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Gianfranco Murtas

Testimonianza di un prete sardo "fiondato" in boschi fitti più fitti di quelli di Monti Mannu o Castangias, di Villascema o Giarranas…

di Gianfranco Murtas

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Lo scorso 18 gennaio, a conclusione della mostra “Giuseppe Dessì – Giuseppe Pittau”, nei locali dell’antico seminario di Villacidro (palazzo Brondo), don Angelo Pittau ha donato ai presenti la ristampa del libro Vietnam: una pace difficile, che cinquant’anni fa gli costò la permanenza nel paese indocinese ancora imprigionato nella guerra (ma finalmente anche proiettato alle complesse intese di Parigi).

Nei mesi passati, forse così ispirando nell’autore il piano della ristampa, il sito Giornalia aveva pubblicato in otto puntate, seguendo la scansione dei capitoli del volume uscito nel 1969 per i tipi delle Dehoniane bolognesi, quel testo formidabile di descrizione e denuncia, autentica prova di “parresia” evangelica che l’allora giovane prete villacidrese offerse come personale testimonianza di una presenza schierata, non neutra. Schierata non con una parte in conflitto ed avverso l’altra o le altre, schierata con i valori e gli ideali impastati di umanità, dolore e sangue, e trovati in ogni regione del grande paese, nei fianchi destri e nei fianchi sinistri dei fiumi e delle città, delle foreste e delle montagne, nelle religioni e fuori delle religioni…

Preparando questa ristampa don PIttau aveva chiesto a me di scrivergli qualche pagina introduttiva. Ed è quanto segue (ripulito di qualche evitabile refuso presente nel libro).


Vi-llacidro/Vi-etnam, un gemellaggio ideale

Giusto a metà di giugno del 1967 Angelo Pittau, prete villacidrese alle soglie del suo ventottesimo compleanno, giunse in Vietnam. Vi sarebbe rimasto circa due anni, professore-missionario (fidei donum della sua diocesi di Ales-Terralba) e, in divenire, giornalista freelance per molte testate occidentali. Così fino alla cacciata, per le volontà convergenti del governo di Saigon e dei suoi alleati/protettori americani impegnati in una guerra sporca e da qualche mese “costretti” a trattative di pace in quel di Parigi. Trattative conclusesi soltanto nel 1973 con il ritiro delle truppe americane, sconfitte militarmente. Un ritiro presto compensato da un nuovo arrivo: quello dei marchi dell’industria di consumo degli States, che anno dopo anno avrebbe sempre più ricolonizzato il paese da Hanoi a Saigon, da Lang Son a Can Tho…

Capo d’imputazione un libro: Vietnam: una pace difficile, un libro libero nelle analisi ricostruttive di eventi e personaggi, scomodo per tutti. Andò bene anche ai vietcong che don Angelo Pittau fosse cacciato dal governo e dai grandi protettori d’oltre Pacifico. Don Angelo, se alleanza ideale e sociale aveva fatto, gli alleati se li era trovati, in Vietnam, fra i Montagnard, minoranza etnica tutta concentrata in tribù radicate sulle montagne annamite e colpita dagli uni e dagli altri e dagli altri ancora in guerra fra di loro. Per essi, per l’incombente minaccia del genocidio pendente sul loro capo, sarebbe tornato in Vietnam, ancora per svariati mesi – da Pasqua a settembre del 1973 –, incaricato dagli uffici dell’ONU di stendere un dossier destinato esso pure a pubblicazione nelle collane dell’IDOC. 

I riflettori, in Vietnam: una pace difficile, sono puntati tutti sulla guerra, le sue ferali dinamiche e conseguenze, i suoi scenari, i suoi protagonisti; illuminano e rivelano, quei riflettori, le ipocrisie e doppiezze, le atrocità, le complessità e i chiaroscuri delle singole posizioni che combinano spesso religione e politica, tattica militare e obiettivi di potere. Nessuno è innocente o soltanto vittima, ogni vittima pare anche carnefice, e viceversa. Anche i quidam, tanto più quelli delle città, entrano nel gioco cinico della guerra, magari giostrandosela col mercato nero imbroglione in un effetto domino che alla fine sembra equilibrare l’offesa ricevuta e l’offesa data. Tutto con perfidia, senza remora morale di alcuna natura, nonostante le carte ideali o spirituali di quella confessione o di quell’altra, che pur dovrebbero indirizzare la condotta di tutti.

