Umanità e responsabilità pubblica, il chiaroscuro onesto e generoso di Armando Corona e Mario Giglio. Nel centenario della loro nascita (parte seconda)
di Gianfranco Murtas
Nella prima parte di questa ricostruzione biografica di Armando Corona e Mario Giglio, personalità entrambe di ampia notorietà – l’uno nella professione medica e nella politica regionale, l’altro nelle attività bancarie e creditizie (più marginalmente nell’impegno politico in campo socialista) – associate nella condivisa militanza massonica giunta a funzioni apicali nel Grande Oriente d’Italia, ho cercato di dar conto della rispettiva formazione e dei primi cimenti pubblici ed obbedienziali.
In questa seconda parte il focus sarà il decennio, o poco più, delle loro maggiori affermazioni, o di base delle ancor maggiori affermazioni – di cui darò conto più oltre – tanto in campo politico quanto in quello professionale e sempre in combinazione con le crescenti responsabilità assunte nell’Ordine massonico nazionale.
Si tratta – è bene dichiararlo e ribadirlo – di “appunti per una storia” offerti oggi, attraverso la piattaforma di Giornalia, a chi un domani vorrà dedicarsi, con maggiore competenza, all’impresa di biografare in profondità queste due fra le più significative figure pubbliche della Sardegna del secondo Novecento.
3.1 - Corona: con i repubblicani, referente di quote di potere negli anni ’70
Uomo di minoranza – solo repubblicano nella prima delle tre legislature che vivrà da autentico protagonista, solo anche nella seconda (seppure s’aggiungerà ad un certo punto l’on. Bruno Fadda, subentrato all’on. Giovanni Battista Melis nel frattempo deceduto) – Armando Corona svilupperà, è meglio sottolinearlo, una presenza politica di peso marcatamente maggiore rispetto a quello che la forza (o la debolezza) numerica gli consentirebbe.
E forse anche stavolta vince il chiaroscuro, la compresenza del bianco e del nero. Perché ad esempio quando l’Assemblea punta, nei primi anni ’70, a precisare il quadro dei comprensori (le ex zone omogenee) in chiave di supporto territoriale alla politica di rinascita/quinto piano esecutivo, e tutto pare fermarsi per i reciproci veti fra democristiani e comunisti, ecco lui sbloccare, nel ritaglio delle aggregazioni comunali, segmentando dalle confinanti aree disputate dai maggiori partiti, il 25° comprensorio, quello marmillese, che non a caso è lo stesso a maggior influenza del sardismo tesserato repubblicano che tante preferenze a lui e ai suoi amici dà nelle gare elettorali. Preferenze – potrebbe aggiungersi (ma fra parentesi) – nella cui raccolta, secondo le viete prassi della cosiddetta prima repubblica, è un abilissimo giocatore, inventore di formule infallibili per misurare la effettiva resa di sedicenti procacciatori in attesa di compenso.
In questo stesso contesto si potrebbe collocare la partecipazione sua, e del suo partito, alla lottizzazione del sottogoverno – parola che porta con sé un tanto di dispregiativo per l’uso che della cosa (non della parola) è stato fatto nel concreto, ma che in realtà dovrebbe alludere ad attività amministrative degli enti pubblici strumentali al servizio non già delle corporazioni dei dipendenti e, meno che meno, dei boss cadetti della partitocrazia, ma della cittadinanza.
Non potendo ambire a presidenze o posti di consigliere ETFAS/ERSAT, ESIT, ecc., volentieri accoglie, come rappresentante di un partito minoritario, nei primi anni ’70, il “padrinato” dell’Ente Crespellani, che gestisce in regime di commissariamento una catena di sette ospedali minori dell’Isola. Potere effettivo zero, ma interesse vivissimo al comparto in logica di ammodernamento della rete assistenziale-sanitaria. La scelta di Corona cadrà su un professionista da tutti apprezzato, e non iscritto al PRI.
Così sarà per l’Ente Ospedaliero Businco, da cui germinerà l’Ospedale regionale oncologico, ancora nei primi anni ’70. Non sarà prateria repubblicana l’Oncologico, anche se tutti sapranno della vicinanza politica lato sensu, ma soprattutto di esperienza umana e professionale, della dirigenza con Corona. Quando anche si dirà che molti responsabili di reparto o il vertice amministrativo sono massoni.
Perché poi qui andrebbero spiegate queste espansioni, o questi dinamismi interattivi e con parziali giustapposizioni, fra militanza repubblicana e militanza massonica che, lungo gli anni ’70 che sono quelli che anticipano e preparano i maggiori successi personali di Corona, certo segneranno parte del potere regionale. E saranno rivincite di una minoranza di qualità, in ambiti operativi di rilevante impatto e merito sociale, contro l’arrembaggio di altri nei prevalenti settori a potenziale clientelare.
Anche talune attività manovriere nei confronti del governo centrale potrebbero valutarsi come non specialmente commendevoli, ma certo l’interesse sposato da Corona in quella fase fertilissima della sua vita pubblica è sempre nella direzione del valore professionale. Penserei, per fare soltanto uno o due nomi, alla nomina, nel 1974 – e cioè in una fase di devoluzione di competenze ministeriali alla Regione –, di un provveditore regionale alle OO.PP. della Sardegna patrocinata nel rispetto totale della riconosciuta, ma non per questo purtroppo certamente premiata, competenza amministrativa di quel dirigente promosso; o all’altra nomina nello stesso periodo, del nuovo presidente dell’Ente Flumendosa, e così dopo nel comitato del Centro di Programmazione.
È del gennaio 1977 l’elezione dell’esecutivo Soddu, che gode dell’astensione (di fatto si tratta però di appoggio esterno) del PCI e dei liberali, ed ha in Corona l’homo novus, come responsabile degli Affari generali, personale e riforma; l’esecutivo di centro-sinistra, improntato alla visione del cosiddetto “patto autonomistico”, durerà in carica, con un rimaneggiamento, fino al rinnovo elettorale del giugno 1979, vale a dire due anni e mezzo. Non poco per l’andamento singultico della politica regionale del tempo. (Andrebbe comunque detto che già nel 1972 vi era stato un tentativo politico che avrebbe potuto concludersi con l’affidamento proprio a Corona di un assessorato – quello agli Enti locali – in una giunta quadripartita di centro-sinistra presieduta da Salvator Angelo Spano. Tentativo fallito per il voto contrario, nel segreto dell’urna, da parte di un numero elevato di consiglieri della sinistra democristiana).
Intanto, nel 1975, ancora segretario regionale del Partito Repubblicano Italiano, Corona è stato chiamato personalmente da Ugo La Malfa a presiedere il Collegio nazionale dei probiviri del partito, dopo polemiche che hanno visto al centro delle dispute uomini della Sicilia ritenuti non del tutto trasparenti, e, si dice, improprie interferenze massoniche.
Egli offre all’on. La Malfa la propria disponibilità, ma gli spiega anche che se egli vuole allontanare i massoni da quell’organismo, non lo può fare certamente assumendo lui, che massone è, e per di più Venerabile di loggia! «Non è un problema, credo nella tua imparzialità, voi sardi siete fuori dai giri viziati».
È proprio il 1975 l’anno del salto nella politica nazionale. La presidenza del Collegio probivirale del suo partito gli comporta di essere spesso a Roma, e di tessere relazioni con militanti e dirigenti di tutte le regioni d’Italia. Forse la metà di essi sono massoni, e i due filoni di solidarietà politica e solidarietà fraternale corrono paralleli e tante volte si intrecciano fra di loro.
Appunti per una biografia politica
Certamente si potrebbe tentare una ricostruzione, sia pure in sintesi estrema (ma pur soltanto relativa), delle tappe politiche, e politico-elettorali, di Armando Corona lungo quasi un trentennio ad arrivare alla affermazione assessoriale e, presto, allo scranno presidenziale dell’Assemblea legislativa dell’Autonomia sarda. Partendo dal marzo 1951, quando al X congresso del PSd’A in svolgimento ad Oristano egli partecipa in rappresentanza della sezione di Senis, ed è infine eletto nella quota provinciale (di Cagliari-Oristano) del Consiglio regionale del partito.
Eccolo quindi candidato dei Quattro Mori nel rinnovo del Consiglio regionale della Sardegna, anno 1953; eccolo bissare alle elezioni del 1957 e trissare a quelle del 1961. E intanto però eccolo anche scalare le posizioni interne alla sua compagine politica. Al XIII congresso in svolgimento a Cagliari nell’autunno del 1960, interviene in rappresentanza della forte sezione di Ales (di cui è il fiduciario dal 1956, avendo nel frattempo trasferito la condotta) aderendo alla linea del direttore regionale Giovanni Battista (Tirino) Melis favorevole alla svolta, allora soltanto prefigurata, di centro-sinistra. Su quello stesso indirizzo si è già espresso più volte, dopo che nel 1953 – tempo di rinnovo, oltreché regionale, anche parlamentare regolato dal maggioritario (e, nel mondo, di liberazione da Stalin) – facendosi interprete delle sezioni marmillesi di Senis, Nureci ed Asuni, ha condiviso l’opzione centrista, cioè l’apparentamento “ministeriale” con liberali, socialdemocratici e repubblicani e, naturalmente, democristiani a “traino” De Gasperi.
Nel 1963, alle politiche, sostiene – candidandosi un’altra volta – l’accordo elettorale con il PRI, cosa che invero ha trovato applicazione, per la storica parentela ideale/ideologica, fin dal 1921 e conferma nel 1924 – l’anno del delitto Matteotti – nonché, dopo la dittatura e la guerra, alla Costituente del 1946, così come poi alle regionali del 1949 e sempre nei turni successivi, ed anche alle amministrative. Tanto più – dico delle comunali e provinciali – nel 1961; e ancora sarà così nel 1964. Così, cioè, nell’anno della sua felice riuscita al Consiglio provinciale e della partecipazione alla giunta Meloni.
Scrivendone su La Voce Repubblicana all’indomani del voto, Lello Puddu, giovanissimo segretario regionale repubblicano, riferisce: «è stato conquistato un nuovo seggio che sarà coperto dal giovane medico di Ales, dottor Armando Corona. Corona ha realizzato nella Marmilla un notevole successo, battendo agguerriti parlamentari e fortissimi notabili: successo che si deve non solo alla sua serietà e al suo impegno nel sostenere con coerenza la politica di centro-sinistra, ma anche ad uno sforzo organizzativo che ha consentito di superare di gran lunga i risultati delle politiche».
Ne ho accennato: siamo qui negli anni in cui, dopo quasi tre lustri di lavoro in condotta rurale, diverse circostanze lo orientano su Cagliari. Certamente è per qualche esigenza familiare – i figli adolescenti che frequentano il liceo e presto l’università –, certamente è per alcuni affari nel campo della spedalità privata (in società dapprincipio con il dottor Ragazzo) che nella città trova la sua naturale logistica, certamente è anche per quel salto nella politica “politica”, non bastandogli più la politica “amministrativa”, cui si sente pronto per le dimensioni sia suo elettorato strettamente fiduciario, sia della rete di relazioni che all’interno del Partito Sardo ne hanno fatto un dirigente ascoltato, rispettato e, da taluno, perfino temuto.
Strategia e tattica di un medico politico
L’agenda dei suoi successi, così come egli l’ha immaginata, prevede come prima tappa l’elezione in Consiglio provinciale (ed è nel novembre 1964) e l’assunzione di una responsabilità assessoriale (sarà nel gennaio 1965) in abbinata a quella di segretario della federazione provinciale di Cagliari (o puoi dire di Cagliari-Oristano) del partito; in sequenza mette la partecipazione alle elezioni regionali del 1965 e, in caso di vittoria, il concorso al rinnovo generazionale della leadership sardista.
Questi gli obiettivi di breve e medio periodo, ma i risultati? Soddisfatto circa la gara elettorale provinciale e l’ingresso in giunta; bene anche riguardo alla segreteria provinciale del partito, in subentro a Carlo Sanna nel frattempo eletto consigliere e assessore al Comune di Cagliari; mezzo passo falso, invece, al rinnovo del Consiglio regionale della Sardegna, quando lo stesso Sanna per qualche decina di preferenze soltanto (sulle migliaia raccolte da ciascuno dei candidati) ha la meglio su di lui: la delusione è forte.
Ha giocato la partita da una posizione di rilievo, ma non l’ha vinta. Il giornale del partito alleato gli ha offerto ampi spazi, così come alla coalizione. Riportando le liste presentate nelle tre circoscrizioni territoriali, la sintesi del programma sardista, una intervista ai consiglieri uscenti, il testo integrale del discorso tenuto dall’on. La Malfa a Cagliari a sostegno dei Quattro Mori, La Voce ha dato conto, non a caso, del suo benvenuto al segretario repubblicano:
Il Partito Sardo ha trovato nella linea politica del PRI rappresentata in maniera così concreta e geniale dall’on. La Malfa una piena rispondenza dei suoi ideali e delle esigenze del popolo sardo. E pertanto si impegna di portare avanti una politica che ponga anche in Sardegna le basi di un rinnovamento che dia dignità umana e civile a tutti i nostri lavoratori. È per questo che la battaglia di La Malfa per la piena occupazione, perché ogni cittadino ottenga un diritto così elementare come il lavoro, ci trova consenzienti e fortemente impegnati. Da queste elezioni dovrà scaturire una classe politica rinnovata che si avvii per un cammino operoso, che indichi chiaramente come spendere i miliardi della Rinascita, entro la visione di un piano economico che dia un indirizzo radicalmente nuovo a tutta l’economia sarda. L’on. La Malfa rappresenta la migliore tradizione della scuola democratica italiana, di cui è stato tanta parte anche il nostro partito. Ciò ha dimostrato come ministro del Bilancio, nel governo Fanfani, impostando per primo l’amministrazione della cosa pubblica in termini programmatici e di pianificazione economica; ciò ha dimostrato nei vari dicasteri di cui è stato titolare, come parlamentare, come segretario del PRI e come pubblicista. Egli ha speso tutta una vita per concorrere a creare i fondamenti di una vita democratica e reale del Paese, attraverso il rafforzamento delle autonomie locali, la partecipazione dei lavoratori alla direzione del Paese. Laicista sul piano culturale e non di un laicismo gretto, ma di un laicismo che vuole combattere ed eliminare qualunque forma di discriminazione nel campo della libertà di coscienza religiosa…
La battaglia elettorale è stata generosa, ma il PSd’A ha perduto cinquemila voti nel confronto con le precedenti regionali, pur confermando la sua rappresentanza di cinque consiglieri e, in termini assoluti, i voti delle provinciali dell’anno prima.
La flessione, ancorché meno marcata di quella registrata dalle liste socialiste, sblocca finalmente il quadro politico isolano favorendo la costituzione di un quadro di centro-sinistra organico, con l’esordio cioè di esponenti del PSI nell’esecutivo (e con il sardista Puligheddu – vicino a Corona – a capo dell’importante assessorato all’Agricoltura); ne vengono anche, a valanga, aggiustamenti interni al PSd’A laddove – a cominciare da Nuoro – le intese dirette fra democristiani e socialisti avevano immotivatamente tagliato fuori il partito.
Se su quello politico generale la scena si fa interessante e suscettiva di importanti evoluzioni, sul piano personale essa esprime però, per Armando Corona, soltanto una forte delusione. Sì, egli mantiene gli incarichi tanto di giunta quanto di partito, ma certamente deve ripensare la sua… ambiziosa road map, tempistica e modalità di recupero o rilancio… Tanto più che nel gennaio successivo – siamo ora nel 1966 – perde un’altra volta alla conta congressuale di Cagliari rimettendoci la segreteria provinciale durata così un anno soltanto. La sua mozione “Democrazia sardista” – elaborata da diversi amici che un giorno troverà in Massoneria – raccoglie un terzo circa dei voti congressuali; essa non si connota per una logica contestativa dello Stato, piuttosto insiste in una analisi delle cause della depressione socio-economica dell’Isola a vent’anni quasi dall’avvio della esperienza autonomistica attribuendone buona parte delle responsabilità al sistema dei partiti e – con sforzo autocritico – allo stesso Partito Sardo, incapaci tutti di sburocratizzare la Regione e collegare le scelte del Piano di Rinascita alle linee della programmazione nazionale.
