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Gianfranco Murtas

Spadolini e quella polemica con gli indipendentisti sardi (e sardisti) degli anni ‘80

di Gianfranco Murtas

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Sembra una storia lontana, troppo lontana nel tempo, antica quasi, perché ormai lo svolgimento delle cose, anche nella politica, si compie senza che nessun fenomeno – che sia sociale o culturale non importa – abbia modo di maturare e progressivamente generare il nuovo. Sembra invece che la scena, anche se ancora incompiuta, debba cambiare comunque, lasciando tutto nella sospensione dell’inespresso, come una selva di impressioni e non di ragionamenti o argomentazioni che portino infine alle verifiche, alle conferme o alle rettifiche, agli aggiustamenti, appunto per gli avanzamenti possibili e voluti. Eppure gli anni ’80, se si ricordano per le canzoni di maggior diffusione popolare fra radio e discoteche, per i miti della musica leggera che entrano oggi nei quiz televisivi al posto della storia punica o romana, per le fascinazioni di questa o quella partita di calcio delle coppe mondiali o per l’originalità delle mode dell’indosso, perché non debbono anche ricordarsi per quanto, da noi, hanno rappresentato di degenerazione pubblica, fino agli sbocchi di “mani pulite” e (purtroppo) al trionfo delle marchiane falsità berlusconiane e agli sgoverni della destra imbrogliona? Così nei prolungati ed asfissianti contrasti di puro potere fra il democristiano De Mita e il socialista Craxi (e nell’accelerazione dei rigonfiamenti della spesa pubblica corrente), così nei perduranti ostinati ritardi dottrinari dei comunisti dopo la morte di Berlinguer e prima del crollo del muro di Berlino, così nelle iniziali paganissime provocazioni leghiste… E in Sardegna, dopo il crollo pressoché generalizzato, del sistema industriale (privato rovelliano e delle partecipazioni pubbliche) e le capitali (ed equivoche) trasformazioni nel mondo della stampa, l’assalto perverso e massivo del fiore nero sociale (quello della droga e dell’aids giovanile), anche nell’illusione miserevole della rivoluzione sardista, rivelatasi poi, data l’inconsistenza di un pur elementare senso della storia in capo alla stessa dirigenza del PSd’A – con l’eccezione di Mario Melis – un imbroglio che s’è accompagnato, dopo molte ubriacature nazionalitarie ed indipendentiste, alla corruzione della natura stessa del partito. Che se è finito come si sa, sarà pure perché la società liquida ha annegato nella memoria collettiva i nomi di Titino e Pietro Melis, di Anselmo Contu, di Piero Soggiu, di Pietro Mastino, di Luigi Oggiano, di Luigi Battista Puggioni, degli stessi sardosocialisti come Dino Giacobbe e Anton Francesco Branca o degli azionisti come Gonario Pinna, insomma dei tanti che avevano una visione… una visione e una dignità personale, morale, intellettuale e politica, portatori di una docenza sociale… e che il meglio di sé avevano recato, con passione civile ammirevole, alla politica e alle istituzioni. Che parabola! dalle interlocuzioni, nell’estate del 1945, al Viminale, con Ferruccio Parri l’azionista mazziniano presidente del Consiglio dopo che capo partigiano nel nord Italia, alle chiacchiere sgrammaticate con Umberto Bossi prima e con Matteo Salvini, prossimo incredibile devoto della Vergine Immacolata, dopo… Ma ci rendiamo conto del cervellotico (e immorale) cambio di paradigma da parte della dirigenza del PSd’A? Ci rendiamo conto del blasfemo rovesciamento valoriale, direi anche dell’insulto all’intelligenza della missione che il sardismo come esperienza storico-politica regionale aveva già compiuto e ancora avrebbe potuto compiere, nelle trasformazioni epocali del Novecento e ancora di questo primo scorcio di nuovo millennio, sul grande scenario dell’Italia e dell’Europa? Regalando qualità elaborativa e visione di cultura specialissima, non omologazione miserevole.

Proprio negli anni ’80 si sviluppò una insistita polemica dai toni piuttosto alti fra i nuovi supponenti padroni della scena e la minoranza repubblicana, fra Giovanni Spadolini (al tempo ministro della Difesa oltreché segretario politico del PRI, poi presidente del Senato… non a caso liquidato da Berlusconi e dai suoi servi parlamentari nel 1994, sì da Berlusconi al quale un sindaco nazionalitario e indipendentista, ma anche confuso, molto confuso, avrebbe donato, sulle coste dell’Isola di Eleonora, i quattro mori come segno di ospitalità vassalla!) e la nuova dirigenza sardista. Molto molto impropriamente si evocarono passate condivisioni fra repubblicani e sardisti, ma ci si dimenticava – da parte sardista (in cerca di allargare comunque la maggioranza di giunta) – di ricordare che quell’alleanza virtuosa si fondava sulla roccia evergreen dell’apostolato di Mazzini e Cattaneo e Bovio e Asproni e Tuveri… leggere Il Solco già delle stagioni prefasciste prima di dire alcunché! Si trattava di una solidarietà che idealmente datava giusto dal 1921! quando Agostino Senes si candidò con i Quattro Mori e meravigliosamente sviluppatasi nel 1924 (con l’intervista rilasciata da Lussu a Cesare Pintus per la prima pagina di La Voce Repubblicana e l’uscita a Cagliari, lungo due mesi, di un quotidiano – Sardegna – in direzione associata Angius-Mastio, cioè PSd’A-PRI) e ancora dopo nelle retate fasciste per imprigionarono Cesare Pintus e Anselmo Contu e Michele Saba e Francesco Fancello… Lussu stesso – come scrive Giuseppe Fiori nel suo Il cavaliere dei rossomori – fu inquadrato in Giustizia e Libertà, nel 1929, come un ideale esponente della democrazia repubblicana, di lato a Carlo Rosselli socialista liberale ed a Alberto Tarchiani liberale, oltreché ad altri socialisti irregolari (come Salvemini) e a quanti amendoliani e mazziniani!!