Missione d’un prete fidei donum

Ha lasciato Tuili dove è stato viceparroco per due anni dopo la sua ordinazione, don Angelo; lì, negli spazi comunitari di San Pietro Apostolo che da mezzo millennio custodiscono uno dei retabli più preziosi di tutta la Sardegna, ha fatto apprendistato, inventando o animando l’oratorio, coinvolgendo in varie attività gli adolescenti e i giovanissimi di quel pezzo di Marmilla cuore del cuore dell’Isola: ha gustato l’esercizio dell’arte pedagogica che il mestiere di prete in servizio di parrocchia dovrebbe sempre contemplare, e di cui il seminario maggiore di Cuglieri gli ha consegnato i rudimenti; l’ha arricchita di idee e programmi e modi l’arte dell’oratorio per averne fatto esperienza in quel di Milano, dopo aver detto la prima messa nella sua Villacidro, ma forse e più ancora l’ha ingemmata della semplicità o spontaneità che lui stesso ha imparato nel fare ordinario dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, di cui ha conosciuto qualcosa ascoltando Carlo Carretto quando non aveva che quattordici o quindici anni, in seminario a Villacidro, e cui s’è associato a più riprese negli anni più maturi degli studi al Regionale, andando a condividere lavoro e preghiera e casa a Bindua, o, giusto alla vigilia del diaconato, nei mas della Provenza ed al porto di Marsiglia, a scaricare granaglie. 

Ha salutato i suoi in paese, dopo essersi laureato, a giugno, nella capitale con una tesi su “L’ambiente sociale nell’opera di Giuseppe Dessì” (una tesi preparata anche sulla scorta di ripetuti incontri con lo scrittore, già impedito dalla malattia, nella sua casa romana). Un capitolo importante s’apriva nella sua vita, bisognava che la famiglia si riunisse quella volta per restituirgli il saluto e augurargli buona fortuna, anzi buona missione: padre Giuseppe S.J., venuto apposta da Tokio, e suor Lauretta (Carmela al secolo), in breve distacco dal suo convento continentale.

Nuovo Cammino, il giornale diocesano in cui, ancora studente, don Angelo ha pubblicato versi poetici e articoli di vario argomento, pubblica nel suo numero di luglio-agosto una rapida cronaca e la foto dei due fratelli sacerdoti, segnalando nella didascalia come essi «si ritroveranno nel tormentato Estremo Oriente per portare il loro contributo al fiorire delle cristianità vietnamita e giapponese».

Ha raggiunto la sua meta, nella penisola indocinese, nel fuoco del Vietnam, dopo esser passato per altro fuoco, assai più vicino all’Italia e alla sua isola mediterranea. Ricorderà infatti: «Era scoppiata la guerra dei sei giorni: decisi di fermarmi in Israele quasi obbligato per quello che stava succedendo, in Europa arrivavano le notizie di profanazione dei luoghi sacri. Era una visione che ci dava la presenza dei cattolici che con le autorità della Cisgiordania avevano intessuto rapporti di non belligeranza anzi di sopravvivenza».

Nel recente libro-intervista Viaggiando Chiesa don Angelo ha riferito sobriamente anche delle prime tappe di questa esperienza insieme universitaria, giornalistica e missionaria, e di quel che l’aveva preparata: l’assidua frequentazione della Compagnia di Gesù a Roma cioè, sia per gli studi in corso alla Pro Deo sia per la stretta famigliarità con padre Giuseppe, e l’incontro con padre Giorgio Melis. Questi – professore presso la facoltà di Teologia di Dalat – era stato costretto a lasciare il Vietnam per i giudizi crudemente negativi espressi nei confronti del governo di Saigon e dei suoi protettori americani. Lo aveva sostituito in cattedra, insegnando pastorale e latino, allargandosi da subito al collegio delle suore del Sacro Cuore («frequentato dalle figlie dei ricchi e dei politici del Vietnam del Sud») e al seminario minore diocesano. Latino in facoltà – le lezioni stesse si svolgevano in latino – e latino in seminario. Così per qualche mese, fino a che – insoddisfatto della piega che quella missione per il Vangelo andava prendendo nel concreto – s’era ribellato: lasciò la comunità gesuitica per trasferirsi in un villaggio di Montagnard, accompagnato da padre Khoa, un vietnamita già conosciuto in Francia nel giro dei Piccoli Fratelli. Ecco la nuova comunità: con Huong sorella del religioso ed una quindicina di ragazzi e ragazze orfani nel villaggio So Muoi Sau. Capanna di legno per viverci, una capanna anche per chiesa in funzione altresì di scuola ed ambulatorio. Presto si sarebbe aggiunto Ambrogio, un giovane italiano che aveva vissuto anche lui l’esperienza dei Piccoli Fratelli in terra francese, e che, con le sue abilità di agricoltore e allevatore, sarebbe riuscito a sfamare tutti. 

