Meriterà esplorare un giorno occasioni e singolarità delle relazioni fra noi sardi e Trieste, la città di Svevo e Saba e dell’irlandese Joyce, la città di traffici e snodi culturali della middle Europa, la città anche che in questi giorni è purtroppo risalita negli spazi della cronaca dei giornali per la contestazione dei cosiddetti green pass da parte di numerosi suoi portuali (e sodali di controdottrina) e per il conseguente preoccupante aumento dei casi di contagio del covid.
Esse sono state svariate e distribuite nel tempo, legandosi ora alle celebrazioni patriottiche e militari in capo alla mitica Brigata Sassari – e un sito internet, particolarmente ricco di immagini, lo documenta al meglio –, ora alla visita che delegazioni triestine compirono a Cagliari alla fine degli anni ’50, ed ancora alle carriere professionali od accademiche di quegli alcuni che hanno lasciato il loro nome, mettiamola così, nei piedilista delle logge massoniche oppure negli albi del magistero medico e/o giuridico, come – per fare soltanto un nome – Salvatore Satta, rettore f.f. dell’università di Trieste nell’immediato secondo dopoguerra (1945-46) e del quale è bene qui ricordare la bellissima introduzione al libro di Silvio Benco Trieste e il suo diritto all’Italia, uscito nel 1952 per i tipi dell’editore bolognese Cappelli.
E al riguardo – o per connessione tematica, ancora riferita al nuorese Satta (della cui esperienza triestina molto è presente o molto ad essa si rimanda in diversi volumi anche di recente stampa o ristampa, come i monumentali Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, Cedam 1968 e Nuoro, Illisso 2004, o come Salvatore Satta. L’impegno civile di una vita, a cura di Ugo Collu, Nuoro, Il Maestrale 2018, o come La scrittura come riscatto. Introduzione a Salvatore Satta, autore ancora Ugo Collu, Cagliari, Edizioni della Torre 2002) – mi piace ricordare soprattutto due documenti: in Mia indissolubile compagna. Lettere a Laura Boschian 1938-1971, a cura di Angela Guiso, Nuoro, Illisso 2017 quanto è concentrato nelle pagine 289-295 e nel capitolo Res Gestae di Soliloqui e colloqui: “L’Università di Trieste nella luce delle libertà democratiche”. Discorso inaugurale dell’anno accademico 1945-46 che, riferendosi alla imminente nascita o rinascita della facoltà di Lettere, così si concludeva: «Amatela, o Triestini, e se mi è lecito formulare una esortazione, con l’autorità che mi proviene non dal mio effimero ufficio, ma dal perenne rimpianto che ho sempre avuto di non poter seguire le mie inclinazioni, non esitate a mandare i vostri figli migliori in questa facoltà, non misurate col danaro ciò che gli studi umani possono dare, fate che essi non siano negletto privilegio di pochi, ma il patrimonio comune del popolo, poiché in tal modo, e soltanto in tal modo, voi potrete affrettare l’avvento della vera, della santa, della liberatrice democrazia».
Satta, Ruju, i precedenti
Da Satta a Satta per il tramite di un altro nuorese che parte rilevante della sua vita ha trascorso a Trieste: penso a Salvatore Ruju, che nel capoluogo giuliano ha diretto a lungo l’istituto dei ciechi con l’annessa scuola media. Il circolo triestino dei sardi (Associazione Regionale dei Sardi in Friuli Venezia Giulia) lo ha portato a farsi apostolo di “sardità” nel territorio più nord-orientale dell’Italia offrendo alle onde di Nuova Radio Trieste e per un vasto pubblico – dico qui degli anni ’70 – varie pagine di vita isolana, quella vita filtrata dalla letteratura di Sebastiano Satta, di Grazia Deledda, di Giuseppe Dessì e, appunto, di Salvatore Satta, ma pagine anche scritte e illustrate da esperti ed operatori turistici, con l’obiettivo di incoraggiare viaggi e visite. Da quell’esperienza è venuto, anni addietro, un bel libro firmato appunto da Salvatore Ruju e prefato da Mario Ciusa Romagna, con gustose illustrazioni di Antonio Ruju e sponsorizzato dalla citata benemerita Associazione Regionale: Ritorno all’Isola, Cagliari, Edizioni Castello 1992.
L’ho detto: si potrebbe abbozzare un’agenda di repertorio delle relazioni centenarie fra Trieste e la Sardegna, fra Trieste e le maggiori città isolane, da Cagliari a Sassari. Si potrebbe arrivare tranquillamente a venti o trenta e più episodi degni ciascuno di essere riferito nei presupposti e nelle modalità, e frugando meglio si potrebbero raggiungere i cento o duecento titoli. Accenno soltanto a qualcuno che, senza speciali consultazioni, mi sono venuti in mente.
Nel giugno 1920 – a meno di due anni cioè dalla fine del conflitto mondiale – una memorabile mostra d’arte sarda e romana mostrò ai triestini che guardavano all’Isola con il sentimento loro trasmesso dalle fresche glorie della Brigata Sassari la valentia di un giovane artista bosano che allora cominciava a farsi conoscere anche nel continente: Melkiorre Melis pittore e incisore.
Furono particolarmente solenni le celebrazioni del marzo 1921 per l'annessione della Venezia Giulia alla madrepatria (corteo di associazioni e popolo a San Giusto e piazza della Unità). Il sindaco Bacaredda designò, quale rappresentante della città di Cagliari, il gen. Carlo Sanna.
Giusto un anno dopo, allestendosi a Trieste una fiera campionaria voluta per il rilancio del centro giuliano come crocevia di traffici continentali fra l’Europa del nord e quella del sud, fra l’Europa slava dell’oriente e quella latina dell’occidente, la Camera di Commercio di Cagliari diffuse un appello alle imprese sarde perché partecipassero in blocco alle esposizioni produttive, e qualche positiva risposta in effetti vi fu…
Alla fine degli anni ’50 – al 1958 e al 1959 per la precisione – si rimandano almeno due eventi. Il primo fu una conferenza su Trieste nel dopoguerra, così come descritta da Diego De Castro (autore anche, anni dopo, di Memorie di un novantenne: Trieste e l’Istria), docente all’università di Trieste: ne parlò Giovanni Gabrielli, al tempo giovane avvocato e professore di materie giuridiche (diritto civile) anch’egli universitario. Fu nella nostra sede degli Amici del libro e la conferenza accompagnò una mostra di pittrici del Triveneto – Trieste compresa, ma con Venezia mattatrice – organizzata a Cagliari dalla FIDAPA e replica, anzi risposta a quell'altra manifestazione di gran successo svoltasi a Venezia nell'estate 1949 dell'arte sarda pittorica e plastica.