Nel 1946 i repubblicani sardi votarono, alla Costituente, per i sardisti impegnati nella “fabbrica della Repubblica” – e quale contributo dettero Lussu e Mastino come padri costituenti e anche, nei governi di CLN, l’uno come ministro dell’assistenza postbellica e l’altro come sottosegretario ai danni di guerra! –, nel 1949 tre candidati repubblicani entrarono nelle liste PSd’A per l’avvio dell’autonomia speciale, e da lì sia alle regionali che alle amministrative quante altre volte le due sigle, i due simboli si abbracciarono!… Nel 1963, dopo che Ugo La Malfa ministro del Bilancio nell’esordio del centro-sinistra era riuscito ad ottenere dal Parlamento un miglior equilibrio nelle responsabilità progettuali della Rinascita fra Regione e Ministero (e Cassa per il Mezzogiorno), partì l’accordo elettorale per la Camera: i sardisti si presentarono alla tv nazionale negli spazi repubblicani, La Malfa e Titino Melis risvegliarono in sé i succhi democratici della loro giovanile condivisa detenzione a San Vittore, quando anche Gramsci era lì ristretto per antifascismo… Venne infine, nel 1965, Simon Mossa l’architetto geniale ed egli seminò il campo, partendo da Sassari, di suggestioni indipendentiste, che furono tormento per tutti fino alla inevitabile rottura. Firmandosi ancora mazziniano Luigi Oggiano, invitò a votare l’edera della Giovine Europa, non più i quattro mori, Pietro Mastino nel 1968… Altre stature, altra visione della politica come servizio all’interesse generale. Non si capisce niente del giornale d’oggi, neppure del notiziario dello smartphone, se prima non si è almeno sfogliato un libro di storia e si sono prese le coordinate spazio-temporali!

La segreteria politica di Michele Columbu – il quale nel 1972 era stato eletto alla Camera nella lista comunista! (del PCI ancora ad ispirazione sovietica e brezneviana: equivoca penalizzazione che colpirà anche Mario Melis nel 1976 e nel 1983) – accompagnò per alcuni anni il PSd’A su una linea tendenzialmente separatista, in attesa che i vecchi morissero e nulla più obiettassero: Mastino se n’era andato nel 1969, Titino sarebbe caduto nel 1976, e gli altri… Bellieni e Contu in quella stessa stagione che era anche della resa di Lussu a Roma, e poi Oggiano il santo, nel 1981, a Nuoro… Il PSd’A rifatto con i pezzi del variopinto movimentismo extraparlamentare degli anni precedenti – rivoluzionari reazionari e senza senso della storia, microsovranisti d’accatto (e, per paradossale eterogenesi dei fini, con degni gemelli a Palazzo nella contemporaneità, gemelli anch’essi in difetto di prenotazione nella storia e carichi invece di tutte le volgari deiezioni delle trascorse piazzate comiziali) –, il PSd’A senza consapevolezza alcuna delle nuove forme necessarie ad un federalismo continentale (con l’Italia e dentro l’Italia) pensato per unire e non per dividere! tant’è che i loro tristi germogli hanno portato, ho ricordato, a sudditanze schifosamente destrorse, a tarde scuffie dell’ampolla del dio Po e delle adunate di Pontida, a godimenti delle rimescolate inverecondie panpadane e nazionaliste del ministro dei Trasporti! … quello fu il partito che Mario Melis cercò, negli anni ’80, di acculturare, saldandolo (senza riuscirci) al tanto che veniva dalla sua esperienza di combattente conscio delle complessità ed avversario degli slogan. Porto sul punto memorie personali e confidenze del presidente che ancora tengo per me, ma ho contezza di questa fatica compiuta dal leader per dare vera dignità di partito ad un aggregato che in nulla ormai rispettava, pur negli aggiornamenti del tempo nuovo, la storia del sardismo repubblicano, quello che nel 1946-48 aveva lavorato, all’interno del gruppo del Partito d’Azione – lo stesso di Calamandrei e Foa e Valiani - per la costituzionale “Repubblica delle autonomie”.

Da qui la polemica di Spadolini contro lo stesso Mario Melis (per quanto questi “dovette” dire in pubblico, ad un pubblico che ancora aspettava la parola magica – federalismo! – per applaudire e sentirsi gran protagonista della storia ineunte), e contro Michele Columbu, magnifico intellettuale e scrittore (a me molto caro pur nelle abissali distanze delle opzioni politiche).

Mazzini e Cattaneo con i loro magisteri entrarono in quella diatriba, Columbu di suo portò, argomentando in sardo, Giorgio Asproni, che qualche reazionario del PSd’A riverniciato leghista ancora di recente ha trafitto come sardo rinnegato perché “unitario” comunque, con Mazzini e Garibaldi…

Questa la premessa cui non potevo rinunciare per presentare i testi che seguono e che sono tratti dal libro che curai nel 1996 dal titolo Per Giovanni Spadolini Per Bruno Visentini, un volume che presentammo alla Banca CIS e che era tutto riferito alle esperienze e alle relazioni sarde dei due leader repubblicani, fra azionismo e liberaldemocrazia.

Avevo chiesto a un gruppo di giovani amici – allora ventenni e per il più studenti universitari – di contribuire con libere letture di molti documenti riportanti a quegli intensi rapporti umani e politici che intendevo mettere a fuoco. E Marco Piredda – oggi dirigente dell’ENI e allora studente o neolaureato in Scienze Politiche – trattò appunto della polemica, quella tutta concentrata nell’estate 1984, fra Spadolini e il PSd’A di Mario Melis e Michele Columbu che si riempì… di molto delle idealità e delle proposte di Carlo Cattaneo a pro della Sardegna. Prima ancora della unità della patria.

Ecco quindi l’articolo di Piredda e, a seguire, la rassegna delle maggiori puntate… dialettiche fra il prestigioso segretario del Partito Repubblicano Italiano – lo storico e lo statista del quale poche settimane fa abbiamo celebrato il centenario della nascita e in questi prossimi giorni ricorderemo il 31° anniversario della morte dolorosa – e la dirigenza del PSd’A.


Marco Piredda: «Cattaneo e il diritto dei popoli accanto a quello della nazione»

Il 14/15 settembre 1984 Giovanni Spadolini scriveva un articolo su La Voce Repubblicana dal titolo "La Sardegna di Carlo Cattaneo"(1), nel quale, citando uno scritto dei 1841 dedicato alla Sardegna, polemizzava con coloro che si erano richiamati al grande intellettuale lombardo per sostenere il programma politico del Partito Sardo d'Azione di Mario Melis. La lettura di questo intervento può essere l'occasione per una breve riflessione sul pensiero di Spadolini in merito al rapporto fra unità nazionale ed istanze autonomiste e federaliste, e su alcuni aspetti problematici di tale questione, che ricorrono nel dibattito politico italiano dai tempi di Cattaneo sino ai giorni nostri.