La scena, pur ormai tanto remota, sembra attuale, presentissima. Per don Angelo l’ambiente comunitario è, umanamente e spiritualmente, l’ideale. Messa mattutina a Kala, in un villaggio-lebbrosario accudito dalle Piccole Sorelle, quindi lezione in città. In mobylette tutti i giorni, sedici chilometri più sedici, egli è a Dalat, per insegnare poi anche dogmatica, oltre che pastorale e latino, in facoltà. E intanto minamenti, mitragliamenti, agguati da schivare, le saette fanno parte del quotidiano… Una volta la minaccia viene dagli americani o dai soldati di Thieu il cattolico convertito, un’altra dai vietcong.

Accanto all’insegnamento, accanto alla missione comunitaria – speciale per la spiritualità (e l’evangelizzazione) perché speciale per il convissuto quotidiano – ecco il giornalismo fotografico e scritto. Un lavoro retribuito dalle agenzie di Saigon: la paga serve a comprare il riso per i pasti di tutti i giorni in comunità, fra i Montagnard. 

Padre Khoa s’impegna nell’educazione ed istruzione di bambini e ragazzi, Huong aiuta le donne a partorire, lui collega tutto, soprattutto impara e imparando… impara a restituire. «Nel villaggio sono diventato uomo», dirà parlandone con me e confidandosi con chissà quanti altri. Si cala in una realtà umana complessa, varia, primitiva e pura e se ne fa adottare: «capii il bello, l’arte, il canto, i costumi del vivere, il culto dei morti, l’emozione del nascere…», quella popolazione «non aveva scrittura ma segni, incisioni nei tronchi».

Sono passi tutti necessari per quel che verrà poi, più intensamente ritmico, coinvolgente, rischioso, sacro… Sacro per la difesa sempre maggiormente consapevole e coraggiosa dei deboli, degli ultimi e degli ultimissimi. «Incominciai a imparare il koho, la lingua del villaggio dove mi trovano e che parlavano forse tremila Montagnards. C’era una lavagna verde nella capanna della chiesa. Huong ed io scrivevamo la parola in francese cercando di farne capire il significato e loro (bambini e la sera anche grandi) scrivevano la parola in koho. La pronunciavano, cercavano di spiegarla. Era un lavoro lungo, riuscimmo a tradurre in koho il Vangelo delle domeniche».

Don Angelo inventa la liturgia, riesce una volta a battezzare duecento adulti: «Loro abitavano sulla riva sinistra del fiume Darian. Mi misi in una roccia al centro del fiume, i battezzandi scendevano nell’acqua, mi venivano vicino, mettevo la mano sulla loro testa e li immergevo nell’acqua del fiume pronunciando la formula del battesimo in latino. Prima abitavano sulla riva sinistra del Darian, bruciammo le loro capanne, i loro dei: sulla riva destra trovarono nuove capanne, terra da coltivare, animali da allevare, la casa della comunità, la chiesa. Erano Montagnards, restavano Montagnards, parlavano koho ma non avevano più paura dei loro dei, erano liberi… Coltivavo un orto, allevavo vacche e capre. Condividevo le loro vite, entravano nella mia capanna come io entravo nella loro…».