Il secondo evento del periodo fu la visita che a Sassari, Alghero, Bosa e Cagliari compì una delegazione del Lions Club triestino (in rappresentanza anche dei Lions della Dalmazia e della Venezia Giulia), accompagnata dai consoci viennesi. Folclore (costumi e launeddas) e convivialità, ogni attenzione riservata agli ospiti dal sindaco Palomba e dall’assessore regionale Anselmo Contu. Dono triestino ai cagliaritani: una pietra del Carso con inciso il celebre motto della Brigata Sassari…
Sul piano sportivo pure si potrebbe dire molto: non mancarono mai al Cagliari i giocatori di origine istriana (come anche slavi e fra essi gli ungheresi furono una colonia!) - si pensi, fra i fiumani, ad Erminio Bercarich, a Rodolfo Blecich, a Felice Maligoj… sgambettanti con i nostri colori negli anni fra ’30 e ’50 – ma si pensi proprio anche ai triestini come Sergio Pison o come Carlo Redolfi nei primi anni ’50 e nei passaggi dalla C alla B… E in B finalmente Cagliari e Triestina poterono, dopo la svolta storica, incontrarsi e scontrarsi e incontrarsi ancora: entrambe le prime partite della serie furono vinte dai giuliani (1 a 0 e 3 a 1). Vinse quel campionato 1957-58 proprio la Triestina che s’affacciò in A mentre i rossoblù, finiti penultimi, si salvarono dalla retrocessione per l’intervenuto allargamento dei quadri…
Purtroppo retrocesse, dalla A alla B, l’anno dopo, la Triestina e fu allora l’occasione per il Cagliari di nuovamente confrontarsi con i fratelli avversari: i quali nuovamente si rivelarono superiori vincendo entrambe le partite per 1 a 0. Così nel campionato 1959-60… Né sarebbero mancate, anche dopo, le occasioni di divertito agonismo: ancora in B nel 1962-63 (con vittorie una per parte) e nel 1963-64 (due volte 0 a 0, e col Cagliari il debutto – a Trieste – di Gigi Riva pronto trascinatore per la A e, presto, per lo scudetto)…
Ma già a ridosso del cruciale evento dell’ottobre 1954 e nei mesi ad esso seguiti, molta Trieste era presente a Cagliari e molta Cagliari e molta Sardegna erano presenti a Trieste e in terra giuliana.
Ai primi del “fausto” mese, il nostro sindaco di allora Pietro Leo aveva indirizzato al suo omologo un messaggio d’accoglienza patriottica: «A Trieste, che dopo anni di ansiosa attesa, ritorna alla Patria il fraterno affettuoso saluto della Città di Cagliari»… Vacanza nelle scuole elementari, medie e superiori, capannelli nelle vie cittadine alla notizia diffusa dalla radio: dopo undici mesi di sospensione ecco il miracolo! Bandiere negli edifici pubblici, il tricolore esposto nei balconi del municipio di via Roma. E il gonfalone del capoluogo sardo portato in pellegrinaggio alle manifestazioni patriottiche del 4 novembre nella città di San Giusto: alfieri gli ex combattenti (della prima guerra mondiale, sassarini soprattutto) partiti numerosi – in un migliaio addirittura – dall’Isola con il piroscafo da Olbia a Civitavecchia e giunti a Trieste con un treno speciale mossosi dalla capitale. Nell’occasione un omaggio al sacrario di Redipuglia-Trincea dei Razzi e al monumento della Brigata Sassari.
Fra i partecipanti merita una citazione, perché guida insieme culturale e istituzionale, il professor Rodolfo Maran, docente al liceo Dettori e consigliere comunale monarchico, di origini triestine: quel Maran buon collaboratore della pagina culturale del giornale, che su L’Unione Sarda del 30 dicembre 1954 avrebbe recensito il libro del già citato Silvio Benco Trieste viva, appena stampato dall’editrice di Gherardo Casini.
Di rilievo l’ordine del giorno votato dal Consiglio della facoltà di medicina del nostro ateneo: «La Facoltà Medica dell’università di Cagliari, mentre saluta con appassionato sentimento le Genti Giulie che si ricongiungono nell’unità della Patria, e quelle che soffrono, in un sacrificio che è di tutto il Paese, auspica che al glorioso Ateneo Triestino, palladio di civiltà e di libertà, sia dato dal Governo immediato completamento colla instituzione della fondamentale Facoltà di Medicina e Chirurgia. Chiede alle Facoltà Mediche di tutti gli Atenei Italiani che vogliano associarsi con eguale voto alla richiesta, che la trasmettano al Governo ed all’Ateneo triestino, perché nella unanimità dell’appello la Città Giuliana senta la fraterna solidarietà della cultura italiana».
E nel mezzo? Il dono al sindaco triestino di un “bronzetto” nuragico ma lavorato su legno, opera dell’artigiano Lazzaro Salis, e nel mezzo anche l’incontro-scontro Cagliari-Trieste per il “campanile d’oro” (RAI, secondo programma radiofonico nel palinsesto all’ora di cena). E soltanto qualche mese dopo ecco una zigzagata visita in Sardegna, e in conclusione a Cagliari, di ben 53 maestri delle scuole elementari giuliane, ancora accompagnati dal professor Maran, con festoso congedo al Poetto…
Una fraternità ancora e già riaffermata dalla presenza a Cagliari, nel gennaio 1955, del gonfalone del Comune di Trieste: per partecipare alle feste programmate per il sesto anniversario della istituzione della Regione Autonoma della Sardegna. Scortato da un picchetto di vigili urbani, il gran labaro accolto in una sala municipale e collocato accanto a quello cagliaritano prima d’essere trasferito, con gli altri dei capoluoghi provinciali isolani, all’Auditorium di piazzetta Dettori per le cerimonie ufficiali. Comprensibile e universale commozione al discorso del prosindaco triestino tutto teso sul filo dell’ideale gemellaggio Cagliari-Trieste, Sardegna-Venezia Giulia ed all’offerta alla nostra rappresentanza regionale (e all’associazione del Fante “Carlo Sanna”) della bandiera rosso-alabardata di Trieste. Il sentimento è sincero, e di sincero sentimento pure si deve parlare per la visita alla tomba del professor Domenico Lovisato presso il monumentale di Bonaria.
Festa sarda e cagliaritana – festa di riflessione s’intende! e del pari commossa – quella vissuta pressoché in contemporanea proprio a Trieste, alle onoranze per il 37° anniversario della battaglia dei Tre Monti (giugno 1918). Eroismo sardo consumatosi in terra di Veneto vincentino… appena quattro mesi prima dell’entrata vittoriosa delle truppe italiane a Trieste.
Altre cerimonie si svolgeranno a Cagliari in occasione del raduno nazionale degli alpini fissato per il 4 novembre 1955… E il protagonismo triestino tornerà nell’Isola, con quello degli altri grandi nomi della gloriosa (e tragica tragicissima) epopea bellica tardorisorgimentale…
Quel libero muratore sardo che a Trieste istituì la Guardia Nazionale
Ho accennato qui ad alcuni episodi che m’era occorso di schedare a suo tempo, allorché anche mi occupai, nel quadro delle mie ricerche biografiche di un sardo – un militare e libero muratore sardo originario di Suelli – che con Trieste ebbe a che fare: dico del ten. col. Mario Frau Piras, gravemente ferito, decorato e imprigionato (a Mauthausen) fra i fuochi della grande guerra, scomparso nel luglio 1945. Ne raccontò – a proposito di Trieste – Mario Pintor, anch’egli al tempo combattente, in un articolo su L’Unione Sarda del 4 novembre 1954: «Cominciatisi a realizzare gli eventi che maturavano nell’autunno del 1918, egli riuscì a farsi trasferire in un campo di prigionieri ove potesse fare qualche cura alla mal ridotta gamba. Fu mandato a Theresienstadt [in Boemia, nella attuale Repubblica Ceca]. Quivi messosi d’accordo con alcuni altri ufficiali internati, fra cui era il sott. Giuseppe Pagano, di Parenzo, architettò un piano per evadere. Impossibile era il farlo con gallerie o con atti violenti contro le sentinelle. Pensò, allora, di uscire dal campo più o meno… legalmente. Si impadronì di lasciapassare e di ruolini di marcia austriaci, li falsificò, si camuffò coi suoi compagni in modo da non destar sospetti e con grande risolutezza mise in opera il piano. In breve giunse a Praga, a Vienna e da qui filò verso Trieste.
