user profile avatar
Gianfranco Murtas

Su rei e i suoi domini in Sant’Andrea Frius. Un libro di Vittorio Scano

di Gianfranco Murtas

article photo


Su rei è un re per davvero a Sant’Andrea Frius negli anni che coprono la fine dell’Ottocento e l’intera prima metà del Novecento: ogni virtù gli è riconosciuta nel mestiere di campare la famiglia con l’… industriosa fatica della terra, tutti i giorni d’estate e d’inverno. Ogni suo podere, per quanto piccolo possa essere, è un vero e proprio giardino regale per l’ordine che lo distingue e che mostra, senza vanto, a tutti: né rami secchi inutili né fogliame ingiallito a terra… e siepi di fichidindia allineate a segnare i perimetri della sua responsabilità prima ancora che della sua proprietà… 

Quando declina – e se ne andrà il 15 maggio 1955 quasi ottantenne – rivela la sua accresciuta regalità nel reticolo delle rughe che disegnano il suo volto annerito dal sole della vigna e del frutteto, nel capo ormai calvo protetto dall’immancabile sgualcitissimo cappello a larghe tese che sembra una corona contadina, ed ancora nel paio di baffetti che paiono le sue permanenti insegne fisiognomiche, nell’abbraccio fra giovinezza e vecchiaia. Giusto com’è di tanti altri, come di migliaia e migliaia di altri sardi agricoltori per vocazione personale e costrizione sociale, coltivatori diretti delle nostre campagne immobili nel tempo che scorre. Porta in vecchiaia lo stesso temperamento che lo distingueva da giovane: cordiale e misurato, soprattutto misurato, composto e disciplinato. Educato e rispettoso con chi dice messa all’altare, regge il municipio e conduce i rari, rarissimi uffici pubblici del paese (tutto arriverà tardi, dalle poste alla farmacia, anche i carabinieri!) e la scuola che ha frequentato nel primo anno delle elementari – era capo del governo Agostino Depretis allora, e al Quirinale era domiciliato re Umberto I, il “re buono” collezionista di nomi (Umberto Rainerio Carlo Vittorio Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio)… 

Nel nuovo secolo su rei – forse allora soltanto prinzipe o prinzipeddu della sua comunità fra la Trexenta e il Gerrei – è entrato che aveva giusto 21 anni: era militare di leva in fanteria, al 60° reggimento di stanza a Cagliari, nel 1900 e fino all’estate del 1902. Ha rimesso la divisa alcuni anni dopo, al richiamo per le istruzioni militari previsto dalla legge (finita una guerra ne iniziava un’altra allora, dopo le coloniali d’Eritrea, Somalia ed Etiopia si profilava infatti la campagna di Libia e sarebbe poi toccato al macello del 1915-18…). Così due anni interi, fra il 1908 e il 1910. Congedato per la seconda volta si è finalmente sposato con Luigia (Luisa per tutti) Pinna, sua compaesana, e con lei ha fatto famiglia: sei figli, di cui cinque – le grandi e le ultime – femmine… Elvira, Eugenia, Antonietta, e poi Rita e Laura. In mezzo Raimondo (Mundinu in famiglia e per tutti).

Il biografo lo inquadrerà come guardia campestre – castiadori o barracello – fino al 1914, quando a Zinnippu, in agro di Sant’Andrea, un fattaccio gli avrà scaricato addosso sofferenze infinite e tutte speciali, imponendo una svolta nella sua vita destinata al percorso ordinario della famiglia in implementazione continua e la chiamata quotidiana della zappa e dell’innaffiatoio: un contrasto conclusosi con un colpo di moschetto ha portato un pastore al camposanto e su rei – adesso 35enne – in prigione. A Buoncammino, per diciotto mesi pieni, da luglio 1914 a febbraio 1916: quando, appunto, il cav. Giro, presidente della corte d’assise di Cagliari, lo ha mandato assolto per legittima difesa disponendo la sua liberazione immediata. Allora sarebbe uscito a riveder le stelle, su rei di Sant’Andrea. E sarebbe tornato in paese, alla sua casa, ai suoi affetti, alla sua campagna, al suo mondo. 

