Umanità e responsabilità pubblica, il chiaroscuro onesto e generoso di Armando Corona e Mario Giglio. Nel centenario della loro nascita (parte quarta)
di Gianfranco Murtas
Dopo averne ricostruito le vicende biografiche – attraversando la loro formazione, fra stato familiare e curriculum studiorum, i primi cimenti professionali e le affermazioni pubbliche nell’età più matura – ho cercato di dar conto della significatività che, tanto in Armando Corona quanto in Mario Giglio, abbia avuto l’esperienza massonica vissuta nell’intreccio di idealità e militanza associativa nella loggia.
Entrambi pervenuti – temporalmente prima Giglio, poi Corona – ai vertici della rete liberomuratoria isolana e quindi a rilevanti (e perfino apicali) incarichi nazionali ora nel Rito Scozzese Antico e Accettato ora nell’Ordine (come si definisce la Massoneria azzurra o simbolica, quella del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani), essi hanno investito il meglio delle loro energie, con passione e sacrificio e risultati, e certissimamente anche con errori come è nella nostra natura di umani fallibili, uno nella politica l’altro nel mondo bancario e creditizio.
Consigliere provinciale e regionale, per cinque e due anni rispettivamente anche assessore provinciale e assessore regionale, per un anno e mezzo presidente dell’Assemblea legislativa della Sardegna, a lungo segretario regionale del PRI e covicesegretario nazionale in costanza di presidenza del Consiglio dei ministri da parte di Giovanni Spadolini, ecco Corona nelle sue fatiche politiche, cui per qualche tempo ha accompagnato intraprese in campi diversi e tanto più nella spedalità privata. Invece funzionario del glorioso Banco di Napoli, poi suo dirigente in diverse fra le maggiori filiali isolane, passato nel 1976 alla Banca Popolare di Sassari, per sei anni come vice direttore generale quindi, dalla fine del 1982, come direttore generale, ecco Giglio uomo di mille risorse e anche, perché no? di contrasti (subiti più che promossi), carismatico e visionario ed insieme pragmatico: uomo di sviluppo in ogni settore, luogo e tempo d’impegno come avvenne, e come è ancora fresca memoria, per un lungo decennio proprio alla Popolare, così fino alla rottura di un certo punto di equilibrio che circostanze varie fra esse in coagulo hanno infine impedito di sanare.
In questa quarta parte del lungo testo offerto a Giornalia traendone lo spunto dal compimento “gemellare” del centenario della nascita di queste due importanti personalità della vita pubblica sarda del Novecento, il focus è interamente su Giglio banchiere operativo e sulla sua complessa umanità che, nella stagione ultima segnata dalla malattia, mostra dei recuperi insperati.
4.2 – Giglio e l’universo complicato e rischioso della Popolare, con la stampa da presso
Tegola giudiziaria. Lunedì 7 ottobre 1991 la Banca Popolare di Sassari apprende di essere stata commissariata, e il suo presidente Giuseppe Angius e il suo direttore generale Mario Giglio – entrambi Fratelli “storici” della Gio.Maria Angioy all’Oriente di Sassari – sanno di essere stati ex abrupto emarginati da una decisione della Vigilanza della Banca centrale. Decisione che era nell’aria, provocata e aizzata anche da lunghi e non savi contrasti fra l’ex presidente, il Fratello Vincenzo Simon, e lo stesso direttore generale. È una guerra triplamente in famiglia, per il vincolo di parentela dei contendenti, per il vincolo elettivo massonico, per il servizio promesso da entrambi alla Popolare, ai suoi azionisti e ai suoi clienti. Ma è anche una decisione che era parsa poter essere riassorbita dal jolly gettato sul tavolo all’improvviso con la chiamata del Fratello Corona ad amministratore delegato.
Una pur rapida rassegna stampa in cui molto si riflette della partecipazione conflittuale dei Fratelli e anche e soprattutto della comprensione (o non comprensione) del “fenomeno Massoneria” da parte dei giornalisti isolani può aiutare senz’altro a cogliere, nel suo sviluppo anche cronologico, l’evento. E sarà un evento disastroso sia per l’azienda bancaria che per una certa immagine della Fratellanza che, radicata nel pregiudizio di certa opinione pubblica, è parsa trovare conferma, nel peggio, dai fatti.
A tutto potrebbe premettersi una considerazione: che la ruvida sostanza del contrasto profano non riesce a trovare un tempestivo governo in una autorità morale terza. Non per intromettere l’Istituzione latomistica dentro le vicende e gli interessi di una impresa privata (ancorché di ampio coinvolgimento pubblico) ma per supportare i protagonisti del conflitto, con spirito di accompagnamento e non di direzione, a quella temperanza comunque necessaria anche nelle situazioni estreme di tensione od opposizione: tanto più quando in gioco entrano legittimi interessi che hanno il diritto d’esser tutelati nella loro integrità. Sarà tale mancanza di accompagnamento etico, in chiave sapientemente mediatoria, a spingere e rinchiudere i protagonisti nei limiti forzati, e devianti, della contingenza.
E peraltro, seppure questa stessa mia ricostruzione documentaria, su fonti peraltro in prevalenza note, pare condursi lungo il crinale che fu privilegiato dalla pubblicistica soprattutto regionale (in parte almeno, e purtroppo, semplificando eccessivamente e talvolta banalizzando) – intendo il crinale massonico – debbo ammettere che a quei canoni interpretativi non avrei potuto (né potrei) sottrarmi. Aggiungendo semmai, per l’utile degli accostamenti altrui, che dire di Massoneria sassarese è dire cosa complicata più che dire Massoneria sarda o italiana, sia per le radici che per gli sviluppi assolutamente peculiari, ed ogni schema interpretativo, se affacciato come frettoloso risolutore d’un qualsiasi enigma, cadrebbe presto nel nulla della inconsistenza.
Certo è comunque che il fattore “M” viene generalmente individuato dalla voce pubblica come causa o moltiplicatore di rivalità, tensioni e disastri. Ripeto: senza ragione, o con ragioni parziali e/o altre da quelle immaginate.
Così scrive La Nuova Sardegna martedì 2 aprile 1991 (“E alla Popolare lotta per il potere. Il duro scontro tra Simon e Giglio, fratelli separati”, firma Vindice Lecis): «Uno è vulcanico e irruento, l’altro calcolatore e prudente. Uno è nato e cresciuto respirando l’aria delle banche, l’altro è espressione di una certa alta borghesia sassarese. Tra Mario Giglio e Vincenzo Simon, rispettivamente direttore generale e presidente della Banca Popolare di Sassari, non è mai corso buon sangue ma ora la tregua armata è stata rotta. Da due anni erano in corso schermaglie di piccola entità oggi sfociate in una guerra totale che ha come obiettivo la conquista e la gestione del potere interno. Una sola cosa accomuna due personaggi così diversi per estrazione e indole: entrambi sono iscritti alla loggia massonica Giovanni Maria Angioy. Ma la guerra interna per il controllo della banca non ha però nulla di esoterico e di iniziatico: lo scenario è, almeno in apparenza, rigidamente aziendale. Il 28 aprile si terrà l’assemblea dei soci e gli schieramenti che si sono coagulati attorno ai duellanti stanno già rastrellando deleghe per garantirsi la vittoria finale.
«Mario Giglio, 70 anni l’8 aprile, è direttore generale dal dicembre dell’82. Proviene dal Banco di Napoli, del quale è stato vice direttore generale [recte: condirettore di sede]. Sotto la sua direzione la Popolare ha vissuto indubbiamente una stagione felice: da 200 a 2.000 miliardi di raccolta, da 100 a 1.100 miliardi di impieghi. I soci sono passati in una decina d’anni da 600 a 21.000. La banca si è segnalata per aggressività e dinamismo e Giglio l’ha pilotata attraverso una lunga serie di operazioni pubblicitarie e immobiliari: oggi la banca può vantare un patrimonio immobiliare di quasi 500 miliardi.
«Vincenzo Simon, eletto presidente da alcuni anni, rappresenta l’altro polo del potere interno alla Banca. Farmacista, ex imprenditore, ha una diversa concezione della gestione bancaria da quella di Giglio del quale non vede di buon occhio la presenza… ingombrante. Tra i due è nato un contenzioso che si concluderà il 28 maggio [recte: aprile], giorno dell’approvazione del bilancio. Ma il prologo di questo regolamento di conti avrà luogo venerdì 5 aprile. In sede di consiglio d’amministrazione i due schieramenti contrapposti metteranno in campo tutti gli argomenti necessari per una soluzione chirurgica: Simon proporrà il licenziamento di Giglio per limiti di età, ma questi esibirà un contratto che lo lega alla banca sino al 25 luglio. Per poterlo revocare Simon ha bisogno dei due terzi dei voti del consiglio, ma i rapporti di forza non sembrano in questo momento a suo favore. Il partito del presidente godrebbe dell’appoggio di Gianuario Salis, Daniele Troffa (che sembra oscillare tra i due gruppi), Virgilio Mura, Franco Stefana e Berto Balduzzi. Il gruppo vicino a Giglio sarebbe costituito da Giuseppe Angius, Leonardo Falchi, Giancarlo Noraschi, Antonio Cuccu, Remo Berardi, Alfonso Carlini ed Erasmo Meloni. Il 28 aprile scadrà il mandato di Carlini, Meloni, Salis e Stefana…
«Simon accuserebbe Giglio di gestione autocratica e di voler scavalcare i poteri del consiglio e del collegio sindacale. Il direttore generale sarebbe anche accusato di aver fatto trasferire alcuni funzionari vicini al presidente. A Giglio sono attribuiti alcuni passi falsi: in particolare la vicenda Contini, il funzionario al quale sono state attribuite tutte le responsabilità per le robuste minusvalenze registrate dopo il crollo della Borsa. Giglio non si limiterebbe a difendersi ma avrebbe messo in campo alcuni argomenti pesanti: accuserebbe Simon di voler prestare soldi alle imprese senza le necessarie garanzie, di aver affidato la gestione al collegio sindacale in luogo del consiglio di amministrazione, di aver garantito personalmente per altissimi fidi bancari e di voler riportar la banca ad un ruolo poco più che cittadino… Tra i “fratelli separati” Simon e Giglio la convivenza è già terminata».