«Gli eventi erano in pieno svolgimento. Ma a Trieste, come suole avvenire quando vi è qualche intervallo di tempo fra il succedersi di occupazioni e di poteri, regnava una grave anarchia. Carcerati, anche per reati comuni, erano stati liberati dagli austriaci in ritirata, teppisti della peggior risma circolavano compiendo atti di violenza, rapinando, asportando oggetti d’arte, aggredendo cittadini.
«Il nostro conterraneo, che allora era capitano, non solo si mise subito a disposizione del Comitato di salute pubblica, ma, constatato che bisognava troncare energicamente quelle violenze, organizzò e improvvisò egli stesso una guardia nazionale. Questa, al suo comando e inquadrata dai suoi compagni, fu dapprima reclutata sul posto, poi fu accresciuta con i primi ex prigionieri che affluivano verso Trieste.
«Le nuove guardie dapprima eseguirono perlustrazioni a ronda, in pattuglioni, poi furono armati di mitragliatrici montate su camion e, in breve, portarono l’ordine nella città. Ciò sino a quando, dopo circa una settimana, e cioè il 4 novembre, le truppe italiane vi entrarono.
«Fu proprio Mario Frau, comandante improvvisato della “sua” guardia nazionale, ad andare incontro ai commilitoni e consegnare la città ai nostri soldati e con a capo il gen. Petitti di Roreto.
«Il duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia, quando seppe di quanto aveva compiuto Mario Frau volle di persona appuntare sul suo petto la medaglia d’argento al valore che s’aggiungeva agli altri segni di eroismo guadagnati nelle azioni antecedenti».
(Mi è caro riportare l’episodio che riguarda questo artiere della loggia cagliaritana intitolata a Sigismondo Arquer, alla quale egli – iniziato nella triestina Guglielmo Oberdan – giunse trentenne, per affiliazione, nel 1920, e dove fu promosso maestro l’anno successivo e al IV grado scozzese nel 1922. Né gli fu da meno il fratello Francesco, di poco più grande di lui, enotecnico capo reparto Coltivazione tabacchi, il quale, negli stessi anni, affrontò l’iniziazione nel Tempio di via Barcellona – dove il busto storico e prezioso di Giovanni Bovio dialogava con quelli di Garibaldi e Carducci – e fu dignitario di loggia anche nel secondo dopoguerra, raggiungendo il XXX grado scozzese e concludendo la sua vita massonica presso la Washington di Milano, città ove s’era trasferito ormai anziano).
Un riferimento a Trieste e al rapporto con quella magnifica città degna del rango di capitale mi pare utile riproporlo anche venendo o tornando a tempi più recenti, quelli detti della Rinascita. Valgano qui titolo, occhiello e sommario di una terza pagina de L’Unione Sarda del 30 giugno 1963, e la firma di Gianni Filippini: “La Sardegna e Trieste si incontrano su una fantastica strada di carta: in una grande iniziativa industriale nuovi accenti per vecchi legami” e “Visita alla Cartiera Timavo per un confronto con la Cartiera di Arbatax. Le dimensioni internazionali dell’iniziativa industriale. Centocinquanta sardi nel grande stabilimento seguono i corsi di qualificazione e presto torneranno nell’isola. Nelle cifre il volto più esatto del complesso”. Direi oggi: un’esperienza, un sogno, poi anche, per noi sardi che alla Rinascita (e anche ad Arbatax) avevamo creduto, una delusione. Ma qui pareva importante farne comunque menzione.
Nella storia con Oberdan e i nostri Lovisato ed Arbanasich
Nella storia specificamente cagliaritana (e invero anche e ancora sassarese, di capoluogo provinciale gemello) Trieste è entrata, ed è rimasta presenza ideale per lunghi anni attraverso la personalità di questo o quel protagonista della vita culturale e civile (civile e religiosa): si pensi a Domenico Lovisato, irredentista garibaldino originario di Isola d’Istria giunto in Sardegna, a Sassari, nel 1879 ed a Cagliari nel 1884, professore di geologia e mineralogia… Si pensi anche a Pietro Arbanasich, triestino pastore della chiesa evangelico-battista cagliaritana dal 1885 al 1903, fervente mazziniano e come tale impegnato, anche con pubblici discorsi, in innumerevoli manifestazioni di celebrazione e rivendicazione democratica e repubblicana (ne potei abbondantemente riferire in un mio lavoro ormai di trentacinque anni fa: L'Edera sui balconi. I repubblicani a Cagliari nell'età di Bacaredda).
Ma a dir di patria, di democrazia e di repubblica, le memorie allora più remote (e per chiudere il cerchio) riportano a Guglielmo Oberdan, che ogni 20 dicembre – data anniversaria del suo sacrificio per la causa italiana, data della sua impiccagione (nel 1882) – era commemorato a Cagliari (così come a Sassari) dalle minoranze mazziniane costituitesi talvolta in circolo od associazione. Al tempo dei governi liberali, dal trasformismo in poi fin verso la grande guerra…
I casi della famiglia Mikulicich-Crevato-Selvaggi-Galassi-Anedda
Volgendo adesso il pensiero ad Oberdan – salito 24enne sul patibolo per la causa italiana (e quante volte a Vienna e Innsbruck anche gli universitari alzarono il loro grido per la patria naturale!) – ed estendendolo, con il sentimento, alla storia complessiva dell’irredentismo, fino al sacrificio di Nazario Sauro che fu originario di Capodistria, insomma portando cuore e mente a luoghi e tempi che paiono lontani e sono invece vicinissimi, mi viene da indugiare alla porta di una storia familiare: una storia fuori dagli eroismi imposti da volontà e circostanze, una storia che associa anch’essa Cagliari e la Sardegna con Trieste e l’Istria tutta.
Mi è oltremodo necessario di evocare qui, pur soltanto per rapide immagini, le vicende di sardi fattisi istriani e meticciatisi con quei locali e da Pola, infine, nel 1945, a guerra appena finita, rientrati nell’Isola. Mi riferisco alla famiglia di Bruno Josto Anedda, amico mio indimenticato, giornalista repubblicano, biografo di Vittorio Angius e poi soprattutto di Giorgio Asproni, e scopritore dell’inedito monumentale Diario politico di quest’ultimo.
La storia vale per sé, naturalmente, ma vale anche per tutte le relazioni che ha accolto e riunito fra la superiore istanza ideale e politica e la correntezza ordinaria del vivere d’una famiglia qualsiasi, lavoratrice e generosa.
Nacque Pietro Anedda Cancedda nell’anno stesso della terza guerra d’indipendenza, quella che aveva portato il Veneto ma non le terre contermini al regno d’Italia ancora privo di Roma. La circostanza di calendario avrà forse seminato, nei passaggi mentali dei protagonisti sardi sardissimi, sensazioni o attese di qualche impasto patriottico. Tanto più che Pietro – uomo di idee radicali – aveva sposato, nel 1889, Repubblica-Libertà-Europa Galassi-Marchetti, giovanissima figlia di Pietro Galassi, il garibaldino romagnolo le cui spoglie riposano nel nostro monumentale di Bonaria.