Lo scritto di Spadolini si sviluppava intorno a due argomentazioni principali. In primo luogo, a suo avviso non era consentito collegare in alcun modo l'opzione indipendentistica del PSd'Az di allora con il pensiero di Carlo Cattaneo, che guardava alla Sardegna come «considerevole parte della nazione italiana». In secondo luogo, egli respingeva la contrapposizione dell'«unitarismo di Mazzini al federalismo di Cattaneo».

Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, si può ragionevolmente pensare che Spadolini — convinto ammiratore del democratico e repubblicano Cattaneo, ma prima ancora discepolo di Mazzini — non abbia dato sufficiente rilievo alle differenze fra la posizione di Cattaneo e quella di Mazzini in merito alla struttura da dare al nascente stato italiano. Come è stato scritto anche di recente (2), «Mazzini predicava l'assoluta priorità dell'unità politica rispetto alle altre istanze risorgimentali», ritenendo applicabile il modello federale a livello europeo e non all'interno della nazione italiana. Cattaneo, invece, ha sempre sostento la necessità del federalismo per garantire la stessa democraticità della rivoluzione risorgimentale. «Vedete che io sono federale — scriveva Cattaneo nel 1862 — [...] perché questa è la sola forma d'unità che sia possibile colla libertà, colla spontaneità, colla natura. D'una unità chinese, o russa, o francese, non m'importa. Io vagheggio una famiglia unita colla lingua, cogli interessi, coll'amicizia, con un'amicizia non arrogante, né avara, molto meno colle stringhe, colle catene, cogli odii, come furono Sicilia e Napoli, Sardegna e Piemonte» (3).

La differenza fra le due impostazioni è netta. E Spadolini era senz'altro più vicino al pensiero di Mazzini che a quello di Cattaneo, tanto da scrivere — in un articolo sul Corriere della Sera dell'ottobre 1991 (4) — «Si parla da qualche tempo di Italia federale. Ma l'Italia federale ci fu e fu sconfitta esattamente il 29 aprile 1848. Il federalismo coincise col neoguelfismo, la più grande febbre del popolo italiano nell'Ottocento: il sogno di una confederazione di Stati indipendenti e sovrani, col papa presidente [...]. Nel 1831 Mazzini fonda la "Giovine Italia", nel 1834 la "Giovine Europa". E noi siamo federalisti per l'Europa proprio perché siamo unitari per la piccola patria italiana».

Queste righe appena citate ci permettono di fare alcune considerazioni. Innanzitutto, si può sottolineare l'identificazione, operata dall'allora Presidente del Senato, del movimento federalista ottocentesco con il neoguelfismo; in realtà, a fianco e spesso in contrapposizione al federalismo cattolico di Gioberti, il risorgimento ha visto un importante movimento federalista laico, a cui apparteneva innanzitutto Cattaneo, ma che comprendeva anche altri importanti pensatori come Giuseppe Ferrari e Giovanni Battista Tuveri.

Inoltre, le parole di Spadolini del 1991 toccano un punto nevralgico del dibattito relativo alla struttura interna dello stato italiano: il rapporto tra federalismo e unità nazionale. È una costante di tale dibattito la confusione fra modello federale e modello confederale; fra un sistema (federale), cioè, che pur riconoscendo la massima autonomia alle singole componenti territoriali (siano esse chiamate stati o lànder o in altro modo), comporta la riconduzione di tali componenti ad unità, attraverso l'attribuzione al livello federale di governo di una porzione di sovranità senz'altro (almeno in ultima istanza) preminente; ed un sistema (confederale) che rileva solo sul piano del diritto internazionale, non comportando una limitazione definitiva della sovranità delle singole componenti.

Ora, nel dibattito politico italiano il termine federalismo è stato e viene tutt'ora utilizzato anche da chi sostiene delle posizioni indipendentistiche (come, anche di recente, alcuni settori del movimento leghista), contro le quali era rivolta principalmente la polemica di Spadolini nei due scritti citati. In tal modo, da un lato il modello federale è stato spesso ed erratamente considerato in contrasto con il principio di unità nazionale e, dall'altro, si sono definite con lo stesso termine delle concezioni politiche inconciliabili.

La dirigenza del PSd'Az, in alcune importanti fasi della sua storia, ha contribuito ad alimentare questa confusione terminologica, a volte sintomo di una reale ambiguità politica. Ad una di queste fasi risale il primo dei due scritti di Spadolini: quando egli lamentava il contrasto insuperabile fra il pensiero di Carlo Cattaneo e l'indipendentismo del partito di Melis — siamo alla prima argomentazione — mostrava di cogliere appieno la valenza "unitaria" del pensiero di Cattaneo; salvo poi cadere anch'egli nel classico equivoco dell'alternativa federalismo-unità nazionale, che lo stesso Cattaneo avrebbe respinto con queste parole: «il diritto federale, ossia il diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell'umanità» (5).

Concludiamo con alcune righe di un saggio del 1862, dedicato sempre alla Sardegna (6), che ci sembrano la sintesi migliore del pensiero di Carlo Cattaneo sulla questione istituzionale sarda: «una esperienza già troppo diuturna ha dimostrato che il parlamento non ha mai potuto concedere agli oscuri e scabrosi affari dell'isola se non pochi giorni, direi quasi poche ore, dell'anno, e sempre con certa attitudine di degnazione, impaziente, umiliante, quasi feudale, [...] finché il parlamento vorrà tenersi in braccio tutte le domestiche faccende dei singoli popoli, gli sarà più facile impedire che fare. La legislazione non è l'amministrazione». E ancora: «il parlamento ha una sola via da prendere in faccia ai grandi interessi regionali: ordinare ogni cosa perché si possa fare; comandare che si faccia; e lasciar fare. Farli [i sardi] responsabili delle loro proprie sorti, sicché non possano più lagnarsi se non di sé stessi, né apprendere a odiare adesso l'Italia, come appresero, purtroppo, a odiare il Piemonte».


Note

1) G. Spadolini, La Sardegna di Carlo Cattaneo, in La Voce Repubblicana, 14/15 settembre 1984, editoriale.

2) B. Caruso, in B. Caruso-L. Cedroni (a cura di), Federalismo: antologia critica, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, Roma, 1995, P. 108.

3) C. Cattaneo, Lettera al deputato Saverio Friscia, dei 18 maggio 1862.