Verrà a lui, a Corona, l’accusa, un giorno, di essersi allora ritratto ammaccato, e per un tempo eccessivo, a valutare il proprio posizionamento, nella generale convulsione politica che, in Sardegna come a Roma, vede intanto compiersi l’unificazione socialista, sperato tendenziale contrappeso laico allo strapotere democristiano. Pragmatico come è, la cosa non appare incredibile. E comunque l’affollamento nel PSI (irrobustito dal confluente PSDI) di dirigenti premiati nell’ordinario dall’elettorato con molte migliaia di preferenze basta ad allontanare ogni suggestione di passaggio al partito alleato/concorrente… (Neppure sarebbe qui il caso di richiamare i propositi di annessione sardista da parte di Lussu a pro del Partito Socialista Italiano nel 1946-47: furono allora Pietro Mastino e Titino Melis a negare con nettezza la presenza nel Partito Sardo di alcun cromosoma dottrinario di classe. Vent’anni dopo, seppure la scena sociale e l’intensità ideologica del PSI si presentino indubbiamente più compatibili, o meno incompatibili, con il sentimento vocazionale della tradizione sardista, il problema identitario si ripropone ed a risolverlo non basterà il riferimento al pragmatismo ufficializzato nei programmi elettorali).
Da questo momento ecco Armando Corona stringere un più coerente patto con l’insofferente dirigenza sardista del Nuorese e del Sassarese – Mastino e Puligheddu e Maccioni e Marcello ecc. da una parte, Ruiu e Mele e Razzu e Merella d’altra – e consolidare l’affezione, nel Cagliaritano e nell’Oristanese, con uomini di spicco come Racugno, Tuveri, Uras… L’obiettivo: dar vita ad una corrente strutturata di opposizione al direttore regionale Melis ed ai suoi, strappando spazi di “potere” – tanto più nella rappresentanza – fino ad allora negati, e sfruttando il punto debole evidenziato dal vertice con l’eccesso di tolleranza delle sfide separatiste via via lanciate, nella vita delle sezioni e negli stessi organi dirigenti, da Antonio Simon Mossa e da altri.
A capo della dissidenza sardista
La posizione ecumenica, obiettivamente equivoca, assunta dal direttore regionale al tempo anche deputato iscritto al gruppo repubblicano (e a Montecitorio eletto con i decisivi voti dell’Edera continentale rifluiti nel collegio unico nazionale), è considerata, alla lunga, inaccettabile ed elemento tale da provocare la denuncia del patto politico-elettorale del 1963 fra PRI e PSd’A.
Si dà disponibile allora Corona, e con lui sono numerosi altri schieratisi nel fronte comune – dal patriarca Pietro Mastino ai consiglieri Puligheddu e Ruju (dal 1967 in gruppo autonomo integrato da Salvatore Ghirra), al segretario nuorese ed a numerosi altri esponenti in specie del Cagliaritano –, ad una rottura, neppure troppo lontana nel tempo, del Partito Sardo mal vissuto nelle sue ingessature talvolta retoriche e quasi di paura di più alte sintesi con esperienze nazionali: in prospettiva è un più robusto e convinto sodalizio con i repubblicani (e d’altra parte La Malfa chiama i sardisti “repubblicani di Sardegna”!) e, se necessario, una confluenza nel loro partito.
Può ben dirsi, ed è anzi dimostrato dai verbali di direzione, che per sei-otto mesi fra la fine del 1967 e l’inizio del 1968, è proprio Corona ad assumere in prima persona la rappresentanza della dissidenza destinata a sbocchi traumatici per i Quattro Mori sardi e sardisti. Da parte della dirigenza avversaria neppure gli è negata l’umiliazione di non poter parlare quando si presenta l’occasione di una possibile estrema conciliazione (è al congresso del PSd’A convocato a Cagliari ai primi di febbraio 1968). Peraltro la modifica statutaria che colloca il partito all’interno di un federalismo contemplante, per l’Isola, una “autonomia statuale”, abbatte ogni residuale margine di pacificazione ed incontro.
La prima opportunità colta dalla minoranza e, in prima persona, da Armando Corona per rompere formalmente con il suo partito ed orientare il proprio futuro verso il PRI è la candidatura alle politiche della primavera 1968 appunto nella lista repubblicana ormai disimpegnata dalle trascorse intese. E da tanto azzardo verrà, inevitabile, l’espulsione dal Partito Sardo (con Corona, che nell’occasione ha raccolto 2.583 voti di preferenza, gli altri otto suoi compagni d’avventura, la metà dei quali saranno anch’essi domani, fra Cagliari, Sassari ed Oristano, nelle frequentazioni di loggia: Bellisai, Caredda, Maccioni, Marcello, Marletta, Mele, Racugno ed Uras).
Raccoltisi gli scissionisti nel Movimento Sardista Autonomista “per una democrazia di base” (avendo per simbolo la sagoma della Sardegna), con Ruiu e poi Ghirra come coordinatore, il cimento d’esordio – con Corona sempre prim’attore – è nel 1969 al rinnovo del Consiglio regionale: sono poco più di 22mila i consensi alle tre liste provinciali, 12mila nel Cagliaritano. Assommano a 4.980 le preferenze di Corona capolista (1.383 a Cagliari città).
La collocazione politica di Armando Corona e del suo partito (o del partito doppio in associazione, PRI e MSA) è, nella VI legislatura, di riserva rispetto alle giunte che vanno via via, con qualche eccezione e in rapide successioni di crisi e nuovi affacci, presentandosi al voto consiliare imperniate sulla prevalenza democristiana e sotterranei accordi con il PCI, auspice il Partito Sardo d’Azione anch’esso costretto, dopo la scissione, a nuovo riposizionamento (tanto da arrivare nel 1972 ad apparentamenti elettorali, all’apparenza innaturali, con i comunisti). È il tempo delle giunte Del Rio, Abis ma poi soprattutto Giagu. Il voto in aula è più volte di opposizione, talvolta di appoggio esterno.
È di questi anni il processo penale intentato a carico del dottor Berretta per la mala gestione della “Salus” di Solanas (quella di assistenza ai malati psichici “dati in appalto”) che registra anche la deposizione in tribunale dello stesso Corona circa la grave mancata osservanza delle tabelle dietetiche. Così nell’aprile 1970, lo stesso mese che vede i giornali dare comprensibilmente precedenza e prevalenza ad altre cronache, quelle dello scudetto del Cagliari e della visita di papa Paolo VI in Sardegna… Sul piano politico, è sempre di questi anni – del 1972 precisamente – la possibilità dell’assunzione dell’assessorato regionale agli Enti Locali da parte di Corona, possibilità frustrata dal voto dei franchi tiratori democristiani nel segreto dell’urna che boccia la nuova giunta Spano.
Lo sviluppo della pratica osmosi fra i repubblicani storici ed i repubblicani confluiti è naturalmente graduale, non esente da difficoltà che comunque Corona riesce a gestire con sufficiente pazienza e lungimiranza, affidando a uomini di fiducia la cura dei rapporti con le organizzazioni parallele, quelle giovanile e femminile in primis, ma poi anche l’ENDAS per le attività culturali e l’AGCI operante nel mondo cooperativo, la UIL e il suo patronato ITAL.
Un discorso chiaro di programma ai comunisti, no all’assemblearismo
Certamente egli è il protagonista assoluto del XIV congresso regionale del PRI in svolgimento all’Auditorium di Cagliari (al quale partecipa, confuso fra i delegati dei 3.000 iscritti, anche il professor Romagnino, autorevole presidente della locale sezione di Italia Nostra). Nette le parole del segretario politico:
Ora i comunisti di fatto governano per interposta persona, in questo caso attraverso il PSd’A. Noi a questo tipo di opposizione che non è opposizione vogliamo sostituire un programma ben preciso che deve essere il programma delle sinistre in alternativa a quello della DC. Non abbiamo mire di potere, vogliamo restare all’opposizione perché siamo contrari ad ogni forma di assemblearismo. La nostra iniziativa vuole avere il significato di una sfida nei confronti dei comunisti, per verificarne la volontà e la disponibilità per questo tipo di politica, e per ricreare a sinistra un discorso comune.
E inoltre:
Se la Democrazia Cristiana trova un discorso chiaro e unitario, noi siamo disponibili. Ma se il discorso si fa solo sui numeri, con la sola preoccupazione dei voti dei franchi tiratori… allora noi non siamo per niente d’accordo. Noi abbiamo stigmatizzato l’inclusione dei sardisti perché si sono prestati al gioco dei numeri e perché sono stati imposti dal PCI; ora i proponiamo di fare il discorso nuovo con il PSd’A.
Analizzate le cause dei perduranti ritardi nello sviluppo socio-economico isolano, egli rilancia proponendo priorità alternative nella spendita dei mille miliardi (saranno poi seicento) dell’atteso nuovo piano di Rinascita. Dice:
È intrinseco, nel metodo delle incentivazioni, che la Regione rinuncia ad ogni disegno programmatico e si fa sostituire nelle scelte, sia ubicazionali che settoriali, dai privati generalmente di estrazione continentale e quindi lontani, se non estranei, alla realtà sarda, portati spontaneamente e legittimamente ad impostare le proprie decisioni in rapporto a previsioni di mero profitto. Di qui lo scollamento tra la realtà socio-economica dell’Isola e il tipo di sviluppo fin qui conseguito. Ma vi è di più: il meccanismo delle incentivazioni troppo frequentemente ha attirato in Sardegna industriali improvvisati, incapaci e spesso spregiudicati, le cui scelte operative erano determinate dalla possibilità di ottenere finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto. È quindi del tutto naturale che, in assenza di qualunque ruolo guida della Regione, l’iniziativa privata si è concentrata su settori industriali ad alta intensità di capitale e a basso livello occupativo, e si è insediata in quelle zone più favorite per preesistenti infrastrutture e per favorevole posizione geografica. Ciò ha contribuito a creare fenomeni di congestione a Cagliari e a Porto Torres e ad aggravare lo spopolamento delle zone interne, sottraendo energie all’agricoltura e ad altri settori, compromettendo quindi gli equilibri sia territoriali che settoriali.
L’obiettivo repubblicano – sostiene ancora – è di superare le strettoie della industrializzazione per poli, favorendo una diffusa industria manifatturiera, di standing medio-piccolo. Così anche nel settore agricolo, da emancipare con logiche produttivistiche e di reddito remunerativo dell’investimento. Pare necessaria la «elaborazione di un inventario delle risorse regionali disponibili e la costruzione di una matrice delle interdipendenze settoriali. Tali strumenti dovranno costituire – conclude Corona – la base per la futura reimpostazione dell’intera politica regionale di programmazione» e l’approvazione immediata del V programma esecutivo del piano di Rinascita «che da una parte blocchi tutti i finanziamenti pubblici agevolati non ancora deliberati a favore delle attività produttive ad alto rapporto capitale-lavoro, e dall’altra indirizzi i fondi residui del vecchio piano di Rinascita al finanziamento di attività produttive a basso rapporto capitale-lavoro, nell’ambito delle quali dovranno assumere prioritaria importanza le attività produttive del settore agricolo e quelle ad esso correlate».
Dopo l’exploit congressuale, che lo segnala a tutti dirigente politico senz’altro di alto livello, egli si dimette dalla segreteria con una lettera personale, dai tratti perfino confidenziali, ai colleghi della nuova direzione regionale. Eccola:
Il nostro Partito soffre, come tutte le strutture della Sardegna, del triste fenomeno dell’insularità che hanno reso rari ed episodici i contatti tra la direzione sarda del partito e quella nazionale. I viaggi a Roma richiedono una disponibilità di tempo che chi oltre a reggere il Partito lo deve rappresentare in solitudine al consiglio regionale (in aula, nelle commissioni, nelle riunioni dei gruppi ed in tutte le articolazioni della vita consiliare) non riesce assolutamente a trovare.
Ho inoltre fondata certezza che in provincia di Sassari e di Nuoro il Partito si muova poco o nulla, il che porrà ancora una volta l’eletto nella provincia di Cagliari a rappresentare il Partito al consiglio regionale in drammatica solitudine – con l’aggravante che un partito che non cresce è un partito malato – e destinato al discredito nell’opinione pubblica e delle altre forze politiche.
Nell’aderire al PRI ho considerato prevalenti la affinità ideologica e programmatica, nonché il grande rigore morale con cui esso ha sempre affrontato, nel paese, i problemi della libertà, della democrazia, della giustizia sociale e del laicismo. Né ho mancato di considerare che l’ingresso in un partito nazionale ci avrebbe potuto aiutare a crescere fino a diventare una componente importante delle forze politiche sarde. Noi abbiamo compiuto ogni sforzo per raggiungere tale obiettivo.
Privo o quasi di mezzi finanziari, mancante di strutture organizzative efficienti (ciò in gran parte dovuto alla deficienza di mezzi), non inserito in alcun organismo di potere o di sottogoverno (nessuna presidenza né alcun consigliere d’amministrazione nei 40 enti più importanti operanti in Sardegna), senza alcun membro nella direzione nazionale, senza eletti al senato e alla camera, il Partito ha finora combattuto la sua battaglia per la sopravvivenza in condizioni eroiche.
Ha difeso la linea nazionale del PRI, ne ha mantenuto integro il prestigio con un’azione quotidiana seria, responsabile e rigorosa senza mai nulla concedere, in nessun angolo della Regione, ad interessi che non fossero quelli del popolo sardo. Di ciò va dato merito a tutto il Partito ed alla sua dirigenza ai vari livelli e nelle varie consociazioni. Ne è stata significativa e testimonianza l’unanime approvazione della linea politica seguita e la riconferma della struttura dirigenziale uscente.
Ma a questo impegno come ha risposto la dirigenza nazionale? In occasione dell’ultima crisi regionale c’è stato un marcato disinteresse della nostra situazione e dei nostri problemi. È stato infatti consentito alla DC di bocciare in consiglio la giunta di centro-sinistra organico con la nostra partecipazione e la immediata ricostituzione di una nuova giunta con la nostra esclusione e la partecipazione del Partito Sardo d’Azione. La nostra presenza in giunta ci avrebbe consentito l’espansione del Partito e l’elezione di almeno un altro consigliere, e perciò avevamo sollecitato la Direzione Nazione ad un impegno tenace.
In quel momento il PRI faceva parte della maggioranza e secondo l’on. La Malfa la richiesta a Forlani od Andreotti di un intervento a nostro favore avrebbe immediatamente provocato la sollecitazione all’ingresso nel governo dei repubblicani. Poiché tale richiesta poteva mettere in imbarazzo la segreteria nazionale non fu fatto alcun passo con la conseguenza che siamo stati umiliati senza nessuna possibilità di difesa.
Poiché sono convinto che anche ora che siamo al governo non mancheranno giustificazioni per continuare a pensare in termini distaccati al Partito in Sardegna, come è avvenuto per il passato […] desidero non essere rieletto segretario regionale nella speranza che altri sia più fortunato di me.
Una petizione appassionata nella sua cortesia e discrezione (e poggiata anche sulla sconsolata consapevolezza della povertà dei mezzi materiali e di propaganda disponibili… con i discorsi consiliari diffusi col ciclostile!), ma all’unanimità la direzione regionale repubblicana chiede al segretario il sacrificio di mantenere il suo ufficio, ed egli finisce per cedere. Sa che il suo prestigio personale è una carta troppo importante cui l’Edera che nacque nobilmente mazziniana non può, nell’Isola, rinunciare.
Nella tarda primavera del 1974 il rinnovo consiliare. Corona è ancora il candidato di punta, e anzi capolista in tutti e tre i collegi provinciali, ma un infarto lo blocca fra ospedale e casa. La circostanza viene taciuta per evitare ricadute penalizzanti sul voto che complessivamente finisce per confermare quasi integra la forza (o la debolezza) elettorale precedente. La Voce Repubblicana fa la sua parte, in supporto, con diversi speciali sulla Sardegna e la speranza di un rifinanziamento, pur a nuove e rigorose condizioni, del piano di Rinascita: «Oltre che dall’art. 13 dello Statuto speciale, l’impegno dello Stato per migliorare le condizioni economiche e sociali dell’Isola è scaturito anche dai risultati dell’indagine che la commissione parlamentare ha condotto sulle cause dei fenomeni di criminalità in Sardegna […]. Dall’ultima di queste è scaturita l’iniziativa dei partiti dell’arco costituzionale i cui presidenti di gruppo, al Senato, hanno sottoscritto il disegno di legge n. 509.