Fu quello un matrimonio di breve, anzi brevissima e sfortunata durata, per la prematura scomparsa di Repubblica-Libertà-Europa. Andato a seconde nozze con Emma Sini-Vinci poté comunque, Pietro, donare al mondo sette figli in alcuni dei quali, e dei nipoti, quei sentimenti libertari e repubblicani trovarono fortunatamente ancora spazio, nonostante i disvalori della dittatura sciovinista, tronfia e guerrafondaia, nel frattempo affermatasi.
Il primogenito (classe 1908) fu Giulio che, formatosi elettricista, ancora adolescente s’imbarcò in sommergibili e incrociatori per concludere, quasi alla vigilia del secondo conflitto mondiale, alle scuole CREM di Pola. Qui egli fece famiglia a sua volta con Licia Micoli, anzi Mikulicich (dei croati di Buccari) Crevato: polese figlia di un irredentista italiano di Buje d’Istria e nipote di un volontario inquadrato come ufficiale nell’esercito italiano (ma col falso nome, e perciò ricercato dalla gendarmeria austriaca, di Selvaggi). Ed a Pola, con queste nobili ascendenze, vide la luce e crebbe fino ai tre anni il mio Bruno Josto, il primogenito della coppia.
Dopo Pola venne Taranto, nelle cui acque fu silurata dalla navy inglese la regia nave Cavour e dove trovò riparo – dopo una salvifica nuotata – Giulio Anedda che vi era imbarcato. E da Taranto ecco di nuovo la terra giuliana, ecco Trieste, qui dal 1941 al 1945.
A Trieste Bruno Josto frequentò le classi elementari ed assistette – bambino di otto-dieci anni – al disfacimento vero e proprio del fronte orientale. Fu la tragedia comune dei triestini e di tutti gli istriani. La famiglia, come innumerevoli altre, perse tutto e – profuga – raggiunse la Sardegna, ebbe riparo ad Isili, prese residenza a Cagliari.
Quel tanto di Risorgimento patrio, depurato di ogni vana retorica e colto nella sua pura valenza storica, quel tanto di travaglio postrisorgimentale e direi però anche quel tanto di confusione ideologica che il regime aveva recato reinventando i significati di italianità o di nazione, tutto entrò – come portato delle memorie familiari – nella formazione del giovane fattosi, nella Cagliari degli anni ’50, dettorino (allievo dell’allora giovane professor Antonio Romagnino) e, dopo molti anni trascorsi anche nelle frequentazioni parrocchiali e dell’Azione Cattolica, studioso del repubblicanesimo ed anche militante politico e dirigente del Partito Repubblicano Italiano, di quell’edera verde che era stato il simbolo della Giovane Europa: vitalmente sospeso sempre fra l’austerità della scuola mazziniana e la modernità azionista di Ugo La Malfa.
Crivicich-Crivelli, l’istriano fattosi romano fattosi sardo
Nel 1954, quando arrivò a Cagliari per dirigere L’Unione Sarda Fabio Maria Crivelli, giovanissimo ma già “collaudato” professionista, istriano di nascita, Trieste ebbe i suoi speciali spazi sulla nostra stampa, tanto più riferendosi al formale pieno suo ritorno alla piena giurisdizione italiana, pur a costi dolorosi per altre comunità italiane non distanti.
In un lungo lunghissimo articolo che postai il 31 dicembre 2013 nel sito di Fondazione Sardinia, ricordai diffusamente l’attenzione riservata all’evento dal quotidiano di Terrapieno, parzialmente placando quel certo senso di orfanato del direttore, che – lo ripeto - pur aveva perduto per sempre, nell’agrodolce circostanza diplomatica delle sistemazioni delle zone A e B, la sua Capodistria, la Capodistria della sua primissima infanzia… (Una curiosità: trasferendosi a Roma, alla fine degli anni ’20, i Crivelli – tali divenuti per imperio di fascismo dagli originari Crivicich – presero casa, di lì a breve, in un quartiere centrale denominato proprio Trieste, il quartiere che era lo stesso di Vittorio Gassman).
Nella rassegna delle pagine che corredano questo articolo ho cercato di dar la prova visiva di quella attenzione, di quella cura, di quella preoccupazione: e bisogna immaginarlo, il giovane direttore – allora 33enne – impegnato nelle titolazioni e nelle impaginazioni, tanto più quelle della prima pagina. Possono immaginarsi i suoi sentimenti, le sue emozioni di quei momenti. La speranza mai negatasi di migliori accomodamenti internazionali, di minori sacrifici per gli italiani dell’Istria, per i suoi conterranei… La piccola redazione de L’Unione – dieci redattori in tutto, compreso Franco Porru il vice, compreso l’“anziano” (che tale non era ma decano sì, cinquantenne) Antonio Ballero Pes, compresi i fratelli Fiori Peppino e Vittorino, compreso Antonio Cardia, compreso anche il fedele Mario Pintor… certo anche, giovanissimo correttore di bozze e poi cronista precario della giudiziaria (ma destinato a gran bell’avvenire) Gianni Filippini – lì, in quelle due stanzette della redazione, a condividerne gli stati d’animo.
Ricorrendo in questi giorni il dodicesimo anniversario della scomparsa dell’amico e maestro al quale tanto insondabile affetto mi legò, e la cui memoria mi rimane dentro assolutamente integra e preziosa e feconda, mi pare giusto riprendere quelle righe dandomene lo spunto un breve ma intenso testo a firma di Antonello Mascia, attuale presidente della sezione “Salvatore Ghirra” dell’Associazione Mazziniana Italiana di Cagliari, reso pubblico nei giorni scorsi e che qui appresso riporto. Ad esso faccio seguito, appunto, con quelle brevi pagine che ho stralciato dal cennato mio lunghissimo “Fabio Maria Crivelli: quel primo giorno isolano di sessant’anni fa. La coscienza civile di un liberal a sostegno di una difficile avventura professionale in Sardegna. Note ed osservazioni”.
Con una aggiunta, o promessa d’una ripresa: sul giornale del 22 ottobre 1954 uscirono due lettere indirizzate al direttore Crivelli e riferite espressamente a quanto da lui scritto nel dolente editoriale del 6 precedente (festa per Trieste ma lutto per Capodistria). Sotto il titolo “Nostalgia di Trieste” apparve un primo scritto della «vedova del Maggiore Riva decorato di medaglia d’argento e madre di Alberto Riva Villa Santa medaglia d’oro e d’argento»; e dopo questa lettera un’altra (in coda ad essa compare una firma che parrebbe Maria Maddau). Entrambi i contributi, pregni di sentimento morale, umano e patriottico, paiono la fotografia di una certa Italia, la migliore Italia, a cui quella di oggi dovrebbe potersi ispirare per un recupero di energie etico-civili nell’Europa pacificata e proiettata verso alti standard di progresso: «ero lontana dal pensare che dopo le sofferenze di tanti anni ci avrebbero restituito soltanto la città di Trieste, pur tanto cara al mio cuore… I bersaglieri d’Italia sono sbarcati a Trieste il 3 novembre 1918 ed ora pare che anche i Fanti piumati entrino per primi nella città e, per l’appunto sarà un battaglione dell’8° Bersaglieri, il reggimento nel quale il mio eroico figliolo ha immolato la sua giovine vita. Il mio animo sarà presente, fervidamente vibra per la gloriosa celebrazione ma nello stesso tempo è preso dal nostalgico pensiero per le terre perdute!»…
La seconda lettera: «Appassionata irredentista, mi rivedo vibrante d’entusiasmo fra le studentesse liceali in quell’officina di italianità ch’era il liceo di Pola, sempre presente a tutte le manifestazioni; mi rivedo metter da parte soldo a soldo, che ricevevo da mia madre per la merenda e per il tram, e rinunciando all’una e all’altro, consegnarli alla Lega Nazionale oppure acquistare di nascosto i libri italiani proibiti dal governo austriaco. Mi rivedo più tardi allo scoppio della guerra con la Serbia, nel ’14, evacuata Pola, rifugiata con i miei nella sua cara Capodistria, tra calle e callette, in piazza davanti la Loggia e palazzo Pretorio dove tutto parla di Venezia, il Duomo, dove più tardi sposavo il compagno della mia vita. Solo chi ha vissuto tra quella gente, può comprendere quanto sia profondo e radicato il sentimento d’italianità dell’Istria»…
Antonello Mascia: «Il ritorno di Trieste all’Italia»
Il 26 ottobre 1954 Trieste tornava all’Italia a seguito dell’applicazione del Memorandum di Londra del precedente 4 ottobre.