4) G. Spadolini, “Dal Risorgimento il vincolo a restare uniti”, in Corriere della

Sera, 25 ottobre 1991.

5) C. Cattaneo, “Proemio al terzo volume dell'Archivio triennale delle cose d'Italia”, in Antologia degli scritti politici, a cura di G. Galasso, Bologna, 1962, p. 139.

6) Ibidem, “Un primo atto di giustizia verso la Sardegna”, in Politecnico, Milano, 1862. Questo saggio seguiva, a distanza di venti anni il saggio citato da Spadolini nell'articolo sulla Voce Repubblicana.


Mazzini è allora vissuto invano? (La Voce Repubblicana, 27-28 agosto 1984)

«Lo Stato è un'istituzione ormai superata dal tempo e dalla storia». Così in un'intervista al Corriere dichiara il neo-presidente della giunta regionale sarda Melis alla vigilia delle trattative con le forze della maggioranza "tendenziale" cui il Partito Repubblicano ha tutt'altro che garantito la propria partecipazione, ribadendo anzi l'opposizione a ogni formula di giunta di sinistra o di alternativa. E tutto subordinando al confronto programmatico.

«Si va verso aggregazioni sempre più ampie, di respiro sovranazionale europeo»: incalza il neo-presidente, incline a confondere il superamento degli egoismi e degli esclusivismi nazionali con la dissoluzione dei vincoli giuridici e morali che si riassumono nello Stato moderno, nello Stato laico e nazionale scaturito dalle grandi rivoluzioni del '700.

Ci viene in mente Giovanni Amendola: «Lo Stato unitario e nazionale rappresenta la sola vera e grande scoperta politica della storia del nostro popolo». Amendola, con la sua Unione Democratica Nazionale, estrema forza di resistenza al fascismo avanzante, ebbe una notevole influenza anche in Sardegna (si pensi al padre di Berlinguer).

Si direbbe che quegli anni siano lontani, troppo lontani. Se addirittura il neo-presidente Melis, così risoluto nel denunciare la fine dello Stato e nell'invocare la federazione europea, finisce per auspicare la «federazione della Sardegna con l'Italia». Mazzini è allora vissuto invano?


Ello Asprone de badas est campau? (Il Solco n. 8/16 settembre 1984)

«Eo penso chi s'unidade de Itàlia siat naschida a primu in sa limba e petzi a pustis in sa politica». Cust'allega no est de unu pacubeneddu calisisiat, unu de cussos chi pensan chi s'istoria siat chè a unu contu de fochile e chi colande in s'oru de zente chistionande preguntan «Ello, a istòria?». S'arrejonu l'at fatu unu de sos prus istòricos mannos in Itàlia, cuddu Giovanni Spadolini chi su manzanu ismurzat cun Mazzini e su sero tucat a tzilleri cun su biadu de Cavour [...].

Est malu cuss'istoricu chi est in cherta de cucuzare sa realidade istorica cun pinnicas chi naschin dae bisonzos politicos de pacu alenu. In prus de esser unu mastru de istòria, Spadolini est su capu de sos republicanos italianos e in custas bestes non cheret chi sos omines suos in Sardigna collaboren paris cun su Partidu sardu de atzione.

E pro li dare autoridade issientifica a un'issèperu chi est politicu (e culturale) ebia, s'imbentat faulas chè a sa chi nachi sos sardos fin unidos a s'Italia cun sa limba antis de esser unidos politicamente. Non b'at mancu su tantu de li cussizare a su mastru de istòria republicanu de si nde legher unu pacu de istòria sarda, ca ja l'ischit.

Su fatistat chi Spadolini est contra a su Partidu sardu e a totu su chi sos sardistas cheren [...].

E sa Sardigna, in sa mitolozia republicana, est sa preda lada a fundamentu de s'unidade italiana. Ma est unu mitu (e duncas una faula) […].

In Sardigna puru tando b'aiat republicanos: Jorghi Asprone, pro narrer. Si bisaiat, Asprone, de lassare morinde unu pacu de dinare a su sordadu bitzichesu chi s'esseret prus distintu in sa gherra de indipendentzia, contra a sos piemontesos. E custu republicanu a Spadolini non l'agradat meda, ca fit unu chi custa chistione de sos sardos semper postos a teracos anzenos no est chi la aguantaiat meda. E «poniat totu in discussione», su chi a Spadolini li fachet ponner sa berrita a tortu [...].

«Mazzini è allora vissuto invano?» at iscritu Spadolini in su zornale sou, sa die ch'at intesu chi Mario Melis aiat nadu in duna intervista chi «s'istadu est un'istitutzione oramai propassada dae su tempus e dae s'istòria». Su chi est zustu e chi est su fundamentu de s'idea sardista.

E tando, ite diamus deper narrer sos sardos leghende sos issolòrios de Spadolini: «Asproni è allora vissuto invano?».


È soltanto una la lingua in Italia (La Nuova Sardegna, 30 agosto 1984)

Al termine del Consiglio dei Ministri, il segretario del PRI Giovanni Spadolini si è soffermato a rispondere sulla situazione politica in Sardegna e sui rapporti tra repubblicani e sardisti dopo la polemica con Mario Melis. «Voi tutti conoscete — ha detto il segretario del PRI — l'attenzione che dedico alla lingua italiana. Penso che l'unità d'Italia sia nata prima nella lingua e solo poi nella politica. Perciò non posso assolutamente condividere le affermazioni di chi rivendica questioni di "bilinguismo" che mi sembrano del tutto prive di senso».

Tanto da rendere impossibile un accordo politico?

«Un accordo politico, in Sardegna, non c'è. L'accordo può essere solo sui contenuti e l'adesione repubblicana è stata solo a carattere testimoniale. Quanto ai contenuti mi sono trovato in questi giorni a polemizzare con Melis. Il PSd'A è un partito di antica e nobile tradizione. È il partito di Lussu, da cui anche il PRI vanta ascendenza. Oggi però è diverso. Io mi rifaccio a Mazzini. Melis dice che a Mazzini preferisce Cattaneo. Fin qui i dissensi restano su livelli culturali che meritano rispetto. Ma se si parla di "bilinguismo" rivendicando un'autonomia in campi che non devono neppure essere messi in discussione, le cose cambiano».

Al punto da rendere impossibile l'accordo sui "contenuti" programmatici?

«Il discorso sui contenuti non è neppure cominciato. Del resto queste che ho espresso sono mie valutazioni personali... ».

