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DifesaBovio Sardegna

Sul diritto di punire: di Giovanni Bovio e del fondamento etico. La proposta di un percorso pedagogico per la Giunta del GOI isolano

Da uno studio di Susanna Pastore (e dopo i parruccamenti e le complici coperture), alla riscoperta del buono e del giusto

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In un articolo dedicato alle opere giuridiche di Giovanni Bovio (Trani 1837-Napoli 1903) apparso su “Il Corriere di Trani” del 27 aprile 1913, De Lieto Vallaro così si esprime sul Saggio critico del dritto penale di Bovio: “È piccolo invero di mole il libro, ma è denso di contenuto cerebrale; è più pensiero che parola. Nel leggere tanti libri venuti fuori sullo stesso argomento devi, con ricerca affannosa, rintracciare il pensiero fra una colluvie di fatti elencati con prolissità di forma: a ben intendere il libro del Bovio devi aguzzare l’intelletto perché ogni periodo contiene e svolge un’idea”

Il Saggio critico del dritto penale e del fondamento etico, che “varrà al Bovio una contrastata libera docenza in Filosofia del diritto presso l’Ateneo napoletano”, lo pone tra gli antesignani della scuola positiva e, secondo Vincenzo Accattatis, fra gli esponenti del “socialismo giuridico”. Nel Saggio, infatti, Bovio sostiene: “in ogni reato entrano complici la natura, la società e la storia; e non esiste una matematica che sceveri le parti dei complici”.

Le due principali scuole giuridiche, in materia penale, erano: la scuola classica e la scuola positiva. La scuola penale classica polarizza la sua attenzione sul reato quale violazione di una legge penale aprioristicamente intesa ed elaborata. Secondo i classici il reato “è la violazione cosciente e volontaria della norma penale”. Essi conferiscono peculiare rilievo alla volontà colpevole con cui si designa quell’elemento soggettivo che, con termine moderno, viene chiamato “colpevolezza”. Perché la volontà possa dirsi colpevole è necessario che sia volontà libera. Il libero arbitrio viene così a costituire il fulcro del diritto penale. Perché si abbia volontà colpevole è necessario che l’individuo agente sia imputabile, che abbia cioè la capacità di intendere il valore etico-sociale delle proprie azioni. L’imputabilità, sinonimo di libertà, porta ad una pena la quale è retribuzione per il male compiuto; è pertanto direttamente proporzionata al reato e solo nel reato trova la propria giustificazione.

La scuola positiva penale si contrappone a quella classica, evidenziando che ciò che conta non è l’azione in quanto tale, staccata dall’agente; di conseguenza solo nei modi di essere del suo autore trova la propria spiegazione causale. La volontà non è libera, ma è anch’essa un risultato.

Le cause del reato sono, per i positivisti, tutte ordinate su un piano necessariamente naturalistico. Cesare Lombroso, che nel 1876 pubblica L’uomo delinquente, individua la causa del reato in un complesso di anomalie di carattere organico. I delinquenti sono una “specie” del “genere” uomo e riproducono caratteristiche somatico-biologiche tipiche di una primitiva fase attraverso la quale – secondo le leggi dell’evoluzione – l’umanità sarebbe passata prima di arrivare all’attuale stadio.