Di certo avrà ripensato, chissà quante volte avrà ripensato a quel giorno – quello del recupero della libertà – ma anche a quell’altro in cui un accidente nel disbrigo obbligato del suo lavoro, fra abigeatari e sconfinamenti di tanche, la libertà e il lavoro gli aveva tolto nel mese stesso in cui a Sarajevo qualcuno aveva sparato all’arciduca d’Austria e innescato la prima guerra mondiale… Eccolo il racconto, nudo e crudo, del biografo: su rei e il suo collega barracello Luigi Anedda vengono informati che «a Zinnippu un “battaglione” di ovini sta assaltando le coltivazioni» dell’anziano Efisio Secci, la piccola proprietà e il prodotto della fatica del padre proprio di su rei! Raggiunta quella campagna, «i due entrano subito in azione per riunire le pecore sparse qua e là e sottoporle a sequestro. Mentre manovrano compare però…», compare stizzita e provocatoria, per nulla intimorita dalla signoria della legge, la candidata vittima. 

Dirà la sentenza della sezione d’Accusa della Corte d’appello che rinvia su rei alla Corte d’assise: «Dalle parole ai fatti… parte una colluttazione: il barracello perde la manica destra della camicia e viene raggiunto da alcuni colpi che gli provocano varie escoriazioni. I due contendenti hanno i nervi a fior di pelle…». Su rei recupera il proprio fucile d’ordinanza sottrattogli dall’avversario e nel movimento parte uno sparo. Il pastore, colpito all’addome, «stramazza al suolo».

Accusato di omicidio volontario su rei viene arrestato. In paese tutti parlano dell’accaduto, ognuno con un’idea diversa, ma pure tutti concordi – anche chi propende per l’eccesso di difesa – sulla probità dell’accusato. Infine tutti prenderanno atto della sentenza che il 4 febbraio manda assolto l’imputato, ottimamente difeso dall’avv. Umberto Cao, professore all’università e prossimo deputato al Parlamento.

Pochi giorni, forse settimane, e poi ecco una nuova convocazione: non dai giudici stavolta ma di nuovo dall’esercito. L’Italia è in guerra contro l’Austria e la Germania da meno d’un anno e la cartolina militare chiama al 315° battaglione fanteria della Milizia territoriale in Ozieri. Una bocca ormai quasi interamente sdentata salva però su rei dal prolungamento di quella ferma in armi: a settembre egli può tornare, spera definitivamente, fra le braccia di moglie e bimbe (sono già arrivate Elvira ed Eugenia) e ai doveri della campagna.

Certamente, pensata e ripensata, la vicenda giudiziaria pesa e peserà ancora, peserà sempre, negli anni avvenire. Inevitabile. La pur misurata espansività, o giovialità, d’un tempo è scomparsa nel tratto di su rei: in casa come in paese. Una malinconia permanente ne stringe, nella sua morsa, i sentimenti, segna il suo volto, modula la sua parola. Egli, che è sempre stato religioso ed assiduo dunque alla messa domenicale, sembra in perpetua meditazione: parco di parole e piuttosto parco anche in ogni altra manifestazione, moderatissimo anche a tavola, non frequenta l’osteria che in paese è forse un luogo più sociale della chiesa, ancor più di prima impernia la sua giornata sui due poli esclusivi della famiglia da condurre e proteggere e della campagna da raggiungere ad ogni alba che viene, con il carretto trainato da un asino fedele e docile – sempre docile – collaboratore.

Secondo l’usanza dei contadini sardi, e forse di tutto il mondo, fa sosta a mezzogiorno, dopo già cinque o sei ore di fatica attorno a piante da frutto od ortaggi, legumi o altro: si rintana allora, se è a Ni’e piga, nella baracca di rami, paglia e canne costruita da lui stesso, e qui consuma il suo pasto portato da casa, semplice formaggio, un pezzetto di salsiccia, quel tanto di civraxiu che basta a dar spessore alla sua solitaria quotidiana liturgia appena bagnata da due mezzi bicchieri di nero che fanno sangue… Il mestiere è quello: con l’ordinaria irrigazione o zappatura nell’orto o in vigna, ecco gli innesti, ecco la potatura lungo le file degli alberi da frutto, o magari, con maggior sforzo, l’aratura, la trebbiatura…

D’estate non soltanto le ore di luce ma anche quelle di buio egli le vive all’aperto: sonnecchia nel cortile prospiciente la casa, pronto alla campana del primo chiarore mattutino. E un altro giorno ancora comincia uguale al precedente. Le cure bisogna poi distribuirle, programmando turnazioni e priorità, a… tutte le province del regno: a Ni’e piga, che è soprattutto oliveto e mandorleto, a Pabeddori che oltre ad olive, pere e fichi dà anche un bel po’ di uva, a Grutta de Sicci ed anche Praumus dove sono belli distesi i vigneti. Né è solo questo, che già basterebbe! perché su rei deve pensare anche al terreno de Nosta Sennora, avuto in uso, con rinnovo annuale, dal Comune.