Quasi 22mila soci, una massa amministrata quintuplicata in pochi anni, così sul versante dei depositi come su quello degli impieghi, acquisizioni importanti ma rovinose per il conto economico fra i servizi di tesoreria dei Comuni e delle USL ed ancor più fra le esattorie (proprio quando l’aggio diminuiva!), un contrasto troppo ardito e continuato al Banco di Sardegna. Una concentrazione eccessiva di Fratelli nei livelli di dirigenza, con la riduzione improvvida dei livelli di prudenza selettiva e concessioni sovente oltre il merito creditizio delle contropartite. Anche al gruppo Corona. Valga qui anticipare quanto scriveranno i commissari dopo aver passato al setaccio centinaia di posizioni e la cui relazione finale verrà diffusa fra gli organi di stampa. Qui sarà La Nuova Sardegna del 6 marzo 1994 a riferire (“Un fido? No, una mazzetta”):
«Le facilitazioni concesse alle varie aziende appaiono, nella quasi totalità, deliberate malgrado una insufficiente o spesso assente documentazione istruttoria. Si evidenzia – dicono i periti – una prona disponibilità a soddisfare ogni richiesta di facilitazione avanzata dal cliente senza neppure disporre di sufficienti concreti elementi conoscitivi e di merito che potessero consentire di rapportare coerentemente gli interventi creditizi a parametri di rischio e di durata degli stessi… Alla società Le Colonne srl con capitale sociale di 20 milioni venne accordato un fido in valuta estera di 13,3 miliardi. A questa società subentra Le Colline che si assume il ruolo di finanziaria del gruppo. Alla società I Fenicotteri vengono accordati fidi per complessivi due miliardi. Dai commissari le facilitazioni vengono ridotte a 200 milioni.
«Fido di un miliardo al Centro Commerciale Marconi srl, rimborsato all’indomani della gestione commissariale. Alla Cosas srl con 20 milioni di capitale versato viene accordata una facilitazione di un miliardo e mezzo per finanziamenti in valuta estera. Dicono i periti: unico elemento a sostegno di valutazioni di merito è il richiamo ai cospicui depositi del gruppo Corona (circa 15 miliardi) a fronte però di crediti della Banca per 25 miliardi. Sei mesi dopo la facilitazione viene elevata di 3 miliardi e nel mese successivo di altri 650 milioni con delibera d’urgenza del presidente della Banca. La gestione commissariale riduce a 50 milioni il complesso delle facilitazioni.
«Facilitazione di un miliardo alla società L’Acacia, fido di 100 milioni alla società Gestione Viaggi Sardegna. A proposito di quest’ultima operazione, pur esigua, si evidenzia che la società destinata al brokeraggio e ai lavori portuali, gestisce solo le imbarcazioni utilizzate dai Corona per il tempo libero. Nessuna operazione del gruppo ha subito sofferenze o ritardi di rientro».
Le contestazioni del Fratello-presidente Simon
Occorre fare un minimo di ordine sulle vicende in rapido succedersi (si ripete: per cogliere quanto di specifico interesse massonico si spalma in esse nelle rilevazioni della stampa). E merita forse da subito richiamare una intervista rilasciata dal presidente Simon alla vigilia della cruciale assemblea dei soci, pubblicata da La Nuova Sardegna sabato 27 aprile 1991 (“Gestione poco trasparente”). Ecco in rapida rassegna alcune delle dichiarazioni più significative rese al giornalista Vindice Lecis:
Perché lo scontro con il direttore generale Giglio? «La cessazione del rapporto di lavoro del dottor Giglio, le dimissioni del vice presidente Musio sono soltanto dei falsi problemi. Non è secondario ricordare le ispezioni della Banca d’Italia del 31 ottobre 1989 e del 6 febbraio 1990. L’ispezione ordinaria del 31 ottobre si concluse con un verbale letto davanti al consiglio di amministrazione che poneva l’accento sulla mancata risoluzione dei problemi legati alla informatizzazione interna. Si era sopperito a questo attraverso massicce assunzioni. La stessa acquisizione delle esattorie era stata effettuata con un’informatizzazione non eccessivamente approfondita. Inoltre già da quel periodo si cominciava a rilevare una scarsa redditività della banca. Nel 1989 la banca crea i cosiddetti budget previsionali che ogni tre mesi dovevano essere portati a conoscenza del consiglio. Nell’ottobre del 1990 vengo a sapere che la banca deteneva un milione e mezzo di azioni Fiat acquistate nel dicembre dell’anno prima, dopo l’ispezione di Bankitalia. Tutto ciò ha determinato una minusvalenza di 9 miliardi. Lo comunico al vice direttore Micheli che cade dalle nuvole. Non sapeva nulla. Qualche giorno dopo in consiglio di amministrazione Giglio informa che dopo una verifica risultano in portafoglio 44 miliardi di azioni a fronte di un massimo consentito di dieci miliardi. Di questi, cinque si potevano avere solo dietro espressa autorizzazione della direzione generale. La direzione finanziaria [in capo al Fratello Ludovico Contini] rispondeva direttamente al direttore. A fronte di 44 miliardi, al 31 ottobre il valore azionario era di 26 miliardi, con una minusvalenza di 17 miliardi… Nel febbraio 1991 troviamo che i 25 miliardi diventano 13 e non trovano accoglimento negli utili di bilancio. Comunque non chiudiamo in attivo. Si ricorre al riallineamento della partecipazione CIS e alla rivalutazione patrimoniale del valore immobiliare, utilizzando la cosiddetta legge Formica. Questo ci consente di assorbire i 14 miliardi di minusvalenze e avere un attivo di un miliardo. Pongo davanti al consiglio d’amministrazione questi problemi spinto anche dal fatto che la Banca d’Italia esige soluzioni ai problemi, ma… Il mese scorso scopriamo che la direzione finanziaria ha posto in essere l’operazione di “pronti contro termine”: per ogni deposito la banca deve versare come riserva obbligatoria il 25%. Noi non abbiamo denunciato questo. E nel marzo 1990 è venuto fuori un debito di 136 miliardi. Che salgono a 180 se arriviamo al marzo di quest’anno… Il collegio sindacale, con molta puntualità, ha ravvisato questa cifra e ha messo nell’avviso il consiglio. La bozza di bilancio per ben due volte è stata portata in consiglio e non approvata. Non c’era trasparenza e solo dal 26 marzo di quest’anno questi debiti sono stati posti in contabilità».
Altri problemi: «Il personale. Dal 1989 al ’90 la Popolare ha assunto 170 persone di cui ben 99 nel solo 1990. La Banca d’Italia lo ha segnalato: troppe assunzioni a scapito dell’informatizzazione. E la nostra società Numera privilegia invece il lavoro con terzi…».
Poi il licenziamento del direttore generale: «L’8 aprile 1986 Giglio compie 65 anni, ma si dimentica di informarne il consiglio nella riunione del marzo, l’ultima. Venne da me Giglio, a luglio, per dirmi: mi sono dimenticato dei miei 65 anni. Mi recai da Gino Satta, allora presidente, e convenimmo insieme che la banca non intendeva rinunciare a Giglio e che pertanto veniva riconfermato per un ulteriore periodo di cinque anni. Cinque anni dalla scadenza del rapporto di lavoro, non dal giorno che Giglio lo ha segnalato alla banca. Ecco perché il 5 aprile di quest’anno l’ho informato della cessazione del rapporto, fermo restando una possibile proroga».
Le contestazioni: «Nel 1989 manca la liquidità, il fondo rischi è inadeguato, la perdita del 1990 è molto seria, le società esattoriali in posizione anomala. Ecco perché ho posto i problemi al consiglio di amministrazione. La Banca d’Italia ha detto che dopo aver mangiato, per sedersi a tavola bisogna aver digerito… Per l’assemblea di domenica c’è stata un’incetta di deleghe. Il consiglio d’amministrazione cambierà. E continueremo nell’illegalità assurda e totale. Come posso allora non denunciare questo quando c’è stata un’espansione incoerente della banca in carenza di un adeguato finanziamento? Non ci si può espandere creando debiti. Questo e altro ho scritto nelle motivazioni delle dimissioni».
Riflessioni personali: «Sono 21 anni nel consiglio e questa banca rappresenta il 15% del risparmio sardo e il 17% degli impieghi sardi a clientela. L’ho fatta anch’io…». E a domanda «E del ruolo della massoneria in questa battaglia interna? Lei è massone come Giglio», risponde: «La mia è una scelta ideologica, morale, fatta trentacinque anni fa. Tutto qui. Ma è una grande falsità pensare a interventi del Grande Oriente».
Naturalmente la stampa regionale, soprattutto quella sassarese, La Nuova Sardegna e Sassari Sera (che gode tradizionalmente di molte pagine di pubblicità della banca), presenta l’argomento “Popolare” in pressoché tutti i suoi numeri fra 1990 e 1991. E non manca di sviolinare il più delle volte la partitura massonica nella spettacolare logica dei “Fratelli-coltelli”.
Ecco, piluccando qua e là dalle collezioni dei giornali, alcuni passaggi, zoomando infine sull’incarico rimasto poi senza effettività dell’ex Gran Maestro Corona in seno al Consiglio di Amministrazione.
I mesi del tormento Fratelli-Coltelli e delle illusioni
Giusto dieci giorni prima dell’assemblea-verità (e cioè giovedì 18 aprile) la Banca d’Italia invita a smetterla con le polemiche sopra le righe e ad unire le forze per correggere le anomalie che eventualmente si fossero riscontrate anche con le ispezioni interne. Una delegazione con presidente e vice del CdA (Simon e Troffa), presidente del Collegio sindacale (Cabella), direttore generale e vice (Giglio e Orombelli) viene ricevuta al secondo piano degli uffici di via Nazionale dal dirigente della Vigilanza Francesco Desario. Ma il suggerimento – ove mai sia stato davvero così formulato – resterà inascoltato. Quattro, cinque giorni e Simon formalizza le sue dimissioni in una riunione del Consiglio. «Un colpo di rasoio – scrive La Nuova Sardegna il 23 aprile (“Simon: ‘Ricorrerò ai giudici’”) – che allontana ogni prospettiva di accordo tra le parti e lascia presagire un periodo di instabilità per l’azienda di credito… Certo è che ieri sera, Simon, letta la sua dichiarazione, ha abbandonato la saletta delle riunioni. Quindi è uscito dalla sede della banca, in viale Mancini, dopo aver ritirato alcuni documenti dal suo ufficio. La riunione è stata interrotta per qualche minuto, poi è proseguita senza Simon, mentre anche il vice presidente Daniele Troffa dichiarava di voler lasciare l’incarico. A quel punto il direttore generale Mario Giglio, “dimissionato” il 10 aprile da Simon, ha abbandonato la riunione per rinchiudersi (ma solo per mezz’ora) nel suo ufficio al primo piano dell’edificio. Ha affermato di “essere preoccupato. La nostra banca è una cosa seria e appartiene alla Sardegna, è un patrimonio di tutta l’Isola che va salvato e tutelato”».