Giovanni Bovio che, sin dal suo ingresso nella vita politica del paese, aveva individuato nella questione sociale l’ambito privilegiato della sua battaglia, nel 1872 con il suo Saggio fa della questione penale una questione sociale: “Storicamente vedesi […] che dove il Diritto civile è picciola cosa […] ivi il Diritto penale è gigante, sanguinario” e prosegue “[…] come il Diritto civile rompe la casta, si dispande […] così il diritto penale si stringe, si fa cauto, guardingo […] manda a diporto i carnefici […]. Che il diritto civile ed il penale siano gemelli […]? E questo è il vero per appunto: perché dove il Diritto civile è nominale e negato alla più parte del popolo, ivi è necessità che i pochi si serbino con minacce feroci e spaventevoli; […] è necessità che dove il diritto non soccorra, molti siano i delitti, molte e crudeli le pene; è necessità in somma che per difetto di ragione civile sovrabbondi la penale”. Il programma di Giovanni Bovio è incentrato, quindi, su una politica di prevenzione che non richiede alcun codice penale, ma drastiche riforme politiche, economiche e sociali: “Le riforme sono richieste quando si dee passare da una in altra forma di un medesimo momento, di un medesimo evo: le trasformazioni sorgono tra un evo e l’altro e sono rivoluzioni non sulla superficie ma nel contenuto ultimo delle istituzioni civili”.

In contrapposizione allo speculare dover essere auspicato dalle riforme, vi era nella realtà del tempo un contesto politico e sociale antitetico nel quale le classi disagiate non potevano riconoscersi in uno Stato che al “disagio” rispondeva con una legislazione fortemente repressiva. Tale rapporto appare in tutta la sua drammaticità nella strategia che lo Stato italiano pone in essere per combattere, nel meridione, il fenomeno del brigantaggio.

Il brigantaggio – scrive Altan – è “più uno scontro di civiltà, che non uno scontro di classe”; è, in definitiva, lo scontro tra la nascente civiltà industriale e la società contadina che tenta di sottrarsi alle condizioni di miseria.

Queste condizioni si aggravano con “la soppressione delle corporazioni e delle congregazioni religiose, regolari e secolari, che comportò la devoluzione al demanio dello stato dei loro beni”. La finalità perseguita era quella di immettere nella libera circolazione il patrimonio immobiliare e di sottrarre mezzi economici alla Chiesa che avrebbe potuto utilizzarli in funzione antiunitaria.

Questi provvedimenti, non affiancati da “una razionale legislazione sulla pubblica assistenza e sulla sanità”, finiscono col colpire “proprio quelle classi più umili dei centri agricoli che negli istituti di carità e di assistenza della Chiesa trovavano, sia pure in forma paternalistica ed imperfetta, un minimo di sollievo e di appoggio”.

“Quella che si combatte nel Mezzogiorno”, commenta il 21 aprile 1863, “è la più terribile di tutte le guerre, la guerra sociale”. Per vincere questa “guerra” occorrevano tempi lunghi ma la risposta immediata che fornisce il governo è rappresentata dalla legge Pica del 15 agosto 1863, prorogata sino al 31 agosto 1865, che sarà il modello di intervento sia per la Destra che per la Sinistra. La ratio repressiva di tale legge si sostanzia nella scelta in favore della Giurisdizione militare, ritenuta più rapida rispetto a quella ordinaria; nel prediligere, quale misura di prevenzione personale, il domicilio coatto che consente di deportare, prevalentemente nelle isole minori, e di controllare migliaia di cittadini, le loro mogli e i loro figli sulla base del semplice sospetto e nella proclamazione dello stato di assedio.

Bovio coglie il senso dei tempi: “In certi periodi di transizione quando incerte e molte sono le leggi, ambigua la coscienza tra il vecchio e il nuovo, tra un mondo conquassato e un altro sovrastante, incerti i fondamenti della scienza, impossibili le determinazioni morali e giuridiche, e lo scetticismo etico levasi giustificatore di corruzione in ogni forma della vita, letteraria, artistica, civile, religiosa e politica; il solo delitto costituisce la storia, move la vita, e se delitto non fosse, rimarrebbe la morte”.

Infatti la situazione complessiva mostra una forte presenza dei reati contro il patrimonio (furto, rapina, estorsioni, sequestro di persona a scopo di estorsione) la cui eziologia sociale affondava le sue radici nelle difficilissime condizioni di vita. “L’operaio – afferma Bovio – cerca oggi nell’avere l’essere, cioè la libertà nella proprietà, quale che sia, privata, comune, collettiva: lottando per la proprietà, lotta per la libertà: sente che senza avere non si è libero, non si è uomo. Non l’avere per l’avere fa la lotta, ma l’avere per l’essere, per essere libero, per essere uomo”.

