà da superare, delle eredità negative che dobbiamo cancellare, aggravate dai fenomeni corrosivi che hanno colpito e degradato le istituzioni.

Rispetto alle invadenze e alle sopraffazioni della partitocrazia (una parola che noi conosciamo bene fin dalle sue origini, all'alba degli anni '50, e che non abbiamo tardato ad impiegare negli ultimi anni e decenni) non c'è stato un solo segnale di novità, un solo elemento di svincolo da quella che era, con le conseguenze che tutti abbiamo pagato, la sovrapposizione insolente dei partiti e dei relativi apparati sulla vita delle istituzioni. E il fenomeno riguarda anche partiti appena nati o addirittura neanche nati come tali, come il movimento da lei capeggiato ed animato.

Chiudiamo dunque, per sempre, questo capitolo, riconoscendo che la storia di una nazione abbraccia in sé tutte le esperienze che è chiamata a percorrere.

Anche lei, signor presidente del Consiglio, di cui sono ben note le benemerenze imprenditoriali, potrà dare un contributo a questa storia, a patto che s'accinga con umiltà ad un'opera cui non è chiamato da nessuna Provvidenza e da nessun destino, ad un'opera che è indicata dal corpo elettorale, ma che si iscrive nel solco delle generazioni che si succedono, portatrici di successi e di fallimenti, di traguardi e di sconfitte, di conquiste e di delusioni.

Quando faremo fino in fondo la storia di Tangentopoli e della corruzione, vedremo che le responsabilità sono assai più larghe di quelle che una propaganda sommaria ha tentato di definire e che la corruzione – questa maledizione contro la quale ci siamo sempre battuti fin dai tempi della P2 che ne fu una delle prime e più sconcertanti manifestazioni – investe tutta una realtà politica e sociale, dalla quale nessuno può considerarsi esente. E noi abbiamo sempre posto la questione morale, anche in anni lontani, quando ci toccarono responsabilità di governo analoghe alle sue, al centro della nostra azione e del nostro impegno, quali che fossero i rischi da correre o i sacrifici da affrontare.

Storia che continua, dunque, non storia che comincia. La nostra è la storia di una nazione che si è costruita gradualmente, in base ad una identità di lingua e di cultura che ha preceduto di secoli la formazione dello Stato, in un processo che appare miracoloso, ma che in realtà è stato faticoso, contraddittorio, spesso paradossale, pieno di sacrifici e in gran parte deludente («Risorgimento senza eroi», come avrebbe detto il nostro Gobetti).

Ecco perché tutto nella storia italiana è stato pagato a così caro prezzo; nulla ci è venuto mai gratis. Cominciando dalla faticosa ricostruzione post-bellica, dall'avvio dell'epoca repubblicana, dalle recenti – e quanto faticate – vittorie contro il terrorismo e contro l'inflazione.

Guardiamoci intorno. Così come non ho prestato troppo ascolto alla cosiddetta teoria della «fine della storia», elaborata all'indomani del crollo del muro di erlino, mi lasci dire che potrei difficilmente accettare l'idea di «nuovo inizio della storia» solo perché un governo è succeduto ad un altro, dopo una crisi che ha registrato contraddizioni e condizionamenti e in attesa di un chiarimento definitivo circa sfera privata e sfera pubblica nello stesso ambito delle sue personali attività imprenditoriali (la televisione, per intenderci).


« Al governo, con le valigie sempre pronte »

Rispetto delle regole, trasparenza, moralità. Tutto questo fa parte della fisiologia delle democrazie. In democrazia si va al governo, non si va al potere; la parola «potere» è stata introdotta nel mondo moderno dalle ideologie dittatoriali o dalle giunte militari; non si va al potere, si va al governo e sempre con le valigie pronte (Applausi dal Gruppo Misto e dai gruppi del Partito popolare italiano, Progressisti-Federativo, Progressisti-Verdi-La rete, di Rifondazione comunista-Progressisti e del senatore Stanzani Ghedini)... sempre con le valigie pronte. Ricordiamo quella frase del Moro bicolore (un Esecutivo del quale, io sì, mi onoro di aver fatto parte vent'anni fa esatti, nel 1974-75): «Ogni giorno dobbiamo viverlo indifferentemente come il primo o l'ultimo della nostra fatica» (Applausi dal Gruppo del Partito popolare italiano).

Oggi di fronte a lei c'è un paese impegnato a riscoprire, in una fase di profondo travaglio e di profondissimo disorientamento, la propria identità. E non sono certamente scomparsi gli squilibri che per tanta parte hanno caratterizzato le vicende multiformi e tormentate del nostro popolo, squilibri aggravatisi negli ultimi anni. Squilibri che, se lei otterrà la fiducia delle Camere, toccherà anche a lei tentare di rimuovere.

Ma nonostante tutte le contraddizioni l'Italia è una democrazia che ha riconquistato a duro prezzo un posto nel consesso delle nazioni civili, una democrazia che, attraverso il superamento dei confini, ha saputo guardare all'Europa, spingersi anche al di là dell'Oceano Atlantico.

Noi dobbiamo sempre fare i conti con i nostri alleati e partners dell'Europa comunitaria, cui si unisce la comune lotta contro il totalitarismo, in tutte le forme in cui si è espresso in questo secolo. E quando dico totalitarismo dico razzismo (Vicenza insegna), dico antisemitismo, dico xenofobia, dico sopraffazione e violenza, dico anche localismi a sfondo tribalistico (quelli che ci hanno portato all'Europa frantumata: la sindrome jugoslava per intenderci).

Né sapremmo concepire il mondo moderno senza la grande lezione di civiltà, di serietà, di scienza ed amore per l'Europa che ci ha dato la democrazia nordamericana anche nella lotta contro il nazi- fascismo.