Ma sono le valutazioni del segretario del PRI.

«Il PRI riconosce alle proprie organizzazioni regionali un'autonomia che deve essere tanto più ampia in una regione a Statuto speciale come la Sardegna. È chiaro che problemi del genere non si risolvono con un richiamo disciplinare».

Si deve intendere che non c'è ancora una decisione, che tutto è ancora possibile?

«Si deve intendere che non c'è niente di deciso e che la decisione dipende da numerose circostanze».


Quell'idea dell'Italia (La Voce Repubblicana, 10-11 settembre 1984)

«Nego che l'Italia sia una nazione. È piuttosto un aggregato, un prodotto storico-politico». Sono le parole del presidente del Partito Sardo d'Azione, Michele Columbu, nell'intervista odierna al Messaggero. Tale dichiarazione, se non sarà tempestivamente smentita, è sufficiente a costituire uno spartiacque invalicabile per i partiti di ispirazione risorgimentale operanti in Sardegna, e quindi in primo luogo per i repubblicani.

Tanto più che Columbu aggrava l'insensata affermazione con un'altra, non meno insensata, e cioè che il Partito Sardo d'Azione, per chiedere al momento opportuno l'indipendenza della Sardegna, si rivolgerà allo Stato italiano e non agli italiani che in questa faccenda non c'entrano.

Ricordiamo solo, in risposta a tali follie, Giovanni Amendola: «Lo Stato nazionale e unitario è la più grande scoperta degli italiani nella loro storia». Il che vale per tutti, oggi e anche domani.


La Sardegna non è un'Isola (La Voce Repubblicana, 11-12 settembre 1984)

Nel furore di una polemica, che continua secondo logiche di schieramento del tutto anomale, si è rimproverato al segretario del PRI di avere «dimenticato — citiamo le frasi di un senatore della sinistra indipendente — che a lungo i repubblicani, con La Malfa, si sono trovati al fianco del Partito Sardo d'Azione su una piattaforma che si richiamava al "federalismo" di Cattaneo».

Non dimentichiamo proprio nulla. È proprio in virtù del fatto di avere conservato il culto della memoria storica, siamo tornati in questi giorni a una pubblicazione di dieci anni fa esatti, intitolata "La Sardegna non è un'isola", con una lettera di Ugo La Malfa agli elettori sardi. Un'elegante pubblicazione curata dalla federazione regionale sarda e dall'ufficio stampa della direzione nazionale del PRI, con un affascinante progetto grafico, come sempre, di Michele Spera. E una straordinaria raccolta di fotografie che meriterebbero se ne avremo i mezzi, una riedizione.

A tutti coloro che cercano di contrapporre la linea di Ugo La Malfa, che favorì la rottura del Partito Sardo d'Azione proprio per dividere le responsabilità e i compiti, e la linea attuale della segreteria repubblicana, opporremo soltanto una serie di citazioni. Non senza aver ricordato prima le parole che il segretario regionale del PRI, Ghirra, ha dedicato in questa stessa pagina ai rapporti fra il Partito Repubblicano e il Partito Sardo d'Azione: «Non pochi repubblicani, per la fedeltà a una certa idea dell'Italia opposta a quella che ne ha l'on. Columbu, hanno lasciato, a suo tempo, il Partito Sardo d'Azione».

Quel tempo, appunto, era il tempo di Ugo La Malfa. Allorché egli si rivolgeva agli elettori sardi mettendo in luce le responsabilità sia della Democrazia Cristiana sia dei due partiti socialisti in quello che egli giudicava il malgoverno dell'isola. «Il paese ha raggiunto una maturità civile di livello europeo — incalzava Ugo La Malfa — ed ha diritto ad una politica nel complesso di livello europeo, politica che i partiti sardi nazionali e locali, legati a vecchie impostazioni, sono incapaci di dare».

E a chi parla di leggerezze e di debolezze dei repubblicani italiani nei riguardi dell'indipendentismo sardista, converrà rileggere qualche pagina di quell'opuscolo. Questa, per esempio: «Il tema dell'unità di classe, non potendo far leva sull'inesistente omogeneità degli interessi delle varie categorie — dati i molti dualismi della struttura produttiva sarda — viene impostato genericamente, ricorrendo agli slogans dell'anticapitalismo e dell'anticolonialismo, che si tenta di rendere credibili innestandoli nell'involuzione separatista, o comunque solo rivendicazionista, della cultura autoctona, della quale principale esponente è il Partito Sardo d'Azione. Una cultura un tempo convinta sostenitrice dell'Europa delle regioni, ma oggi tesa alla ricerca di assurde alleanze con il mondo arabo e al ritorno acritico a tutti i valori, anche quando antistorici, della "civiltà sarda"».

A parlare di «valori antistorici della civiltà sarda» è stato quindi, prima di noi, Ugo La Malfa. Il quale incalzava: «Così la lotta di classe, condotta all'insegna dell'autonomia e dell'anticolonialismo, diventa separatismo, diventa rifiuto dell'economia industriale moderna e con essa dell'integrazione della Sardegna nel contesto culturale, economico e sociale europeo, diventa sempre più rifiuto di una reale prospettiva di progresso, nella mitica suggestione — che comincia a prendere piede — della repubblica socialista sarda».

Non sembra di leggere, nelle citazioni di La Malfa, le frasi del presidente del Partito Sardo d'Azione Columbu? Né La Malfa si faceva affascinare, questa volta come sempre, dai falsi schematismi della toponomastica politica. «Il partito moderato — insisteva il leader repubblicano —, non un partito definito ma un insieme di forze sparse in molti partiti, e comunque particolarmente presenti nella Democrazia Cristiana, nato con i primi equilibri determinati dall'autonomia e quindi espressione di una serie di interessi paleo-capitalistici e agricolo-commerciali, riceve così una copertura ideologico-culturale di sinistra, nella sua viceversa fin troppo evidente funzione conservatrice; ed il cerchio, per ora, con questa operazione trasformistica verniciata di socialità e di socialismo si chiude».

Il riferimento al trasformismo, che ha visto tante volte associati democristiani e sardisti, è più che mai attuale. Il pericolo vero, che Ugo La Malfa denunciava fin d'allora, era quello di separare l'industrializzazione della Sardegna dal contesto nazionale europeo, di insistere su una politica autoctona di pseudo-riformismo assistito.