La realtà napoletana di indigenza e miseria per i più e le sue stridenti contraddizioni vengono avvertite da Bovio in modo particolarmente efficace: “c’è un fondo ultimo di povertà, che non è quarto stato, non quinto, non è nessuno stato, e non ha nessun nome: un fondo in cui non è penetrata l’aria di nessun secolo, non l’urlo di una rivoluzione o l’alito d’una redenzione. E non ha nome di bipede che si move in quel fondo perché non ha specie. E’ un troglodita sopravvissuto all’età della pietra per arrivar testimone dell’uomo preistorico al secolo XIX, e rimprovero a questa età storica che in una medesima città innalza la reggia e lascia stare la caverna. Al cavernicolo de’ nostri giorni mancando qualunque grado del pensiero, manca qualunque forma di passione umana: non odia perché non ama. Non vuole la rivoluzione, perché non la pensa, non la sente; non pone nessuna questione politica, nessun problema sociale: non si fa martire di nessuna religione, perché nessun Dio lo protegge; un urlo, un monosillabo, una bestemmia, ecco il suo discorso”.

Entro questa realtà il Saggio critico, nel 1872, individua anche le modalità operative per intervenire e realizzare quel riscatto delle fasce sociali più svantaggiate a favore delle quali Giovanni Bovio impegnerà tutta la sua attività. Tanto gli viene riconosciuto, sempre sulle pagine de “Il Corriere di Trani” del 27 aprile 1913. Infatti De Lieto Vallaro scrive “… il Bovio invece – e fu il primo – fa opera non di riforma ma di rivoluzione: Egli non si arresta a mezza strada vede il problema in tutta l’interezza sua ed intero lo affronta e lo risolve”, affermando che “occorre trasformare e cioè compiere rivoluzione profonda non sulla superficie, ma nel contenuto ultimo delle istituzioni civili”.

In questa ottica Bovio affronta la soluzione della questione meridionale. Tale soluzione dipendeva dall’avvio del processo di democratizzazione del paese che prevedeva, per esempio, la realizzazione del decentramento. Il programma riformatore esigeva un sostanziale rinnovamento delle coscienze dei singoli chiamati a diventare gli artefici del loro riscatto economico, sociale e morale.

Nella prospettiva boviana non è lo Stato che deve intervenire per alleviare la miseria delle masse meridionali, ma sono queste ultime che, attraverso una serie di riforme socio-economiche, devono operare per la giustizia sociale.

La scuola è, pertanto, lo strumento privilegiato per quel riscatto delle coscienze dei singoli: Bovio è, infatti, attivamente partecipe al dibattito parlamentare relativo alla legge Coppino sull’istruzione elementare obbligatoria che viene promulgata il 15 luglio 1877.

Tenace è il suo impegno in favore dell’acquedotto pugliese, battaglia che significa l’avvio del processo per la democratizzazione dei servizi e per il riscatto delle popolazioni pugliesi affinché l’acqua “da veicolo di contagio divenisse motore di risanamento”. Il primo firmatario della proposta di legge per l’acquedotto pugliese, presentata da Matteo Renato Imbriani  il 4 giugno 1889, è proprio Bovio che sottoscrive anche il successivo progetto legislativo del 2 luglio 1890. Dirà Imbriani in un discorso tenuto nel teatro comunale di Corato il 22 novembre 1896: “Pur ribattemmo il chiodo, i nostri Bovio e Pansini in prima linea: mese per mese quasi ribattemmo il chiodo, ed anno per anno presentammo la nostra legge, finché costringemmo lo stesso Crispi a riconoscere che era legge d’interesse nazionale”.

Il Saggio critico viene ripubblicato nel 1876 e nel 1883.