«Il Consiglio regionale per suo conto aveva già approvato e inviato ufficialmente un ordine del giorno in cui chiedeva allo Stato il rifinanziamento del “Piano di Rinascita” […]. I repubblicani, nella persona dell’on. Armandino Corona, sottoscrissero l’ordine del giorno e impegnarono il Partito a sostenere la battaglia per la rinascita dell’Isola, ma durante il dibattito che precedette la presentazione di questo ordine del giorno tennero a chiarire bene quale significato avesse la battaglia repubblicana per la rinascita della Sardegna e come essa intendesse capovolgere la logica clientelare, settoriale ed occasionale che aveva ispirato l’azione politica delle altre forze.
«I repubblicani infatti non possono dimenticare che nel momento in cui sta scadendo la legge 588 giacciono inutilizzati nelle casse della Regione ben 150 miliardi dei fondi della stessa legge, e questo perché il V programma esecutivo non è stato approvato dall’Assemblea regionale. Non possiamo neppure dimenticare che solo ora, dopo cinque anni, potrà forse essere applicato il Piano della Pastorizia (80 miliardi dello Stato, e 20 della Regione). Se poi consideriamo i 120 miliardi del bilancio ordinario, vediamo che la Regione può già disporre di oltre 350 miliardi. Non è quindi propriamente una questione di soldi. Questo è il punto. Infatti le forze politiche che hanno governato la Regione finora, ivi compresi i comunisti che hanno rinunciato al loro ruolo di oppositori, hanno ampiamente dimostrato di non poter spendere perché non hanno il coraggio di fare scelte. Da qui il polverone demagogico per accecare gli occhi degli elettori sardi, sperando che i discorsi sulle inadempienze dello Stato facciano dimenticare questa sesta legislatura regionale durante la quale non è stata approvata alcuna legge di rilievo e, con otto crisi dettate da questioni di potere, si è tenuta paralizzata l’Amministrazione regionale».
Nella cruciale VII legislatura regionale
Rieletto con 3.519 preferenze personali, per Armando Corona si prospetta, forse ancora in solitudine o forse no, il nuovo lavoro nella VII legislatura. La linea del partito esposta al congresso convocato nell’autunno dello stesso 1974 (in parallelo all’esordio del governo bicolore Moro-La Malfa) rimane quella del centro-sinistra, contraria agli accordi nascosti fra democristiani e comunisti, ma meglio definendo programmaticamente l’area cosiddetta intermedia. In verità, a giudizio di diversi osservatori, il PRI è ancora incerto nella sua strategia, quasi che i suoi numeri lo scoraggino dal forzare gli altri protagonisti della scena politica ad “inventare”, con esso, il nuovo. Eppure l’analisi che Corona compie nella sua articolata relazione ai delegati del centinaio di sezioni attive sul territorio è approfondita e forse largamente condivisibile anche dalle formazioni concorrenti: sulla permanente arretratezza del settore agricolo, sul modello industriale che inquina e non dà occupazione né verticalizza le produzioni, sulla inefficienza della pubblica amministrazione, Regione compresa.
La conclusiva mozione raccoglie 2.300 voti congressuali che infine significano 18 eletti nella direzione regionale e significano anche, per Corona, la rielezione alla segreteria politica.
Congresso dopo congresso – e intanto vengono gli incarichi nazionali – egli consolida la sua immagine di grande mediatore non per la staticità però, bensì per un avanzamento dell’intero quadro politico regionale in vista di un riequilibrio negoziale fra Regione ed Amministrazione centrale, ministeriale cioè, dello Stato. È quello che si definirà “unità autonomistica” e vedrà la piena corresponsabilità del PCI nei ruoli istituzionali (Raggio presidente del Consiglio regionale) e nell’appoggio esterno (di fatto) alla giunta Soddu con Corona assessore/vice presidente. Di più: nel 1976 la dolorosa scomparsa di Giovanni Battista Melis, solo rappresentante del PSd’A nell’Assemblea, riporta in Consiglio Bruno Fadda che nel frattempo è stato espulso anche lui dal Partito Sardo (ormai fattosi nazionalitario indipendentista) e, prima di entrare con i suoi del MAPS nel Partito Repubblicano Italiano, offre validissima collaborazione a Corona nel lavoro d’Aula e di commissione per conto del gruppo misto.
Sono due anni, il 1975 ed il 1976, in cui Corona ed i suoi impostano una proposta politica che coinvolge l’intero schieramento democratico e che per qualche anno – fino al 1979 – marcherà il profilo della classe dirigente sarda chiamata a una più alta prova di consapevolezza e responsabilità collettiva. «Attraverso l’opera intelligente dell’amico Corona si è fatta strada nella pubblica opinione l’immagine di un partito vivo, pulito, estremamente rigoroso nel combattere le degenerazioni istituzionali, le sacche del parassitismo, le pratiche di sottogoverno e di clientelismo. Aspetti, questi, che […] rappresentano i peggiori nemici del meridionalismo democratico che il PRI impersona – sostiene Lello Puddu al congresso nazionale in svolgimento a Genova –. A questo impegno il PRI sardo non poteva abdicare, erede come è della più integrale concezione autonomistica, svolgendo la sua costante funzione critica nei confronti delle pratiche di accordi sottobanco, di assemblearismo, di mera spartizione del potere, che DC e PCI hanno messo in atto in occasione dei primi accenni di realizzazione della “repubblica conciliare” nella periferia».
Già ad una conferenza-stampa convocata nella primavera del 1975, quando ancora lealmente appoggia la giunta DC-PSI-PSDI a presidenza Del Rio, Corona segnala l’esigenza di una più puntuale attuazione delle intese interpartitiche: il V programma esecutivo, il piano della pastorizia, la riforma burocratica e quella degli enti (inclusa l’abolizione di quelli inutili). Fra le priorità, in evidenza si pongono la moralizzazione amministrativa e la maggior autonomia degli enti locali in una rinnovata formula delle aggregazioni territoriali nelle comunità montane e nei comprensori (e si dirà delle unioni dei comuni). In una sua traduzione dei propositi così espressi e delle interlocuzioni cercate con i maggiori partiti, Tuttoquotidiano scrive che i repubblicani intenderebbero il “fronte laico” (quello della terza forza con liberali e socialdemocratici) come una «marcia indietro, spostarsi verso destra» e dunque opzione non praticabile.
In una tribuna circolare, a settembre L’Unione Sarda interpella i maggiori esponenti di partito isolani per una valutazione sull’andamento della politica nazionale e, naturalmente, il suo rapporto con la situazione locale. Quando gli tocca, Corona evidenzia la fattività politico-amministrativa del bicolore Moro-La Malfa, a fronte delle fibrillazioni continue che vengono dall’area socialista che il governo appoggia con scarsa convinzione e l’urgenza di una verifica programmatica a tutto tondo in Sardegna, primo passo verso quella generale corresponsabilizzazione di cui innanzi s’è detto:
Il confronto che chiediamo deve essere ampio e profondo. Non può essere evasivo sia rispetto ai problemi drammatici del momento […] né deve essere affrettato come troppo spesso è accaduto in passato. Deve inoltre coinvolgere l’opposizione, non solo perché un confronto serio non può essere limitato e circoscritto alle forze che reggono la Giunta ma soprattutto perché anche in Sardegna i risultati del 15 giugno hanno modificato i rapporti tra maggioranza e opposizione. A noi preme, per la fedeltà ai problemi di concretezza, che il confronto riguardi le materie più gravi, e ne abbiamo accennato alcune, senza attestarci nella semplice e pura analisi ma indicando linee politiche e criteri operativi capaci di capovolgere l’esperienza negativa del passato. In tale angolazione è necessario decidere senza indugio se si vuole continuare a privilegiare il criterio caritativo-assistenziale, che ha finora prevalso nella gestione dell’amministrazione regionale, ovvero ritrovare comportamenti nuovi ispirati alle esigenze di utilizzare in modo rigorosamente selettivo le scarse risorse disponibili.
Riteniamo che in questa lotta contro gli sprechi, il parassitismo, i rami secchi della pubblica e privata imprenditoria sia determinante l’atteggiarsi del PCI: c’è il rischio infatti che la capacità e la consuetudine a rappresentare interessi tra loro non omogenei e quindi non conciliabili, finisca per offrire alla maggioranza l’occasione per continuare sulla strada del passato. In sostanza il popolo sardo attende finalmente da tutte le forze politiche, e soprattutto da quelle privilegiate dal voto [amministrativo] del 15 giugno, l’indicazione che è possibile con lo sforzo di tutti uscire dalla profonda crisi in cui ci troviamo.
La stampa regionale pare scoprire, invero con qualche ritardo, quanto di originale e innovativo possa venire dalla formazione che pure i numeri segnalano come la più esigua del panorama politico regionale. E su La Nuova Sardegna come sui giornali di Cagliari, L’Unione Sarda e Tuttoquotidiano cioè, sono sempre più frequenti le interviste agli esponenti del PRI (ed a Corona in primo luogo) ed i loro interventi, fra editoriali e tribune libere.
Fra il molto merita citare l’articolo “Crisi e programmazione” che a firma di Armando Corona esce su Tuttoquotidiano del 18 febbraio 1976: «Bisognerà collegare con un rapporto di immediatezza e continuità momenti sinora distinti e divaricati come quelli dell’indirizzo e della esecuzione degli interventi. Per questo la partecipazione dei sindacati e delle forze sociali nel comitato della programmazione ha un valore di controllo e di stimolo “dall’interno” dell’azione pubblica regionale».
La descrizione dello stato economico isolano è efficace, appartenendo ai «mali nuovi ed antichi» elencati «la gracilità delle industrie “bambine” e il fatto che altre industrie sono nate vecchie prive di forza, ma ricche di capacità di intrallazzare e manovrare». Elenca gli altri peccati:
i limiti dell’agricoltura, che è venuta perdendo incidenza economica e rilevanza sociale nel contesto sardo percorso da quindici anni dalla febbre dell’industrializzazione; la carenza dei servizi sociali che ci assimila ai paesi del terzo mondo prima che emergessero dalla crisi del colonialismo.
L’urgenza di provvedimenti capaci d’essere di propulsione allo sviluppo non ne può, per se stessa, generare di «estemporanei ed abborracciati». Precisa meglio:
Non si debbono finanziare industrie da riconvertire magari tra due anni. Non si devono accettare i ricatti di imprenditori di pochi scrupoli che in cambio della scarsa occupazione promessa pompino miliardi dai fondi pubblici. Non si può tornare alla pioggerellina di opere pubbliche, magari una per ogni paese, cara agli Anni Cinquanta… La programmazione è coordinamento dell’attività economica pubblica e privata nei vari settori in cui si rivolge. Esige rigore di metodo e chiarezza di obiettivi. Richiede anche un minimo di rispetto per chi a livello di responsabilità di impresa si fa carico di realizzare gli interventi. Esige soprattutto riflessione e studio.
Ma come contemperare emergenza e tempistica programmatoria? La risposta:
Non è detto che il superamento dell’attuale modello di sviluppo debba essere preclusivo di ogni iniziativa prevista ed elaborata in altre fasi. Alcuni esempi. L’utilizzazione del carbone Sulcis sembra uscita dalla fase di indagine e di studio per avviarsi verso prospettive concrete. Mentre si vanno rivelando certi insuccessi economici nella produzione dell’alluminio, la ripresa del carbone potrebbe essere un’iniziativa utile a migliorare la bilancia dei pagamenti con l’estero ed a compensare le mancate occasioni di lavoro nel bacino del Sulcis…
Vi sono attività industriali che non comportino inquinamento e non siano caratterizzate dall’alto tasso di investimento per addetto? Si pensi all’agro-industria, alle iniziative di trasformazione dei prodotti della terra. In agricoltura vanno maturando iniziative cooperative per lo sviluppo della zootecnica capaci di correggere l’attuale squilibrio isolano causato dalla importazione delle carni. Non vi è solo la superporcilaia approvata dal CIPE.
Il comparto della edilizia pubblica e abitativa, la cui crisi ha raggiunto nel 1975 punti di riduzione del 40-50 per cento rispetto all’anno precedente, aspetta ancora interventi, e vi è fame di case e di opere sociali. Anche in questi comparti non mancano certo progetti e proposte valide da eseguire.
In un nuovo articolo per lo stesso giornale diretto da Piercarlo Carta (cf. (“Contro la crisi più forza al PRI”), alla vigilia del voto politico del 1976, Corona fornisce una rappresentazione a tutto tondo della visione politica del suo partito “ago della bilancia” in molte situazioni, nonostante la esiguità delle sue forze numeriche, ribadendo la centralità degli indirizzi programmatori e l’europeismo modernizzatore come stella guida delle iniziative di governo:
Le posizioni della DC, del PSI e del PCI appaiono, nel corso dell’attuale campagna elettorale, nettissime e duramente contrastanti, l’una rispetto all’altra, per cui, dopo le votazioni, il panorama politico apparirà assai più oscuro e drammatico. Se la DC sarà il partito di maggioranza relativa, essa dovrà trattare non solo con i partiti laici, ed in primo luogo con il PRI, ma anche con il PSI il quale continua a porre la condizione di voler partecipare ad un governo solo se i comunisti governeranno con essi o saranno almeno in maggioranza. È quindi difficile pensare, nonostante le belle dichiarazioni attuali dei tre partiti, come la DC possa uscire da una situazione […]. Infatti, o i socialisti cambiano indirizzo e la DC sarà coerente alle sue impostazioni elettorali, o non cambiano e la DC si troverà di fronte all’alternativa di una rottura o di una accettazione del punto di vista socialista…
È in vista di una situazione così piena di incognite […] che il PRI, di fronte alle possibili maggioranze e ai possibili governi, si è arroccato per poter decidere con piena conoscenza di tutti i dati della situazione, su due posizioni fondamentali […]: la prima riguarda il programma economico e la sua capacità di arrestare la crisi profonda che travaglia il paese, rovesciando la tendenza in atto verso il peggioramento; la seconda attiene alla permanenza ferma dell’Italia nel sistema della civiltà occidentale, sia dal punto di vista politico ed economico che militare.
Circa l’evoluzione politica in Sardegna:
Ci comporteremo come nel passato: privilegiando e considerando prioritario tutto ciò che consentirà di spendere le risorse finanziarie disponibili in tempi brevi, secondo le linee dei programmi recentemente approvati, attraverso una regione più efficiente, più puntuale, più giusta, nell’interesse preminente del mondo del lavoro; per la scomparsa della disoccupazione intellettuale, operaia, femminile e soprattutto di quella giovanile. Coloro che vorranno realizzare tali istanze avranno il nostro consenso ed il nostro appoggio purché ci siano concreti segni che i programmi non saranno il solito libro dei sogni e le solite esercitazioni verbali senza seguito.
La stagione della solidarietà autonomistica
Il XVI congresso regionale repubblicano è convocato, come i precedenti tre, a Cagliari, anch’esso nel salone Casmez della Fiera Internazionale, ai primi di novembre del 1976, alla vigilia cioè di un evento che, per il partito in Sardegna, è storico: l’ingresso per la prima volta (dopo l’esperienza mancata del 1972) di un proprio esponente nella giunta di governo. Sarà ovviamente lui, Armando Corona adesso 55enne, in un esecutivo quadripartito di centro-sinistra, ma in un quadro di “unità autonomistica”, a presidenza Soddu ed a pariteticità di partecipazione negli assessorati fra esponenti democristiani ed esponenti delle forze riformatrici laiche e socialiste.
Intervenendo nel dibattito, egli sostiene che il patto autonomistico costituisce la sola risposta alla emergenza sociale ed economica vissuta dall’Isola, che esige un temporaneo allentamento della normale e corretta dialettica maggioranza/minoranza (da sempre invece da lui affermata come normale pratica democratica nelle istituzioni rappresentative). Corona si pone, e tale è generalmente riconosciuto, come il motore e regista dell’operazione e gioca le sue carte anche nella convinzione che il suo partito possa avvantaggiarsene in autorevolezza, indipendentemente dalle dimensioni delle proprie strutture e della raccolta elettorale.
Nel gennaio 1977 prende così avvio, come accennato, l’esperienza della “unità autonomistica” sostenuta da nuovi equilibri anche nella copertura dei maggiori incarichi istituzionali e politici, fra Consiglio e giunta, fra le forze tradizionalmente di maggioranza e il Partito Comunista Italiano. Ad essa farà seguito, per restare in carica fino alla fine della legislatura, un esecutivo privo della partecipazione socialista, ma sempre a presidenza Soddu e ancora con la presenza, alla testa del medesimo assessorato, di Corona.