L’intreccio (abusivo o effettivo, e forse l’uno e l’altro a seconda del profilo considerato) fra Massoneria e Popolare ritorna nei servizi anche della grande stampa continentale. Ad esempio del Corriere della Sera, che il 24 aprile 1991 titola “È guerra per banche dentro la loggia” con occhiello “Massoneria. Due iscritti eccellenti si contendono la Popolare di Sassari” (firma Giorgio Meletti). Eccone alcuni stralci:
«I numi tutelari sono il Quirinale e il Grande Oriente d’Italia, cioè la massoneria. E scusate se è poco: in fondo la Popolare di Sassari non è nient’altro che la centoseiesima banca italiana. Eppure intorno a quei 1.600 miliardi scarsi di raccolta ordinaria si è consumata una guerra feroce. Due giorni fa il presidente Vincenzo Simon si è dimesso chiamando in causa la magistratura per gli eventuali “fatti di rilevanza penale”: il riferimento è al direttore generale Mario Giglio, suo grande avversario.
«Contrasti personali, dice la versione ufficiale. Ma in verità la spaccatura arriva dritta al cuore della massoneria, visto che entrambi i contendenti sono iscritti alla Giovanni Maria Angioy, la più antica loggia della Sardegna. E dietro le quinte sono schierati anche gli imprenditori e soprattutto i politici, desiderosi di mettere le mani su un feudo bancario che proprio Giglio ha sempre tenuto immune, fatto salvo un legame ancestrale con il correntone dc controllato dagli uomini di Francesco Cossiga…».
E più oltre: «Giglio gode di grande popolarità in tutta la Sardegna, perché gli si riconosce il merito di aver sottratto la Popolare a una dimensione provinciale per farne una realtà innovativa, arrivata ormai tra le prime venti popolari d’Italia, con sportelli in tutta l’isola più uno a Roma. Ma accanto alle capacità e ai risultati brillanti, molta della forza di Giglio deriva dall’autorevole militanza massonica: tanto che è generalmente considerato molto più potente di quanto non indichino le dimensioni della sua banca. È stato membro della Giunta esecutiva nazionale del Grande Oriente, e grande avversario di Licio Gelli, tanto che arrivò a qualche dissapore con il suo grande amico Armando Corona, cagliaritano, ex Gran Maestro della massoneria, a cui attribuì un atteggiamento troppo morbido verso il capo della loggia P2.
«D’altra parte la presenza massonica è una costante storica della vita pubblica in Sardegna. Cinque anni fa l’allora sindaco di Cagliari, il democristiano Paolo De Magistris denunciò pubblicamente interferenze occulte nell’aggiudicazione degli appalti e snocciolò una lista di politici locali fedeli al rito scozzese antico e accettato [in verità soltanto appartenenti alle logge simboliche]. Corona lo querelò. Ma due anni fa sono stati tre consiglieri comunali del Partito Sardo d’Azione a parlare di pressioni massoniche in difesa del pentapartito, provocando un’inchiesta della magistratura.
«A Sassari però anche i partiti hanno cercato di inserirsi nel singolare derby massonico al vertice della Popolare… Alla Popolare Giglio finora l’ha fatta franca, nonostante l’espansione anche sul mercato politico, dove la banca ha conquistato varie tesorerie ed esattorie (fra cui quelle di Nuoro e Sassari) un tempo monopolio del Banco di Sardegna e del Banco di Napoli. Ed è proprio al canto delle sirene partitocratiche che sembra aver dato ascolto Simon, uomo di provenienza socialdemocratica, da qualche tempo considerato in sintonia con il leader della sinistra socialista in Sardegna, il deputato nuorese Giovanni Nonne. Ma l’offensiva di Simon contro Giglio ha incontrato un baluardo invalicabile proprio nella massoneria sarda, ancora fedelissima a Corona, uomo che ama compiacersi pubblicamente della bravura dei fratelli banchieri. Così Giglio, che fu due anni fa grande elettore di Simon, sta già scegliendo il nuovo presidente: che sarà con tutta probabilità l’imprenditore sassarese Giuseppe Angius».
Tre giorni dopo, il 27 aprile, è il turno de laRepubblica: “La disfida di Sassari. Loggia in lotta alla Banca popolare” con occhiello “Domani la resa dei conti tra il presidente e il direttore generale” (firma Stefano Marroni). Ecco anche stavolta alcuni brevi stralci:
«Lo show down è fissato per domani. Palcoscenico la grande palestra alla periferia di Sassari che in città tutti chiamano la palestra-bunker dopo gli anni dei maxiprocessi all’Anonima sarda. Protagonisti le migliaia di soci che dovranno decidere le sorti della guerra esplosa al vertice della Banca Popolare di Sassari tra il presidente Cenzo Simon e il direttore generale Mario Giglio per il controllo del secondo istituto di credito dell’isola… In platea ci sarà tutta la Sardegna che conta: imprenditori, finanzieri, politici di prima e seconda fila. E soprattutto un personaggio notissimo anche fuori dell’isola: Armando Corona. Armandino per gli amici, capo riconosciuto della massoneria sarda ed ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Ad attirarlo a Sassari è il fatto che il conflitto alla Bps è anche una “guerra nella loggia”: la loggia Giovanni Maria Angioy di Cagliari [recte: Sassari] per la precisione, di cui sia Simon che Giglio sono iscritti eccellenti, come gran parte degli azionisti che pesano. Il direttore generale, raccontano a Sassari, è un “cappuccio” importante, uno dei pochi 33 che a suo tempo diede battaglia a fondo contro Licio Gelli: e fu proprio lui, qualche anno fa, a favorire l’ascesa di Simon – un farmacista sassarese legato ai socialdemocratici, e con un passato di imprenditore di pochi successi – al vertice dell’istituto. Poi l’intesa tra i due si è rotta e ogni mediazione è andata a vuoto».
E più avanti, dopo aver ricordato le vicende delle dimissioni date/non date e infine imposte: «Per Simon sta lavorando un cartello di imprenditori radicato nel sud dell’Isola e che a Sassari gravita attorno ai fratelli Salis “re del tondino” in Sardegna, e ai fedeli di Pietro Pigliaru, ex influentissimo assessore regionale socialdemocratico. Dall’altra parte c’è il grosso dei business men sassaresi, guidati dall’imprenditore edile Peppino Angius, anche lui massone, socio di prima fila della banca e candidato in pectore alla sostituzione di Simon. Ma all’opera sono anche gli uomini di Corona e pezzi importanti della Dc e della sinistra socialista…».
Il ricamo Massoneria-Popolare ritorna, né poteva essere diversamente, anche negli articoli de L’Unione Sarda. Il giorno fatidico, il 28 aprile cioè, il giornale titola “Caccia grossa di deleghe per il match alla Popolare” con occhiello “Battaglia nella Massoneria? No di Simon e Giglio” (firma Giacomo Mameli).
Raccoglie, il giornalista, una dichiarazione di Simon e poi sviluppa la sua analisi: «“La massoneria in questa storia non c’entra un bel niente. Sicurissimo”. Divisi su tutto, contendenti col “cappuccio e grembiulino” sono d’accordo solo nel dire che la più antica loggia della Sardegna, quella di rispettiva iscrizione, intitolata al rivoluzionario di Bono Giovanni Maria Angioy, non c’entra nulla in tutto questo bailamme. Eppure da ieri è a Sassari l’ex Gran Maestro di Palazzo Giustiniani Armandino Corona, medico ginecologo, titolare della condotta di Ales negli anni Sessanta, poi consigliere regionale repubblicano e presidente del Consiglio, considerato uno degli uomini più potenti della Sardegna. Mario Giglio, da sempre massone dichiarato, grande accusatore del piduista Licio Gelli, qualche giorno fa aveva detto: “Lasciatela da parte la massoneria, non ha nulla a che fare con questa storia. Il dottor Corona è uno dei più antichi soci e azionisti della banca”».
Non dissimile l’articolo che propone, lo stesso 28 aprile, La Nuova Sardegna: “La parola ai 21mila soci”, “Lo scontro finale tra Giglio e Simon” (firma Vindice Lecis). In mancanza di novità nella cronaca si insiste sul colore: «L’ex presidente Cenzo Simon, affiliato alla loggia massonica Angioy e vicino ai partiti laici, farmacista di professione, si è dimesso il 22 aprile dopo aver inviato l’8 aprile una lettera di licenziamento per raggiunti limiti di età al direttore generale Giglio. Simon ha messo sotto accusa l’intera politica dell’azienda di credito negli ultimi anni…
«Giglio (anch’egli massone) è uomo nato e cresciuto nelle banche contribuendo in maniera decisiva a far crescere la Popolare nei nove anni di direzione. E in questo arco di tempo ha avuto modo di rafforzare i propri legami con la struttura dell’azienda. E la banca oggi gli somiglia come una goccia d’acqua. La maggioranza dei consiglieri di amministrazione è disposta a seguirlo…».
La conta dei voti (verificati e registrati dal notaio Nanda Locci) porta infine alla vittoria del gruppo Giglio e alla elezione di nuovi consiglieri al posto dei dimissionari o scaduti. Il Consiglio così rinnovato elegge poi, come ampiamente previsto, il nuovo presidente nella persona di Giuseppe Angius. Scrive il corrispondente de L’Unione Sarda Gibi Puggioni: «Peppino Angius, 46 anni, è socio da quarantacinque anni. All’età di un anno infatti ricevette in dono le prime azioni della sua vita dal padre, un imprenditore di Villanova Monteleone…». Giacomo Mameli lo intervista, non prima di averlo ritratto: «Rotariano del club Sassari Nord e anche lui massone, della loggia Giovanni Maria Angioy…»: «La Banca Popolare è la più grande azienda privata della Sardegna in termini aziendali, di fatturato, di dipendenti… La banca crescerà, ne ha le forze, ha professionalità vere, punteremo sempre alla qualità nella politica del credito…».
Il nuovo assetto, pur in un quadro di permanente difficoltà, induce il vertice della banca a metter mano alla riorganizzazione interna (vengono chiamati alla vicedirezione generale Alessio Pilota e Aldo Meloni – rispettivamente già capo Area-sud e capo del Servizio Crediti e marketing –, entrambi di antica vicinanza a Giglio) e al rilancio di alcune relazioni vincenti come quella con il Comune di Sassari essendo sindaco Franco Borghetto. Ma è l’illusione di qualche mese. Ai primi di ottobre il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi dispone (sulla base dell’art. 57 della legge bancaria) il commissariamento della Popolare, sciogliendo gli organi sociali.