Non si deve dimenticare che nel 1876 Cesare Lombroso pubblica L’uomo delinquente e Giovanni Bovio, che considerava complici del delitto “la natura, la società e la storia”, avverte immediatamente “i risvolti negativi e le implicazioni contraddittorie dell’impostazione di Lombroso” il quale, rinvenendo nelle anomalie di carattere organico del reo la causa del reato, assolveva la società. Del resto “i sospetti di Bovio sulla natura conservatrice e antidemocratica del positivismo erano tutt’altro che infondati”. La prova sarà offerta dal “peso che le teorie antropologiche avranno nell’acuire i pregiudizi tra il Nord e il Sud, nel mantenere l’enorme divario tra le 'due Italie', nel legittimare il disinteresse dello Stato nei confronti del Mezzogiorno, nell’esacerbare la scottante questione meridionale, interpretata […] come un 'male incurabile', che affondava le sue radici non nelle desolanti condizioni socioeconomiche e ambientali del Sud” – a riprova dell’importanza da lui attribuita al fattore naturale vi è l’impegno profuso nella battaglia per la realizzazione dell’acquedotto pugliese – “ma in presunti fattori naturalistici, atavici, ancestrali cui nessuna terapia riformatrice avrebbe potuto giovare”. Egli, in sostanza, “mira […]  a scongiurare ogni forma di paralizzante determinismo: la questione del Mezzogiorno non può essere legata indissolubilmente ai caratteri somatici dei suoi abitanti, o ai fattori climatici, idro-geografici e morfologici del suo territorio”. Tale rilevante contributo, teso a sfatare i pregiudizi nei confronti del Mezzogiorno, viene offerto “alcuni anni prima che il dibattito sulla questione meridionale coinvolgesse personalità della statura di un Colajanni o di un Salvemini”.

“Non a caso Bovio ripubblicherà il suo Saggio critico in terza edizione nel 1883, quando il trasformismo, divenuto aperta pratica di governo, insieme all’affievolirsi della contrapposizione tra Destra e Sinistra, segnerà la saldatura tra la politica della classe al potere e gli interessi dell’industrialismo settentrionale che nel protezionismo, adottato nell’’87, avrebbe trovato la migliore garanzia per la propria egemonia e per la conseguente subordinazione del Sud agricolo con i suoi macroscopici problemi”.

Per quanto concerne la fortuna critica dell’opera, è lo stesso Bovio che, nel 1873, nell’anno successivo alla prima edizione, nei Discorsi politici illustrati da una dissertazione sul diritto di punire,  annota: “In sul cadere dell’anno scorso pubblicai un volumetto col titolo: Saggio critico del Dritto penale e del fondamento etico, e sebbene a pochi lo avessi mandato, nondimeno la stampa libera da Milano a Palermo ne disse bene”. Nell’articolo più volte citato, apparso su “Il Corriere di Trani” del 27 aprile 1913, inoltre, si legge: “Se ne togli il De Marinis, che nelle premesse del Bovio apertamente, e con entusiasmo di discepolo […], fonda (ed anche nel titolo del lavoro e con riconoscimento della derivazione del pensiero) il suo Saggio critico sulla causa criminosa, e ne togli un breve omaggio resogli dal Puglia ed una fugace menzione che il Ferri ne fa nella seconda edizione dei suoi Nuovi Orizzonti, chi ricorda più il Bovio come precursore della scuola positiva? […] Il Colaianni che già nella sua Sociologia criminale aveva deplorata la ingiusta dimenticanza di tale scuola verso il pensatore illustre che ne era affatto immeritevole, nella commemorazione di Bovio tenuta all’Università di Napoli definisce il Saggio critico un libro assai piccolo ma di mole, nel quale è adombrato il tentativo di applicare le matematiche ed il calcolo ai fenomeni sociali ed afferma che il Bovio ci ha indicato il cammino della scuola di antropologia criminale, stabilendo egli, prima del Lombroso, quali dovessero essere i fattori antropologici della devianza…” Tali fattori sono rinvenibili non nei caratteri somatici, ma nelle caratteristiche bio-sociologiche.