Il rischio è piuttosto un altro. L'isolazionismo che sorge dal Pacifico e che potrebbe spingere gli americani a separarsi dall'Europa, da un'Europa che in questo momento appare incerta e disorientata, come non mai e rispetto alla quale deve essere definita una linea di governo assai più precisa e rigorosa di quella che appare nei sommari, necessariamente sommari, accenni del suo discorso. Non meno del terzaforzismo europeo, con qualche venatura di nazionalismo e di nazional-populismo, due virus mai completamente debellati, che potrebbero tendere a staccarci dal vincolo euroatlantico. La vera rivoluzione è stata quella atlantica, che ha assorbito insieme la rivoluzione francese e la rivoluzione americana, creando un nuovo diritto umano che è compito nostro perfezionare e adeguare ad un mondo che cambia.

E già che stiamo parlando di diritto e di trasformazioni, mi lasci soffermare per un attimo sulla questione delle riforme istituzionali: termine che va usato con tutta la prudenza, la sagacia e l'accortezza del caso, al di fuori di ogni facile dilettantismo di tipo goliardico e senza dimenticare l'indispensabile riforma elettorale, con l'auspicata introduzione del doppio turno.

Dobbiamo rivedere la Costituzione, dobbiamo adeguarla alle esigenze di una democrazia funzionante, di una democrazia dell'alternanza (ancora tutta da costruire). Parlamento forte vuol dire governo forte. Ma dobbiamo farlo al di fuori di ogni tentazione di sovvertimento, di sconvolgimento dei principi che hanno presieduto alla costruzione della Repubblica, sul fondamento di legittimità del patto nazionale, punto di incontro fra primo e secondo Risorgimento.

Non è con i colpi di teatro che si affronta una materia delicata ed essenziale come questa: ricordiamo che una cosa è la forma di governo, tutt'altra cosa è la forma di Stato. Mi torna in mente una frase di Musil ne “L'uomo senza qualità”: «Ogni generazione intenta a distruggere i buoni risultati di un'epoca precedente è convinta di migliorarli».

I polveroni sollevati dal «movimentismo» istituzionale (che ha caratterizzato gli ultimi anni della vita italiana, non senza complicità anche nostre, dei partiti storici, vecchi, della democrazia italiana, che ora sono in via di superamento e di trasformazione nel nuovo quadro del sistema maggioritario, che per ora è soltanto tendenzialmente maggioritario) allontanano le riforme possibili. Certo non le avvicinano. Riformismo non è movimentismo. Essere «partito riformatore» non vuol dire in nessun caso essere partito «ginnastico». Guai a contrapporre la piazza al Parlamento. Guai a contrapporre i fondamenti della Costituzione, sugli inviolabili diritti umani, ad una presunta radice plebiscitaria, contestatrice degli ordinamenti dello Stato.

So bene cosa significa portare la responsabilità della guida di un governo, signor presidente del Consiglio, e so che ogni consiglio può essere utile. Il mio consiglio a lei, signor presidente, non è di procedura ma di sostanza, in questo caso. Qualunque schema di modifica dei lineamenti costituzionali del paese, entro quei limiti insuperabili che ho tracciato, dovrà necessariamente essere il frutto di un dibattito da non confinare all'interno dell'angusto perimetro di una maggioranza. La Costituzione rappresenta un bene comune dell'intero paese, della maggioranza non meno che dell'opposizione. Per questo auspico vivamente che le forze componenti il suo governo, con angolazioni e origini così diverse, si rendano conto che il terreno ideale sul quale far maturare le riforme istituzionali è uno solo: il terreno parlamentare.

Esiste l'articolo 138 della Carta costituzionale. È alle procedure e alle regole indicate in quell'articolo che bisogna rimanere fedeli, con la consapevolezza che i principi supremi fissati dalla Costituzione, fra i quali l'indipendenza della magistratura e il mantenimento della suprema garanzia costituita dalla Corte costituzionale, non possono cedere d fronte ad alcuna altra fonte di diritto, plebiscitaria o di altra natura.

Alle forze politiche che invocano la tutela e il potenziamento delle peculiarità regionali e locali — che sono tanta parte della complessa storia d'Italia – rispondo che si tratta di un'aspirazione legittima nell'ambito di quella che Piero Calamandrei chiamava la «Repubblica delle autonomie», che come tale è stata configurata, anche se non sempre nel corso di questi decenni attuata ed anche se in certi casi tradita.

La valorizzazione di questo patrimonio culturale e spirituale, ricchissimo e variegato, deve passare attraverso un potenziamento degli enti territoriali che tenga conto degli errori compiuti in questa prima fase della Repubblica, cominciando dal terreno fiscale. Ma il tutto in un quadro unitario, perché l'Italia è una e indivisibile. Il che esclude compromessi di tipo confederale o frammentazioni di stampo centro-europeo che sono al di fuori della storia. E senza dimenticare mai che l'unità nazionale si è realizzata nel post-Risorgimento e successivamente con la Repubblica, attraverso forme dirette e indirette di solidarietà delle regioni più ricche a favore delle regioni più povere (guai ad ogni forma di anti-meridionalismo, io riaffermo qui la mia fede assoluta nel Mezzogiorno) e delle categorie forti a favore delle categorie deboli. (Applausi dal Gruppo Misto, Progressisti-Federativo, Progressisti-Verdi-La rete, di Rifondazione comunista-Progressisti e del Partito popolare italiano, Forza Italia e del Centro cristiano democratico).

Questa è l'Italia; noi portiamo, avrebbero detto i nostri vecchi, un amore secolare all'Italia. Senza distinzione fra Busto Arsizio e Battipaglia. (Vivi, generali applausi. Molte congratulazioni).

Fonte: Gianfranco Murtas
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