Intanto, anno dopo anno, la famiglia ha moltiplicato i numeri: sono venuti i nuovi figli, e con loro molte gioie e altrettante preoccupazioni. Ogni generazione dovrebbe stare meglio di quella venuta prima e che l’ha cresciuta: nel caso concreto, il tutto va visto collocato negli anni che, dopo la grande guerra, sono quelli della dittatura e dunque della nuova organizzazione sociale nei piccoli centri come nei maggiori. Per tutti – per Antonietta e Mundinu, per Rita e Laura come già è stato per le grandette – la scuola, almeno quella primaria, è d’obbligo e così l’associazione alle organizzazioni del regime e, prima ancora, a quelle della parrocchia di Sant’Andrea apostolo, nella vecchia-antica chiesa destinata alla demolizione e alla risurrezione negli anni ‘50 (la Gioventù di Sant’Agnese governata dal rev. Vincenzo Secci ed affiancata poi da dame e damine e, ultima arrivata, dalla Gioventù maschile). Quindi i figli crescono e fanno famiglia a loro volta, trovando lavoro e sistemazione ciascuno come può, se non in paese, fuori paese, magari a Cagliari. 

Certo è che gli spazi che erano sembrati allora stretti si sono fatti larghi, “liberati” da chi, per legge di natura, ha lasciato babbo e mamma per… diventare altrove babbo o mamma. Ad un certo punto davvero ogni figlia ha lasciato casa e l’unico maschio – Mundinu – ha legittimamente divorziato dall’agricoltura. Su rei, con sua moglie invecchiata anche lei, ha sentito allora che sì la missione era da darsi compiuta, ma pure quanto sconsolante poteva essere una casa vuota… Forse ha preso a fantasticare fra sé e sé, ricordando il “pienone” di un tempo, quel moto perpetuo delle figlie, quel fare sempre fare di tutti quanti, quella gran tavolata festiva, quel respiro collettivo, la notte, sotto il tetto della famiglia compatta e virtuosa. 

Come la reggia di un blasonato, la casa di su rei, a Sant’Andrea Frius – centocinquanta famiglie e qualche centinaio più di mille residenti in tutto –, non aveva e non ha nulla da invidiare ad alcuno. La vita era in scena tutti i giorni in quella casa, piccola o grande chissà, a seconda del metro dei misuratori… Ora su rei e sua moglie stanno larghi…

Lo stanzone d’ingresso, oltre sa lolla, conserva sempre il grande tavolo che era per l’assemblea dei commensali domenicali, quando gli apprezzamenti motivati alla pastasciutta, e alla carne di pecora o capra servita come seconda pietanza, erano universali. Amaretti e gateau, con qualche buon bicchiere o bicchierino, avevano per anni e anni fatto sentire la domenica, quasi più ancora della messa… come un giorno di festa davvero.

Attiguo allo stanzone delle… assemblee conviviali (familiari e, di tanto in tanto, con integrazione di qualche ospite) è rimasta la camera da letto di su rei e di donna Luisa, con il solaio di legno che custodisce le provviste di medio periodo: grano e, in capienti sacchi, legumi e mandorle e altro ancora, sì anche un letto precario per il riposo, di tanto intanto, di Mundinu ragazzo. 

Al piano basso c’è anche il cosiddetto magazinu, un ambiente nel quale è riunito, come in cassaforte, tutto quanto serve nelle attività di campagna: rastelli e martelli, pale e zappe, seghe e chiodi… E’ proprio lì, di lato, la stanza un tempo affollata dei letti delle bimbe, o ragazze, o signorine… insomma dell’ala femminile della famiglia. Tutto è stato sempre all’insegna della sobrietà più assoluta e di tanto era materiale e simbolica rappresentazione, con i catini per le abluzioni dell’ave maria, quel certo mattone riscaldato che, nelle notti ghiacciate d’inverno, doveva funzionare, sotto le coperte, da scaldino naturale… 

Nella cucina il caminetto trionfa ancora, annerito dalla fuliggine, con tutto il pentolame necessario, un tempo, a tante bocche da sfamare ogni giorno: la mattina col caffelatte (latte delle capre di famiglia, caffè della miscela Leone, almeno fino ai razionamenti e all’introduzione del “cafforzo”), la sera con il minestrone e qualche pezzo di carne secca di maiale, qualche fetta di lardo e il gustoso piricciolu.