«L'industrializzazione non può risolvere i problemi della Sardegna, se non la si porta avanti nel quadro di un disegno politico generale. Occorre decidere qual è la concezione dello sviluppo agricolo da seguire, se quella ispirata a forme di intervento burocratico-autoritario, del tipo di quella degli enti di sviluppo, o quella che prevede forme di qualificazione delle energie economiche e sociali che potenzialmente esistono nel mondo rurale, del tipo di quelle cooperativistiche; non si può continuare a scegliere tutto, cioè niente, per conservare il potere su tutto».

L'atto di accusa alla sinistra era fermissimo. «È questo l'aspetto che meglio sintetizza — sono ancora parole dell'opuscolo repubblicano — la profondità e la gravità della crisi sarda: una crisi di valori, di strutture economiche, di contenuti e di metodo della gestione politica che si riflette nell'impoverimento del discorso politico-culturale. L'ondata di insorgenza populistica, che si è abbattuta sul paese in questi anni, non ha mancato di far sentire le sue ripercussioni anche in Sardegna, determinando il risorgere e il diffondersi di un certo tipo di cultura "sarda", rivendicazionista, involuta e, in definitiva, disperatamente provinciale: la cultura del "vinto" che, sia pure con rabbia, accetta la sua sconfitta».

Allargando lo sguardo dall'isola alla nazione, La Malfa insisteva che questo fenomeno ha trovato il suo cardine nella «bi-polarizzazione della cultura politica fra il filone cattolico e quello marxista, e nel tentativo, equivoco e fuorviante, di un incontro tra questi due filoni». È una logica che ha trovato estrinsecazioni anche in Sardegna, dove tuttavia essa è stata necessariamente distorta e devastata dalla realtà isolana. Larghi stralci cattolici, infatti — sono sempre parole dell'opuscolo lamalfiano — si sono incontrati su questo terreno con molti marxisti, in un immancabile clima assembleare che ha portato dove ha portato.

No: la Sardegna non è un'isola. È parte di un grande travaglio della nazione italiana nella sua storia plurisecolare. Un'idea della nazione che ha preceduto di molti secoli quella dello Stato. Realizzandosi attraverso l'unità della lingua e della cultura. Poco importano, sotto questo profilo, le attenuazioni del programma della nuova giunta in materia di bilinguismo. Il nostro "no", in questo settore, deve essere, lo ripetiamo, invalicabile.


Ecco la Sardegna di Carlo Cattaneo (La Voce Repubblicana, 14-15 settembre 1984)

Da troppe parti si è scomodato, in questi giorni, Carlo Cattaneo: a proposito del "pasticciaccio" sardo. Si è contrapposto l'unitarismo di Mazzini al federalismo di Cattaneo: con un linguaggio tante volte schematico, quasi prescindendo da qualunque riferimento alla complessità della storia di quegli anni, e di quegli uomini.

Si è arrivati perfino a plaudire, a nome del movimento federalista europeo (che dovrebbe essere tenuto fuori da queste contese domestiche), al programma di Melis, mescolandolo — non si sa perché — con Cattaneo ed evocando il patriota lombardo non solo per la federazione europea (il che è legittimo) ma per la federazione italiana. Che in ogni caso il Costituente escluse.

Cattaneo, la Sardegna. Ma chi ha ricordato, nella ignoranza imperversante, nella approssimazione dominante, il pensiero specifico e ben preciso di Cattaneo sulla Sardegna?

Il grande democratico si è occupato largamente della Sardegna, con un documentatissimo saggio sul Politecnico, uscito nel 1841 (diciamo nel 1841). E sempre come «parte della nazione italiana», anzi come «considerevole parte della nazione italiana, quasi ignota alla rimanente».

Vogliamo rileggere le pagine conclusive di Cattaneo che si sviluppano nell'arco di una sessantina di pagine? «Noi ci siamo studiati di raccogliere in breve da buone fonti queste notizie intorno ad una considerevole parte della nazione italiana, quasi ignota alla rimanente; ma non crediamo che la fatica nostra possa supplire alla lettura di quelle opere, colle quali i Sardi stessi e i loro amici illustrarono quel paese. Il nostro proposito sarebbe di venir successivamente raccogliendo simili notizie su le altre membra del colosso italiano, sicché, fra tanta varietà di condizioni naturali e civili, avessimo meno oscura nozione di ciò che noi siamo».

E in nota Cattaneo, l'uomo in cui la Lombardia viveva quasi come misura dell'anima, collegava il suo saggio sulla Sardegna alle "Notizie naturali e civili della Lombardia", quasi a ribadire il complessivo nesso nazionale: «abbiamo fatto un altro passo in questa impresa, col delineare, come qui per la Sardegna, così là per l'Italia transpadana, una breve esposizione istorica, movendo dallo stato naturale per giungere alle condizioni civili». Idea di libertà collegata all'idea di progresso.

Ma non basta. Ricostruendo, con dovizia di particolari, l'evoluzione storica dell'isola, Cattaneo arriva nel 1815, allorché l'isola — che ha accolto i sovrani sabaudi cacciati sotto Napoleone dai domini continentali — vede ribaditi i suoi vincoli con Torino.

Sentite: «A ritorno della pace l'isola, retrocessa a 352mila abitanti, ma ricongiunta all'Italia, come in abbraccio di madre, parve tosto ristorarsi; e verso il 1840 toccava già con un mirabile incremento i 525mila. I quali rapidi ondeggiamenti mostrano qual delicata cosa sia la pubblica prosperità, e quanto facile sia alli Stati, senza conquiste e rapine, crescersi in breve tempo dovizia e potenza.

«Nel 1793 la Francia — continua Cattaneo — sempre sfortunata nelle sue imprese contro la Sardegna, aveva mandato sotto Cagliari l'ammiraglio Truguet con ventidue navi e seimila soldati. In un combattimento di tre giorni le artiglierie dei Sardi affondarono più navi; i montanari respinsero li sbarcati; la spedizione fu dispersa da un libeccio. Nell'ardore che mostrarono allora quei popoli poté forse più l'odio delli stranieri, che quello delle novità. Infatti non trascorsero due anni che li uomini del Capo di Sassari cospirarono contro la feudalità, e smantellarono castelli e palazzi. Il viceré fu espulso; uccisi a furor di popolo il generale Planargia e l'intendente del regno; ma per quella generazione la caduta dei feudi non era matura».

«Ricongiunta all'Italia come in abbraccio di madre». No: non è Mazzini; è Cattaneo. È il linguaggio di Cattaneo — nessuno ci accusi di retorica — ed è ancora il nostro. È non può non essere quello di tutti i repubblicani, sardi e non sardi.