L’Unione Sarda dell’8 ottobre dà ovviamente grande spazio alla notizia e alle dichiarazioni del vertice aziendale (“Fulmini sulla Popolare”). Dice Giglio: «Avevo sollecitato io stesso l’indagine sul nostro istituto per fugare ogni ombra. E le mie attese non erano certe queste. Perciò ho rassegnato immediatamente le dimissioni: ritengo infatti le mie responsabilità almeno pari a quelle degli altri amministratori oggi decaduti. Speravamo ci lasciassero il tempo di rimediare agli errori e ai clamori degli ultimi tempi. Nel giro di un paio di mesi la Banca Popolare sarebbe tornata a godere di ottima salute. So che l’organo di vigilanza mal tollerava lo stillicidio di polemiche e denunce che hanno contraddistinto la vita della banca nell’ultimo anno. Ma evidentemente c’era chi aveva tutto l’interesse a continuare nell’azione di discredito. L’ultimo esposto indirizzato alla Banca d’Italia e alla Procura della Repubblica è di qualche giorno fa. Lo ha presentato un sindaco supplente, Natale Petretto, in relazione agli ultimi movimenti in seno al Consiglio d’amministrazione… La Banca è sana, i commissari preparati. Sono sicuro che non si fermerà il trend di crescita che era cominciato dopo l’assemblea dei soci dell’aprile scorso. Confido nel personale, nei clienti, nei soci… Se dovesse scomparire la raccolta e se la clientela reagisse in modo negativo, per la Banca non ci potrà essere altra alternativa che la cessione ad un altro istituto di credito. Ma mi auguro che questa ipotesi non si verifichi. Sono affezionato a questa banca come alla mia famiglia e ai miei figli. È frutto del mio lavoro e della mia passione anche il livello al quale è arrivata. Mi auguro che questa fatica non venga sprecata».
Parla anche Simon: «[Il commissariamento] non l’ho voluto io. Certo è che negli ultimi mesi qualcuno aveva preferito abbandonare il confronto per mortificare chi non era d’accordo su alcune scelte. Quanto è accaduto è anche frutto di questo atteggiamento… Il mio invito è di continuare a lavorare per e con questa banca, a restare soci, perché la Popolare possa riprendersi… Si è persa una occasione preziosa di ulteriore crescita e consolidamento della Banca. Solo la ragionevolezza di Giglio e di altri avrebbe potuto evitare tutto questo. Noi d’altronde chiedevano concordia e trasparenza negli atti e nei rapporti fra il consiglio d’amministrazione e il direttore generale. Non siamo stati ascoltati».
L’ipotesi svanita di Corona banchiere
Nel suo articolo uscito su Panorama il 20 ottobre 1991 (“La loggia ha fatto crac”), Bianca Stancanelli conclude così: «Raccolto l’appello a settembre, Corona, fama di prudente e sagace mediatore, entra in scena annunciando di voler diventare il plenipotenziario della banca e il suo ambasciatore nel mondo del credito sardo. Un esordio talmente rumoroso da allarmare i politici, soprattutto i dc. Neanche un mese dopo, zac, il commissariamento. Commenta Gabriele Satta, vicesindaco pds di Sassari. “Armandino Corona doveva parare i fulmini. Invece, forse, li ha attirati”».
La notizia dell’ingresso dell’ex Gran Maestro Corona nel CdA (unitamente al prof. Salvatore Loddo, docente di tecnica bancaria all’università di Pavia ed alla Bocconi) era stata data da la Repubblica del 10 settembre con un “Il massone Armando Corona nel cda Popolare di Sassari” e dalla collegata La Nuova Sardegna con un gran titolo in prima pagina: “Corona banchiere. Nel consiglio di amministrazione l’ex gran maestro della massoneria”. E all’interno: “Bps, ecco chi comanda. Il ruolo della massoneria diventa sempre più decisivo. Si rafforza la posizione di Giglio” (firma Vindice Lecis, mentre Alfredo Franchini sigla un breve ritratto del Venerabilissimo adesso emerito).
Ecco alcuni passaggi dell’articolo su sei colonne: «Quando Armando Corona entrò nella palestra bunker di via Pascoli dove si svolgeva l’assemblea dei soci della Banca Popolare di Sassari, venne accolto come un autentico Messia. L’ex Gran Maestro della Massoneria nel suo intervento difese a fondo la diversità della Banca “perché laica e non infeudata”, lanciò il guanto di sfida a non meglio identificati “nemici esterni che hanno già la penna in mano per firmare la successione di questa banca” e concluse con un’appassionata difesa dell’operato e del ruolo di Mario Giglio, il direttore generale della Bps impegnato in quei giorni d’aprile nella guerra con il presidente Cenzo Simon. Da allora sono trascorsi cinque mesi e Armandino Corona è ritornato sullo scenario della Popolare con il piglio del primattore. Grande elettore di Giglio, nume tutelare di Peppino Angius nominato in aprile presidente dell’azienda di credito (che prima dell’assemblea dei soci si recò in visita riservata sul colle del Quirinale), ora è stato cooptato consigliere di amministrazione insieme al prof. Salvatore Loddo… Sostituiscono i dimissionari Daniele Troffa e Berto Balduzzi, usciti recentemente di scena e uomini della nomenclatura di Simon.
«L’arrivo di Corona nei moderni uffici di viale Mancini non ha destato sorpresa. La Bps è da sempre diretta, a tutti i livelli, da affiliati a logge massoniche: fratello è il presidente, l’imprenditore edile Peppino Angius (come il suo predecessore Cenzo Simon), ma anche il direttore generale Mario Giglio. Insomma banca e loggia, conti correnti e Grande Oriente. Tuttavia non basta questa spiegazione. Armando Corona, che una recente indagine ha designato come l’uomo più potente della Sardegna, non si muove a caso e con l’ingresso nel consiglio di amministrazione ha voluto rilanciare, dopo un periodo di silenzio, il proprio ruolo nell’isola. Certo, non manca anche la volontà di sdebitarsi con Mario Giglio che lo aiutò, da componente della Giunta esecutiva del Grande Oriente, nella lunga guerra contro Licio Gelli e la P2. Ma non si tratta solo di questo. La Banca Popolare, benché le ultime vicende societarie e le dimissioni a catena ne abbiano appannato l’immagine, ha conquistato un posto di rilievo nell’isola: ventunomila soci, oltre 1.600 miliardi di raccolta e circa 1.000 di impieghi, un patrimonio valutato sui 200 miliardi e quasi ottocento dipendenti. La Bps controlla anche la società d’informatica Numera e la Tholos immobiliare.
«Ora, sull’ingresso di Corona nel consiglio d’amministrazione esistono diverse interpretazioni. La prima è politica. Sembra che l’attuale vertice della banca abbia risposto in questo modo alle offerte, più o meno discrete, che sono giunte da ambienti vicini alla sinistra democristiana sarda: l’elezione di Corona è un secco no alle proposte di avvicinamento e una brusca sterzata verso la massoneria. L’altra ipotesi, da confermare come la precedente, è più concreta: Corona sembra detenga a vario titolo circa il 27% delle azioni, alla richiesta di voler “rientrare” avrebbe ricevuto come controproposta l’ingresso nel consiglio di amministrazione. In questa situazione sembra comunque che la banca abbia voluto conseguire un duplice obiettivo: rafforzare il “direttorio” dell’azienda, trasformarlo sempre più in un organismo di salute pubblica monolitico per ristrutturare la banca e restituirle vitalità (in quest’ottica la nomina di Corona sembra essere un tonico per Mario Giglio); il secondo è la convinzione che l’ex Gran Maestro possa rilanciare la Banca, sfruttando i mille fili delle amicizie e dei rapporti politici ed economici. Insomma uno sponsor forte, tale da fare da scudo e, se necessario, da spada. I dirigenti della Popolare liquidano con fastidio la preoccupazione che ora la Bps possa essere definita semplicemente “la banca della loggia”, ma sanno che occorre uno sforzo notevole per consolidare le posizioni raggiunte».
L’indomani – mercoledì 11 – La Nuova Sardegna pubblica una lunga intervista (raccolta dallo stesso Franchini) proprio con Armando Corona che «spiega i motivi del suo ingresso nel Consiglio della Popolare». Titolo “Porterò la pace nella banca” e sottotitolo “Il ruolo della Massoneria? Inferiore rispetto alle correnti dei partiti”.
«Non c’è alcun motivo recondito – è la sua prima dichiarazione –, la banca ha per caratteristica la riservatezza. La Popolare era diventata un campo di battaglia di opposte fazioni ma soprattutto c’era un fluire di notizie. Ora non c’è alcuna battaglia in corso ma si tratta di rafforzare la pace. Il consiglio d’amministrazione ha ritenuto che io fossi la persona più idonea».
E il ruolo della Massoneria? «È una cantilena, con cognizione di causa dico che mai come in questo momento ci sono stati nella Popolare così pochi massoni. Io sono un imprenditore, un politico, un voler ridurre tutto a questo aspetto… In passato ho vissuto diversi momenti. E in America o in Inghilterra riconoscono che la mia presenza al Grande Oriente ha reso giustizia alla Massoneria… La Massoneria non si pone problemi di potere, è una cosa inventata. Nei partiti? I massoni non si coagulano mai anche perché sono tutti individualisti. E poi è proibito dalle norme: non possiamo aggregarci né per politica né per religione. Un fatto eclatante è la banca: i massoni c’erano ma litigavano sull’indirizzo da dare all’istituto… Le autorità monetarie non accettano che si facciano lotte intestine. Per cose del genere, è già successo in Umbria e in Calabria, due banche sono state commissariate. Noi avremmo finito per consegnarci alla gestione di altre banche».
Ma perché tante lotte? «Quando ci si innamora della stessa donna, tra i pretendenti avvengono litigi. In questo caso l’amore per la banca ha portato al formarsi di diverse fazioni all’interno della dirigenza, ognuna delle quali doveva portare la banca verso un suo sistema. Quando non c’è unità di intenti anche le grandi cose diventano piccole e viceversa… Si è parlato di perdite a proposito dell’acquisto di azioni ma questo è accaduto per tutte le banche. Solo che le altre sono state zitte. Ancora: tutte le banche hanno comprato esattorie che, a seguito della modifica delle leggi, non sono più quel grande guadagno. Ma sono problemi che riguardano tutte le banche che ora vogliono fare tutto e sbagliano. Coloro che non hanno capacità di superare il provincialismo finiscono per credere che la loro banca sia la peggiore».