La guerra tutt’attorno, nei boschi di bambù, poi la guerra in attraversamento, all’interno del villaggio stesso. I vietcong che impongono la loro legge, idem gli americani, la legge opposta ma nella sostanza la stessa: e cioè l’intimidazione, la prepotenza, la violenza, la guerra. I soldati comunisti promettono rispetto ma soltanto in cambio di cospicue forniture di medicinali e riso per i loro reparti. I generali degli States con i loro protetti del governo di Thieu mandano i loro avvertimenti e mettono su, di lato al villaggio, un campo di prigionia affollato da tremila Koho accusati di complicità col nemico: «non potevano uscire, dormivano in tende o in capanne sovraffollate, avevano poco cibo, poca acqua. Pian piano si ammalarono, si contagiavano l’uno con l’altro, morivano». Uno spettacolo silenzioso e tragico, incivile alla massima potenza.

La guerra nel quotidiano, in ogni pezzo di terra. L’attacco del Tét, o la carneficina del Tét, nel gennaio 1968, da parte dei vietcong. Chiusa l’università di Dalat, don Angelo sviluppa la sua missione accompagnando, accreditato da agenzie internazionali, i giornalisti occidentali in quel posto e in quell’altro, nel delta del Mekong e perfino in Cambogia… Ovunque, appunto per accompagnare e tanto spesso per documentare in proprio: Danang, Hué, Quang-Tri.

Non soltanto però le agenzie, non soltanto le “colleganze” illustri con gli inviati di mezzo mondo, con Oriana Fallaci fra i tanti altri. Anche Il Nostro Tempo, le corrispondenze per l’organo diocesano di Torino, anche Avvenire, il nuovo (postconciliare) quotidiano diretto da Leonardo Valente che dalla fine del 1968 pubblica a Milano quel che prima distintamente avevano pubblicato a Milano L’Italia ed a Bologna L’Avvenire d’Italia

Ecco qui: tutto il 1968, i primi mesi anche del 1969 sono spesi per documentare al mondo: «Non potevo non denunciare ciò che vedevo: un popolo vittima di una guerra ingiusta. Una guerra di torture, violenze fisiche e psichiche, bombardamenti, devastazioni, uccisioni di inermi… In me saliva la nausea, mi sentivo anch’io violato, usato, abusato… Non avevo paura tuttavia, continuavo ad aiutare il mio villaggio come potevo. Mi sentivo Vietnamita, Montagnard, in me sentivo la violenza del mondo. Scrissi il libro di poesie Mie ferite».

Non solo Mie ferite, non solo i versi che come tante istantanee fissano la ricezione nell’anima di quel che accade tutt’intorno: a fissare i fotogrammi della segreta ma decisiva rivolta morale contro l’ingiustizia, sono anche gli articoli, anche le lettere.

Basta!

Lo stesso periodico diocesano di Ales accoglie quegli scritti. A marzo del 1968: “Drammatico reportage di don Angelo Pittau”, e occhiello “Vietnam: Un viaggio allucinante nelle città distrutte dalla guerra”: «Rientro dal mio giro per le città più toccate dai bombardamenti americani e vietcong. Sono partito da Dalat per celebrare il Tét a Saigon. Con il Tét è arrivata la guerra dappertutto: dalle campagne alle città. “Le campagne soffocheranno il capitalismo delle città”: è un principio di Mao. Qualcosa di terribilmente valido anche in Vietnam. Eppure la strategia americana per adesso è quasi tutta concentrata nella difesa delle città. Questo mese di febbraio ha dimostrato che i vietcong vogliono, possono attaccare le città, possono prenderle e in parte tenerle sino alla distruzione totale di queste, senza che loro subiscano perdite eccessive con i bombardamenti a tappeto. Ho visitato Dalat, Bammethuot, Nha Trang, Pleiku, Kontum. Da Nant, Hué, dopo l’attacco incominciato il primo giorno dell’anno lunare alle tre di mattina…».

Un lungo articolo, cronaca e denuncia, cronaca di denuncia. Così la conclusione: «Ma tutto questo è la guerra. E’ la guerra che bisogna mettere in causa, non i singoli fatti di essa. Giustificarla come guerra di religione diventa osceno. Chiamarla guerra di liberazione quando indiscriminatamente porta ormai da dieci anni (per non dire da 25) la distruzione dappertutto è prostituire le parole. A pensare solo ad essa, a vivere in mezzo ad essa si resta schiacciati, ebeti. Non si ha più nessuna risposta, nessun parere. Un mandarino di Hué mi diceva: “I cani non pensano. Per favore quindi non mi chieda un parere”. Anche ritornare al passato per cercare chi ha ragione o torto non ha senso. L’unica parola che ha senso è: basta!».