In proposito è necessario essere molto chiari: Trieste, come tutta l’Istria e Zara, non fu persa con il trattato di pace del 1947, ma nel 1943, quando il pseudo governo della RSI cedette quei territori, insieme alle provincie di Bolzano, Trento, Belluno, Udine e Gorizia al governo hitleriano.
La nostra partecipazione alla guerra come cobelligeranti degli alleati anglosassoni, così come impedì la divisione del paese in zone di occupazione (Germania) e l’assunzione del potere esecutivo con la redazione di un nuovo testo costituzionale da parte degli occupanti (Giappone), permise il recupero della maggior parte di quei territori, riuscendo a rintuzzare le pretese francesi sul confine occidentale (salvo una piccola rettifica) e a respingere le richieste austriache sull’ Alto Adige.
Meno fortuna si ebbe per quanto riguarda il confine orientale, anche se conservammo Gorizia e buona parte della Venezia Giulia, a prezzo della perdita molto dolorosa dell’Istria e di Zara.
Anche per Trieste fu evitata la consegna all’Jugoslavia, mediante la previsione dell’istituzione di un Territorio libero, che sarebbe dovuto essere amministrato da un governatore nominato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Lo scoppio della guerra fredda impedì che si procedesse in quel senso e, pertanto, si giunse al protrarsi della situazione di fatto venutasi a creare nel 1945, con Trieste e la cosiddetta zona A amministrata dagli anglosassoni, mentre il resto del territorio (cosiddetta zona B) continuò ad essere occupato dagli jugoslavi.
Viene spontanea una domanda: è sostenibile ritenere che un governo jugoslavo controllato dai cetnici (cioè dai monarchici) avrebbe assunto un atteggiamento diverso da quello tenuto da Tito?
La risposta, se si vuole essere onesti intellettualmente, non può essere che negativa; era difficile respingere le richieste di un paese vittorioso che si era liberato da solo dai tedeschi, mentre i francesi erano vittoriosi sulla carta e gli austriaci erano assurdi nella pretesa di essere considerati vittime e non complici di Hitler.
A noi non rimaneva che far proprie le parole di Luigi Einaudi nell’annunciare il suo voto favorevole al trattato di pace: piangiamo le Alpi violate, ma speriamo in una Europa unita senza confini, nella quale siano bandite le guerre.
Rimaneva, comunque, aperta la questione di Trieste per l’impasse sopradescritto, con Usa, Francia e Gran Bretagna che si esprimevano nel 1948 per il ritorno di tutto il territorio all’Italia.
Peraltro la rottura tra Stalin e Tito rafforzò la posizione della Jugoslavia, in quanto era interesse del blocco occidentale favorire l’allontanamento in questione, che significava l’impossibilità per le navi russe di utilizzare basi nell’ Adriatico e per le truppe sovietiche, che allora stazionavano anche in una parte dell’Austria, un maggior distanziamento dalla frontiera orientale italiana; per contro, però, per quanto riguardava il territorio di Trieste, si verificò un abbandono, da parte delle potenze occidentali, delle posizioni filo italiane per assumere un atteggiamento di sostanziale neutralità, tanto più che la Jugoslavia era già in possesso della zona B, possesso al quale difficilmente avrebbe rinunciato.
La morte di Stalin non cambiò la situazione, anzi, per quanto riguardava l’Italia, la peggiorò, perché ai tentativi dell’URSS post staliniana di riallacciare i rapporti con Tito corrispose una reazione in senso contrario da parte degli USA e della Gran Bretagna.
I velleitari atteggiamenti del governo Pella (il governo più a destra fino ad allora costituito nell’Italia repubblicana), avallati dai socialcomunisti e dalla destra fascista, finirono per sancire l’isolamento dell’Italia rispetto ai suoi alleati atlantici.
Si assistette a un rivaleggiare nell’oltranzismo nazionalistico della destra con l’estrema sinistra, con il famigerato Vidali, segretario del partito comunista triestino, che proclamava la volontà di opporsi con la forza all’eventuale ingresso delle truppe jugoslave nella zona; i comunisti dimenticavano di aver sostenuto nel 1945 l’ingresso della Venezia Giulia nella Jugoslavia come settima repubblica federata e poi di aver proposto lo scambio di Trieste con Gorizia.
Va notato che, a quanto si sa, le truppe inglesi avrebbero avuto l’ordine di non opporsi a tale eventualità e che la guarnigione americana, con ogni probabilità, si sarebbe comportata nello stesso modo; va, altresì, rilevato che se l’Italia, in tale ipotesi, avesse deciso di intervenire e si fosse scontrata militarmente con l’Jugoslavia, non avrebbe potuto invocare l’art. 5 del Patto Atlantico, in quanto Trieste non era parte del territorio nazionale e quindi non si poteva definire l’ingresso delle truppe jugoslave nella zona A un atto di aggressione nei nostri confronti.
Per assurdo le più razionali tra le forze politiche furono quelle che per le loro origini risorgimentali avrebbero avuto il diritto di alzare la voce (PRI e PLI), ma che, pur sostenendo in maniera decisa, e più sincera di altri, il diritto dei triestini di riunirsi alla madre patria, non perdevano di vista la necessità di mantenere intatto il quadro delle alleanze internazionali.
Si veda a tale proposito il diverbio alla Camera tra Pella e Pacciardi, con il primo che accusava l’esponente repubblicano di mancanza di dignità, accusa alla quale Pacciardi rispondeva, in linea con il suo carattere irruento, di essere in grado, lui, di dare, e non di ricevere, lezioni di dignità.
Finalmente la situazione veniva sbloccata con il Memorandum di Londra del 1954, adottando una soluzione, con la quale l’Italia rinunciava a un territorio che non era più suo (la zona B) e che gli jugoslavi non avrebbero mai lasciato, ma recuperava, invece, Trieste e la zona A, che, sino a quel momento, non erano ancora sue.
Si leggono con un misto di pietà e di indignazione gli interventi dei senatori della sinistra, accusanti i governi fino ad allora succedutisi di una politica rinunciataria, che avrebbe portato alla perdita della zona B, di Briga e Tenda, delle colonie (!), per essersi asserviti alle potenze occidentali e piangenti per qualche migliaio di italiani che avrebbero dovuto lasciare i pochi chilometri di terra consegnati alla Jugoslavia (loro che erano stati zitti di fronte al ben più massiccio esodo nell’immediato dopo guerra); solo l’intervento di Lussu, sia pure irrealistico, dimostrò un sincero amore patriottico.