Precede di poche settimane la formalizzazione degli accordi che porteranno alla nuova giunta una lunga intervista del leader repubblicano a La Nuova Sardegna (cf. “Niente crisi se tutti stanno ai patti”), nella quale egli si dice fiducioso circa la stabilità della nuovo quadro politico: «In pratica si tratterà – dice – di partecipare alla sanatoria della crisi in atto nella nostra regione con un diverso atteggiamento delle forze politiche e sociali. Ad una crisi profonda che investe tutto – la povertà di mezzi, l’incapacità di spendere dell’amministrazione regionale, un certo distacco dai problemi reali della classe politica –, le forze politiche con grande senso di umiltà e spirito di sacrificio intendono rispondere senza demagogie facendo sì che d’ora in poi tutto ciò che si spenderà in Sardegna venga speso secondo un indirizzo programmatico».
Competendo a lui la responsabilità della riforma dell’apparato regionale (secondo le intese ancora in fieri), il futuro assessore affaccia alcune linee d’intervento destinate a rifluire nel disegno di legge della giunta: si tratta di metter mano non soltanto alla burocrazia – attraverso il sistema dei dipartimenti aggregativi degli diversi assessorati – ma al cosiddetto “governo complessivo” della Regione, puntando anche alla funzionalità dell’esecutivo come organo collegiale (è ivi compreso il rapporto assessore/presidente), alla relazione fra Consiglio e giunta, ed alla operatività della rete degli enti strumentali alcuni dei quali paiono al momento quasi isole autoreferenziali:
Ci appelliamo alla programmazione non solo e non tanto perché essa, dal punto di vista della spendita del denaro e del raggiungimento dei fini che ci proponiamo, è un mezzo essenziale e non surrogabile, ma soprattutto perché è opinione comune di tutte le forze autonomistiche che la programmazione è innanzitutto un fatto morale, cioè bisogna spendere le poche risorse che abbiamo per fini precisi con scale di priorità e con scadenze determinanti, senza dispersione di alcun genere, e senza cedere a pressioni di alcun tipo, né interne né esterne…
La ristrutturazione dell’amministrazione regionale, intesa nel senso della burocrazia regionale, è importante, sia per ridare spazio a tutte le capacità di cui sono dotati i funzionari della Regione, sia perché la riforma della burocrazia è indispensabile se vogliamo dare un atteggiamento nuovo alla forma di rappresentanza esterna della giunta. Se i dipartimenti debbono funzionare come collegamento tra assessorati consimili dal punto di vista dell’amministrazione politica e sociale, è chiaro anche che vi deve essere un “bacino” amministrativo, e quindi burocratico, disponibile per questi gruppi di lavoro. L’altro aspetto della riforma è quello del governo cosiddetto complessivo della Regione, cioè la riforma non deve investire soltanto la burocrazia ma anche gli enti regionali, cioè quegli strumenti di azione di cui la giunta regionale dispone e che il Consiglio regionale sta guidando con sempre maggiore interesse. Se gli enti funzionano a latere della capacità esecutiva della giunta ci sarà un centro di rafforzamento della programmazione regionale. Se gli enti saranno compresi tra quei centri che possono attivamente partecipare alla realizzazione del programma noi avremo una volontà politica espressa dal Consiglio, un organo esecutivo che è la giunta nella sua collegialità, l’amministrazione che facilita, agevola e traduce in fatti amministrativi quella volontà, e infine gli enti che incideranno nella realtà sociale secondo questa volontà politico amministrativa.
Altro aspetto della riforma riguarda l’esecutivo. Esiste da diverso tempo una grande fluidità nei rapporti tra esecutivo e Consiglio, e all’interno dell’esecutivo stesso, cioè fra giunta e presidente, fra presidente ed i singoli assessori, e addirittura esistono rapporti abbastanza fluidi tra l’esecutivo nel suo insieme ed alcune fette dell’amministrazione che non soggiacciono alla disciplina ed alla collegialità dell’esecutivo […]. Nessuno vuol tornare agli anni ’50, quando la giunta era rappresentante assoluto della Regione. Nessuno vuole imitare certe forme assembleari a cui sono giunte alcune Regioni a statuto ordinario nella penisola. Si tratta di trovare una giusta sistemazione, per cui il Consiglio resta sempre l’organo sovrano, da cui trae legittimazione sia il presidente sia la giunta sia il programma, però non possiamo neanche negare che, una volta che ciò avvenga pur nell’ambito dell’attuazione del programma approvato dal Consiglio, la giunta abbia un minimo di autonomia e di capacità ad esplicare la propria azione e la propria fantasia.
L’operazione Fadda
È già assessore da un anno, Corona, quando il 12 febbraio 1978 accompagna, con Lello Puddu e Mario Pinna (nuovo segretario regionale in subentro a Salvator Angelo Razzu che ha retto la carica per un anno circa), Bruno Fadda ad un incontro con l’on. Ugo La Malfa a Roma. Ne viene una conclusiva dichiarazione politica in senso nettamente antiseparatista e di adesione del MAPS «alla cultura, al pensiero sociale ed economico del PRI».
Formalmente la confluenza è celebrata, quasi due mesi dopo, in una grande assemblea alla Fiera di Cagliari, alla presenza del segretario politico nazionale Oddo Biasini. È ancora Corona, naturalmente, ad aprire i lavori ricordando il comune impegno da lui profuso ormai da un biennio, proprio insieme con Fadda, nelle diverse attività del Consiglio regionale e la comune matrice sardista e dando anche lettura del messaggio fatto pervenire dall’anziano presidente del partito: «Tenete alto cari amici sardi con fermezza l’ideale dell’autonomismo democratico e del sardismo. Esso è stato il sostegno più importante nei giorni difficili della dittatura, lo sarà ancora in questi giorni altrettanto duri della Repubblica».
Ancora 1978: nella più turbinosa stagione del terrorismo brigatista, e ad un mese soltanto dal ritrovamento del cadavere dell’on. Moro, si svolge a Roma il XXXIII congresso nazionale del PRI. Fra i delegati sardi che prendono la parola dalla tribuna, riportando la realtà isolana nel contesto nazionale fattosi ormai drammatico è ancora Armando Corona:
In uno stato di emergenza e di terrorismo c’è poco spazio per le polemiche, non c’è spazio alcuno per la dottrina e per i bizantinismi, c’è solo da ricostruire tutto l’apparato democratico; se come oggi è in serio pericolo non solo lo stato nato dal risorgimento, cioè è in serio pericolo tutto il nostro patrimonio nazionale, contro il terrorismo non resta che la difesa della Repubblica con tutti i mezzi. Chi attribuisce al PRI un ruolo di pura mediazione politica non tiene conto di una sua indiscussa autonomia conquistata attraverso i colpi durissimi che esso ha inflitto all’area del potere e dimentica che qualunque altra strategia lo avrebbe respinto all’isolamento e all’emarginazione.
Le accuse che hanno portato al processo di destabilizzazione dello stato democratico sono recenti e lontane; alla recente esplosione del movimento di autonomia operaia, alla contestazione sessantottesca, alla incapacità della classe politica sindacale italiana di intendere nella sua portata storica la proposta di La Malfa sulla politica dei redditi, alla emarginazione del potere della classe lavoratrice. Era quindi naturale che la spinta di interessi incontrollati portasse ad un processo di sfaldamento, di disgregazione, di destabilizzazione della nostra Repubblica. Ma il PRI ha energie potenziali, le energie sufficienti per distruggere certi miti, perché i repubblicani come non sono mai venuti meno sul piano dell’integrità morale, così hanno indicato con lucido realismo e determinazione i metodi e le vie da seguire per la soluzione dei problemi della nostra società.
Il momento presente ci obbliga ad una scelta storicistica della cultura, questa forse è l’unica strada percorribile e lo dimostrano le recenti consultazione elettorali. D’altra parte uscire da questa logica vuol dire negare la realtà storica, attestarsi su posizioni reazionarie.
La linea del PRI à stata sempre limpidissima e coerente. Nella tragica vicenda dell’on. Aldo Moro i repubblicani sono stati i più intransigenti e più rigorosi, ma non meno sensibili, mentre la coscienza morale e civile democratica del Paese si è ridestata. Mentre oggi il PCI si dibatte nella considerazione gramsciana di egemonia e di pluralismo, nella contraddizione tra socialismo e democrazia, mentre il PSI cerca ansiosamente di chiarire un progetto di sviluppo basato sull’autogestione, il PRI col suo progetto del patto sociale è l’unico in grado di garantire il cosiddetto piano di rientro, è e rimane il più realistico.
All’interpretazione poi del ruolo del sindacato, di svincolarsi dalle responsabilità proprie, contrasta l’etica mazziniana e repubblicana, perché esalta il privilegio di alcune caste sociali, fa esplodere le rivendicazioni indiscriminate, crea la famigerata giungla retributiva e aggredisce l’apparato economico dello Stato.
Conclude così:
Nel consolidamento delle istituzioni attraverso una riforma della giustizia e nei contenuti del patto sociale il PRI deve cercare gli strumenti idonei a conservare la nostra Repubblica.
Nel Collegio nazionale dei probiviri Corona, presidente uscente, è confermato con vivi apprezzamenti.
Quella volta l’iniziazione
Nel marzo dello stesso 1978 L’Espresso pubblica i nomi dei Venerabili delle logge giustinianee di tutt’Italia. Fra gli altri compare – ed è la prima volta – quello di Corona come titolare della cagliaritana intitolata ad Hiram, l’architetto del biblico Tempio di Salomone. Se problema politico in giunta c’è, egli lo affronta e non lo scansa, offrendo le dimissioni al presidente Pietro Soddu e al più largo arco politico del “patto autonomistico”. Ma la conferma di fiducia è piena e corale.
Va detto. Trasferitosi dalla loggia carboniese nel 1971, incardinato nella Hiram e presto – giugno 1976 – divenutone Venerabile (in successione a Mario Giglio), al Fratello Corona è pervenuto naturaliter anche l’incarico di presidente circoscrizionale sardo del Grande Oriente d’Italia: un essere primus inter pares che lo rimbalza, meno di tre anni dopo, in una commissione nazionale costituita per presidiare il corretto svolgersi delle elezioni del nuovo Gran Maestro della Comunione, dopo le dimissioni anticipate, fra le polemiche, del professor Lino Salvini. S’incontrano gli esponenti eletti dalle varie circoscrizioni, e la scelta del presidente cade, naturaliter un’altra volta, in capo ad Armando Corona. «I sardi sono fuori dai giri viziati», si sarà detto – si è detto – anche in quel contesto; è il modo pacato di porsi già nei primi momenti, nelle reciproche presentazioni, ad offrire al Venerabile sardo la nuova primazia.
Glielo aveva anticipato il Fratello Renato Meloni, l’Oratore della loggia Giovanni Mori, in quell’ottobre di nove anni prima:
«Mi sento onorato di porgere il mio e il nostro benvenuto al neofita fratello Corona…
«La Massoneria non è azione, ma pensiero che prepara l’azione, che estesa alla società profana divulga quei principi di umanità e fratellanza che sono inevitabili fattori per la realizzazione dell’umano progresso…
«Fratello Corona, tu hai poc’anzi bussato alla porta del Tempio… il Tempio ti è stato aperto e i fratelli in esso ti hanno aperto le braccia e ti hanno accolto per illuminarti di vivida luce, per indicarti la via del bene e della perfezione massonica.
«Ti saranno d’aiuto per risolvere i più ardui problemi della vita e a mano a mano ti faranno penetrare nei misteri più profondi…
«Stando e vivendo con noi e tra noi ti renderai conto che alla perfezione dello spirito si arriva solo attraverso le porte dell’umiltà, del sacrificio, e che nella vita spirituale come in quella materiale vi sono leggi da rispettare, e solo attraverso queste, conosciute e rispettate, potrai arrivare, Fratello Corona, ai gradi più alti della nostra famiglia».
Mi è occorso altre volte, in scritti o in conferenze, di dar conto di quella speciale tornata che segnò il battesimo massonico di colui che della Massoneria nazionale sarebbe divenuto un giorno nientemeno che il Magister Maximus… Val forse la pena di ripetere, magari con maggior sintesi, quella cronaca…
Il recipiendario – medico di professione – è un esponente politico con azioni al rialzo. Già segretario provinciale del PSd’A ed assessore con competenza all’Ospedale psichiatrico, è da qualche mese nell’Assemblea legislativa regionale, eletto nella lista MSA-PRI. «Moralità e costumi integerrimi», «medico molto apprezzato», «ottimo padre di famiglia», «la sua posizione può considerarsi agiata», hanno riferito i Fratelli informatori…
Cerimonia in tutta regola, guidata con sobrietà dal Venerabile Pintor e dominata dal Pot.mo Silicani. Il quale, insoddisfatto di una certa risposta – molto pragmatica – fornita dal candidato ad un quesito testamentario, chiede – con sorpresa di tutti – non di approvare ma semmai di approfondire...
Per lui, grado 33 del Rito Scozzese, il più influente nelle strategie del Grande Oriente d’Italia, ogni iniziazione è un affidamento che la Famiglia liberomuratoria concede all’onestà intellettuale ed al dinamismo spirituale di un profano che chiede di praticare quella particolare attività che, nei secoli, ha preso il nome di “ars regia”: la ricerca del Vero, attraverso l’ascolto, il dialogo, lo studio, la meditazione.
Se nessuna iniziazione può scivolare nella routine, e la qualità non può mai scadere per contentare la quantità, è certo credibile, ineluttabile, che egli scalpiti quando vede superficialità nelle istruttorie dei fascicoli che il proselitismo accumula sulla cattedra della Prima Luce della loggia. Così, quando ne avverte la necessità, interviene a scombinare il piatto svolgimento di un rituale cui deve assolutamente impedirsi di somigliare ad un copione fisso. Con sobria incisività interloquisce con il Maestro Venerabile e le Colonne, poi con lo stesso candidato del quale non è riuscito a cogliere, nella confidenza del Testamento, l’identità profonda, tutta la verità interiore.
È quanto capita, appunto, anche quando il profano, condotto bendato dal Gabinetto di Riflessione al Tempio in penombra, è colui che assumerà, molti anni più tardi, il Supremo Maglietto. Il quale non ha ancora cinquant’anni, è forte di energie fisiche ed intellettuali, di esperienze di vita e professionali, di aspettative e consensi, quando s’accosta a ricevere la Vera Luce nella Valle del Cixerri e del Palmas. Valle defilata rispetto a quello della sua nuova residenza, Cagliari cioè, e ritenuta più opportuna, per il momento, considerata la posizione delicata da lui assunta nelle pubbliche istituzioni.
Egli vanta quasi cinque lustri di esercizio competente dell’arte medica, prima nelle condotte più povere dell’Isola e poi nel capoluogo, dove s’è trasferito imprimendo un’accelerazione, se non addirittura una svolta, alla sua carriera politica compiutasi nell’alveo del sardismo, e insieme, al business sanitario ed edilizio in cui investe capitali e lavoro.
Personalità vivace pur nella misura dell’eloquio e dei gesti, determinata negli obiettivi e perfino spregiudicata nell’azione comunque mai eclatante, personalità “manovriera” e pragmatica, moderata nel suo proporsi all’incontro ravvicinato con gli altri compagni di viaggio sperati ed attesi in quella sorta di orizzonte ecumenico che ne definisce le coordinate esistenziali, la cifra caratteriale, il senso dell’impegno pubblico: ecco Armando (noto Armandino) Corona.
Assessore provinciale e da pochi mesi legislatore regionale, direttore della casa di cura “Villa Verde” e presidente dell’associazione della spedalità privata, il profano si è presentato con le migliori referenze. È l’autunno del 1969 – l’autunno caldo! – ed il calendario dice 23 ottobre quando egli viene accolto dall’ensemble sulcitano riunito attorno ad un Venerabile e ad un Alto Dignitario scozzese magici galantuomini che vivono sul serio la verità massonica, secondo cui i metalli distolgono sempre dalla diritta via.
«Sono religioso ma non pratico alcuna religione», ha scritto, autopresentandosi, nel modulo di domanda che reca la data del 28 maggio 1969. Di lui si sa che è stato a lungo intimo di un vescovo di eccezionale carisma e carità, del quale conserva l’amicizia; si sa che nel suo laicismo ha assorbito da sempre la cordialità del rapporto umano con i suoi pazienti ed elettori per la stragrande maggioranza cattolici militanti.
Nel Gabinetto di Riflessione ha vergato un Testamento morale che non declama eroismi ma è pieno di credibilissimi buoni sentimenti.