Quale il suo compito? «Mi daranno probabilmente la rappresentanza esterna. Cercherò prima di tutto di avere un dialogo con le altre banche, primo fra tutti il Banco di Sardegna. Non si tratta di fare concorrenza, il punto è vedere che cosa si può fare per mettere i sardi nelle condizioni di fruire delle stesse condizioni… Quando ero presidente del Consiglio regionale venne a trovarmi Nerio Nesi della BNL. Gli feci presente che noi paghiamo anche tre punti in più e la risposta fu per lui appagante, per me stupefacente: per dare 20 miliardi a Milano fanno due operazioni, in Sardegna cinquanta. Cercherò di fare con le altre banche un discorso per venire incontro all’imprenditoria sarda. La Banca deve guadagnare il giusto e venire incontro ai bisogni della gente: deve tornare alle origini quando non era istituto di lucro… La nostra Regione, fino a quando ha avuto molta credibilità a Roma, non ha trovato difficoltà a piegare lo Stato alle esigenze della Sardegna. La divisione della classe politica porta a una riduzione di capacità di convincimento nei confronti dello Stato… Resto dell’opinione che il coagulo di tutte le forze politiche in Sardegna per almeno dieci anni, fino a che si supera la fase di strozzatura dell’economia, sia indispensabile. Ci stanno sottraendo tutti gli strumenti: quando le Partecipazioni Statali non rappresenteranno nulla, che cosa faremo? Se si vuole salvare la Sardegna lo Stato deve essere presente: ma questo devono dirlo tutti».
Per concludere in chiave di sua agenda personale: «Non mi ricandiderò. Ognuno si deve scegliere la sua trincea: io ho scelto la Sardegna».
E infine il 12 settembre, ancora La Nuova Sardegna: “Lunedì, il Corona-day. L’ex Gran maestro diventa amministratore delegato. Ora curerà le relazioni esterne” (firma Vindice Lecis). Eccone alcuni stralci:
«Era apparso chiaro a tutti che un uomo così potente e così collegato con il mondo politico e imprenditoriale nazionale, non si sarebbe rassegnato a fare la vita del pensionato. Sin dall’assemblea generale dei soci dello scorso aprile nel giorno del grande scontro con Simon, era apparso chiaro quanto fosse reale il peso politico e il carisma di Corona: frenetici applausi al suo ingresso in sala, affettuosi abbracci e strette di mano, delegati in fila per strappare un affettuoso buffetto e ottenere un cenno di benevolenza. E poi quell’intervento: breve, deciso, tagliente, capace di far pendere la bilancia dalla parte di Mario Giglio, da lui definito in una dichiarazione alla Nuova “uomo dalle palle quadrate” grazie alla battaglia comune contro l’infiltrazione piduista nella massoneria.
«Ma poteva Corona accontentarsi dell’onorifica carica di socio d’eccellenza della banca? Dopo cinque mesi, il Grande Mediatore ha chiesto il conto. Sempre per amore della mediazione, dello sviluppo dell’imprenditorialità locale e della Sardegna, almeno a quanto ha dichiarato nella sua prima intervista? … Lunedì dunque si ridisegna la nuova mappa del potere interno alla Bps. Che ruolo avrà il presidente Peppino Angius? Comanderà ancora lui insieme al vero costruttore della Popolare, cioè il direttore generale Mario Giglio, oppure Corona con la nomina ad amministratore delegato addetto alle relazioni esterne coordinerà anche la complessa macchina della banca? Le prime reazioni negli ambienti finanziari sardi, secondo l’Agenzia Italia, sono positive e improntate a interesse».
Questa la successione degli eventi documentata ad abundantiam dalla stampa regionale. La maggior nomina avrebbe dovuto essere ratificata dall’assemblea dei soci convocata per il 19 ottobre unitamente alla modifica dello statuto con la soppressione della norma che impediva l’elezione alla presidenza di un non sassarese. L’improvviso ed imprevisto commissariamento manda a monte ogni programma.
All’indomani dunque dell’arrivo dei commissari, L’Unione Sarda intervista anche il mancato amministratore delegato (“Tutti in attesa di quel che accadrà. Le tre ipotesi di Armando Corona”, 8 ottobre). Dice Corona: «Il commissariamento può dare esito a tre diverse soluzioni. Se la sofferenza della banca è recuperabile in tempi brevi, i commissari convocano l’assemblea ed eleggono il nuovo cda. Se l’esposizione è di difficile componimento viene chiesto l’intervento di un’altra banca la quale diventa l’azionista unico e consente l’autonomia della Popolare sotto la propria guida. Terza soluzione: la banca esterna interviene e assorbe totalmente la Popolare anche eliminandone il nome: incorporamento totale».
La soluzione più probabile? «Stando alle notizie in mio possesso (ma sottolineo che io non ho mai messo piede nel Consiglio d’amministrazione della Popolare poiché la mia accettazione era subordinata alla risposta della Banca d’Italia relativa ai verbali di ispezione dei mesi scorsi) la Banca Popolare avrebbe un’esposizione sopportabile, rendendo possibile la prima ipotesi… Circa cento miliardi sono stati spesi per l’acquisto delle tesorerie o esattorie nel momento in cui tale acquisizione era un affare praticato da tutte le banche. Disgrazia ha voluto che subito dopo è intervenuta una legge che ha reso l’affare meno lucroso. Comunque la vendita di tali esattorie potrebbe già sistemare buona parte del deficit. Il resto si potrebbe ricavare vendendo gli immobili acquisiti attraverso la società Tholos e con una più marcata gestione economica delle altre società… Nessun risparmiatore della Popolare corre alcun pericolo. Sia per lo stato di relativa salute della banca, sia perché il fondo interbancario ha proprio il compito di soddisfare e in ogni caso i risparmiatori… Dunque, un messaggio di assoluta tranquillità: non è interesse di nessuno uccidere una banca che ha oltre cento anni di vita e che è stata sempre a fianco dei sardi».
Naturalmente, all’indomani del provvedimento autoritativo della Vigilanza e per molti giorni e mesi ancora dopo, la stampa anche nazionale e quella specialistica (come Espansione, gennaio 1992) trattano l’argomento con approfondimenti di vario genere, interviste e testimonianze.
La tragica morte del Fratello Ludovico Contini
Mentre la vicenda della Popolare si svilupperà, lungo molti anni, per rapporti di organi commissariali e per atti di magistratura, una conseguenza umanamente dolorosa si avrà – e tristemente non rilevata altro che fra le “varie di cronaca” – con il suicidio di Ludovico Contini, già impiegato al Banco di Napoli, acquisito da Giglio alla sua ascesa all’ufficio leader della Popolare. Costretto alle dimissioni dalla banca, disperato, fragile forse più di quanto sarebbe potuto sembrare, chiude la partita con la vita, dopo giorni di irreperibilità. Vivrà una stagione lunga un decennio nello sconforto e in un isolamento cercato più che subito, poi – giusto a metà novembre del 2000 – lascerà il campo, pianto dai suoi cari.
Il caso del quale era stato protagonista aveva trovato largo spazio, più ancora del suo suicidio, sulla stampa. Eccone un esempio, questo dalle cronache de L’Unione Sarda del 23 novembre 1990 (“Alla Banca Popolare un errore da 20 miliardi”, “Operazione sballata sui titoli. Il funzionario sbaglia e la Popolare di Sassari perde venti miliardi”, firma Gibi Puggioni):
«Un organo di informazione confermava, seppure con molti condizionali, la storia di un funzionario che aveva provocato un buco di alcuni miliardi, rendendosi poi irreperibile. E in effetti un buco di venti miliardi esiste, dovuto però soltanto alle minusvalenze dei titoli azionari. Nel pomeriggio la reazione dell’istituto di credito, il direttore generale Mario Giglio smentiva la notizia, annunciava di aver dato incarico all’ufficio legale di sporgere querela nei confronti dell’organo di informazione e illustrava i termini esatti della vicenda.
«Il protagonista è Ludovico Contini, 38 anni, originario di Oristano, figlio di un alto magistrato, responsabile del servizio titoli della Banca Popolare. Un funzionario stimato per le sue capacità e la sua perfetta conoscenza del mercato azionario sul quale operava quotidianamente per acquistare titoli. Una forma di investimento che tutte le banche utilizzano per accrescere gli utili. Fino al periodo che ha preceduto la crisi nel Golfo la stabilità della Borsa aveva reso perfino scontati gli effetti di questo tipo di operazioni.
«La scelta fra l’altro cadeva soprattutto su titoli solidissimi, quindi almeno sulla carta al riparo da ogni sorpresa. In questa situazione Ludovico Contini ha sempre operato in modo diligente, nel pieno rispetto delle direttive dell’istituto. I problemi sarebbero sorti con alcune operazioni effettuate non in piena sintonia con le disposizioni che la Banca d’Italia impone per i movimenti azionari e senza l’attenzione necessaria per la crisi del Golfo. Sembra che Ludovico Contini avrebbe continuato ad acquistar titoli anche in periodi a rischio, trovandosi poi con azioni fortemente svalutate. Il danno ipotetico subito dalla Popolare dovrebbe aggirarsi intorno ai venti miliardi. “Ma potrebbe anche essere completamente annullato – ha precisato un funzionario dell’azienda di credito – nell’ipotesi di una soluzione della crisi nel Golfo, la Borsa trarrebbe immediati benefici, ritrovando quella stabilità perduta. A questo punto i titoli azionari in nostro possesso riacquisterebbero il valore originario annullando le attuali minusvalenze.
«Di fronte alle contestazioni dei responsabili della Banca, Ludovico Contini ha firmato la lettera di dimissioni. Amarezza in entrambe le parti per la stima di cui il funzionario godeva e per la mancanza di dolo nelle sue azioni. In sostanza a Ludovico Contini si contesta di aver agito in modo disinvolto e poco prudente seppure nell’intento di favorire l’attività della banca sul mercato azionario.
«In serata l’istituto di credito ha affidato ad un legale l’incarico di precisare con un comunicato i termini della vicenda. Dopo aver smentito categoricamente le notizie di un presunto ammanco, l’avvocato Giovanna Adriano ricorda che il funzionario ha presentato le dimissioni “a seguito di una minusvalenza legata all’andamento temporale dei titoli stessi”. Nella nota si precisa inoltre che “La banca grazie all’andamento dell’esercizio in corso e ai propri mezzi, è assolutamente in grado di assorbire qualunque conseguenza”. Il direttore generale Mario Giglio ha riferito sulla vicenda al rappresentante della Banca d’Italia».
Una lunga attesa di sviluppi e il senso di una solitudine totale. Il licenziamento, la crisi personale e anche nella relazione di loggia. Il fascicolo “ad nomen” registra, nell’autunno 1992, l’assonnamento.