Per amor di patria non commento gli interventi dell’estrema destra, cioè di quella parte politica erede di chi aveva portato il paese a quel disastro, che aveva avuto come conseguenza la perdita di terre che i governi liberali avevano ricongiunto alla nazione, al prezzo di seicentomila morti; senza il tradimento dei repubblichini ben altre carte si sarebbero potute giocare a Parigi nel 1947.
Il trattato di Osimo del 1975 trasformava la situazione di fatto in una di diritto e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ne prendeva atto, provvedendo a cancellare dal suo o.d.g. il punto riguardante la nomina del Governatore del Territorio.
In tal modo veniva a cessare la finzione di un territorio con due zone amministrate rispettivamente dall’ Italia e dall’ Jugoslavia.
La tesi che vorrebbe il Territorio libero di Trieste ancora esistente per una pretesa invalidità del trattato di Osimo non ha, a mio modesto parere, alcun fondamento giuridico, così come non la ha la contrapposta tesi, peraltro avallata, sia pure in modo indiretto, dalla Corte Costituzionale, che ritiene che la sovranità italiana sull’intero territorio non sia mai venuta a cessare, non essendo stati mai costituiti gli organi di governo dello stesso.
Ricordando Fabio Maria Crivelli e la sua «Trieste sì, ma Capodistria patria del cuore…»
Ancora la Venezia Giulia, ancora la Trieste materna, ancora Capodistria. Il 1954 (26 ottobre) è l’anno di svolta per Trieste, l’anno del suo ritorno all’Italia a seguito dell’accordo di Londra, anche però della cessione definitiva dell’Istria al comunismo di Tito. «Vola, colomba bianca, vola…», aveva profetato Bixio Cherubini già ormai da due anni, confidando nella saggezza della storia, e segnando di amor patrio il festival di Sanremo e la carriera della Pizzi. Crivelli e L’Unione Sarda seguono da presso, e in ottobre con mira quotidiana, lo sviluppo delle trattative e la gioia di tutt’Italia per il ritorno nei confini della sua giurisdizione della città di Guglielmo Oberdan, anzi Oberdank (quell’Oberdank celebrato a Cagliari dalle minoranze repubblicane, ogni anno, dal giorno del martirio fino al compimento della grande guerra: un trentennio e più!). Hanno nel contempo – Crivelli e L’Unione Sarda – parole forti, di fuoco e di dolore, per il rinunciatarismo governativo e politico in generale, a riguardo della sorte della penisola istriana.
Sì, bene per Trieste. Dalla primavera, in particolare, i titoli si fanno più frequenti (ne ho contati almeno novanta), più spesso in prima pagina e perfino in apertura, integrati dal fondo firmato o siglato – come sarà più spesso per un quarto di secolo – f.m.c. “Di nuovo confermata la spartizione del Territorio Libero di Trieste” (ed editoriale “L’asso nella manica”) il 18 maggio, “Continua l’altalena di notizie sulla soluzione del problema giuliano” il 18 luglio, “Soluzione a sorpresa per la questione di Trieste” il 5 agosto, “Da ieri il tricolore sventola su Trieste” il 6 ottobre, “Aerei e navi italiane a Trieste assieme alle truppe” il 24 dello stesso mese, e ancora “Stamane le nostre truppe entrano nella città di S. Giusto” ed “Einaudi e Scelba a Trieste per le manifestazioni del 4 novembre” il 26. Così per citarne qui appena alcuni.
Nel novero meritano di essere richiamati alcuni articoli in particolare. Martedì 26 ottobre, sotto il titolo “Torna l’Italia”, a firmare è il sindaco di Trieste Gianni Bartoli. Con questo distico non anodino, ma anzi di contenuto, chiaramente del direttore: «Quando, diciotto giorni or sono, vennero annunciati i termini dell’accordo di Londra in virtù dei quali Trieste tornava all’Italia e l’Istria passava definitivamente sotto il dominio di Tito, esprimemmo su queste colonne la nostra amarezza per una soluzione che a nostro parere rappresenta il triste bilancio di una lunga e ormai irrimediabile serie di errori.
«Oggi l’accordo di Londra va in attuazione; le truppe italiane tornano nella città di San Giusto, dopo undici anni. Nella solennità di questa ora – in cui gioia e dolore sono strettamente mescolati – ci pare che nessuno possa commentare l’evento meglio del Sindaco della città giuliana cara al cuore di tutti gli italiani. Siamo perciò lieti di pubblicare questo articolo che Gianni Bartoli ha scritto appositamente per il nostro Giornale».
Merita, in tale contesto, richiamare l’editoriale a firma piena Fabio Maria Crivelli di mercoledì 6 ottobre: “Con il cuore a Capodistria” (e varrà appena ricordarne anche un altro, con Capodistria nel titolo: “In barca da Capodistria e da Pirano incontro alla nave con bandiera italiana”, sulla terza pagina del 19 giugno ancora del 1954, a firma di Gustavo Taglia. Altri ne seguiranno, di articoli, negli anni avvenire oppure su L’Informatore, certamente giustificati dalla cronaca, ma è da pensare non meno curati dal sentimento). Intuibili i giudizi, dopo le analisi. Eccoli:
«Sia permesso a un italiano nato a Capodistria di non associarsi alle manifestazioni di giubilo con le quali il patrio Governo ha voluto festeggiare il definitivo distacco di gran parte della Venezia Giulia.
«Ma in quest’ora in cui Trieste cancella in un legittimo respiro di gioia otto anni di amara attesa, in quest’ora in cui un’Italia dimentica fa garrire al vento d’autunno tutte le sue bandiere, il nostro cuore torna all’Istria natia per un addio senza speranze, per un triste congedo ideale da una terra sulla quale da oggi cala, col permesso di tutto il mondo civile e dell’Italia democratica, la mano di un nuovo padrone.
«L’ora è troppo amara per discutere in termini strettamente politici l’accordo firmato ieri a Londra. C’è un proverbio molto usato dalla nostra gente che dice “tutti i nodi vengono al pettine”.
«Così è avvenuto per la Venezia Giulia. La firma che è stata ieri apposta ad un trattato che ci toglie, sotto un’ipocrita insegna di provvisorietà, Capodistria, Pirano, Parenzo, Fiume, Pola, e venti altre italianissime città, non è che il naturale epilogo di una lunga serie d’errori. Il tragico bilancio di otto anni di insipienza, di imprevidenza, di false illusioni, di calcoli sbagliati, di manovrette elettorali, di bassa astuzia, di dolce far niente. La storia e la politica non si fanno con i sentimenti, d’accordo. Ma è un fatto che tutte le carte che abbiamo avuto in mano nella lunga partita giocata con Belgrado sono state da noi buttate via nel più insipiente dei modi. Avevamo dalla nostra parte i diritti della storia e della geografia: in che modo abbiamo saputo prospettarli? Di fronte ad una propaganda jugoslava che spendeva miliardi per imbottire i crani degli inglesi e degli americani con le più stupefacenti menzogne, che cosa abbiamo saputo opporre? Basta, per rispondere, ricordare quei turisti anglosassoni che girando per Trieste e vedendo insegne totalmente italiane sui negozi chiedevano: “In che anno il fascismo ha italianizzato tutti i nomi?”.
«Avevamo dalla nostra il diritto della lingua; dalla costa fino a Lubiana si è sempre, da secoli, parlato veneto, cioè italiano. Ma che abbiamo fatto per dimostrarlo? Solo una volta si è osato chiedere timidamente un referendum: ma al pronto “no” di Tito ci siamo precipitosamente ritirati; ed era la nostra carta migliore, quella alla quale non avremmo dovuto rinunciare mai.