«Intanto il fisco tien ferma la mano tanto sulla metà che vuol sua, come su quella che riconosce non sua. Codesta tortura dei popoli, aggiunta ai nuovi aggravii, rende odiose le forme della libertà; fa quasi sospirare l'aborrita catena feudale [...l I relatori hanno pensato unicamente al fisco; ad alcuno speciale vantaggio dell'isola non hanno pensato. E anche qui ricompare la infelice idea di ricavar capitale da una terra inculta, anziché sovvenirla.

«Lo Stato antico, durante questo intervallo essendosi fuso nel nuovo regno d'Italia, ecco il lucro che l'Italia libera avrebbe da quest'ultima liquidazione della rapina antica, che veramente sarebbe una rapina nuova. E ciò implica il supposto che si avesse a tenere ancora per una ventina d'anni nel seno dell'isola la velenosa spina d'un modo di possesso demaniale, che, passivo per sé, perturba intanto la tranquilla coltivazione e il risanamento di tutta l'isola, fomentandovi le acque pestifere, l'agricultura vagante e la pastorizia selvaggia. No, l'Italia non ha diritto a questo; non ha bisogno di questo [...].

«E allora io consiglierei piuttosto a proporre che la nazione ritraesse immantinente la sua mano da questi beni che non sono suoi; ma che nel tempo stesso, oltre a compiere questo atto di troppo tarda giustizia e riparazione, mirasse pure a procacciare a sé medesima un sollievo. Nel render libera al popolo sardo la sua terra, come pur gli fece giusta e umana promessa l'ultimo erede della conquista, dovrebbe porvi condizione che i magistrati sardi studiassero come dare a questi valori un'immediata destinazione di generale utilità per tutta l'isola. È ovvio che quanto più di opere pubbliche i Sardi potessero fare coi mezzi loro proprii, con loro proprie cure, tanto meno nel successivo corso dei tempi ne ricadrebbe a carico dell'erario commune della nazione; poiché, dentro a qualche termine di tempo, le opere necessarie si dovranno ben fare anche per codesta negletta e rejetta Sardegna

«Io ritorno dunque all'antico mio consiglio d'un prestito da investirsi in una pronta e rapida serie d'opere pubbliche, lasciate in cura al vigile e imperioso interesse locale. La immediata liberazione di tutti i cinquecentomila ettari d'ademprivio, sui quali sembra cadere questa odiosa controversia, sarebbe l'ampia base d'un primo prestito. Le opere con esso immediatamente compiute darebbero un tale aumento di valor fruttifero a tutta la superficie dell'isola, che le communi e i privati vi troverebbero nuove basi a ulteriori garanzie e a nuove serie d'operazioni senza limite. Questo è il punto dal quale in marzo 1860, io partiva nella semplice proposta pel miglioramento generale della Sardegna [...].

«Aggiungo solo che il parlamento deve fare una larghissima parte ai magistrati sardi. Quand'anche l'antico regno prendesse il suo nome dalla Sardegna e vi avesse trovato nelle sue sventure sicuro asilo e fedele difesa, una esperienza già troppo diuturna ha dimostrato che il parlamento non ha mai potuto concedere agli oscuri e scabrosi affari dell'isola se non pochi giorni, direi quasi poche ore, dell'anno, e sempre con una certa attitudine di degnazione, impaziente, umiliante, quasi feudale. E non vedo come potrebbe concederle attenzione più assidua il nuovo parlamento, che si prefisse d'abbracciare d'un tratto l'universale miglioramento di tante legislazioni e amministrazioni, impresa già tanto maggiore del possibile. Or bene, limitando il discorso alla Sardegna, oso dire che se il parlamento riservasse pure ad essa sola un intero anno, deliberato d'attivare immantinente tuttociò che in quest'isola può divenir fonte di ricchezza e di forza, ben avrebbe di che occupare per tutto l'anno quanti dei suoi membri fossero atti ad efficace lavoro. E ancora io dico che non basterebbero all'impresa. No, finché il parlamento vorrà tenersi in braccio tutte le domestiche faccende dei singoli popoli, gli sarà più facile impedire che fare. La legislazione non è l'amministrazione.

«Il parlamento ha una sola via da prendere in faccia ai grandi interessi regionali: ordinare ogni cosa perché si possa fare comandare che si faccia; e lasciar fare. In quanto alla Sardegna, per operare prodigii, basta rimuovere li ostacoli, scioglier le terre dai barbari vincoli. Le rimanenti sollecitudini voglionsi lasciare ai consigli provinciali e municipali, che pur non devono essere membra inerti della costituzione, che devono essere tutori dei popoli e non pupilli del parlamento: lasciar la cura dei loro beni, dei loro ademprivii, dei loro pabarili e stazi, e degli altri aviti loro ministerii ai Sardi; farsi responsabili delle loro proprie sorti, sicché non possano più lagnarsi se non di sé stessi, né apprendere a odiare adesso l'Italia, come appresero, pur troppo, a odiare il Piemonte. Anziché travagliarsi la mente intorno alle infeconde querele del passato, intorno a logore contese tra schiavi e schiavi, la rivolgano alle geniali visioni d'un avvenire di ragione, d'eguaglianza e di libertà, per quanto è dato a noi sperarlo.

«Ove le deliberazioni provinciali avessero veramente mestieri di nuovi atti legislativi, non superflui come sovente, li magistrati medesimi, o le loro commissioni, saprebbero bene invocarli. Infine sono uomini della identica classe dei legislatori; le finzioni di diritto e le transitorie funzioni non mutano gli intelletti; ciò che importa è aver gente che vi pensi, che vi pensi davvero, e che abbia costante interesse a pensarvi. Ma, in ogni caso, sarebbe prudente consiglio nel parlamento limitarsi a sancire le proposte medesime dei magistrati, e ad apporvi il sigillo costituzionale, senza dar adito a frivole discussioni e a puerili emende, che con un verbo talora sventano una legge.

«Il meglio sarebbe che il parlamento si limitasse da sé ad esercitare solo un alto diritto di cassazione, ordinando ai savj dell'isola di riformare le loro proposizioni nei soli punti che veramente ripugnassero a quella spinta armonica che vuolsi imprimere al corso generale dei pubblici interessi.

«Il primo e necessario passo è che tutti i beni, ora nel catasto della Sardegna intestati al demanio per diritti d'ademprivio e simili, venissero immantinente per atto legislativo trasferiti a un Fondo d'opere pubbliche della Sardegna.