Tutto è rimasto come un tempo e tutto ancora serve, seppure a fruirne non sia più la formazione intera… Così sa mola che sfarina i chicchi di grano grazie alle passeggiate circolari dell’asino, per questo, o anche per questo, meritevole di un ricovero di suo gradimento, fatto particolarmente gradevole per il tanto di paglia ivi accatastato nei riempimenti annuali. Né potrebbe omettersi di citare anche il locale del forno (che vale ancora a produrre il pane dei pasti) ed ospizio del maiale di turno. Messo lì all’ingrasso e destinato, in ogni autunno che viene, a morte brutta, esso sarà dopo celebrato per ogni utile sezionatura del suo corpaccione... 

Il cortile – dove anche s’alza un pergolato e si facevano e si fanno seccare al sole fichi e pomodori – è rimasto in condominio con il vicino, tanto più per s’imbragu, l’impalcato della legna per il fuoco, e per il pozzo che vi si erge con la dignità di una cattedrale. Ogni presa d’acqua, oltre che per le necessità culinarie, è servita e serve all’igiene della casa e – con i supporti in ferro smaltato o in terracotta – quella personale, in stanza. Mantiene il suo posto nel cortile condominiale anche su muntronaxiu, accolta di deiezioni o d’altro dell’umano e sporcizie di risulta della casa: in programma il riciclo da fertilizzanti, quando possibile.

Nel 1943, quando già s’era di molto alleggerita la compagine della prole, e quando si contavano ormai in 64 le primavere caricate sulle sue spalle, su rei aveva riaperto la sua casa all’affollamento: era tornata la primogenita, con il marito e i tre figli. La guerra per Cagliari e la Sardegna (e tanta parte dell’Italia continentale) stava significando un diluvio di bombe scaricate dagli aerei degli alleati: il solo, tragico e doloroso mezzo per sconfiggere la doppia dittatura – fascista e nazista – dura a morire ed ancora aguzzina nelle sue azioni di contenimento dei “liberatori” militari … Giunsero dal capoluogo Elvira, suo marito Giovanni e i tre loro bambini. Forse furono proprio loro, i bambini, a restituire qualche buon pensiero, o buona emozione all’anziano. Marieddu – il maggiore dei tre – prese l’abitudine di accompagnare il nonno in campagna la mattina presto, per lui era un’esperienza nuova… Egli stesso, Marieddu, fu occasionale testimone – e a tutti ne riferiva con lunghi discorsi – di manovre aeree nel cielo del paese, addirittura nel pezzo di cielo sopra la casa del nonno: di quel caccia americano che volava bassissimo aveva scorto perfino il volto del pilota e la sua sciarpa multicolore… Ce n’era da spaventarsi l’un con l’altro, da cercare protezione l’uno dall’altro. E da raccontare ce ne sarebbe stato ancora dopo, quando a Ni’e piga, proprio dove aveva il suo pezzo di terra su rei, si rinvenne un gigantesco contenitore di benzina vuoto, scaricato da qualche aeroplano perché ormai inutile ingombro.

Memorie, altre memorie di ripassare, da gustare, da soffrire… Né su rei è stato il solo ad aprire o riaprire la sua casa a chi fugge da Cagliari. In paese sono stati in molti ad offrire letto e cucina agli sfollati, così è avvenuto in tutto il Campidano e anche oltre, anche in Barbagia, anche più a nord. 

Passata la stagione della guerra dal cielo, è comunque finalmente tornata la pace e la quotidianità di su rei ha ripreso i suoi ritmi immutabili. Invecchiato, egli non demorde. La campagna è la sua vita. Non può disporre, come altri, di un giogo di buoi per trascinare il carro o, nella stagione della semina, l’aratro. E’ ancora, come un tempo lontano, un asino – su bistrassu, su burrincu – il suo collaboratore fedele e fidato: a lui è ancora assegnato l’incarico di trainare su carrettoneddu. Ma è, quella fra su rei e su bistrassu, una vera e propria cooperativa, una associazione di lavoro che dà risultati che si vedono e si pesano: grano e piselli, fave e lenticchie, olive e mandorle, ceci e fichi e pere di tutte le specie… Così è nell’ordinario, così collaborano e si gratificano reciprocamente su rei e su bistrassu fedele e fidato. Soltanto per i pontificali autunnali della vendemmia si sentono spontaneamente convocati tutti gli altri, tutti quanti quelli che hanno lasciato babai e mamai per farsi loro, altrove, babai o mamai… tutti arrivano a tagliare i grappoli dell’uva e magari anche li calpestano, quei grappoli, in sa cubidia, il tino più capiente…  

Qualcosa di simile, anche se con minor solennità, capita attorno agli olivi più o meno maestosi: scosse le fronde, la fatica dei volontari sarà allora di recuperare da terra, una ad una, le drupe destinate al frantoio… L’olio che se ne ricava basterà alla famiglia stretta e a quella allargata e ne resterà non poco per la vendita e l’utile integrazione delle entrate domestiche.