«Abbiamo avuto, specie negli ultimi anni, delle ottime chances politiche: di fronte alle pressioni cediste potevamo opporre i nostri sacrosanti diritti. Ci siamo invece sempre affrettati a dir di sì a Washington e a Londra accontentandoci delle elettoralistiche dichiarazioni alleate in cui Trieste era la grande, la massima concessione. Fin dal primo momento, in partenza, abbiamo rinunciato all’Istria, senza avere mai il coraggio di parlar della Venezia Giulia come di un tutto unico, come di un’unica grande regione italiana di fatto e di diritto.
«In quest’ora suona come una beffa la firma di quest’accordo che segue di sole quarantotto ore la fine di una conferenza in cui si sono gettate le basi di una nuova unità europea ricollocando la Germania sul piedistallo delle protagoniste. Nello stesso momento, cioè, la Germania viene proclamata pedina insostituibile per opporsi alla minaccia sovietica e terre italianissime vengono assegnate a Tito per punire noi di aver perso la guerra.
«Oh carta di San Francisco, che misera fine per i tuoi brandelli se essi servono ad accendere i falò per le milizie di Tito che bivaccano sull’Adriatico!
«Ma l’Italia fa garrire le sue bandiere, l’Italia manda i suoi bersaglieri credendo di poter riaccendere la stanca fiamma di trentacinque anni fa: dimenticando che allora Trieste significò anche Pola, anche Parenzo, anche Pisino, anche Isola, anche Capodistria. Oggi Trieste ritorna, ma è una città che dovrà vivere di carità governative, una città che dovrà vivere del pane altrui, come una grande mutilata.
«Ma tutto è buono in una Nazione dove per alcuni anni questo sarà un motivo di speculazione politica e per altri un pretesto per un giorno di vacanza. Per questo, ci sia permesso in questo giorno di fanfare e di discorsi dire sottovoce la nostra amarezza. Lasciate che il nostro cuore torni per un momento alla piazzetta veneziana di Capodistria dove siamo nati a pochi passi dalla casa di Nazario Sauro. Forse anche là ci sono ancora italiani, a guardare con occhi che non sanno più piangere altre bandiere svettanti nella fredda bora d’ottobre. Le bandiere con falce e martello del maresciallo Tito».
Mi sembra doverosa, a questo punto, una considerazione personale. Perché il sentimento (di cui, in tempi di barbarie valoriali, posso anche vantarmi) mi porta ad associare il dolore patriottico di Fabio Maria Crivelli fatto orfano della sua terra a quello cento volte gridato, quasi un secolo avanti, dal nostro Garibaldi per la perdita di Nizza, secondo il calcolo di Cavour che, s’era detto, analoga sorte ipotizzava per la Sardegna allora infatti combattivamente difesa da Mazzini e dai suoi, con Asproni fra i primi. La realpolitik contro il diritto nazionale, le logiche diplomatiche contro l’intangibile umano, il più personale dei vincoli di vita.
Potrebbe dirsi che la sciagura fascista, con quel che ne è venuto per l’asse con i burgundi e la guerra perduta, ed il protagonismo internazionale conquistato dopo il conflitto dalla dittatura comunista del maresciallo Tito hanno come riportato la storia italiana alle fatiche e alle contraddizioni del Risorgimento, alle partite politico-militari contro l’autocrazia austriaca e dopo al patto della Triplice alleanza, alle feroci quinte colonne dei regni e dei ducati sparsi nella penisola ed alle spicce e sanguinarie pacificazioni imposte dai reparti o da certa soldataglia pur in camicia rossa.
Sembra storia antichissima questa dell’Ottocento, e antica anche quella – pur a noi assai più vicina – della perdita subita e non negoziata dell’Istria. I trattati europei, dopo la felice caduta del comunismo e dopo anche le rovine delle tragiche guerre etnico-religiose della ex Jugoslavia post-titina, garantiscono oggi un quadro di amicizia fra governi e fra popolazioni: ma la buona novità non può risarcire la perdita che non è stata soltanto materiale ma morale, identitaria e culturale. Meriterebbero una lettura i bellissimi articoli dedicati da Fabio Maria Crivelli alle città della sua Istria rivisitate molti decenni dopo quella indicibile perdita. Eccone un richiamo almeno alle date di pubblicazione: “Sapore di nostalgia. Ricordando con rabbia Capodistria, piccola patria perduta” (3 dicembre 1985), “Di nuovo a casa. Nell’Istria che non ci appartiene più c’è ancora chi parla italiano” (5 dicembre 1985), “Fulvio Tomizza. L’istriano che parla europeo. Per capire le vicende di una terra tormentata sulla quale ha infierito la storia” (11 dicembre 1985), “Vegliani e Morovich, scrittori senza patria tra sogni e melanconie” (30 novembre 1988)…
Di più. In “Agenda aperta” – la rubrica domenicale che Crivelli aveva ottenuto di curare, nella terza pagina de L’Unione Sarda, a far data dalla prima settimana di pensionamento, nel gennaio 1977 –, sono relativamente frequenti, e sono comunque suggestive le rievocazioni della terra della prima infanzia, quella dei primi otto anni di vita e della prima socializzazione, quella dei confini in cui entravano anche, pur attraverso strade diverse, i genitori: Joseph-Bepi, nato a Budapest ma figlio di croato di Buje, e Maria-Mery, triestina di famiglia ormai trapiantata a Capodistria…
La Capodistria «flagellata dalla bora», la «vecchia casa» riscaldata «da un’asmatica stufa a carbone che forse contribuiva più alla crescita dei geloni che ad un efficace riscaldamento». I ricordi sono commossi: «Dalle finestre penetravano assieme agli spifferi i bagliori della neve illuminata dalla lune e il mondo aveva qualcosa di magico, di irreale, di indimenticabile». Così il 7 gennaio 1979, in “Agenda aperta”, il giornalista-scrittore richiama quadri teneri di memoria domestica.
Una visita compiuta nel giugno 1963 – cioè 34 anni dopo l’abbandono della città divenuta ormai slovena (Koper) – ha innescato, risvegliando immagini e ricordi sedimentati «in quella parte del nostro essere in cui chiudiamo i nostri sentimenti più nascosti» (e collegati «ai momenti fondamentali dell’esistenza: la nascita, i primi affetti, la scoperta del mondo attraverso gli occhi dell’infanzia») , le emozioni più vivide: «Nelle vie vecchie di Capodistria, nelle sue piazzette di stile veneziano, nel vialone delimitato da tigli e platani che dal Belvedere conduce al porto, in ogni angolo rimasto intatto come a sfidare i timidi tentativi di rinnovamento dei suoi nuovi abitatori, ritrovavo figure, suoni, odori che in qualche modo mi appartenevano: era come tornare alla culla, riannodare radici che si credevano estirpate, riaccostarsi a quell’unico angolo dell’immenso mondo in cui hai avuto solo momenti felici. Tutto attorno a me sembrava aver retto all’incalzare del tempo: perfino la casa in cui sono nato, all’inizio di via del Ginnasio, nella sua struttura ottocentesca stava ancora in piedi; le finestre con i doppi vetri continuavano guardare il fronteggiante palazzetto dei marchesi Gravisi oggi utilizzato come conservatorio: e infatti sulla via stretta, piena di ombra, continuavano a piovere le note di un pianoforte, un allievo ignaro accompagnava quel mio pellegrinaggio sentimentale con un notturno di Chopin. Varcato il portoncino della vecchia casa salivo in silenzio le scale umide in cui l’odore della muffa era ampiamente soverchiato da quello dell’orina di interminabili generazioni di gatti; col respiro corto del ladro che teme di essere sorpreso sostavo davanti alla porta chiusa del secondo piano: dietro quella porta ero nato, un mattina di gennaio di tanti, tanti anni fa, qui avevo mosso i primi incerti passi, atteso l’arrivo di San Nicolò con i suoi doni, visto il primo albero di Natale, scritto sui quaderni di prima le letterine dell’alfabeto, poi le sillabe, le parole, guardando nel cortiletto il cadere dei primi fiocchi di neve, qui ho fatto i miei primi sogni, ho letto i miei primi libri, ho ascoltato le fiabe che mia nonna raccontava attorno al fuoco del caminetto».