Dieci anni di successi
Sino ai primissimi anni ’80, la Banca aveva, nell’immaginario dei soci, degli impiegati, della dirigenza, della stessa opinione civica che magari neppure si identificava per certo nello spettro della sua clientela, una dimensione provinciale, o forse addirittura soltanto cittadina: patrimonio sassarese, come patrimonio morale e sociale sassarese era sentita, press’a poco fino a quel tempo, La Nuova Sardegna (che dopo la vendita delle azioni da Satta Branca e compagni alla SIR di Rovelli, nel 1967, aveva cercato, con mille contraddizioni e mille cadute, di mantenere, nel tribolato decennio o quindicennio a seguire, quel suo radicamento, così come la Cavalcata, così come i Candelieri). Nei primi, o primissimi, anni ’80 il fallimento dell’impero SIR e il passaggio de La Nuova al gruppo Caracciolo, con la direzione Bianchi e degli altri dopo di lui, Statera soprattutto, aveva significato a Sassari quel che nel mondo avrebbe significato, qualche tempo dopo, la caduta del muro di Berlino e la caduta del comunismo pansovietico: il crollo delle certezze, l’approccio a una realtà nuova e impensata dalle generazioni susseguitesi lungo quasi un secolo. Anche la Popolare con Mario Giglio finalmente direttore generale smise di essere quel che si pensava, ed essa stessa pensava, dovesse essere la sua missione eterna: la banca di casa del capoluogo provinciale e di qualche maggior centro dell’entroterra, la banca sorella minore – eternamente minore – del Banco di Sardegna.
La visionarietà di Mario Giglio rompeva quegli schemi mentali, apriva al nuovo e al moderno. E d’altra parte, l’esser stato a lungo dirigente di rango di un istituto di credito cinque volte centenario come il Banco di Napoli – ancora il maggiore in Sardegna in quanto a numero degli sportelli fra le banche nazionali e con presenze e proiezioni nei continenti del mondo – evidentemente qualcosa doveva contare nella sua cultura economica e d’azienda, o chiamala esperienza mentale nella fabbrica del nuovo per fronteggiare una concorrenza mobile, creativa e sempre agguerrita.
La direzione generale della Popolare in Mario Giglio era concepita come il motore di una avventura importante per la Sardegna, non soltanto per Sassari o la sua provincia. In questa sua sensibilità egli si staccava da molti dei suoi – o dei suoi nuovi, ché allora era da sei anni soltanto nella famiglia della Bps – e per realizzare in tempi brevi, come le sollecitazioni del mercato imponevano, i suoi obiettivi di espansione territoriale, oltreché dei volumi intermediati (e magari degli utili di bilancio), trasformò gli assetti organizzativi interni.
Alcuni comparti del tipico lavoro bancario – Titoli, Estero, Credito agrario – fino ad allora pressoché estranei alla Bps furono assunti nella operatività della rete e per realizzare risultato, mancando i tempi di una specifica professionalizzazione delle risorse interne che necessiterebbero di gradualità, ecco il direttore generale (e convinto da lui ovviamente il Consiglio d’Amministrazione) acquisire da altre banche funzionari formati e di esperienza a tutta prova. Ne prende dal Banco di Napoli – la realtà che meglio conosce –, ne prende dalla BNL e così dalla Comit, perfino dal Banco di Sardegna. Si presenta così sulla scena bancario/creditizia dell’Isola nel 1983 e nel 1984… protagonista fra protagonisti, senza complessi di inferiorità verso alcuno. Lancia una campagna di acquisizioni delle tesorerie comunali e delle UUSSLL (al tempo in numero di 22 in tutta la regione), otterrà anche il deposito di cospicui fondi regionali che sempre hanno invece privilegiato, per convenienze politiche, il Banco di Sardegna e perfino la Banca Nazionale del Lavoro. Procede anche ad acquisire, certamente con passaggi onerosi sul bilancio, ma nella certezza di pronti recuperi perché esse hanno fino ad allora costituito una eccellente fonte di ricavi, diverse esattorie, come quelle di Cagliari e di Oristano o quella stessa di Sassari da tempo immemorabile gestita dagli Accardo. Sarà la nuova legislazione regolatrice della materia a rovinare ogni cosa: all’improvviso l’aggio è ridotto a nulla, la banca paga la novità… Di più: la ringhiosa ostilità del Banco di Sardegna ha costretto, nell’asta di acquisizione, ad esborsi sempre maggiori e quasi abnormi, mentre un pool ispirato ad un saggio e costruttivo gentlemen agreement – non foss’altro che per la comune regionalità –, ben avrebbe potuto evitare il salasso… Senza dire che, essendo ormai da un triennio in regime di prorogatio, le esattorie a gestione privata si sono astenute da qualsiasi investimento nell’informatizzazione delle procedure contabili, il che ha comportato un carico ulteriore e straordinario della Bps che alla materiale gestione del comparto ha dovuto destinare, sottraendole ad altra incombenza, il fiore delle sue competenze tecniche…
Ma intanto si è dato corpo, con la Tholos spa, a una compagnia fatta titolare del cospicuo patrimonio immobiliare della banca, mentre a Numera viene affidata la informatizzazione dei servizi. Si tratta di una società di tecnologia avanzata, che soltanto dopo, e in modo o misura forse impropri, avrà concorrenza da una controllata (il Crene) allestita, per giusta risposta, dal Banco diretto da Angelo Giagu De Martini: per intanto risponde in termini di sorprendente efficienza alle pressanti richieste della Banca d’Italia circa la informatizzazione dei dati.
Ma ad allargare l’inserimento della Bps in settori sia del risparmio che dell’investimento, implementando progressivamente la sua quota di mercato, è la circolarità di rete che consente alla clientela di valersi di qualsiasi sportello per le sue occorrenze fuori piazza, così come lo sono i servizi e prodotti che costituiscono, nell’utile della clientela – quella privata retail e quella d’impresa –, sempre nuove opportunità transattive. A sostenere questa espansione a getto continuo è, in misura rilevante, anche l’apertura di nuove dipendenze. Sono addirittura una quindicina quelle che, nell’arco di un lustro appena, vengono inaugurate nel centro-sud dell’Isola, e questo significa che la banca provinciale o cittadina/turritana vuole farsi regionale per davvero: ché filiali si aprono in centri importanti come Carbonia ed Iglesias nell’area mineraria, come Serramanna e Sanluri nel cuore del Campidano, come Muravera e Villasimius nel Sarrabus-Gerrei, come Selargius, Quartu ed Assemini nella cintura cagliaritana, e ancora a Sant’Antioco e nel capoluogo stesso, con la nuova prestigiosa sede centrale a un passo dagli uffici della Regione ed in rinforzo nei quartieri di maggiore espansione edilizia e demografica.
La stessa carta della celerità nelle concessioni di fido, favorita dall’articolazione delle autonomie deliberative nelle Aree nord (Sassari) e sud (Cagliari) – articolazione che parla anch’essa di regionalità e non più di confini provinciali – è una carta che vale risultato. Come a valere risultato è lo spirito di corpo che anche le conventions organizzate periodicamente calano nel personale, gratificato da riconoscimenti non più paternalistici ma di puro merito.
Un sogno. Un progetto che avrebbe richiesto più tempo per dare, oltre ai numerosi risultati già rilevati, il conforto negli utili purtroppo colpiti quasi a morte dall’affare esattorie… E forse non soltanto l’affare esattorie: in ipotesi anche certo resistente municipalismo, la paura di taluno della vecchia guardia, di una… sassareseria diluita di troppo in una sostanza regionale ad accresciuta influenza cagliaritana.
Gli anni amari del dopo Popolare, le memorie nelle carte
Il commissariamento della banca, le inchieste giudiziarie, anche le perquisizioni domestiche, e i processi. Sono, per Mario Giglio, anni di duri ripensamenti, di riflessione severa e amara, anche autocritica e insieme però consapevole della carica oblativa da lui messa in ogni azione di responsabilità privata e pubblica, professionale ed associativa, di cui si sia fatto portatore, talvolta compreso, altre volte no. Tornano anche alla sua memoria – è facile immaginarlo, e mi è facile immaginarlo perché, donando al mio Archivio generale della storia della Massoneria sarda molte carte del suo personale ufficio di Alto Dignitario del GOI e del Rito Scozzese, di ogni fascicolo affacciava un rapido inquadramento –, tornano alla sua memoria le infinite scene di una militanza liberomuratoria forse senza eguali, in Sardegna, per la pregnanza delle relazioni. Valgono esse a temperare la sofferenza per la malasorte della banca.
Ne potrei ricalcare io stesso i passi, che altri poi – buon testimone anch’esso dei medesimi eventi – mi ha, allora e successivamente, aiutato a meglio collocare nel tempo e nei luoghi. Come nel 1969-70, quando il Collegio circoscrizionale dei giustinianei sardi organizzò fra Sassari e Cagliari e Carbonia delle plenarie in vista del rinnovo delle supreme Dignità dell’Ordine. Si chiudeva l’era Gamberini – del Gran Maestro che era chimico per professione e vescovo gnostico nel riposo spirituale, fra i traduttori e curatori della Bibbia “concordata” fra esegeti e studiosi di scuola cattolica, riformata, bizantina ed ebraica – e si apriva quella di Lino Salvini, il professore d’università fiorentino, socialista di tessera, che avrebbe sdoganato ancor più l’accredito massonico nei circoli di cultura civile dell’Italia, riunito al GOI una parte rilevante dei neoferani, ottenuto il riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra (e infine purtroppo anche ceduto alle improprie pressioni di Licio Gelli).
Era una stagione, quella a cavallo fra 1969 e 1970, che sulla scena politica nazionale registrava l’insuccesso della unificazione socialista, le tribolazioni governative e il travaglio sociale e sindacale che si sarebbe ribattezzato come epocale “autunno caldo”, quindi i rigurgiti neofascisti in Calabria e altrove. Così dopo e ancora nel mezzo delle tensioni della contestazione giovanile e universitaria. E nello stretto regionale sardo – mentre s’approssimava la storica visita di Paolo VI a Cagliari e, con essa, l’altrettanto storico scudetto dei rossoblù di Scopigno e Gigi Riva – gli episodi banditeschi a compensare, purtroppo in negativo, le ascensioni che il crescente turismo costiero suggeriva all’immaginario nazionale. Stagione inquieta, complessa e contraddittoria, sulla scena magna dell’Italia e della Sardegna; nello specifico massonico isolano – in parte rilevante proprio per l’input gigliano – stagione di indubbio sviluppo, intanto per la trasformazione del “gruppo di lavoro P” in loggia simbolica intitolata a Sigismondo Arquer (numero progressivo 709), avviando il nuovo progetto muratorio in quel di Nuoro e riassestando quello sulcitano in attesa che altre opportunità si determinassero sia nel capoluogo che ad Oristano ed in Costa Smeralda. Insomma era quella la stagione del passaggio (come di adolescenza) ad una fase di maturità che negli anni ’70 ed ’80, grazie al duumvirato – ma questa qualificazione è forse impropria – Giglio-Corona, darà risultati importanti.