I doveri dell’Uomo verso se stesso: «Affinamento di tutte le qualità morali e spirituali – ha risposto il profano – che lo rendono degno di vivere nel consorzio umano, stimato per la sua saggezza, bontà, giustizia ed onestà».
E verso la Patria: «Contribuire con ogni mezzo al consolidamento della libertà, della democrazia e della giustizia sociale».
Infine, verso l’Umanità: «Contribuire in ogni modo al superamento delle divisioni e delle barriere che ostacolino l’instaurarsi della fratellanza universale e della libertà. Contribuire a liberare gli uomini dal bisogno e dalla schiavitù morale e materiale».
Letto dal Venerabile Pintor, il Testamento è approvato all’unanimità. Silicani, che siede all’Oriente, sembra però – s’è detto – insoddisfatto: quel che il Pot.mo non ritiene esaustivo sul piano concettuale verte sul secondo punto: «Il neofita si è limitato, nella compilazione del Testamento, a considerazioni di ordine politico e sociale, ma non [si è riferito] anche alla difesa della Patria, laddove ve ne fosse necessità». La cosa va precisata. È la linea tradizionale degli scozzesi, questa.
La loggia sembra spiazzata. Intervengono in diversi, Artieri a piedilista ed ospiti, che conoscono il profano e lo stimano, gli sono amici da una vita. Infine è il Segretario a proporre con successo una nuova e più stringente formulazione della domanda: «Profano, abbiamo bisogno di un ulteriore tuo chiarimento: se la Patria trovandosi in pericolo avesse bisogno del tuo aiuto, che cosa faresti?». E così interrogato, il profano risponde puntualmente (ma sempre pragmaticamente, senza svolazzi enfatici): «Darei tutto il mio contributo possibile per la sua difesa».
Si può procedere secondo le linee del rituale: le prove dell’acqua, dell’aria e del fuoco, dopo quella della terra, il giuramento, la proclamazione «Tu sei mio Fratello!», la triplice batteria di gioia, il discorso dell’Oratore…
Gran Giudice di Palazzo Giustiniani e presidente del Consiglio regionale
È il generale Ennio Battelli il nuovo Gran Maestro eletto nel 1978. Il quale, formata la sua giunta – cui partecipa anche Mario Giglio in rappresentanza del Consiglio dell’Ordine –, ottiene dalla maggioranza dei nuovi quadri dirigenti di Palazzo Giustiniani che ad Armando Corona, che così efficacemente ha guidato, pur nel trambusto e nelle tensioni, le operazioni elettorali, sia affidata la presidenza della Corte Centrale, strutturata in sezioni a mo’ della Cassazione. Primo presidente. Il primo presidente ha, fra le sue funzioni, quelle di costituire i tribunali per lo svolgimento dei processi – così avverrà per giudicare Licio Gelli, essendo dunque presidente scelto il sardo Paolo Carleo – e convalidare con la sua firma le sentenze.
È dunque presidente da alcuni mesi della Corte Centrale di giustizia del GOI – e conosciuto in questo incarico, per glasnost massonica, anche dalla opinione pubblica – quando diventa, Armando Corona, presidente del Consiglio regionale della Sardegna. È il 19 luglio 1979, e siamo ad un mese dal rinnovo elettorale che ha triplicato i seggi repubblicani, grazie alla legge – ispirata dallo stesso leader proporzionalista nato – che consente il recupero dei resti su base regionale. Si tratterà di una presidenza difficile. Le forze del “patto autonomistico” si sono nel frattempo fra loro divise, i radicali ci mettono del proprio, arrivando a scaraventare sul banco del presidente il regolamento che ritengono più volte violato.
Nella gara elettorale, svoltasi poche settimane dopo la dolorosa morte del leader storico, e padre della patria, Ugo La Malfa, Corona ha raccolto ben 4.454 preferenze (ed alle europee – alle quali, con l’amico Alberto Mario Saba, ha dato il suo nome per una partita già persa in partenza – sono, ma soltanto a Cagliari città, altre 1.283).
Pur nel mutato quadro politico, a causa del ritorno del PCI a ruoli di opposizione come di fronte contro fronte, il nominativo di Armando Corona – inizialmente posto in alternativa a quello di un altro laico (il socialdemocratico Alessandro Ghinami) – viene considerato tale da poter assicurare, se speso in una carica istituzionale, il mantenimento di un clima positivo e costruttivo fra le forze consiliari. Ed infatti – terzo non democristiano, dopo il sardista Anselmo Contu e il comunista Andrea Raggio – egli viene eletto presidente dell’Assemblea, grazie ai voti di DC e PRI, con l’astensione dei socialdemocratici, mentre le altre forze politiche depongono, in segno di rispetto personale, scheda bianca.
Assumendo la carica sostiene:
Occorre riaggregare un quadro politico che abbia nella sostanza la consapevolezza che la crisi esiste più profonda di prima e vi è, di conseguenza, la necessità che si addivenga ad un coagulo di forze il più vasto possibile per porre rimedio all’attuale grave situazione. Se vogliamo rafforzare le istituzioni, riportando nel giusto valore l’equilibrio che deve esistere tra le varie fonti decisionali a livello di partiti, forze sociali e gruppi consiliari, credo dobbiamo esaltare la dialettica dell’aula, delle commissioni, delle conferenze dei capigruppo e di tutte quelle occasioni che il Consiglio regionale istituzionalmente mette a disposizione delle forze politiche,
Non vi sarà alcuna ingerenza che non sia perfettamente legittimata dalle facoltà accordate alla presidenza del Consiglio. Con scrupolo e puntiglio verranno ricercati tutti gli spazi consentiti per far procedere il dialogo politico e per far sì che il Consiglio regionale non sia soltanto la fonte della legislazione, ma anche quella di un indirizzo politico generale. Del resto nei momenti più drammatici della vita dell’Isola sono stati gli ordini del giorno unitari del Consiglio che hanno dato il via alla volontà di redenzione autonomistica della Sardegna e che hanno dettato gli indirizzi e direttive che hanno permesso di camminare per lungo tempo in grande unità e senza commettere grandi errori.
In altre parole, egli non rinuncia al sogno della “unità autonomistica”.
In parallelo alla sua elezione, l’Assemblea chiama alla presidenza della giunta DC-PSI-PSDI appoggiata dal PRI (ma dopo estenuanti trattative e interdizioni incrociate fra i maggiori partiti) il socialdemocratico Ghinami. La formula troverà conferma nell’aprile 1980 quando, pressoché con gli stessi uomini, Ghinami presenterà il suo secondo esecutivo capace di durare però soltanto pochi mesi. A fine anno l’intesa fra PCI e PSd’A e le convergenze con PSI e PSDI porteranno a un terzo esecutivo, stavolta di sinistra e a presidenza socialista, con l’astensione repubblicana. Altri quattro mesi di instabilità del quadro politico.
Onde meglio definire il posizionamento repubblicano, quasi alla vigilia del Natale 1980 si tengono, ancora a Cagliari e alla presenza di Giovanni Spadolini, i lavori del XVII congresso regionale impostati all’insegna di “La solidarietà nazionale (e regionale) è una necessità impellente”. La segreteria passa da Mario Pinna a Nino Ruju, che ad essa associa le funzioni di capo di gabinetto di Corona presidente del Consiglio regionale. Di fatto la direzione del partito si avvale di questa fruttuosa reciproca collaborazione che nobilita la politica collocandola nel respiro istituzionale.
Superata la breve stagione del rinnovo amministrativo di comuni e province, con risultati più che soddisfacenti per il PRI, è tempo di una nuova e severa riflessione sullo stallo nel quale la politica regionale s’è bloccata nella mutua rivalità dei maggiori partiti. Un incidente d’aula offre lo spunto alla sua rinuncia. È la messa in minoranza della coalizione di governo nel voto sulla inversione dell’ordine del giorno della sessione che deve trattare della legge sul Mezzogiorno, di servitù militari, del bilancio 1981, di bilinguismo e di edilizia costiera.
Corona offre il suo contributo dimettendosi dalla presidenza del Consiglio. In alcune sue dichiarazioni alla stampa ritorna la sua preoccupazione che lo scarico delle tensioni politiche sull’attività legislativa generi o alimenti l’ingovernabilità: la reciproca interdizione fra il maggioritario gruppo democristiano costretto all’opposizione e la coalizione di sinistra frammentata al suo interno e incapace di un disegno strategico per l’Isola finisce per bloccare spesso l’Aula, spessissimo le commissioni, infuoca la conferenza dei capigruppo. Il Consiglio diviso a metà fallisce il suo compito istituzionale obbligando la stessa giunta a procedere a vista e quasi soltanto nell’ordinaria amministrazione.
Le dimissioni del presidente, la sua rielezione nella seduta del 24 marzo (stavolta con i voti… rovesciati, quelli dei partiti mancati nell’estate 1979 e con l’astensione invece di democristiani e repubblicani) non accettata però dall’interessato, e la sua successione da parte del socialdemocratico Ghinami sono eventi che segnano anch’essi la sorte della legislatura che, sia pure con fasi di passaggio, cominciata all’insegna dell’alternativa di sinistra a presidenza Rais finirà con il ritorno al centro-sinistra a presidenza Roich.
Ancora una volta, per bocca dello stesso Corona nel mezzo delle trattative per la ricomposizione del vertice dell’Assemblea, vengono parole di mediazione e disponibilità a favorire il recupero di un clima di corretta dialettica fra le forze in campo. Egli conferma il voto favorevole dei repubblicani al bilancio, e dunque nega, per adesso, il passaggio dell’Edera all’opposizione:
Ho detto che il mio partito non potrà non tener conto delle condizioni di rigidità dell’attuale quadro politico, condizioni che hanno portato alle mie dimissioni, per quanto riguarda il buon andamento dei lavori consiliari, ma che, a maggior ragione, potrebbero avere riflessi sull’assetto politico attuale. Ogni atteggiamento futuro del PRI sarà determinato dal prossimo congresso regionale. Non ho infatti anticipato alcun mutamento della linea tenuta dal mio partito e maturata fin dall’epoca della formazione di questa giunta dopo attenta riflessione e con riguardo non al continente ma alle future possibilità di governo unitario.
Per giorni e giorni la stampa regionale riporta con grande rilievo le prese di posizione del leader che intanto prepara il suo partito al nuovo quadro politico in superamento della esperienza frontista ritenuta non all’altezza dei tempi.
Si svolgono ad aprile, ad Oristano, i lavori del congresso repubblicano, presente anche stavolta Giovanni Spadolini. Certamente di alto livello la relazione del segretario Ruju e con il 90 per cento dei voti dei delegati la mozione finale da lui concordata con Armando Corona autorizza al rilancio, pur non immediato, dell’alleanza di centro-sinistra. Impossibile continuare ad appoggiare una coalizione di cui è parte non marginale un Partito Sardo d’Azione che a Porto Torres ha ancor più radicalizzato la propria linea in termini velleitariamente terzomondisti e nazionalitari, mentre il PCI – anch’esso riunitosi a congresso – ha indurito con parole di sfida le sue opzioni di programma ed alleanza.
L’abbandono inopinato di uno dei tre consiglieri repubblicani, tornato alla casa-madre sardista, e l’avvicendamento alla segreteria del partito fra Ruju e Salvatore Ghirra induce il PRI ad accelerare ogni decisione circa il quadro politico, mettendo in chiarezza che cosa unisca e che cosa no un partito all’altro, così in materia di legge finanziaria e dunque di politica industriale e del lavoro, di servitù militari, ecc.
I rovesci e l’affare Nuova Sardegna
Ai primi di marzo del 1982 il PRI ritira l’appoggio alla maggioranza di sinistra. Scorrono alcuni mesi e finalmente tutto si chiarisce (e si avvelena d’altri umori però!) con il ritorno democristiano alla guida della Regione. Intanto Armando Corona è stato eletto Gran Maestro di Palazzo Giustiniani e la cosa viene posta, strumentalmente oppure no, in relazione con il cambio di maggioranza. Quasi si tratti di una “manovra” massonica e replica di quella che un anno prima ha causato la caduta della prima giunta Rais!
Tempo di nuovi veleni per davvero. Non soltanto per i rilanci polemici di cui si fanno eco i giornali, ma anche per la contestazione che presto raggiunge l’onorevole/Gran Maestro relativamente ad un atto della sua trascorsa presidenza del Consiglio, quello relativo all’affare Nuova Sardegna. È la dolente conseguenza dei ventuno mesi di una presidenza corretta ma mai estranea alla legittima e anzi necessaria dialettica fra le forze politiche. Direi meglio: è la conseguenza di una logica vendicativa che da parte del PCI smobilitato dalle funzioni del governo regionale e già inopinatamente disertore del “patto autonomistico” positivamente lanciato nel 1976-77 viene ad ancor più ingarbugliare la politica regionale.
È capitato che in un vuoto di potere, Corona abbia inviato una lettera al presidente della Editoriale L’Espresso/la Repubblica Carlo Caracciolo, autorizzandolo di fatto, non formalmente (non lo avrebbe potuto), a tenere in portafoglio, per altri otto mesi, il 48% delle azioni della Nuova Sardegna spa che, dopo il fallimento della SIR di Nino Rovelli, le forze politiche, insieme con le rappresentanze giornalistiche, hanno concordato di salvare. Con questo nuovo assetto proprietario: 48% al gruppo L’Espresso/la Repubblica, 48% a un pool di industriali sardi, 4% arbitrale alla SIR finanziaria. Ma poiché gli imprenditori isolani ancora non avevano firmato l’acquisto azionario, al fine di non mandare tutto a perdere, ecco la forzatura, la sostituzione – anzi l’apparente sostituzione –, da parte del presidente del Consiglio in carica, del presidente della giunta non ancora in carica.
Di qui una sorta di impeachment, con molte sessioni di lavoro per la Commissione Diritti Civili e Informazione trasformatasi in tribunale a presidenza Cogodi. Senza mai una sentenza. Corona imputato ne trae motivo per smettere la frequenza ai lavori consiliari. E per intanto risulta impegnato a Roma, da una parte come vicesegretario nazionale dell’Edera repubblicana, in costanza di segreteria Spadolini coesistente con l’intervenuta nomina di questi a capo del governo, e dall’altra parte, fino al marzo 1982, ancora come presidente della Corte Centrale di giustizia massonica, Dal marzo 1982 come Gran Maestro.
L’impeachment non toglie a Corona la fiducia dei suoi così come non gliela toglie la sua attività in ambito massonico che pure egli svolge rinunciando formalmente alla tessera. Sarà altro a mettere difficoltà, ad un certo punto, nel rapporto fra il leader e il suo partito: una voluta prolungata assenza dai lavori consiliari (e sia pure da indipendente) non rimediata da alcuna decisione di rinunciare al seggio da cedere al primo dei non eletti, il professor Achille Tarquini. Tanto più che l’altro consigliere repubblicano, Antonio Catte, “ingessato” nelle nuove funzioni di giunta, non potrebbe caricarsi l’onere della rappresentanza politico-legislativa in Aula.
Le ripetute sollecitazioni a dimettersi e consentire il subentro del primo dei non eletti, ove egli ancora ritenga di non poter riprendere la frequenza ai lavori, indisporranno il leader che a tanto risponderà da una parte mobilitando una parte della militanza rimastagli acriticamente fedele (i cosiddetti “amici di Corona” che come tali si presenteranno ai congressi sezionali e provinciali e infine anche al regionale), dall’altra attivando una certa stampa definita di “controinformazione” che si esibirà, con scadimenti anche nella volgarità e per un anno intero – il 1983 –, in ripetute prove di dileggio della dirigenza che quelle dimissioni sollecita. E, sgradevolezza ancora maggiore, operando per una modifica (passata in un voto notturno!) alla legge elettorale che, tornando all’antico, toglie alle formazioni minori – il PRI fra esse – la possibilità di attingere al collegio unico dei resti in logica proporzionalista!
Sarebbe da dire che nel dibattito consiliare sulla fiducia al nuovo esecutivo Roich ripetutamente torna l’accusa personale a Corona di farsi portatore di interessi oscuri e occulti, extraistituzionali. Pare comunque indubbio che, al di là anche degli eccessi polemici e “complottisti” denunciati dall’opposizione comunista, per l’intera seconda parte dell’anno e per diversi mesi anche del 1983 il PRI sardo viva come prigioniero di una “sindrome di Corona”, e ciò sia per le manifestazioni accennate di palese sofferenza interna sia per l’immagine pubblica che esso, in parte almeno, rende di se stesso, essendogli sovrapposto il profilo del suo ex leader.