A dicembre – l’anno è sempre il 1968 – Nuovo Cammino riceve un altro articolo dal Vietnam, meglio un “diario di viaggio” di don Angelo, e ne pubblica la seconda parte sotto il titolo “La terribile visione di Hué in un Vietnam senza pace”. L’occhiello rimanda al “desolato Paese”, un catenaccio rimanda a “Un Vescovo coraggioso che non vuole mescolare la religione con politica”.

«Sono su una jeep, il soldato americano guida velocissimo, l’altro tiene la mitraglia. Le distruzioni del tempo del Tét sono sempre presenti: nessuno ha riparato case e tombe alle porte di Hué… Una settimana fa Hué era sotto il tifone, i senza casa, i rifugiati hanno vissuto con l’acqua alla cintola per giorni, dappertutto si andava in barca, proprio il luogo dove ci sono più tende è stato allagato. Ad ogni modo i rifugiati di Hué hanno mangiato anche con il tifone, la Charitas ha pensato a tutti, è arrivata a tutti.

«Qui a Hué non si fa politica e quindi c’è anche poca corruzione. Il vescovo mons. Diem, fratello di Ngo Din Diem, prima era piccolo fratello di Gesù, faceva il taxista nel sud di Saigon. E’ stato lui a volere la pianificazione e la capillarità dell’aiuto della Charitas. E’ l’uomo della pacificazione dopo i moti dei buddisti contro i cattolici. Per il Tét la sua diocesi è stata la più toccata, la più distrutta, la più massacrata dai vietcong, oggi si parla di tremila eliminati tra Hué e dintorni…

«Vado ancora più a Nord, a Dong Ha, l’ultimo villaggio importante del Sud Vietnam. In elicottero sorvolo di nuovo Hué, il fiume, le chiese, la cittadella prima di puntare verso il Nord. L’elicottero vola assai basso, è sera… Dall’alto vedo le risaie, le tombe, i crateri delle bombe, gli accampamenti militari… Arrivo alla base di Camp Combat alle sei e mezzo. Il campo è in stato di allerta. Da poco ha ricevuto centoventi tiri di mortaio dal Nord Vietnam. La frontiera è a quattordici chilometri di strada, sette in linea d’aria… Intanto i cannoni della base hanno ripreso a tirare. Dove tirano non so… Tutta la notte è un continuo tuonare. Prima di dormire finisco il breviario: così si sono accorti che sono prete e mi danno le lenzuola!».

La vita va così in Vietnam. Lo stillicidio ora di paura ora di morte, i lutti sono orizzontali, tanto spesso non distinguono civili e militari. Qualche fonte un giorno azzarderà dei consuntivi, riferendo di un milione e più di morti nelle divise delle parti e di quattro milioni di morti qualsiasi, caduti nelle case, nelle strade, nelle scuole e negli ospedali, nella casualità ordinaria… Gli americani protettori dei sudisti anticomunisti forse hanno subito 60mila perdite umane, giovani di venti e trent’anni per il più, e qualcosa come 300mila i feriti e i mutilati. E quante altre centinaia di migliaia di disadattati permanenti nel rientro in patria.

Padre Dourn, un missionario francese del PIME che pure aveva donato la sua vita alla causa dei Montagnard, si dette la morte, consumato dalla fatica e dagli eccessi della violenza registrata, dopo aver rivestito «gli abiti di quel popolo minoritario». Anche padre Melis ebbe una sua crisi, e lasciò la Compagnia di Gesù. Don Angelo mette oggi anche loro fra le vittime della guerra ingiusta e li tiene sempre come campioni del Vangelo vissuto.