Se ne potrebbe dire… Come di quel certo sabato 24 gennaio 1970 a Sassari. Si partì con vari mezzi privati da Cagliari alla volta del capo di sopra: con Giglio anche il giovane di ancora fresca iniziazione Efrem Grassi e altri della loggia Hiram. Il Venerabile della Gio.Maria Angioy, per un anno anche presidente circoscrizionale (succedendo a Vincenzo Delitala ed anticipando, nella carica, proprio Mario Giglio), aveva promosso un incontro delle maestranze giustinianee sarde come altri ce n’erano stati di incontri, rari in verità ma comunque fruttuosi, nel 1947 e nel 1955 a Sassari stessa, nel 1954 a Macomer. Era Bruno Mura quel Venerabile e presidente, veterinario per studi e commerciante (raffinato pellicciaio) per professione, figlio di massone del prefascismo e nato comunista. All’indomani dell’armistizio era stato fra i promotori del Partito Comunista Sardo, che era altro dal PCd’I (poi PCI); dal 1944 era stato anche, con altri antifascisti, fra i collaboratori più assidui del periodico sassarese Riscossa a direzione Spanu-Satta. Con Annibale Rovasio (un repubblicano di tessera sardista, il primo biografo di Lussu nel 1943!) e Michelino Conti era stato ed era allora, e ancora, il leader riconosciuto (ma anche contrastato) dei giustinianei sassaresi, così fin dagli anni ’40 e per quasi tre decenni. Nel Tempio di corso Umberto, di tardo pomeriggio, si tennero i lavori amministrativi e l’indomani quelli rituali, aperti anche ad Apprendisti e Compagni. I primi per discutere, sulla base della relazione affidata a Tiberio Pintor (Venerabile della carboniese Giovanni Mori), della rappresentanza sarda nell’esecutivo nazionale GOI di prossima costituzione a presidenza del nuovo Gran Maestro (candidato favorito Lino Salvini in competizione con Aris Accornero, un sociologo industriale docente alla Sapienza di Roma), i secondi per riflettere – gran bel verbo! – circa l’«Attualità della Massoneria nella presente situazione del paese» e circa «La catena spezzata», tema di stretta attinenza rituale e simbolica nelle logiche dell’esoterismo muratorio. Relatori rispettivamente i Fratelli Marco Aimo (della Gio.Maria Angioy) e, appunto, Bruno Mura.
Anichini e Iusco, Loi Puddu e Pargentino, Pintor e Mura – i capidelegazione – e i vari dignitari presenti come Giglio e Delitala e Multineddu (consigliere dell’Ordine), così come alcuni altri di diversa responsabilità intervennero proponendo analisi e deliberazioni: tutti sapevano che la Sardegna rappresentava, allo stato, una parte minimale o marginale, per dimensioni, della rete giustinianea nazionale, ma sapevano anche che il rinnovo del vertice nella ormai imminente Gran Loggia romana poteva costituire per la Fratellanza isolana una occasione… autopromozionale, di messa in evidenza, sulla scena italiana, delle proprie esperienze e di costruzione di un più paritario rapporto con realtà di altra storia e altro prestigio. Purtroppo, però, le varie voci faticarono a trovare una sintesi e non riuscirono a raggiungere un accordo sul nominativo da inserire nella lista per la Giunta da mandare al voto plenario. Era molto probabile che il vincitore della gara fosse, per la carica maggiore, il Fratello Salvini – annunciato in visita a Cagliari, in cerca di consensi, il 4 febbraio –, e sembrò un vero peccato che nessun Figlio della Vedova cresciuto nelle Valli isolane potesse associarsi a lui nell’allettante compito di ammodernamento (nel solco della irrinunciabile Tradizione) delle normative e modalità d’azione del Grande Oriente d’Italia, così come in quello di un miglior radicamento nel circuito regolare internazionale, fra Europa ed Americhe.
Proseguirono, in quei mesi, gli incontri interloggia, dopo Sassari ecco Cagliari, a palazzo Chapelle, ed ecco anche Carbonia, nei nuovi locali di via Gramsci. Soprattutto nel capoluogo era allora evidente un certo apprezzabile dinamismo e fra la Nuova Cavour, la Hiram e la Sigismondo Arquer (più defilata e debole la Giordano Bruno) – le logge cagliaritane cioè – s’era sviluppato uno spirito santamente emulativo che cercava, nell’espressione dei caratteri e dei talenti di ciascuna, di meglio connettere le produzioni interne al Tempio alle necessità “laiche” del mondo, a quelle sociali e della politica dei partiti come a quelle che nei circoli di dibattito civico trovavano sede. Soprattutto Francesco Bussalai sosteneva, con forza, la tesi del protagonismo civile (e politico in senso lato) massonico ed uomini di robusta esperienza intellettuale come Luciano Rodriguez e Francesco Masala non mancavano di rafforzare un tale indirizzo. Nelle novità di quel tempo, all’indomani della promulgazione della legge sul divorzio, ecco anche il primo tentativo di affermazione, da parte del GOI, di una struttura sezionale della Lega dei diritti dell’uomo a Cagliari, ed ecco anche l’avvio della pratica rituale in capo all’Ordine della Stella d’Oriente, l’anima femminile del latomismo euro-americano.
Quando si dovette votare per le liste granmagistrali, soltanto Giglio riuscì ad assicurare un appoggio, in termini di voti (fra la loggia Hiram e la carboniese Giovanni Mori), a Lino Salvini il vincitore finale; la Nuova Cavour mostrò maggiori propensioni per il concorrente Accornero. La conclusione fu che dall’Isola toccò a Flavio Multineddu, anche per la sua vicinanza a Giglio, la chiamata alla diretta collaborazione in giunta, come Grande Architetto Revisore…
Di certo allora la parentela delle logge con la politica era piuttosto stretta. Naturalmente i rimandi erano alle forze di storia democratica, di varia filiazione risorgimentale o postrisorgimentale (la sequela a una qualsiasi Meloni o ad un volgarissimo leghismo come lo conosciamo oggi sarebbe stata considerata una bestemmia proprio per il profilo etico-civile di tali formazioni e tali leader): entravano in scena, nell’ecumenismo elegante della Tradizione, i riformisti del PSI e del PSDI, i liberali di suggestioni crociane o einaudiane, i mazziniani azionisti del PRI o del Partito Sardo, i radicali di Villabruna o Rossi o Pannunzio. Scomparsi, per debito di natura, i pochi qualunquisti e monarchici degli anni ‘50…
Sì, stagioni di storia massonica pienamente compromessa con il meglio del dibattito civile e politico in corso nelle più varie sedi pubbliche e nelle stesse istituzioni dell’ordinamento. E Giglio presente e regista di operazioni, una dopo l’altra, volte ad equilibrare territorialmente la rete massonica nell’Isola ed insieme a consolidare la tensione partecipativa e relazionale fra le logge in circuito e, nei modi consentiti, fra queste e la società profana, quella delle professioni, dell’associazionismo, dei partiti.
Certamente, fra le carte conferite all’Archivio storico generale, da Giglio già Venerabile e presidente circoscrizionale, giudice della Corte Centrale e consigliere dell’Ordine, membro di Giunta ed Ispettore regionale del Rito Scozzese Antico e Accettato ed altro ancora, è la registrazione di eventi e contatti della più varia natura, del proselitismo promosso nelle diverse Valli, anche dei processi di controllo della correttezza comportamentale della militanza. Così è lì la registrazione degli interventi più salienti nelle circostanze dettate dal calendario, a Cagliari come a Roma, a Sassari e ovunque.
Fu una loggia amata, dopo tanto contrasto opposto alla sua matrice riconducibile al “gruppo di lavoro P”, la Sigismondo Arquer, alla quale in più circostanze, proprio tra la fine del 1969 e gli anni immediatamente seguenti – quando il lavoro di condirettore della sede del Banco di Napoli ancora lo tratteneva nel capoluogo –, non mancò di offrire l’appoggio non soltanto della presenza e del consiglio. Allora quella officina che mostrava un profilo civile ben riconoscibile in termini di progressismo sociale e laico avanzato, conobbe diverse iniziazioni “di riguardo” – ove l’espressione non collida con l’impianto egualitario proprio della Libera Muratoria – e conobbe altresì numerosi confronti d’opinione assolutamente pregevoli e, direi, degni di segnalazione… Con Bussalai Venerabile dal 1970 e fino al suo improvviso e doloroso passaggio all’Oriente Eterno, e con Masala alla cattedra dell’Oratore ed Antonello Satta in quella del Segretario avvicendandosi con Luciano Rodriguez, la Sigismondo Arquer conquistò rapidamente, nell’Oriente cagliaritano, i migliori riconoscimenti: rafforzò rapidamente le Colonne con uomini del valore di Rinaldo Botticini e Anton Francesco Branca (generoso lussiano, al tempo assessore regionale socialista ai Trasporti), di Sergio Caddeo della Compagnia portuale (figlio di Virgilio Caddeo, massone anch’egli di antica fede sardista e sindacalista del proletariato cagliaritano fin dagli anni bacareddiani), Agostino Castelli (avvocato-e-poeta d’amori cileni) ed Eliseo Spiga (fondatore dei circoli Città-Campagna e autore di libelli sulla “questione sarda” stampati da Feltrinelli)…
Quella volta dialogando con Francesco Masala Oratore di loggia
A discutere quella volta – era la primavera del 1971 – di Massoneria e Marxismo… Relatore Francesco Masala e con presenze competenti negli stalli principali, ché sia Bussalai che Satta vengono da esperienze (ormai superate) maturate nel PCI… Giglio ha parte rilevante nella discussione. Entrano in essa, variamente declinati, i dogmi della dottrina filosofica ed economica di Marx, come entrano i principi ispirati al trinomio rivoluzionario della Libera Muratoria. L’Oratore tende a trovare una composizione o una sintesi fra l’una (la dottrina marxista) e gli altri (i principi massonici) quando riabilita in chiave critica, espungendone quindi le successive incrostazioni leniniste, il pensiero del filosofo di Treviri e riporta le sue teorie all’intenzione umanistica della emancipazione sociale del proletariato.