Diverso è a Roma e, in generale, sul continente, sulla scena massonica. L’equilibrio con cui ha condotto le attività della Corte, e forse ancora le sue radici sarde, vissute come un fatto virtuoso in sé, segnalano il Fratello Corona alla attenzione dei più, nel mondo liberomuratorio nazionale, fino a portarlo al pieno successo obbedienziale.
3.2 – Giglio e quella sua intervista (del 1981) sulla “P 2”
Quando, nel 1981, scoppia l’affaire Gelli, e Corona in quanto primo presidente della Corte Centrale del GOI è chiamato a controfirmare la sentenza che, nell’ottobre di quell’anno, il tribunale Carleo ha emesso in danno del cosiddetto Venerabile della clandestina P2, ci si interroga a più livelli, peraltro non senza ipocrisie, circa una copertura del Grande Oriente offerta per lungo tempo alle trame di quel “burattinaio”. Anche in Sardegna.
Ecco, in proposito, alcuni passaggi di una intervista rilasciata da Mario Giglio – senz’altro, come detto, il dignitario di maggior nome della Libera Muratoria sarda lungo l’intero decennio che lo scandalo ha preceduto – al giornalista Giorgio Pisano ed uscita su L’Unione Sarda del 24 maggio 1981 (“Un big della massoneria svela i segreti della P2 in Sardegna”). Eccone alcuni passaggi:
«Tutto quel che dico può essere documentato»... Chi parla conosce molti retroscena sulla loggia supersegreta di Palazzo Giustiniani. È uno degli ispettori regionali del Grand’Oriente, pubblico ministero al processo cominciato qualche mese fa all’Hilton di Roma... Raggiungerlo nel cuore dell’antica Sassari non è stato facile. Convincerlo a parlare... ancora di più. Ma il livore anti P2... lo ha convinto a vuotare il sacco. Nel suo ufficio, ottoni e poltrone di pelle rossa, c’è un silenzio ovattato: l’ideale per raccogliere la confessione di un “fratello”...
[Dice della] loggia segreta che si riuniva a Cagliari nella sede di un’associazione partigiani. «L’abbiamo demolita perché ci creava troppe preoccupazioni»... I massoni “regolari”, scoperti, sono molto risentiti: era dal ’75 che sollecitavano l’espulsione del venerabile maestro Licio Gelli e dei suoi potentissimi amici...
... È vero che alcuni sono finiti nella P2 solo perché non avete voluto accettarli tra le file dei “regolari”?
«Posso garantire che in almeno due casi è assolutamente vero. Le domande di [Angelo] Atzori e dell’ex sindacalista Giovanni Motzo sono state respinte. Anzi... Quando si è saputo che Motzo era riuscito comunque ad infilarsi nel Grand’Oriente a Cagliari è scoppiato il finimondo...
«Io sono al corrente soltanto della fastidiosissima posizione del procuratore militare del tribunale di Cagliari Carmelo Isaia. È finito nella P2 senza saperlo. Quando se n’è accorto, ha chiesto di essere trasferito. Per trascuratezza burocratico-amministrativa i tempi si sono allungati... Non è un caso isolato: è capitato anche ad altri...
«In teoria la segretezza [della P2 storica] doveva proteggere “fratelli” che occupavano ruoli importanti e delicati nella società.
«In pratica, Gelli stava costituendo una massoneria per conto proprio. Tant’è che dai 48 membri iniziali ha allargato incredibilmente l’elenco degli affiliati mettendoci dentro anche gente qualunque.
«[L’obiettivo:] Una volta, a Roma, un “fratello” mi ha detto che la P2 era necessaria perché il pericolo comunista era imminente.
«[In Sardegna] ci troviamo nella triste posizione di chi “l’aveva detto”. Era da sei anni che tentavamo di far mettere alla porta questo intrigante...
«[Dodici delle venti iscrizioni sarde alla P2 sono avvenute tra marzo e giugno del 1980. Come mai?] C’è stato improvvisamente un risveglio. Gelli voleva coprirsi le spalle. E 48 persone non potevano bastagli... Ha inviato in Sardegna un suo uomo di fiducia. Il reclutatore di cui state parlando in questi giorni è un ufficiale dell’esercito. È giunto qui con l’incarico di allargare il suo gruppo...
«Soltanto Angelo Atzori si preoccupava di pubblicizzare la loggia.
«[Loggia P2. Viene naturale pensare che vi possa essere anche una P1.] No, c’è stata semplicemente una P. Ed aveva sede proprio a Cagliari. L’artefice era stato Francesco Bussalai che l’aveva fondata nel 1968.
«[Quanti iscritti?] Quaranta... Anton Francesco Branca, l’avvocato Agostino Castelli, il professor Rinaldo Botticini, il deputato Peppino Tocco…
«[Come è andata a finire?] L’abbiamo “demolita” tra il 69 e il 70, non ricordo la data con precisione. Lo stesso Busssalai si era reso conto che ci danneggiava con questa mania della super-segretezza.
«[Dopo lo scioglimento, che fine hanno fatto i “fratelli” della P regionale?] Una ventina sono andati via. Altri, come Peppino Tocco, si sono iscritti in una loggia ufficiale...».
Accogliendo Lino Salvini in Sardegna
Associata alla responsabilità di Venerabile è per Giglio, ripetutamente, quella di presidente del Collegio circoscrizionale. Così, dopo un primo breve intermezzo, eccolo già all’inizio degli anni ’70 riprendere il Maglietto della sua Hiram n. 657 per un secondo triennio ed affermare un importante avvicendamento anche nelle cariche apicali della Circoscrizione sarda. Esse escono dal rischio di impasse, per la riserva che i più anziani e di alto rango nel Rito Scozzese Antico e Accettato – del quale egli stesso diventerà, non molto in là nel tempo, dignitario di vertice – paiono esercitare da sempre su di essi, ora dall’Oriente principale di Cagliari ora da quello secondario di Sassari.
Del 1970 è, dunque, la sua prima elezione alla presidenza del Collegio circoscrizionale giustinianeo. I Venerabili delle altre logge sono allora i Fratelli Giuseppe Loi Puddu (Nuova Cavour), Francesco Bussalai (Sigismondo Arquer ex P), Tiberio Pintor (Giovanni Mori), Bruno Mura (Gio.Maria Angioy).
Dal 1968 ha cessato infatti la sua attività la Libertà e Lavoro all’Oriente di Oristano, e ancora non hanno formalizzato la loro compagine i Fratelli nuoresi (s’è detto che si costituiranno presto in loggia Giuseppe Garibaldi col numero d’ordine 731); siamo anche alla vigilia di nuove entrate nella scena liberomuratoria isolana, spinte o incoraggiate tutte dall’entusiasmo della leadership Giglio: così a Carbonia (Risorgimento n. 757 con primo Venerabile Tiberio Pintor che ha pilotato la gemmazione dalla loggia madre) come a Cagliari (Risorgimento n. 770 con primo Venerabile Lucio Salvago e poi Paolo Carleo), ancora ad Oristano (Ovidio Addis n. 769 con primo Venerabile il cagliaritano/carlofortino Leopoldo Biggio che ha guidato l’operazione “salvezza arborense”), a Cala di Volpe in Arzachena (Caprera n. 893 con primo Venerabile Ettore Bonomo)…
Consigliere dell’Ordine è, in quel frangente, Emilio Fadda – esponente sardista di lunga militanza –, con supplente Filippo Pasquini (direttore generale dell’Ente Flumendosa nella vita profana), mentre un sardo – l’imprenditore multianime Flavio Multineddu – siede nella rinnovata Giunta esecutiva di Palazzo Giustiniani, come Grande Architetto revisore supplente. La Famiglia giustinianea sarda ha appena avviato – grazie anche al convergente e innovatore apporto dei Fratelli-big Francesco Bussalai e Flavio Multineddu – un nuovo ciclo della sua storia.
La presidenza Giglio porta ad una più “professionale” strutturazione dell’organo di coordinamento regionale delle logge che alla fine del 1967 s’è dato una opportuna autonomia dal maggior Collegio laziale/abruzzese. Anche la più puntuale verbalizzazione delle sue sedute è segnale di un più ordinato ed efficace assetto (e diventa, evidentemente, fonte… per la storia). Le logge sviluppano lavori più che dignitosi, ancorché forse non ancora all’altezza dei potenziali (intendo le competenze) presenti nei convegni templarI, nelle assemblee rituali che vogliono “aprire” sempre più alla contemporaneità, al campo largo degli interessi di vita culturale e sociale che tutti coinvolgono. Le quattro, poi cinque, poi sei operative nella seconda parte degli anni ’60 – gli anni della contestazione giovanile in Europa dopo le ventate pacifiste in America, gli anni delle agitazioni sindacali in Italia, gli anni delle ricadute conciliari in tanta parte del paese interessata alle dinamiche della Chiesa, gli anni che in Sardegna vogliono dire industrializzazione petrolchimica e sviluppo turistico costiero ma anche banditismo nelle zone interne e però anche nei maggiori centri urbani, ecc. – accelerano l’inclusione, negli ordini del giorno delle proprie tornate, delle tematiche civili in utile alternanza con gli approfondimenti dello specifico, e rituale e simbolico e storico, liberomuratorio. Sarà piuttosto prossima qualche innovativa sperimentazione – e in capo alla Lega dei Diritti dell’Uomo (all’indomani dell’approvazione della legge sul divorzio) e nel protagonismo femminile materializzatosi nel capitolo Sandalyon dell’Ordine della Stella d’Oriente – e Giglio, lui indubbiamente con altri ma lui anticipatore ideologico e motore energetico, rappresenta il progettista delle nuove architetture massoniche isolane…
Nei Templi di Cagliari e Carbonia, di Sassari ed Oristano, poi anche di Nuoro ed Arzachena si discutono, ogni anno, complessivamente un centinaio di tavole (chiamale elaborazioni base di discussione e confronto) su temi i più vari – ora storici con spunti di patriottismo liberale e democratico, ora civili (fra scuola e arte, letteratura e scienza, medicina e socialità) sondati nel giro universale e scoperti e gustati nelle realtà locali di Valle, Zenit ed Oriente, ora strettamente rituali e di suggestiva esplorazione misterica e mitologica alla ricerca dei semi da cui sono derivati i filoni religiosi o filosofici più vari e di vario radicamento…
È quanto accompagna, dalla Sardegna, l’avvicendamento della granmaestranza da Giordano Gamberini a Lino Salvini. Il quale, professore di medicina nucleare all’università di Firenze e candidato alla successione di Gamberini, viene in Sardegna nel febbraio 1970 per presentare il suo programma elettorale, e qui trova molti consensi, fra cui quello apertamente dichiarato di Mario Giglio. Ritorna poi, eletto e insediato, a dicembre dello stesso anno, per presiedere i lavori delle logge della Circoscrizione riunite a Cagliari. A far gli onori di casa è sempre lui, il Fratello Giglio. Ecco il suo discorso di benvenuto:
È con viva commozione che porto il devoto e affettuoso saluto del popolo massonico sardo a Lino Salvini che torna fra noi “Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia”. A colui che – come dicono le nostre costituzioni – è il solo depositario della tradizione massonica, la massima autorità della Comunione Italiana dei Liberi Muratori.
L’uomo al quale tutti noi abbiamo giurato fedeltà e obbedienza, come sempre abbiamo giurato fedeltà e obbedienza al Gran Maestro in carica. E non ci sentiamo diminuiti nella nostra libertà e dignità per aver prestato tale giuramento. Per noi l’obbedienza e la fedeltà al Gran Maestro corrisponde alla fedeltà e all’obbedienza ai nostri principi, alla nostra libera scelta, una affermazione della nostra dignità di uomini e di Liberi Muratori.
Debbo anche ringraziare a nome di tutti il Gran Maestro Lino Salvini per il nuovo impulso, il nuovo fervore di opere dato alla vita della Comunione Italiana; egli ci trova consenzienti e soddisfatti al suo fianco.
D’altra parte la Massoneria Italiana Vi ha scelto alla sua guida perché – tra i migliori fratelli, tra i fratelli più degni – Vi ha ritenuto il più adatto a rappresentare le sue imperiose ed urgenti istanze nella società moderna.
Si è visto in Voi l’uomo nuovo per i tempi nuovi, l’uomo del necessario rinnovamento dei nostri metodi d’azione. Necessario rinnovamento, ripeto, perché non è più possibile, non è più giusto, non è più massonico restare chiusi in noi stessi senza curarci dell’umanità che ci circonda.
Noi siamo Liberi Muratori perché abbiamo le nostre tradizioni, i nostri simboli, i nostri riti, li abbiamo assimilati e li portiamo nel cuore e nella coscienza. Ci riuniamo in questo Tempio per trovar forza e ispirazione nella costruzione del nostro Tempio interiore.
I nostri padri, tutti coloro che ci hanno preceduto nell’Opera dai tempi dei tempi; coloro che nelle società iniziatiche hanno conservato e trasmesso il messaggio dell’uomo all’uomo attraverso i secoli ed i continenti ci parlano con questi simboli e ci aiutano – in questo luogo sacro – a scavare nel nostro profondo per trovare quanto di meglio la natura umana può offrire a se stessa per combattere il male e costruire un Io il più possibile buono e perfetto.
Ma se questa è la nostra condizione non è e non può essere il nostro limite. La costruzione del proprio Tempio non completa l’Opera, tradisce anzi lo scopo quando è considerata una meta, un fine.
Il fatto che su di noi non vi sia altro che la volta stellata ci ricorda che il vero Tempio è l’universo e che, per compiere il nostro lavoro, dobbiamo portare la luce fuori da queste mura e farne partecipe l’umanità intera.
Non è più il tempo della doppia verità, della doppia religione: da una parte gli iniziati, i sacerdoti, i saggi – dall’altra il volgo, i poveri di spirito, gli ignoranti ai quali far conoscere le mezze verità imponendo la morale con la paura, la superstizione e la forza.
La società in cui viviamo è ormai matura: i nostri padri hanno combattuto per trarla dall’ignoranza e dalla superstizione. Le correnti di pensiero scaturite dalla Massoneria universale, hanno sospinto l’umanità sulla strada feconda della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. Un flusso inarrestabile corre ora per questa strada ed è necessario che noi non ce ne estraniamo. Il gran numero di profani che bussa alla porta dei nostri Templi dimostra che l’umanità si aspetta ancora qualcosa da noi.
Ma per dare ancora di più, occorre adeguarsi ai nuovi tempi, tenendo presente il passato, rinnovarsi nella tradizione, cercare nuove vie per comunicare col mondo esterno pur senza tradire il nostro segreto. Dobbiamo anche formulare un messaggio che promana dai nostri principi e che sia attuale, che serve veramente agli uomini e al loro riscatto.
Anche noi in Sardegna ci siamo messi con molto entusiasmo su questa strada e stiamo percorrendo un cammino irto di difficoltà. Difficoltà ambientali e, occorre dirlo, anche soggettive. Nelle Logge però si alternano da tempo le trattazioni di argomenti esoterici con dibattiti su altri di attualità scientifica, sociale e politica. I nostri gruppi di lavoro, costituiti di recente, rappresentano il primo strumento che ci consente di approfondire i problemi più urgenti, di prospettarne soluzioni, di cercare la via per attuarle. I nostri mezzi sono modesti, ma li usiamo con volontà e tenacia certi che i risultati non potranno mancare.
Sappiamo che al Centro ed in altre circoscrizioni altri fratelli operano con gli stessi intenti. A Voi chiediamo di predisporre gli strumenti perché le esperienze di ognuno servano a tutti, perché l’azione sia concorde e solidale in modo che l’unione delle nostre forze e dei nostri sacrifici possa contribuire al totale riscatto degli italiani da ogni forma di servitù religiosa, politica e sociale, e con la conquista di una più vera libertà possiamo vedere veramente e universalmente attuato il trinomio della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza.
Alla presidenza del Collegio, consigliere dell’Ordine
Certamente la granmaestranza Salvini significa un avanzamento deciso nell’iniziativa civile del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani. Sulla stessa linea è la Circoscrizione sarda, tanto più per la spinta di uomini come Francesco Bussalai, che invero è tentato anche dalle suggestioni del “superpartito” (come le ebbe Adriano Lemmi nel tardo Ottocento e come, depravandole però, le carezzerà Licio Gelli). Naturalmente non mancano i freni di altri dignitari, e di larga parte della militanza che valuta non ancora maturi i tempi per una “uscita all’esterno”. La proposta di Giglio è mediana o, per meglio dire e spiegare, si pone nella logica dei due tempi: meglio attrezzare oggi la corporazione in vista, domani, di una rispettabile presenza sulla scena del dibattito pubblico.