Le trattative di pace avviate, fra mille riserve mentali, fra infinite reciproche diffidenze, a Parigi nel 1969 – pochi mesi dopo l’assassinio in America di Martin Luther King e di Bob Kennedy ed anche a pochi mesi dall’elezione alla Casa Bianca di Richard Nixon – si svilupperanno lentamente, con avanzamenti e arretramenti e contraddizioni disperanti, fino al 1973. Gli americani lasceranno il Vietnam proprio quell’anno (salvo tornarci presto, s’è detto, con i prodotti della loro industria e l’imbroglio neocoloniale dei loro costumi modernisti), l’unificazione dei due Vietnam sarà formalizzato nel 1976, dopo che, nel 1975, i comunisti hanno stretto d’assedio e imposto la capitolazione a Saigon.

Capirne e pacificarne

Della guerra, dei suoi attori di prima fila – i soldati più esposti al rischio e candidati ad entrare nelle statistiche dei morti e dei mutilati – e di quelli, in schiere affollate anch’esse, degli alti comandi, quelli ad Hanoi quegli altri a Saigon o magari al Pentagono sancta sanctorum della Virginia, delle vittime civili, della popolazione tribolata e imprigionata a casa sua, delle posizioni leali e sleali degli uomini di Chiesa e di religione, buddisti compresi, dei territori violati drammaticamente dai bombardamenti e dal napalm… di tutto ha scritto infine don Angelo Pittau nel suo libro-reportage Vietnam: una pace difficile, che le Dehoniane di Bologna hanno pubblicato nella primavera 1969. Una bomba anch’essa. La pace, l’intelligenza della pace può essere una bomba anch’essa, virtuosa però. Ma perché bomba, anche essa fa vittime. Ed egli, l’autore del rapporto per l’universale conoscenza, è la prima vittima.

«… si era ciechi e conniventi a tutti i livelli, in Vietnam come in Occidente, in America. I timidi tentativi di denuncia in Vietnam erano soffocati dal terrore, in Occidente da una politica succube degli Stati Uniti, da una Chiesa che aveva perso la parresia. Le autorità vietnamite e americane fecero capire ai Gesuiti che dovevo andar via, subito. Non mi diedero tempo nemmeno di fare i bagagli, di salutare. Mi trovai catapultato in Thailandia in attesa di un aereo per l’Italia. Mi sentivo distrutto, sconfitto. In Thailandia i Padri che mi ospitavano e mons. Carretto fratello di Carlo Carretto mi portarono in ospedale, forse restai alcuni giorni in coma. Mi risvegliai o ripresi conoscenza mentre mi lavavano in una vasca da bagno. Non so cosa mi fosse successo. Lasciato l’ospedale restai alcuni giorni ancora a Bangkok e poi rientrai in Italia ma non per molto. Seppi che un gruppo di preti di varie regioni d’Italia volevano fare uno stage in Francia, a Lione con i Piccoli Fratelli del Vangelo e con i preti operai del Prado. Mi unii a loro, non mi sentivo pronto per rientrare in diocesi, mons. Tedde mi lasciò libero…». Questa la testimonianza rilasciata recentemente in occasione delle conversazioni preparatorie di Viaggiando Chiesa.

Ma di tanto, del tanto dirompente nella coscienza e nella mente, nel sentimento missionario della propria vita, è traccia ferma e clamorosa in una memoria scritta di cinquant’anni fa, fortunosamente recuperata dal suo autore (e, speriamo, di prossima pubblicazione). Importante perché documenta un passaggio centrale nella biografia umana e religiosa di un presbitero per tanti versi singolare, uscito non dallo stampo ma dalle sorprendenti congiunzioni di una certa pedagogia familiare e dell’esempio di un povero prete di nome Isidoro, nella microstoria cidrese, con il tratto universalista dei Piccoli Fratelli e l’impulso prepotente alla sperimentazione dell’“incanto sofferente” (o chiamalo pure della “sofferenza incantata”), fra lavoro e contemplazione, fatica e preghiera ora solitaria ora comunitaria. Così scriveva don Angelo ormai mezzo secolo fa: «Circa un anno fa, per gli amici, mi misi a scrivere quasi al termine della mia vita in Vietnam. Le mie parole suonarono dure, scrivevo da un mondo rifiutato, con verità così amare che alla fine un po’ tutti rifiutarono me e ciò che scrivevo. Solo la realtà amara del Vietnam mi dava ragione e le lettere, le numerose lettere che ricevevo dal Vietnam, mi dicevano che tutto continuava e continua come prima e che della verità avevo solo iniziato a sollevare il velo.