Tredici i nipoti a dar continuità a su rei e alle sue virtù, diversi i cognomi dei generi, e dunque anche dei nipoti continuatori… Più ancora di tredici sono le trasformazioni che presentano o almeno fanno capire, dieci anni dopo la fine della guerra, cosa vorrà dire per un paese come Sant’Andrea Frius avere le scuole in un caseggiato proprio e l’acquedotto, e la corrente elettrica nelle case (magari anche per qualche futuro elettrodomestico non ancora prenotato) e nelle strade, e le strade che progressivamente si distinguono in paese da quelle che sono in campagna… La scena nuova della famiglia e del paese, i protagonisti nuovi, le nuove vicende di vita appartengono al tempo che su rei non potrà godere. Egli ha preparato, per quanto gli competeva, il nuovo tempo, la nuova società. Ha lasciato l’esempio e il buon ricordo. 

Francesco Secci missione lavoro, e bontà

Le vicende di vita di su rei sono la celebrazione insieme della mitezza personale, del servizio alla famiglia e del lavoro come vocazione realizzata. E se anche potrebbe dirsi che il teatro di Sant’Andrea Frius sia valso come per puro accidente – ché le stesse virtù avrebbe potuto esprimerle, il contadino di Ni’e piga, anche se egli fosse germinato in qualche plesso rurale ogliastrino, o sulcitano o dell’arburese – certo è che il paese collinare figlio di tanta storia geologica e sociale (testa alta nel Gerrei, corpo in rilascio nella Trexenta) a buon diritto ne rivendica, per merito provato, l’anagrafe.

Cinquecento milioni ne ha contato di anni, il biografo di su rei, nella storia che incrocia Niu Caborra e Poneria o Su nomini mau, Cirras con Miorì e Bascuri o Sedda Cadoaxiu, Linna Pertunna con Is bangius, Monte Uda con Gelantini… alture e sorgenti, fiumiciattoli e nuraghi, siti fenicio-punici e altro ancora. Dalle lentezze evolutive del Cambriano verso il Quaternario, passando per chissà quante altre ere, alle accelerazioni della storia (davvero antica per modo di dire): cartaginese e poi romana, vandalica e poi bizantina e finalmente giudicale, di dominio aragonese-spagnolo e poi sabaudo… così fino agli approdi risorgimentali e italiani. Un territorio tutto verde, fra olivi e mandorli, fichi e fichidindia, peri e macchia, tanta macchia mediterranea… Qua e là, fino ad esaurire i ritrovamenti finiti nei musei e chissà quanti invece nelle collezioni clandestine e fuorilegge di questo o quello, le tracce delle popolazioni residenti, prenuragiche e nuragiche, schegge e lame, tanta ossidiana, e poi ceramiche ed anfore e vasellame d’epoca cartaginese… Una testimonianza diffusa per territorio e diacronica per storia, fino ad arrivare ai romani e a dopo i romani: la maggior favissa di Linna Pertunna fatta deposito di ex voto in terracotta, maschere di volti e simulacri di gambe e braccia da guarire, orecchini e gioielli vari d’argento o d’oro e monete bronzee, le testimonianze dirette o indirette dei latifondi-granaio dell’epoca repubblicana o di quella imperiale (destinati a forzoso frazionamento nella stagione dei bizantini), i resti di edifici termali e di necropoli, cippi e iscrizioni, perfino un mosaico pavimentale a scacchiera…    