I suoi sforzi, in quanto presidente circoscrizionale, sono dunque indirizzati ad efficientare la “macchina”, a meglio formare le logge e i loro quadri magistrali, a rendere più efficaci e rispondenti ai bisogni le relazioni interloggia, quelle fra Oriente ed Oriente, Valle e Valle.
Nella seduta del 4 novembre 1970, svoltasi a Nuoro sotto la sua presidenza, viene deliberato che la casa massonica di piazza del Carmine, nel capoluogo, ospiterà d’ora in poi anche la sede regionale dell’Ordine, e con essa anche quella dei vari Riti (lo scozzese e, d’imminente costituzione, dell’Arco Reale/Rito di York).
I Venerabili riferiscono quindi i nominativi dei profani che hanno bussato alla porta dei rispettivi Templi (il che provoca un confronto… dialettico fra le varie autorità, inaugurando una prassi destinata a durare e che, comunque, è segno positivo della “compartecipazione”), e si concorda infine che presto si tenga nel capoluogo un convegno cui certamente prenderà parte, fra gli altri, il nuovo Magister Maximus Lino Salvini.
La leadership Giglio si conferma per l’a.m. 1971-72 ed anche per il successivo. Fra le maggiori decisioni o iniziative assunte nel periodo meritano d’essere ricordate l’elezione/insediamento delle cariche della nuova officina nuorese (nel febbraio 1971), la formalizzazione delle altre nuove sopra menzionate – le due Risorgimento, la Ovidio Addis e la Caprera –, la convocazione di un seminario di studi massonici per il 4 e 5 novembre 1972 all’Hotel Jolly del capoluogo, presenti ancora il Gran Maestro (relatore su “Formazione e deviazione della Massoneria speculativa”), il suo predecessore Gamberini (con altra relazione su “Fratellanza massonica: premesse e conseguenze”), nonché l’aggiunto Bianchi (“Origine e divenire dell’Istituzione massonica”). Nel verbale della riunione si segnalano altresì l’approvazione del regolamento interno e la convocazione a Carbonia di una speciale tornata di approfondimento circa la “Situazione delle miniere”, atteso che certo non mancano, nei vari piedilista tanto più sulcitani, tecnici ed esperti del settore.
Il suo attivismo rende il Fratello Giglio sempre più il “numero uno”. È richiesto di pareri interpretativi delle norme, è richiesto soprattutto di interventi ora d’autorità ora di buona mediazione nelle logge che faticano talvolta a trovare in se stesse, come dovrebbero, la giusta armonia fra punti di vista diversi. Speciali attenzioni egli deve riservare proprio all’Oriente di Carbonia, dove è in crescendo la figura del Fratello Multineddu che, regolarizzatosi al GOI dopo vent’anni di frequentazioni neoferane, ha portato in dote la sede, un evidente ascendente personale ma anche quel che taluno chiama, a torto o a ragione, prepotenza.
Così capita una volta – ed è esempio da richiamare per quanto da esso possa dedursi il sano pragmatismo ed il senso d’equità del protagonista d’una scena che ormai coinvolge, nell’Isola, duecento e oltre quotizzanti –, che cercando di sedare la rivolta della loggia verso il “potente” Fratello membro di Giunta a Roma, egli con molta fermezza richiami tutti alla ragionevole e doverosa applicazione della procedura che salva infine le ragioni di tutti… Più precisamente: il “potente” Fratello membro di Giunta ha chiesto l’invalidazione della bocciatura della domanda presentata da un profano e addirittura l’incenerimento del verbale (allusivamente minacciando, in caso contrario, l’abbattimento delle Colonne); ne è venuta una mezza rivolta e Giglio – al momento consigliere dell’Ordine capolista – ha saputo pilotare la plenaria pacificazione facendo osservare l’impossibilità di distruggere un documento di tanta importanza, ma… «esso va conservato agli atti – dice press’a poco –, e però le delibere che registra ben possono essere rettificate ove l’officina voglia...».
E un’altra volta, intervenendo sul proselitismo e riferendosi a quanto dichiarato dal Venerabile circa pressioni esercitate da taluno perché si votasse in un determinato modo, e anche a riguardo di notizie che sarebbero trapelate oltre… la Porta d’Occidente raggiungendo terzi estranei, eccolo cercare, ancora con autorevolezza e buon senso, positive soluzioni sostenendo che «se i rapporti fra tutti i Fratelli sono ottimi sotto tutti gli aspetti si può lavorare tranquillamente e di comune accordo, se invece non vi è una comunione di intenti allora è necessario applicare integralmente sia il Regolamento che la Costituzione onde evitare situazioni incresciose e nocive». La domanda conclusiva che egli pone, dunque, non concede margini di ambiguità e tutti costringe alle proprie responsabilità: nella loggia di Carbonia regna l’armonia oppure no?
Lasciata la presidenza del Collegio allo spirare del triennio, Giglio assume – s’è accennato – la carica di consigliere dell’Ordine ed intanto presiede la commissione incaricata di seguire la pratica della costruzione della nuova casa massonica di Cagliari, nella via Zagabria del moderno quartiere di Genneruxi.
Trascorsi due anni di presidenza Rodriguez (che l’hanno visto allora Oratore dell’organo regionale), egli riprende, nel giugno 1975, ad unanimità di voti, la guida dell’interloggia. È stato intanto rieletto Maestro Venerabile della Hiram, loggia spumeggiante per mille aspetti ed insieme concettuosa, pensante, produttiva, concentrato di ottime professionalità in ogni campo della vita sociale isolana. (Direttore già da quasi un biennio della filiale sassarese del Banco di Napoli, egli scende nel capoluogo ogni fine settimana: e prima ancora di salutare in casa…, va a salutare in loggia! La Hiram, che ha per tradizione il suo giorno di riunione al lunedì, per l’a.m. 1975-76 ha infatti stabilito di spostarlo al venerdì ed ogni settimana l’incontro è per i trenta o quaranta più assidui insieme festa e impegno, ché Giglio è vissuto così: un sassarese doc per tanta parte però cagliaritanizzato, portatore d’un meticciato di esperienze che arricchisce tutti).
Un verbale del Collegio anno 1975, il passaggio alla Popolare
Ecco – documento di virtuoso pragmatismo della rinnovata presidenza Giglio – un’altra pagina della vita obbedienziale sarda. La Fratellanza massonica non sfugge alle logiche che indirizzano, di necessità, qualsiasi altra associazione complessa per riferimenti normativi e d’autorità come per organizzate strutture territoriali. Una serie di questioni d’affrontare d’ordine sia amministrativo (le capitazioni da versare al GOI, la raccolta di fondi per la nuova casa massonica di Cagliari) che operativo (fra cui il problematico mantenimento del secondo Tempio carboniese, data la frattura creatasi in quell’Oriente), si combina nell’anno 1975 ad importanti giudizi “politici” relativi all’ancora incerta, o equivoca gestione del “caso Gelli” da parte del Gran Maestro che pure era stato così bene accolto in Sardegna… Emerge quanto ancora quel “caso Gelli” al suo sorgere – e dunque più d’un lustro prima della sua esplosione giudiziaria – sia compreso o malcompreso, nella buona fede dei più, in Sardegna. Nello stesso Giglio, che già s’era battuto per la sconfitta del “separatismo” P2 nella pratica regionale e che successivamente, nel 1981, avrebbe inchiodato (con toni perfino crudeli) il nuovo Gran Maestro Battelli per i suoi taciti o clandestini cedimenti al “burattinaio” d’Arezzo, pare che la fiducia verso Lino Salvini faccia ancora premio assoluto sullo sconquasso che invece va giusto allora imbastendosi e lentamente profilandosi… Salvo poi, già dal 1976, gradualmente prendere atto delle sgradite novità e battagliare per la più decisa moralizzazione dell’ambiente.
Ma la storia passa per le carte che ne registrano le mille contraddittorie pieghe, e pare giusto perciò non occultare nulla nella rilettura d’una biografia che procede annodando slanci anche emotivi a savie pause di riflessione. È dunque operazione-verità o, come si dice, di trasparenza circa le cose massoniche tante volte sanzionate dal giudizio pubblico (più spesso banale e superficiale) per essere occulte, questo documento-fotografia della Massoneria giustinianea sarda direi proprio nell’anno in cui essa inaugura quella fase di modernità che ancora oggi conosciamo, in cui anche pare evidente la necessità concertativa o partecipativa in ordine agli adempimenti, anche i più materiali, in agenda.
AGDGADU. Oggi 23 novembre 1975 alle ore 10,30, presso il Motel Agip di Nuoro, si è riunito, sotto il segno geodetico noto ai soli figli della vedova, il Collegio Circoscrizionale dei MM.VV. della Sardegna.
Sono presenti: il Presidente Mario Giglio; il Consigliere dell’Ordine Luciano Massenti; i Risp.mi MM.VV. Ettore Bonomo, Vincenzo Simon, Leopoldo Biggio, Antonio Sanna, Oscar Casini, Paolo Carleo e Ghigo Galardi; il Segretario-Tesoriere… ed, invitati dal Presidente, i FFr…
Aperti i lavori, dopo la lettura ed approvazione del verbale della tornata precedente, il Presidente, poiché ha ricevuto notizia della morosità di alcune RR. LL. della Circoscrizione nei confronti del Grande Oriente, prega i Risp.mi MM.VV. di invitare i propri Tesorieri a saldare il debito anche perché, come previsto dalla Costituzione e dal Regolamento, le RR.LL. non in regola con il Tesoro non possono partecipare alle elezioni della Gran Maestranza.
Dette Officine sono:
- R.L. Garibaldi all’Oriente di Nuoro per £. …
- R.L. Arquer all’Oriente di Cagliari per £. …
- R.L. Risorgimento all’Oriente di Cagliari per £. …
- R.L. Mori all’Oriente di Carbonia per £. …
- R.L. Risorgimento all’Oriente di Carbonia per £. …
A tal riguardo viene fatto presente che la R.L. Risorgimento all’Oriente di Cagliari, negli ultimi giorni, ha già saldato il debito mentre per la R.L. Garibaldi all’Oriente di Nuoro il Gran Maestro, tenuta presente la particolare situazione, dopo aver consultato la Giunta Esecutiva, ha prescritto il debito.
Dopo aver dato lettura di una lettera della R.L. Garibaldi all’Oriente di Nuoro, con la quale viene data comunicazione dell’avvenuta esecuzione delle elezioni, il Presidente comunica che detta Officina, i cui lavori hanno ripreso forza e vigore, si riunisce ogni venerdì e prega i Risp.mi MM.VV. di invitare i FF. delle loro Officine a partecipare, qualora in detto giorno dovessero trovarsi all’Oriente di Nuoro, ai suoi lavori.
Fatto presente che sono sorte delle lagnanze sulla balaustra con la quale il Gran Maestro scioglieva la R.L. P2 e che il M.V. Gelli, attaccato da alcuni FF. ha inviato copia della lettera con la quale, invece, il Gran Maestro si complimentava per l’esecuzione delle elezioni, il Presidente, dopo aver fatto un quadro riassuntivo della situazione di detta R.L., conformatasi oggi a tutte le altre RR.LL., comunica di aver scritto al Gran Maestro facendogli presente di essere rimasto sbalordito per il sorgere di dette lagnanze e che il G.M. gli ha risposto con una lettera, che viene letta, nella quale esprime la sua soddisfazione nell’avere elevato al grado di Maestro Venerabile il F. Gelli e comunica che il piedilista della R.L. P2 è regolarmente depositato presso il Grande Oriente.
Dietro espressa richiesta, inoltre, del M.V. Sanna sulla disponibilità di un Tempio per l’iniziazione in forma rituale di 5 profani che bussano alla porta della sua R.L., vengono offerti, previ futuri accordi, i Templi degli Orienti di Cagliari e Sassari.
Dopo aver preso in considerazione la tavola presentata dal M.V. Pintor per l’abbattimento delle colonne della R.L. Risorgimento all’Oriente di Carbonia e l’invito rivolto dal Grande Oriente al Collegio Circoscrizionale di esaminare il caso ed accertare la possibilità di mantenerle, invece, erette, viene trattata la situazione di detta R.L.
Dalla discussione dalla quale sono emerse le seguenti osservazioni:
- che alcuni FF., interpellati dal M.V. Pintor, hanno chiesto di essere messi in sonno;
- che togliendo dal piedilista i FF. trasferiti ad altri Orienti, gli ammalati e quelli che hanno chiesto di essere messi in sonno, rimarrebbero 3/4 FF. effettivi;
- che per tener erette le colonne occorrerebbe potenziare il piedilista dell’Officina mediante affiliazioni di altri FF.;
- che i FF. della R.L. Mori, essendo dello stesso Oriente, non possono essere affiliati;
considerato:
- che è costruttivo per l’Istituzione che in un Oriente vi siano due Officine con indirizzi massonici diversi;
- che alcuni FF. dell’Oriente di Cagliari sono disposti a chiedere e a mantenere la doppia affiliazione fino alla completa ripresa ed autonomia dell’Officina;
- che il mantenimento delle colonne non arreca alcun disturbo ai lavori della R.L. Mori;
- che esistendo nelle due RR.LL. all’Oriente di Carbonia molti FF. di Iglesias sarebbe opportuno la creazione di una Loggia in detto Oriente;
viene deciso:
- di mantenere erette le colonne mediante l’aiuto dei FF. dell’Oriente di Cagliari, le cui domande di affiliazione possono essere prese in considerazione dal M.V. Pintor;
- di trasferire, in seguito, la R.L. Risorgimento dall’Oriente di Carbonia all’Oriente di Iglesias;
- in previsione di detto trasferimento, tutte le domande di ammissione di profani residenti nell’Iglesiente dovranno essere inoltrate a detta Officina, in modo che quando la R.L. sarà trasferita ad Iglesias, i FF. saranno già nella loro R.L.
Dopo l’approvazione da parte dei presenti delle decisioni prese per la R.L. Risorgimento all’Oriente di Carbonia, il Presidente dà le seguenti notizie:
- che il Giurì d’Onore, relativamente alla divergenze tra i FF. S. e C., ha accertato che nella questione non esisteva malafede ma solo malintesi;
- che si interesserà per l’espletamento della pratica relativa al processo del F. A.;
- di aver spedito alla Corte Centrale la pratica del F. P. affinché, per legittima suspicione, venga trattata da altro Collegio;
- che a Roma è stato eseguito un convegno della LIDU al quale ha partecipato, in rappresentanza del Collegio, il F. M. Dalla sua relazione scritta, che verrà inviata a tutte le RR.LL., risulta che occorre riorganizzare la Lega in vista, anche, del Convegno Internazionale che verrà tenuto prossimamente a Bruxelles;
- che per la riorganizzazione della LIDU sono stati proposti i nomi dei FF. M., S. e M. costituenti un Comitato provvisorio, per cui i Risp.mi MM.VV., dopo aver letto ai FF. delle rispettive RR. LL. la relazione del F. M. dovranno far conoscere se vi siano altri FF. disponibili per dare vita alla Lega e fra i quali scegliere il rappresentante del Collegio che dovrà partecipare al Convegno di Bruxelles.
Viene letto, quindi, il programma di massima, compilato da alcuni FF. e presentato dal F. C., dei lavori che dovrebbero essere eseguiti nelle Officine e viene deciso di trattarlo prima in tutte le RR.LL. e poi discuterlo in Collegio.
Si passa, infine, alla trattazione del problema della costruzione della Casa massonica dell’Oriente di Cagliari. Viene comunicato:
- che un F. titolare di una casa editrice, è disposto a cedere, a fondo perduto, la metà del ricavato qualora la Famiglia riuscisse a fargli smerciare un migliaio di volumi invenduti giacenti nei suoi magazzini;
- che i Vigili del Fuoco hanno fatto il sopralluogo e verrà rilasciato quanto prima il permesso di abitabilità;
- che entro il 31 dicembre occorre firmare l’atto di acquisto altrimenti dovranno essere pagate delle tasse superiori.