«Sollevarne il velo bastò per farmi buttare fuori, fare di me una vittima. E fu il pericolo di fare la vittima, di essere strumentalizzato e usato che mi portò nuovamente al silenzio; e fu la nausea, la noia, l’amarezza di ritrovare l’Italia e l’Europa uguale e peggiore, fu l’intuizione profonda che l’inserirmi subito, (diritto canonico alla mano) in diocesi, nel sistema era impossibile senza una involuzione del mio ricercare come uomo e come sacerdote. Tutto questo rese la necessità di ritirarmi, di sparire almeno per un certo tempo: ritirarmi e sparire dinanzi agli altri e a me stesso. Fu la necessità, (ero ferito non fisicamente ma nelle mie possibilità di sopportare, di credere, di sperare come del resto ogni vietnamita), di mettermi dinnanzi a Dio e di gridargli il perché. Magari come Giobbe, di rimproverarlo. Era anche la tentazione, (o il sogno, non lo so), di un deserto fisico e mentale dove l’alternarsi delle onde del mare si trasformavano in risacca, in desiderio di pace, di sogno, di rifugio.

«Non era l’atteggiamento della formula di prete-operaio a chiamarmi. Io non credo alle formule, era essere come “loro”, un desiderio di perdermi. Dopo l’esperienza vietnamita, mi ritirai a fare l’operaio, il manovale muratore in un ambiente forse così violento ed ingiusto come la guerra del Vietnam stessa: la mia possibilità di scoprire e di partecipare alla sofferenza e alla miseria dell’uomo acquistava dimensione mistica, di preghiera, di contemplazione...». 

Come pietra d’inciampo orgoglio sardo

Vien da pensare a quanto alimento abbia portato l’esperienza vietnamita in questi nuovi e, per tanti versi, sorprendenti inoltri, dapprima nel vecchio continente, poi in patria… Per portare, alla fine di tutto, la mondialità in Sardegna, e a Villacidro: così come, per tutt’altre strade, nella poetica di Giuseppe Dessì, dell’amato scrittore di Paese d’ombre e già de I passeri e de Il disertore, già di San Silvano e di Michele Boschino e di quant’altro nella biblioteca e nell’emeroteca dei cento, dei cinquecento titoli… (Varrà ricordare qui che il censimento delle unità costituenti l’epistolario in arrivo di Giuseppe Dessì conta diverse lettere di don Angelo Pittau dal Vietnam, da Dalat precisamente, dopo che dalla sardissima Tuili e prima di Grenay e Torino: datate 4 agosto e 7 ottobre 1967, 26 marzo, 5 maggio, 8 agosto, 14 novembre, 14 dicembre 1968, 4 marzo 1969…). 

Vietnam: una pace difficile: «Questo mio libro è politica, appassionata politica però. Un giorno scriverò altro sul Vietnam, forse un romanzo, dei racconti e soprattutto poesie. Le poesie che ho scritto adesso sono piuttosto grida di dolore che lancio in questa mia amara esperienza di semplice presenza, quelle che scriverò saranno sul vero Vietnam, quello di cui adesso non si parla più ma che esiste: le sue risaie, i suoi fiumi lenti, le giungle, le montagne e soprattutto i suoi uomini…».

La nota introduttiva dell’autore è datata marzo 1969, il libro esce nella collana “Il Regno attualità”, affiancata alle edizioni Dehoniane, nel maggio 1969. Ad agosto Nuovo Cammino ne accoglie, in un riquadro chiamato “Angelo Pittau. Vietnam: una pace difficile”, con la foto della copertina del libro e quella dell’autore in casacca militare, il testo. A seguire alcune righe di Gabriele Gherardi, vice responsabile de Il Regno, anch’esse di giusta presentazione.

Attraverso la testimonianza cento volte aggettivabile – umana e civile, intellettuale e religiosa, politica e letteraria – di don Pittau la Sardegna e l’Italia tutta, tutti quei mondi che con il nostro relazionavano – nazioni e continenti, parrocchie e università, partiti e governi – sono entrati nella corresponsabilità della pace, del dovere della pace da assicurare ad un popolo che fu dell’armonia. 




Fonte: Gianfranco Murtas
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