Secondo Ugo Spirito il Saggio avrebbe dato inizio ad “una nuova epoca nella storia del diritto penale”. Infine, si deve ricordare lo scritto di Vincenzo Accattatis e la puntuale e appassionata analisi di Giovanna Angelini.

Naturalmente Bovio partecipa attivamente alla discussione che precede l’approvazione del codice penale il quale, presentato il 22 novembre 1887, entrerà in vigore nel 1889, dimostrando, nell’intervento del 4 giugno 1888, la sua capacità di portare “nell’anima la città universale del genere umano”, come dirà, ricordando l’amico scomparso, Francesco Rubini, in uno scritto indirizzato a Federico De Venuto, esponente del partito democratico nel collegio di Minervino, il 10 agosto 1892.

Giovanni Bovio nel suo intervento così si esprime “Chi è dunque che stabilisce le categorie degli onesti e dei disonesti, e  mette gli uni a destra, gli altri a sinistra del giudice? […] All’arbitrio di questa partizione che è affatto apocalittica tra onesti e disonesti, aggiungete l’impossibilità di determinare in modo razionale qualunque proporzione tra reato e pena, che sono due termini eterogenei, l’incertezza che lascia dietro di sé qualunque procedura, la difficoltà di penetrare in certi misteri che porta in sé ogni anima nata, le incitazioni, che, invisibili talvolta vengono da questa e da quella parte, e gli animi vostri si sentiranno disacerbati e pieghevoli a mitezza”. Ecco che ancora una volta dimostra di andare al cuore del problema, evidenziando “l’incertezza che lascia dietro di sé  qualunque procedura” e “la difficoltà di penetrare in certi misteri che porta in sé ogni anima nata”. Questa sua capacità di interagire così nel profondo viene confermata  da una descrizione tratta da “Il Secolo Illustrato” del 14 giugno 1896, nel quale l’autore, tracciando un profilo di Bovio, scrive: “Per altro, si può bene dissentire dal Bovio in politica, si può anche non sposare le sue idee filosofiche o semplicemente letterarie; ma non per questo si resta meno ammirati del suo ingegno sovrano, la cui larghezza, anzi universalità, finisce per abbracciare, se non tutti, almeno una parte dei vostri pensieri e dei vostri sentimenti. Così voi vi trovate quasi riluttanti, certo inconsapevolmente, a lui legati da quelle invisibili affinità dello spirito, da cui genera simpatia”.

Le invisibili – e possiamo dire eterne – affinità dello spirito legano la riflessione boviana sulla difficoltà di penetrare in certi misteri che porta in sé ogni anima nata agli studi dei giorni nostri condotti dal processualcivilista e scrittore Salvatore Satta, dal filosofo del diritto Norberto Bobbio, dal Magistrato di Cassazione Stefano Racheli.

In definitiva, “quel che noi chiamiamo 'caso' è accadimento che porta in sé l’irriducibilità del singolare (individuum – affermavano i medievali – ineffabile) […]. I c.d. casi difficili altro non sono che quei casi la cui 'forte' individualità resiste alla riduzione a fattispecie”. È infatti “l’uomo – la sua 'essenza' – ad essere ripresa in ogni giudizio” e questo deve aiutare a “comprendere che il 'processo' – per tecnico che appaia il suo volto – ci conduce al cuore dell’uomo; che i limiti della certezza giuridica non sono altro che i limiti dell’uomo” (“l’incertezza che lascia dietro di sé qualunque procedura”); “che il 'mistero del processo' – cui alludeva Satta – si giustifica con il mistero dell’uomo”.

Fonte: articolo-approfondimento dell'Avv.ssa Susanna Pastore

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