Eccola finalmente la comunità sorta e radicata, fra tante avventure, nella mossa distesa tra Monte Uda e Gelantini, Niu Caborra e Poneria, Miorì e Bascuri, tra Sedda Cadoaxiu e Linna Pertunna, Is bangius e Su nomini mau… Nell’Anno Domini 1219, ottocentouno anni fa, il toponimo Villa de Frius compare in un documento giudicale: Torchitorio dona al figlio Salusio la curatoria della Trexenta. Caduto il giudicato, ecco impadronirsene – della Villa con la sua specifica di rilevata bassa termia – dapprima Guglielmo di Capraia giudice d’Arborea, poi i governatori di Pisa e dopo ancora i signori d’Aragona e, da essi, una sfilza di feudatari, fino a Giacomo Alagon. Nei documenti storici del basso medioevo il nome con il suo attributo va e viene fino a che, nel 1699, il marchese di Villasor Artale Alagon non decide il ripopolamento del paese. Lo raccontano i documenti, e il biografo di su rei, disegnando la mappa del territorio che questi signoreggerà con il suo lavoro e la sua composta rettitudine e rifacendo la storia dei santandriesus nello sviluppo dei secoli, vi insiste: furono 23 i coloni tratti da Nuraminis e Villagreca, allettati dalle agevolazioni tributarie (per un quinquennio pieno) e dalle generose assegnazioni di terra: 20 starelli a ciascuno, il tanto necessario per innalzarvi la casa ed impiantare la vigna e altre coltivazioni. Di più: nell’elenco delle facilitazioni è anche, non trascurabile, la libera circolazione nell’intera area trexentina del bestiame allevato in agro, tanto più i maiali, se s’accontenteranno delle ghiande, invero non sono abbondantissime, prodotte dalle querce locali.

Alti e bassi, favori e criticità… siamo in Sardegna, nel secolo di Sant’Ignazio, fra povertà prevalenti, in specie nelle zone rurali. L’economia di sussistenza, di base agricola, dà soltanto la speranza, teorica ma bella e confortatrice, che un domani neppure troppo… vicino le cose miglioreranno. E comunque i cento primi residenti – fra coloni e i loro familiari – si triplicano nel primo trentennio di vita della comunità, si decuplicano a farne l’appello nell’anno del primo censimento bandito dal nuovo regno d’Italia, con Vittorio Emanuele a palazzo reale e Ricasoli il fiorentino al ministero di Torino dopo la morte del conte di Cavour… Non saranno mai duemila, ma anno dopo anno, censimento dopo censimento, nell’arco di novant’anni (centosessanta ad arrivare ad oggi) i progressi – quelli numerici – ci saranno.

In quanto ai progressi sociali, a quelli della qualità di vita, ed alla dotazione delle infrastrutture civili il passo sarà lento. Le rare corrispondenze che giungono ai giornali a fine Ottocento o nei primi decenni del secolo nuovo confermeranno la flemma pubblica, la stanca storica. Più di tutto, forse, è sentito il bisogno di collegamenti, cioè di fuoriuscita dall’isolamento: due strade provinciali – una verso la Trexenta, l’altra verso il Gerrei – faciliteranno le relazioni con i territori viciniori, le diligenze porteranno e riporteranno i santandriesus a/da Senorbì e Muravera, nel Sarrabus, e sarà già qualcosa… 

Certo questo non basta ad alimentare lo sviluppo civico e un miglioramento economico diffuso e sostanziale. Ci ragiona il biografo di su rei e trova la ragione dei ritardi e delle insufficienze nella fiacca piena di quei lunghi due secoli – fra i primi decenni del Quattrocento e la fine del Seicento – in cui il paese ha, o avrebbe, cessato di esistere, è, o sarebbe, uscito dal mondo e dal calendario. Realizzare un rapido… incivilimento, date le condizioni ambientali e soprattutto lo stato di isolamento protratto nel tempo ancora per altri due secoli – nel disimpegno spagnolo o austriaco dapprima, in quello sabaudo/piemontese dopo –, sarebbe stato magico. Ma la storia non procede per magie. E perciò, niente artigianato, né oggettistico né tessile, per stoffe od arazzi e altre bellezze, niente costume tipico, niente musica o canti e balli, niente tradizione da potersi chiamare “cultura materiale”…

Nel primo Novecento e nei decenni a seguire qualche avanzamento si nota: dapprima – e lo spiega bene il biografo di su rei – è stata tutta indirizzata a Senorbì la ricerca delle soluzioni ai bisogni urgenti (tanto più quelli sanitari), poi, grazie alle linee automobilistiche Devoto, è stato il capoluogo provinciale quel… pozzo di San Patrizio morale e materiale cui potersi rivolgere per ogni necessità: ingrosso commerciale ed ospedale (e ambulatori specialistici), banche o altro, magari lo stadio di via Pola per il calcio o l’Amsicora per il pugilato, e un domani la burocrazia regionale…

Il rito quotidiano dell’omnibus in arrivo da Cagliari con passeggeri e pacchi e corrispondenza dà colore oltre il bianco polveroso della strada principale. E’ ancora quello dei collegamenti il maggior bisogno dei santandriesus: così ancora negli anni della grande guerra e dopo, quando le linee Devoto passano alla Satas e alla Sita. Le carrozze migliorano, così gli orari dei viaggi. La lenta lentissima marcia verso la modernità. Si potrebbe dire: tanto lenta lentissima quanto prolungato è stato invece il calendario geologico e quello storico remoto che ha portato all’oggi il villaggio del 1219 o quello del nuovo inizio, 480 anni dopo. Chissà. 