Scoraggiato dalle «voci straniere» udite oltre la porta, aveva lasciato: «Silenzioso, furtivo, ero risceso all’androne, poi sulla strada, mi accontentavo di guardare le finestre, sbarrate come le avevo viste l’ultima volta, partendo, in quel mattino di febbraio del 1929, nel pieno di un terribile inverno, verso quella Roma che ai miei occhi infantili appariva davvero all’altro capo del mondo.
«E poi ancora, lentamente muovendomi per altre strade, sulla Piazza del Brolo, alla Porta della Muta, nella caletta dei pescatori, tutte le cose intorno mi sembravano straordinariamente immutate, simili alla fotografia che per tanto tempo la memoria aveva trattenuto. E perfino il caffè della Loggia, accanto al Duomo, sembrava attendere, immutato, i suoi antichi frequentatori, “i siori” che ne erano soci fissi per gran parte della giornata. Ma quando mi ero seduto, unico cliente, l’illusione di nuovo era svanita: il cameriere croato dai lunghi baffi sbattendomi davanti la bibita chiesta in italiano mi aveva ricordato con un’occhiata in tralice che qui la lingua dei vecchi “occupatori” non è molto gradita. E così, guardando la piazzetta tanto simile ad un campiello veneziano, avevo potuto cogliere nella sua intera prospettiva il doloroso dualismo di questo luogo: la distanza inesorabile fra le cose (le pietre, i monumenti, le abitazioni, gli alberi) e la gente: immutate le prime, del tutto nuove, straniere, venute da altre regioni le persone, uomini, donne, vecchi che non pronunciano una parola d’italiano, che della storia di questa città conoscono quel poco che è stato loro detto dalla propaganda ufficiale quando li hanno portati qui dalle zone interne, dalla Serbia, dalla Bosnia, dal Montenegro»…
Nella rubrica del 14 agosto 1983, concludendo la cronaca di questo suo personale pellegrinaggio, scrive: «Fra pochi mesi saranno trent’anni da quel 1954 che ha visto l’assegnazione definitiva dell’Istria alla Jugoslavia. Settecentomila giuliani hanno pagato con infiniti drammi il rispetto d’un trattato di pace che essi continuano a considerare iniquo. Per me il ricordo di Capodistria, come questo che è scattato in treno sulla scia d’una parola, è solo la malinconica ricerca d’una infanzia che si immedesima con la perdita d’una città: la mia famiglia partendo per Roma nel ’29 ha trapiantato altrove le sue radici, non ha vissuto che da lontano, con sofferenza puramente morale, il passaggio della nostra vecchia terra al dominio di uno Stato straniero. Ed io, a mia volta, ho più tardi messo le radici in un’isola che è diventata la mia nuova piccola patria. Ciò non toglie che di tanto in tanto mi torni alla mente una frase che ho letto nella cappelletta di Semedella – in quel mio viaggio di vent’anni fa – incisa da un ignoto capodistriano il giorno della partenza, nel 1945, verso l’esilio: “Addio Capodistria, ti seppelliamo per sempre nel nostro cuore”».
In treno aveva udito un giovane triestino parlare delle sue vacanze istriane e citare anche Koper. «D’istinto mi ritrovo sulle labbra la correzione, sto per dire ad alta voce “ma che Koper, per noi italiani è Capodistria”, poi mi trattengo. Probabilmente lo sa anche lui, ma il nome slavo gli è rimasto in mente per averlo letto così sui depliant e sulle insegne, e del resto che differenza fa?”».
Alcune di queste pagine di memoria istriana – che è come dire dell’infanzia – rimbalzano felicemente in quelle più organiche di anni rubati, il bel libro di letteratura memorialistica che Crivelli ci ha lasciato. E v’è anche, si può dire, più che soltanto la traccia di un mondo morale e sentimentale che accarezzerà gli anni della vecchiaia domestica di Fabio, nelle pagine di un romanzo purtroppo incompiuto, ma non a tal punto da non meritare una stampa (sostenuta certamente da note di commento ed integrazione). Si tratta di Il Vaporetto per Capodistria con un incipit che dà il senso dell’avventura: «Stanotte ho nuovamente sognato di tornare a Capodistria»…
Così è, ma con particolarità tutte sue, anche il rimpianto agrodolce di Roma, sì la Roma scettica e frizzosa, trilussiana della seconda infanzia, non indifferente però alle sue glorie d’arte, pensiero e religione: la Roma genericamente popolare che sa delle grandi cose (dei classici latini, del papa e anche però di Garibaldi e Ciceruacchio), ora scaduta – l’articolo che scorro è datato 13 giugno 1988 e s’intitola “Com’è malinconica ‘Roma capoccia’ che scivola nel razzismo” – nell’aggressiva e greve intolleranza dei cattivi provinciali. Confida come gli abbia «fatto bene al cuore», perché in controtendenza rispetto alla fanatica insofferenza in espansione, l’immagine di una certa iniziativa «decisa ed organizzata dalla federazione giovanile del PCI» a Villa Borghese: «gioiose sequenze di bambini negri mescolati a coetanei bianchi in spensierati giochi sui prati sotto lo sguardo compiaciuto di folle di genitori sorridenti, i canti di fratellanza sotto il palco adorno di bandiere e cartelli privi di retorica, il sentimento reale di un’amicizia spontanea»… Un ritorno, pur segnato anche da rischi da non sottovalutare, alla dimensione di caput mundi, italiana e insieme internazionale per vocazione. Verrebbe proprio da dire, ripensando all’amato Risorgimento: città-patria anche degli stranieri d’ogni provenienza, che non sono né i tedeschi del 1943-44, né gli austro-ungarici imperiali di centosessanta anni fa, e neppure i francesi di Napoleone III che a Roma erano venuti per abbattere la repubblica e mandare a morte Goffredo Mameli, il ventunenne poeta mazziniano che nelle vene portava sangue cagliaritano…
Roma dopo Capodistria e prima di Cagliari, la maggior tappa – Cagliari e la Sardegna – di una vita lunga e importante, una vita buona spesa fra non poche sofferenze familiari. «Riprendo a raccontare di me mentre Danilo mi ascolta con attenzione, rievoco la mia lunga e all’inizio difficile scoperta di quella immensa città che era allora Roma per me, il mio graduale inserimento, gli anni del ginnasio, poi del liceo fino alla maturità conseguita nel 1939 quando ormai nella capitale ero completamente inserito tanto da perdere ogni accento del natio dialetto istriano e assorbire l’inflessione del romanesco che continuo a portarmi addosso…». Un passo di Il Vaporetto per Capodistria che ricorda come davvero quella nuova inflessione romanesca s’era come pietrificata in Fabio, a nulla bastando in compensazione quella tutta meravigliosamente sarda e cagliaritana dei figli…