«Così tutte le future controversie, tutte le successive recriminazioni tra l'universa Italia e il popolo sardo, sarebbero compresse e soffocate prima di nascere. Pax vobis!

«Spetterebbe ai magistrati e alle communi il determinare con quali eque e volontarie forme si potesse dare immantinente ai detti beni la contemporanea duplice destinazione: 1) d'assicurare, sia sul loro complesso, sia su qualunque loro parte, il prestito d'un primo capitale, bastevole a compiere nel più breve termine le opere pubbliche di più generale necessità; 2) d'essere distribuite in libero godimento, o almeno in libero lavoro, alle communi o ai privati, a compimento di promesse oramai troppo lungamente deluse. In un coll'assegno delle terre, si potrebbe far assegno anche d'una proporzionata parte delle opere in dati termini di tempo.

«Fino a che manchi il primo passo, ogni ulteriore studio sarebbe vano.

«Qualsiasi altra proposizione intorno alle terre affette d'ademprivio non tornerebbe come questa a vantaggio di tutta la superficie dell'isola; e pertanto non tornerebbe a massimo possibil vantaggio di tutta la nazione. È in ciò che il mio pensiero s'allontana da quanti vennero posti finora in esame.

«Ma sopra ogni mira d'utilità vuolsi collocare il sacro dovere di giustizia. Il restringere l'occupazione a minor misura, il limitarla piuttosto a un terzo che ad una metà, non crea il diritto. La nazione non ha un originario titolo: — non in forza di concessione pontificia, fatta in tempi d'universale abuso, in contravvenzione al precetto evangelico e in empia emulazione coll'arroganza musulmana; — non in forza di diritto feudale, perché questo non comprese mai l'immediato possesso e godimento privato delle terre; ma costituì solamente un'alta funzione di difesa e giurisdizione nel feudatario, alla quale corrispondeva nel vassallo un dovere d'obbedienza, di fedeltà e di tributo; — non in forza di plenipotenza regia, tacitamente insinuata sulle ruine dell'ordine feudale; perché il potere assoluto, nell'abolire i feudi e nel commutare i tributi a nome e interesse delle communi di cui si costituì tutore, promise di distribuire in libera proprietà le terre agli aventi ademprivio, purché soltanto pagassero il corrispettivo del tributo fino all'ammortimento, ora compiuto; — non in forza della costituzione concessa, poiché per tutto il tempo ch'essa durò i poteri costituzionali non giunsero mai a consumar legalmente l'atto d'appropriazione; — non in virtù del patto che costituì un nuovo diritto pubblico avente per titolo il volere della nazione; poiché né i singoli plebisciti, né le relative accettazioni, sancirono in aggravio d'una delle parti della nazione alcun diritto ch'essa viceversa non avesse sopra le altre parti; essendoché ciò porrebbe una parte della nazione nello stato di conquista e fuori della sfera del diritto volontario e consensuale, negherebbe il titolo su cui si fonda il regno.

«È superfluo il dire di qual pericolo all'Italia sia quella, non so bene se inerzia o avversione, che da sessanta e più anni, prendendo sempre nuove forme e nuove scuse, indugia la risurrezione dell'agricultura sarda, preclude l'accesso della vita a due milioni d'uomini. Un popolo offeso, o che si reputa offeso, per troppo lungo diniego di ciò che gli pare giustizia, deve avere un'alta virtù, se rimane perennemente inaccessibile alle lusinghe d'una potenza ambiziosa, audace, indefessa, prodiga, che accerchia l'isola colle sue flotte e colle sue stazioni navali di Marsiglia, di Tolone, d'Algeri, di Nizza, di Corsica, di Civitavecchia; che protetta dal papato, ben più che sua protettrice, tiene in Roma, già da tredici anni, stretto in sua mano il primo viscere della vita nazionale; che accenna di rialzare fra i due cerchi del Mediterraneo una Cartagine francese; che abbarbaglia le immaginazioni con quel vortice perpetuo di spedizioni militari, mercantili, industriali, che tendono ora verso l'Africa, or verso la Grecia, l'Italia, la Siria, la Crimea, verso i due convegni universali del mondo futuro, l'istmo egizio e l'istmo americano, verso tutti li Oceani, verso gli antipodi. Io non vedo qual moto di speranze e di promesse la credula e inoperosa Italia opponga a quell'assidua tormenta colla quale il napoleonismo le si agita intorno e in seno; e certamente si agiterà, finché abbia vita; poiché tale è la sua natura e la sua necessità.

«Qualunque governo può essere in faccia ai Sardi largo di promesse. Un governo che ha sede in Torino, pur troppo, già da un secolo, in Sardegna non è più creduto. Solo i solleciti fatti, solo i solleciti atti di giustizia, possono riaprire a fiducia l'animo di quei popoli generosi.

«Sul nudo terreno dell'unità, l'occupatore di Roma, l'erede del re di Roma, è più forte di noi. Il napoleonismo può dire d'aver già fatto; può dire d'aver improvvisato da oltre mezzo secolo fa, e senza parole, l'unità militare e legislativa in tutta la penisola; che se allora gli mancarono le isole, forse per ciò appunto accenna ora di ricominciare la sua ristaurazione da quelle! Solo nel nome della libertà, l'Italia può essere più forte della Francia, e in Italia, e nelle isole, e in tutta la terra.

«Solo nel seno d'un'operosa libertà, il popolo Sardo sentirà per la patria grande quella indomabile attrazione, che si avvera egualmente sulla natura morale come nelle masse dei pianeti. Una Sardegna libera, florida e contenta, felice nel pensiero delle sue ricchezze future più ancora che non sarebbe quando la stringesse nella sua mano, è assolutamente necessaria alla sicurezza delle nostre terre, alla libertà dei nostri mari.

«È tempo di cancellare dal suo catasto quello strano vocabolo degli ademprivi, quell'ultima feccia dell'amaro suo calice. La nuova Italia, non ancora appieno libera, non vuol essere erede del ladro straniero; molto meno intraprendere sulle terre riscattate e sul debito estinto una nuova rapina.

«È tempo che la terra sarda dopo cento anni di sanguinoso strazio, dopo quattrocento anni di gotica desolazione, dopo sessant'anni di gelose fiscalità, debba una volta per sempre esser lasciata in pace».


Fonte: Gianfranco Murtas
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