Il biografo di su rei insiste ancora, e lo fa marcando rispetto e anche ammirazione verso la fatica degli attori, nella rappresentazione della società immobile: così nelle pratiche di vita e custodia delle greggi da parte dei pastori, così nella lavanderia collettiva al pubblico ruscello (magari con la potenza aggiuntiva di sa lissa antedetersivo chimico)… E’ la civiltà dei poveri, quella detta della sussistenza. Le sue dimostrazioni investono ogni esigenza: dalla panificazione – un rito tutto al femminile che ha la solennità della messa festiva celebrata dal parroco – alle lavorazioni della lana di pecora per farne indumenti o coperte, dalla produzione del sapone a quella della marmellata…

Nella civiltà dei poveri non manca, è anzi di base, un certo sentimento egualitario che concede però i suoi spazi ai riconoscimenti di status, agli anziani soprattutto ma anche a quei pochi benestanti che il rispetto se lo meritano lavorando anch’essi, forse non con la zappa (affidata a qualche salariato bracciante senza terra) ma con il frantoio e la gestione dell’azienda, dei terreni affittati a pascolo o coltivati ed alimentando così l’economia comunitaria.

Qualche sarta e qualche calzolaio offrono, con il passare del tempo, il proprio servizio a chi ha un vestito da aggiustare o un paio di scarpe da rinforzare, e un manipolo di barbieri si prende cura della vanità maschile; qualche negoziante aggiunge il suo bazar dell’abbigliamento femminile alle botteghe degli alimentari – pasta e conserva, zucchero e caffè – che per prime hanno aperto la catena commerciale.

Sant’Andrea Frius – siamo qui fra anni ’30 e anni ’40, quelli duri durissimi della seconda guerra mondiale e della ricostruzione – si modernizza così: con i suoi negozietti, che gli economisti chiamano “terziario”: nel novero naturalmente è la macelleria così come il tabacchino, mentre alle attività di officina s’affacciano uno dopo l’altro i fabbri ed i falegnami, e a quelle di cantiere i muratori che sono anche idraulici (in opera però soltanto dopo che l’acquedotto sarà entrato in funzione).

Non è ancora la stagione dei divertimenti, della televisione soprattutto e anche della radio, ché in paese l’energia elettrica è soltanto una previsione: manca anche il cinematografo e la domenica è buona abitudine trascorrerla nel passeggio serale dopo che la mattina in gran numero s’è partecipato alle funzioni in chiesa. Qualcuno – i più sono di mezza età – fa la prova e poi si abbona alla mescita di buon vino in questa o quella taverna, qualche altro – in specie i giovani o giovanissimi – si diverte con il pallone, fra gli ulivi lungo la provinciale per Senorbì, e naturalmente si cimenta anche, ma stavolta per obbligo, con gli esercizi ginnici che sono la ritualità del sabato fascista. 

Le scuole sono ancora ospitate in abitazioni private, gli analfabeti totali diminuiscono gradualmente, generazione dopo generazione, pur con i limiti immaginabili. Per questo la diffusione dei quotidiani – “L’Unione Sarda” e “Il Giornale d’Italia” (che ha la pagina sarda) – pare in relativa moderata crescita.

Storie di paese, il paese è un palcoscenico, povero poverissimo complessivamente, ma non senza una sua vitalità: ecco la gran gara dei soprannomi ora scherzosi ora (magari involontariamente) dileggianti: grisu, pilleddu, su reimedr’e puddu, piringinu…, ecco i pettegolezzi di vicinato, ecco le prestazioni del banditore, ecco le visite estive del carretto con i gelati fatti in casa (factotum il gelataio-fotografo per la doppia felicità dei piccoli), ecco i miracoli delle guaritrici, ecco le feste di battesimo e quelle di nozze, ecco i convegni di corteo per gli accompagnamenti funebri… 