Anche sul concetto di religione – a suo parere – occorrerebbe intendersi, non limitandolo al sistema di valori delle religioni storiche positive, ma includendovi altresì il «fatto metafisico», il «rapporto tra l’individuo e l’universo», nel quale infine si compendierebbe l’idea religiosa della Massoneria. Nessun massone potrebbe piegarsi a una «verità dogmatica», tutti dovrebbero avere matura convinzione che «il principio fondamentale che ci regge è la dialettica, cioè il confronto tra i diversi punti di vista, tesi e antitesi»: così nel lavoro di loggia come nella riflessione personale, ogni Fratello dovrebbe compiere «una sua personale sintesi», accendersi di quella «illuminazione che è legata alla reale condizione umana e culturale» nella quale egli si realizza come persona.
Si tratterebbe quindi di combinare, o ricombinare fra di loro, i termini del trinomio come faro ideale e immutabile della Libera Muratoria anche nella presente fase storica, così nel microcosmo come nel mondo magno dei meridiani e dei paralleli. E chi, massone, sia chiamato a svolgere una attività pubblica, non potrebbe, lui soprattutto, prescinderne: in difetto tutto sarebbe inutile, un’inutile commedia... Sarebbe «loro inderogabile dovere, che gli uomini politici ricevessero dal basso verso l’alto in maniera dialettica questo processo di illuminazione che è la legge generale che ci contraddistingue e che ha portato avanti in tutte le età storiche la funzione massonica».
Conclude: «È sempre necessaria la reinterpretazione del nostro ciclo a seconda dell’età storica in cui viviamo e questo sforzo interpretativo deve avere sul piano pratico dei veri e propri risultati, anche come forza di reclutamento»; ecco quindi, nel presente contesto, necessità ed urgenza di un certo proselitismo massonico fra i giovani: «far leva sull’iniziazione dei giovani, indispensabili alla nostra Famiglia in quanto rappresentano gli anelli della catena che portano avanti il nostro antichissimo discorso».
Giunti a questo punto qualcuno solleva la questione della problematica indissolubilità del binomio marxismo-ateismo, e chiede una riflessione sul vero e profondo significato della parola “ateo”. Risponde Masala con il piglio, come sarebbe inevitabile, del professore: «per i massoni, in quanto illuministi, Dio è una ipotesi metafisica e quindi essi rifiutano gli dei storici». Punto e basta. Ma guardando alla sponda marxista e per tornare alle considerazioni già affacciate circa la compatibilità delle due militanze ideali, diversa sarebbe la risposta «se per Dio intendiamo qualcosa (o qualcuno) cui noi possiamo dare un volto» o, al contrario, se l’idea di Dio la inseriamo nel «concetto di religiosità prima definito»: perché in questo secondo caso la qualifica ateistica cadrebbe e un marxista ben potrebbe associarsi, con spirito sereno, alla Fratellanza della Libera Muratoria.
È in questo contesto che il riferimento monoteistico presente negli Antichi Doveri, carta di base della Massoneria speculativa settecentesca esplicitamente richiamata anche negli Ordinamenti del Grande Oriente d’Italia, pare al Fratello Giglio una forzatura dettata dai tempi in cui la formula venne coniata. Troppo stretto, per lui, il collegamento con le dottrine teologiche delle Chiese cristiane e dunque limitativo degli approcci che massoni di altra formazione ideale o intellettuale o spirituale potrebbero avere con la felice pratica del lavoro di loggia. Da qui la sua considerazione circa la opportunità di una espunzione che, senza nulla togliere, ai Fratelli cristiani concederebbe più… fiato mentale ai Fratelli non cristiani.
Giglio e la loggia Sigismondo Arquer: sarebbe un tema degno di ripresa, proprio considerando la nettezza con la quale l’allora Maestro Venerabile della Hiram e presidente del Collegio circoscrizionale, il dignitario-dominus dei giustinianei sardi, infocò lo “scontro”, fra 1967 e 1968, con il Gran Maestro Gamberini onde ottenere la rottura d’ogni rapporto con il semiclandestino (per non dire clandestino in toto) “gruppo di lavoro P”. Del tanto, e naturalmente limitato a quegli anni documentati dai conferimenti all’Archivio storico generale, sarebbero da ricordare proprio i funerali massonici celebrati, nel novembre 1972, al cimitero di San Michele, del Ven. Bussalai, la cui salma rientrò a Cagliari dal Centro Tumori di Milano. Sarebbe anche da ricordare l’intensa partecipazione, allora, alla sorte della giovane officina rimasta orfana e la disponibilità prontamente offerta – era il 16 novembre 1972 – di procedere alla iniziazione di Agostino Castelli – che sempre si farà orgoglio della sua nuova militanza libertaria –, presenti i Fratelli anche della Hiram, della Risorgimento – di freschissima fabbrica affidata al Maglietto di Lucio Salvago e poi di Paolo Carleo – e della Giovanni Mori.
Nel declino inesorabile il ricordo di gioventù
Le descritte vicende legate al suo ufficio di direttore generale della Popolare di Sassari hanno tratto sempre più Mario Giglio - il Fratello Giglio - fuori dalle relazioni del Tempio, costringendolo ad una sofferente solitudine. Si aggiungono ad esse gli strascichi giudiziari, con opposte conclusioni dei processi nei diversi gradi, e si aggiunge, inoltre, la malattia sempre più invalidante e la vedovanza giunta malauguratamente a sciogliere un vincolo d’oltre mezzo secolo con la sua carissima Paola Perantoni.
Nel 2003, due anni prima del suo passaggio all’Oriente Eterno, egli riesce a dare alle stampe, per i tipi della Stampacolor di Muros, un libro che raccoglie le sue memorie di giovane ventenne impegnato o impigliato nelle azioni di guerra: La mia avventura ad Ivrea, accompagnata da materiali documentari custoditi per sessant’anni nei cassetti di casa.
Il Parkinson, privandolo in modo pressoché totale della sua autonomia, della mobilità e della parola, gli ha soltanto concesso la funzionalità, pur parziale e faticosa, di alcune dita con cui scrive, alla tastiera del computer di casa, la storia della sua giovinezza. Ne ha motivo di distrazione, nei lunghi momenti di solitudine e di pensiero amaro.
Rivive, Mario Giglio ormai più che ottuagenario, una fase della sua vita lontana ormai sei decenni. La rivive non soltanto con i ricordi, ma con l’arte infine, delicata, del poeta. Non se lo sarebbe mai immaginato, lui già potentissimo direttore generale della Banca Popolare di Sassari ed esponente leader della Massoneria sarda per un lungo periodo, lui uomo di relazioni nazionali ed internazionali, di poter essere chiamato poeta. Ma a scorrere le pagine memorialistiche del suo libro uscito in autoedizione, anche il titolo encomiastico di poeta appare tutto meritato dal banchiere-Venerabile fattosi cronista di defatiganti marce e di rischiose battaglie, di campi di prigionia e di processi, di vigilie di temute fucilazioni. E infine anche di ritorni: del rientro in Sardegna dopo tutte quelle avventure di sangue e paura, di ardimenti e utopie, vissute o patite in luoghi tanto lontani e diversi da quelli fino allora conosciuti, in diverse regioni del nord Italia ancora sotto giurisdizione del duce di Salò.
Mario Giglio era un giovane di 22 anni quando s’iscrisse nei ranghi della X MAS, che si vantava di non essere organica alla Repubblica Sociale Italiana, dipendente perciò dei burgundi di Berlino fattisi padroni in Italia, ma un “corpo alleato” dell’asse Hitler-Mussolini anni 1943-1945: un corpo alleato «che continuava a combattere per l’onore d’Italia non avendo riconosciuto le clausole dell’armistizio». Questo scrive confermando la passione patriottica della gioventù, e non importa – almeno da questo punto di vista – se il patriottismo fu avvertito e manifestato nei ranghi sbagliati:
... Dopo una ventina di giorni, ci trasferirono nuovamente. Questa volta a piedi fino a Coltano. Non potrò mai dimenticare quel pretino magro e segaligno che dalla gradinata della sua chiesa, alla periferia di Pisa, urlava improperi contro di noi insultandoci e turpiloquiando. Lo ringraziai, perché i suoi insulti ci inorgoglirono e da quel momento marciammo come ad una esercitazione cantando i nostri inni…
In campo di concentramento, anche se avviliti per la sconfitta, non venne mai a mancare lo spirito patriottico né quello... goliardico. Fu così che, impadronitici di un certo numero di scatole di cartone e di alcune risme di carta ciclostile oltre che di alcune matite copiative viola... iniziammo a pubblicare un giornale murale... “Il Supplemento”... Io venni eletto all’unanimità direttore. Vi erano poi redattori specializzati in una attività o in una battuta di spirito... Vi erano i poeti... Vi era uno che sapeva disegnare aeroplani e conosceva tutti i vari tipi di aerei che ci avevano bombardato e mitragliato... C’era un pittore che faceva caricature e ritratti... La lettera che scrissi al mio comandante, intitolata “Ricordo del mio battaglione”, rimase a lungo appesa ai cartoni perché c’era sempre qualcuno che voleva copiarla: anch’io me la copiai su un taccuino che avevo fatto da me... Questo taccuino, su cui invitai diversi redattori a riprodurre in miniature le loro opere, l’ho sempre conservato religiosamente e sempre lo conserverò...
L’adesione che, negli anni della sua maturità, Giglio esprimerà ai valori del socialismo riformista e la sua fermezza democratica aperta alle istanze dei ceti poveri della nostra comunità non hanno, fortunatamente, operato in chiave censoria rispetto a quelle vicende di cui fu protagonista negli anni della seconda guerra mondiale, quando “naturalmente” si sentì di esprimere l’amor patrio nelle formazioni repubblichine.
E qui non è che c’entri neppure molto il rimando alle correnti del revisionismo storico, che paiono rivalutare la parte sconfitta, quella fascista alleata dei nazisti, rispetto ai meriti dei vincitori: dei resistenti prima ancora che degli alleati liberatori anglo-americani. Perché invece il taglio che l’autore imprime alle sue pagine – una ventina di brevi ed agili capitoli – è quello della testimonianza: forse prima di tutto per se stesso (come se fosse un dovere rimettere ordine nei ricordi d’una età fertile e ancora formativa), poi per gli altri. I quali, attraverso la lettura del suo racconto, potrebbero utilmente accostarsi, con spirito libero e comprensivo, ad esperienze umane che, per essersi compiute dalla parte sbagliata, non necessariamente meritano di essere bollate, inappellabilmente, con una condanna ignara della generosità personale ed ideale di molti protagonisti.
È quanto lui stesso scrive a conclusione della faticosa ricostruzione di memoria e documentaria:
Questa pubblicazione rappresenta un debito che pago a tutti i morti in grigioverde, indipendentemente dal colore delle mostrine e dei distintivi di parte.
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