Il biografo di su rei s’è dovuto-voluto trasformare in biografo sociale, biografo di tutti insieme: e dedica pagina dopo pagina appunto a matrimoni e nascite, a funerali e messe patronali, alle specialissime devozioni rese al vicecapo dei Dodici (eredità – Sant’Andrea titolare della parrocchia –, magari soltanto morale, bizantina?)… Rende gli onori a tutti, tutti li chiama e li ringrazia per il servizio offerto. Collega fra colleghi dei tanti che hanno meritato la tribuna e il nome stampato sulla carta ecco allora Mario Cocco l’ex carabiniere fattosi apostolo sociale, e con lui Adelina Atzeri e Agnese Sanna le levatrici, Pasqualino Espa il banditore ed Antonio Mameli il gelataio-fotografo, Narciso Cocco l’abbonato al “Giornale d’Italia”, Maria Teresa Schirru la tessitrice e Fulgenzio Atzeni lo scalpellino, Andrea Melis il bottaio e Francesco e Giuseppe Mannai e Francesco Lallai i febbri ferrai, Giuseppe Nonnis e Luigi Anedda i riparatori di carri e Carmela Farci la bottegaia come pure Carmela Vacca ed Eugenia Aru… 

Un paese intero, il paese della memoria è convocato all’assemblea che celebra su rei: c’è gloria per tutti, per Letizia Porru ed Emma Pavale le sarte e per Giuseppe Boero il negoziante d’abbigliamento in Prazz’e Funtanedda, per Giuseppe Espa e Pietrino Melis i sarti maschili e per Antonio Manca, Antonio Atzeni, Silvio Pireddu, Giuseppe Cocco e perfino Grazia Picciau i barbieri, per Efisia Cossu la tabaccaia e per Raffaele Farci, Antonio Lallai e Angelo Aru i ciabattini…

Un popolo a convegno, la memoria del micromondo

Dedicandolo alla madre santandriesa, Vittorio Scano, il benemerito fondatore-direttore-editore dell’Almanacco di Cagliari (e già anche di Sardegna Fieristica) ha pubblicato nelle scorse settimane questo delizioso Ziu Franciscu. Un contadino di Sant’Andrea Frius che associa vicende personali e vicende collettive lungo un periodo che dalla fine dell’Ottocento arriva alla metà del secolo successivo. Lo ha pubblicato per dare onore a chi ha ben meritato, seminatore di esempi di disciplina e lavoro, esempi di amore alla famiglia e giusti adempimenti sociali.

Ben a ragione ha creduto, l’autore di queste gradevoli cento pagine uscite per i tipi della cagliaritana aipsa edizioni (collana “Quaderni di storia e cultura locale”), di integrare il suo racconto, in ciò riabbracciando la cronaca alla storia (anche alla più antica), con due sezioni fotografiche: la prima sul paese, le sue feste patronali, i suoi gruppi giovanili, la sua parrocchiale e le sue piazze e strade principali; la seconda sui maggiori reperti archeologici recuperati dalle campagne di scavo (pubbliche od abusive!) o ancora presenti a plein air nelle campagne d’intorno: dal Nuraghe Mannu a quello Monte Uda con le sue pietre i frammenti di ceramica, dal villaggio di Riu Menga nella Tanca su Conte agli utensili oggi custoditi ed esposti al Museo archeologico nazionale di Cagliari: l’ascia piatta a lama espansa e i frammenti di ossidiana, le anfore puniche e le monete romane, i corredi di sepoltura, le statuine di terracotta, i bronzetti e le brocche, le maschere, le teste, i catini, ecc.

Una buona lettura. Il sindaco di Sant’Andrea Frius farebbe una cosa santa se, concordandolo con l’autore e l’editrice, omaggiasse di una copia del libro santandriesu ogni bambino e ragazzo alle scuole di paese, impegnando ciascuno di loro a sviluppare la trama del racconto di su rei Francesco Secci intrecciandola alle vicende dei nonni e bisnonni… Per una volta, tutti giornalisti intervistatori e resocontisti, i bambini e ragazzi di Sant’Andrea Frius. Chissà quante altre famiglie potrebbero narrare del proprio rei e quanti altri monumenti morali si potrebbero innalzare a corona di Sant’Andrea il vicecapo degli apostoli del Vangelo fattosi compaesano qui in Trexenta… 


Fonte: Gianfranco Murtas
RIPRODUZIONE RISERVATA ©

letto 3520 volte • piace a 0 persone0 commenti

Devi accedere per poter commentare.

Scrivi anche tu un articolo!

advertising
advertising
advertising