Dopo l’esame del quadro finanziario dal quale risulta:
- che occorrono circa 20 milioni per il completamento dell’opera, compreso il 2° appartamento;
- che la cifra mancante non riguarda il 2° acquisto bensì il primo in quanto alcune Officine non hanno risposto secondo le previsioni;
esperita la discussione dalla quale è emerso:
- che il Presidente del Collegio è stato costretto a scrivere personalmente a tutti i FF. dell’Oriente di Cagliari per chiedere un ulteriore versamento sull’ordine delle 100.000 lire [cadauno];
- che sorge il dubbio che sia stata attribuita una determinata cifra ad una Loggia anziché ad un’altra;
- che un quadro affisso nella sede di Cagliari, con riportata la situazione finanziaria e tutti gli importi versati dalle singole Logge, ha dato luogo a screzi ed ha urtato la suscettibilità di qualche Fratello;
e le seguenti chiarificazioni:
- che ogni Loggia è in possesso delle ricevute degli importi versati e quanto riportato nel quadro è il risultato di tali ricevute;
- per quanto concerne la cifra attribuita ad un’altra Loggia una certa chiarificazione potrebbe dare adito ad una certa difficoltà per qualche Fratello per cui potrà essere chiarita la situazione tra i due MM.VV. ed i FF. interessati;
- che la funzione e l’utilità del quadro finanziario non era quella di turbare l’animo dei FF. bensì chiarire loro la situazione finanziaria e stimolarli, avendo la Famiglia bisogno di un loro aiuto, a rivedere determinate posizioni;
viene deciso ed approvato che:
- i Risp.mi MM.VV. dell’Oriente di Cagliari, visto che occorrono ancora 17 milioni, esorteranno i FF. delle loro RR. LL. e specialmente quelli che non hanno contribuito in misura adeguata, a versare quanto più è loro possibile;
- tutti i FF. dovranno essere, altresì, invitati a dare risposta, anche verbale, alla lettera loro inviata dal Presidente del Collegio;
- bisognerebbe suggerire ai FF. che uno dei modi per soddisfare il proprio dovere morale nei confronti della Famiglia, qualora un F. non richieda un compenso per qualche prestazione per cortesia, è quello di dare alla Famiglia un contributo, adeguato alla propria possibilità, che verrà destinato ad opere massoniche;
- qualsiasi richiesta di cortesia e prestazioni, infine, da parte dei FF. dovrà essere inoltrata tramite il M.V.; ciò in quanto i Risp.mi MM.VV. debbono essere perfettamente edotti di quanto avviene fra le colonne del Tempio.
Fatto presente che è l’ultima tornata alla quale partecipa in quanto ha passato il maglietto [della Ovidio Addis all’Oriente di Oristano] al M.V. Stefano Mura, il M.V. Biggio prega i Risp.mi MM.VV. di invitare i FF. delle loro RR.LL. ad ornare le colonne del Tempio il giorno che dovrà eseguire la consegna e chiede che dette possono eseguirsi nel Tempio di Cagliari.
La svolta professionale: dal Banco alla BPS, e altre cose
Documento-fotografia, questo del 1975, anche per un’altra ragione: perché esso rappresenta plasticamente, per il tempo a cui rimonta, l’avvio di quel lustro abbondante in cui all’autorità dignitaria di Mario Giglio si affianca, senza alcuno spirito concorrenziale, quella di Armando Corona, destinato nel 1982 alla primazia assoluta. Si tratta, in altre parole, di un periodo, questo dei sei-sette anni in avvio dal 1975 (quando Corona è il 2° Sorvegliante della loggia Hiram ed in predicato di diventarne il Venerabile), in cui importanti novità entrano nella vita professionale dei due leader variamente combinandosi con le crescenti responsabilità obbedienziali di entrambi.
La cosa potrebbe riassumersi così: Giglio lascia il Banco di Napoli (dove col grado di condirettore di sede dirigeva, s’è detto, la succursale di Sassari) e passa alla vicedirezione generale della Banca Popolare di Sassari, per alcuni anni di fatto impegnandosi nel rilancio dell’area sud della stessa BPS; in campo massonico lascia il Venerabilato di loggia e la presidenza circoscrizionale concentrandosi nelle funzioni ispettive del consigliere dell’Ordine e dal 1978 al 1982 in quelle di membro di Giunta a Palazzo Giustiniani (in procinto del suo trasferimento a Villa Medici del Vascello), oltreché di alto dignitario del Rito Scozzese; Corona rinuncia alla gestione della casa di cura Villa Verde e volge la prevalenza dei suoi interessi alla politica, divenendo assessore regionale agli Affari generali nell’esecutivo Soddu e successivamente presidente del Consiglio regionale, mentre in campo massonico assume, dopo il triennale Venerabilato della loggia Hiram e la presidenza circoscrizionale sarda (anche qui in successione di Giglio), le funzioni apicali della Corte Centrale del GOI, e già prima la presidenza della commissione elettorale di garanzia nel passaggio di granmaestranza da Lino Salvini a Ennio Battelli. (A tanto poi sarebbero da aggiungersi gli incarichi nazionali nel PRI, dalla presidenza probivirale alla covicesegreteria politica).
Qualche ulteriore particolare biografico riguardante Giglio. Nei primi mesi del 1976 una ispezione della Centrale ha rilevato anomalie nella gestione dei conti e rapporti creditizi di un gruppo aziendale con stabilimenti di agroindustria a Serramanna e Valledoria e ne ha riportato alcune responsabilità proprio alla direzione della succursale di palazzo Giordano. Per Giglio si prospetta un trasferimento – non si sa se duraturo (perché punitivo) o provvisorio (perché cautelare) – alla sede di Roma del Banco. Egli non accetta il provvedimento che ritiene ingiusto e valuta la possibilità di un pensionamento anticipato e di una ricollocazione professionale. Questa gli viene offerta su un piatto d’argento dal finanziere e costruttore (poi anche editore) Pier Giorgio Fanni, impegnato in quel tempo nel megaprogetto edilizio di Monreale oltreché in diverse altre imprese in Lombardia. L’offerta è veramente, sotto molti profili, allettante: Giglio dovrebbe essere l’uomo delle relazioni fra il gruppo finanziario-industriale ed i “poteri” politico-amministrativi con cui una compagnia di quel rango è d’obbligo che negozi. Ma non se ne convince e, dopo averci meditato sopra, declina quanto propostogli.
Subito dopo gli viene anche offerta, dai repubblicani, una candidatura da “indipendente” nella lista che il PRI di Ugo La Malfa (e, in Sardegna, di Armando Corona e Lello Puddu) sta per depositare in vista del rinnovo parlamentare di giugno (l’anno è il 1976). La VI legislatura è caduta per il massimalismo dei socialisti di Francesco De Martino (sostenitore dei cosiddetti “equilibri più avanzati” che, dopo aver messo in crisi il bicolore Moro-La Malfa, produrrà l’effetto boomerang di un monocolore democristiano e d’una sonora sconfitta per il PSI che allora passerà infatti alla segreteria Craxi), e alle elezioni convocate dal presidente Leone si pronostica un buon successo per l’Edera repubblicana. La libera agibilità assicurata a Giglio dalla dirigenza del partito pare dapprincipio elemento, oltreché ovviamente gradito, suscettivo di generare il consenso a quell’esperienza venuta su, come ipotesi, nella estemporaneità ma non priva di una sua perfetta dignità ideale. Le pressioni esercitate da uomini legati al Partito Socialista fanno naufragare il progetto.
La terza chance che si offre alla riflessione di Mario Giglio determinatosi alla dimissioni dal Banco di Napoli viene dalla Popolare, dove gli è proposto un contratto di vicedirettore generale. L’incarico dovrebbe durare, in quanto tale, appena sei mesi ma essere propedeutico di un secondo e ben più gratificante step: la titolarità piena della direzione generale. Viene infatti la firma, e se i sei mesi diventeranno quasi sei anni, non si tratterà, sul piano professionale, di un’attesa priva di soddisfazioni e di risultati…
Membro di Giunta, 33 scozzese, e poi… la carriera signora vola
Nel 1978 le dimissioni del Gran Maestro Salvini, con alcuni mesi di anticipo rispetto alla scadenza del mandato, accelerano l’affermazione in campo nazionale, oltre che del Fratello Corona – prima come presidente della Commissione elettorale, poi come primo presidente della Corte Centrale – anche del Fratello Giglio che, in quanto consigliere dell’Ordine viene eletto, in rappresentanza del medesimo organo d’appartenenza, nella Giunta esecutiva presieduta dal nuovo Gran Maestro.
Non sarà una presenza onorifica e di facciata. Di lui, i verbali anzi riveleranno, soprattutto a ridosso dello scoppio del caso P2, prese di posizione importanti, particolarmente critiche nei confronti degli alti dignitari del GOI (a partire dal Gran Segretario Spartaco Mennini) che si scopre hanno per lungo tempo cavalcato, equivocamente e per inammissibile compiacenza, gli interessi del clandestino o semiclandestino gruppo gelliano.
Naturalmente presenza e vigilanza, e autorità, di Mario Giglio trovano innumerevoli conferme, in questi anni, anche in Sardegna. Partecipa, con altri alti dignitari, all’insediamento della loggia Alberto Silicani, nel febbraio 1977, così alla inaugurazione “di fatto”, nel marzo successivo, e alla consacrazione rituale, ad aprile, del nuovo Tempio di via Zagabria, affiancando in entrambe le cerimonie gli officianti principali: la prima volta Armando Corona, la seconda Lino Salvini; nell’ottobre 1979 insedia lui stesso la nuova loggia Sardegna alla quale assicurerà, anche in tempi successivi, una speciale protezione, discreta e affettuosa. Nel decennio che spira, sono gli ultimi appuntamenti fissati dopo i tanti altri che l’hanno visto protagonista a Nuoro ed Arzachena, a Cagliari come ad Oristano, a Sassari come a Carbonia… lui uomo-Regione, anzi Circoscrizione.
Un protagonismo contestatore nei verbali romani
Debbo qui venire a fatto personale. Già ammalato, mi chiamò Mario Giglio a Sassari intendendo conferire al mio Archivio storico generale della Massoneria sarda numerosi documenti, taluno riservatissimo (e infatti secretato per ragioni di privacy associativa), relativi ai diversi uffici da lui ricoperti nella Comunione giustinianea. Fra essi anche copia dei verbali delle tornate della Giunta esecutiva del GOI dopo la scoperta degli elenchi nascosti di Licio Gelli, che portarono – sarebbe il caso di ricordare – alla crisi del misero governo Forlani.
In altre circostanze ho già dato conto di questo materiale (ovviamente acquisito dalla Commissione Anselmi per le sue indagini): qui mi limito perciò a riprendere la parte essenziale di esso in riferimento esclusivo all’affare P2.
4 aprile 1981: «il G.M. [Gran Maestro Battelli] si dichiara anche impossibilitato a sospendere il Fr. Gelli perché il procedimento è già in mano della C.C. [Corte Centrale] – a questo punto Giglio presenta al G.M. una nuova tavola d’accusa contro il Fr. Gelli dichiarando di voler così anche offrire la possibilità di sospendere Gelli…»;
6 giugno 1981: «Mennini dichiara sul suo onore di non aver preso soldi da Gelli – il Fr. Giglio afferma di sapere che il Fr. Corona [primo presidente della Corte Centrale] avrebbe contestato al G.M. l’esistenza di cinque tessere P2 (Raggruppamento Gelli) con la sua firma, che il G.M. non ne avrebbe smentito l’autenticità ed avrebbe ammesso di averne rilasciato una ventina. Poiché il G.M. non si è comportato massonicamente ed ha mentito, egli ne chiede le dimissioni. Gli risulta che anche il Fr. Corona avrebbe invitato il G.M. a dimettersi.
«Il Fr. Gamberini afferma a sua volta di non aver preso mai denaro da Gelli, ammette comunque che Gelli contribuì nel 78 alle sue spese elettorali. Circa la esistenza di due assegni versati nel 77 e nell’80, il Fr. Gamberini afferma di aver ricevuto soltanto dei rimborsi di spese di viaggio ammontanti ad alcune centinaia di migliaia di lire. Interviene il Fr. Tirendi che accusa Gamberini di essersi prestato al gioco di Gelli iniziando Fratelli e coinvolgendone in questa brutta storia… I FF. Gamberini e Mennini tentano fumosamente di giustificare il loro operato. Alla fine il Fr. Gamberini spiega che il G.M. Salvini, dopo la regolarizzazione della loggia P2, consegnò a Gelli tessere in bianco firmate. Dopo un anno dall’elezione di Battelli Gelli comunicò al Fr. Gamberini di aver preso accordi con il nuovo G.M. e che anche questi gli aveva dato tessere firmate. I membri di Giunta contestano la risposta farraginosa del Fr. Gamberini affermando di aver sempre manifestato la loro volontà contraria al mantenimento del rapporto con Gelli. Continuano le contestazioni al Gamberini ed infine il Fr. Giglio propone di inviare un membro di Giunta dal G.M. per leggergli la tavola di Tiberi e per domandargli se ha firmato le famose tessere e per invitarlo, in caso affermativo, a dimettersi….
«Prende la parola il Villani che riferisce la visita fatta al G.M. insieme al Fr. Giglio per delega della Giunta. In sintesi le affermazioni del G.M. sono le seguenti: 1) non intende fare da capro espiatorio in un momento come questo in cui verrà chiamato dai magistrati a rispondere dell’operato della Massoneria; 2) non intende affatto dimettersi; 3) giustifica la sua azione con l’intenzione di recuperare il gruppo Gelli, per la maggior parte persone degne di entrare nella Massoneria che probabilmente ignoravano la differenza tra Massoneria e Gruppo Gelli; 4) ha avuto con Gelli 4 o 5 colloqui ed in uno di questi, fidando nella promessa di restituzione di tutti i fascicoli, [dice] di aver rilasciato delle tessere come atto di buona volontà; 5) la Giunta non si rende conto dell’opera da lui svolta per salvare il salvabile ed egli non si sente affatto colpevole per come ha agito.
«Giglio aggiunge che il G.M. ha detto che lo vuole condannare per delle bugiette, che le sue dimissioni sarebbero il riconoscimento di colpa, confermerebbero che i 952 presunti affiliati di Gelli fanno parte di una associazione a delinquere.
«De Donatis suggerisce che la Corte Centrale esamini il comportamento dei membri di Giunta e tutti quei FF. a qualunque titolo coinvolti con questa storia. Il De Megni oppone che la Corte Centrale giudica soltanto su presentazione di tavole di accusa.
«Giglio ritiene valida la richiesta di De Donatis [che] muove accuse al tipo di conduzione della Giunta, non se la sente di dare fiducia; è disposto ad accettare che il G.M. si dimetta a condizione che il giorno successivo si indicano le elezioni nel termine più breve previsto…
«Martorelli sottoscrive la mozione Tiberi motivando. Tiberi non accetta di fare quadrato e annuncia le sue dimissioni. Si discute sull’opportunità di intervenire in difesa dei 953 [o 952, il numero riferito è variabile] del gruppo Gelli; molti sono contrari.
«Giglio afferma che la Massoneria non c’entra con gli intrallazzi di Gelli e dei suoi accoliti; egli farà quadrato soltanto con quei FF. inseriti d’ufficio nel famoso elenco senza averlo richiesto, non con quelli entrati nel gruppo Gelli per non altro [che] per fare carriera…
«De Rose Cerchiai Mennini e De Megni ritengono che siano inopportune le dimissioni del G.M., ma che è necessario che questi ammetta al Cons. dell’Ordine di aver fatto tutto da solo di sua volontà, e all’insaputa della Giunta…
«Mosca obietta che non si può pretendere dal Cons. dell’Ordine che faccia quadrato intorno al G.M. che ha mentito. Conferma che fino ad oggi neppure lui sapeva di contatti del G.M. con Gelli e del rilascio di tessere firmate in bianco…
«Tiberi formalizza le conclusioni della Giunta: “La Giunta Esecutiva del GOI all’unanimità invita il G.M. ad esporre con assoluta franchezza al Cons. dell’Ordine convocato per il 7/6/81 ogni qualsiasi avvenimento a sua conoscenza nessuno escluso che abbia potuto interessare la Comunione sotto il profilo dei rapporti P2-Raggruppamento Gelli».
20 giugno 1981: «Insorge improvvisa discussione fra i FF. Giglio e Mennini; Giglio accusa il G.S. [Gran Segretario] di menzogna per quanto pubblicato in merito alle somme da lui ricevute da Gelli.
«Viglongo legge alcune pagine della rubrica Gelli nelle quali sono annotate cifre e date delle somme corrisposte a Mennini.
«Mennini protesta con indignazione.
«Giglio insiste e accusa il G.M. e il G.S. di aver fatto promesse non mantenute per arrivare alle loro cariche e di aver governato la Massoneria tenendo la Giunta all’oscuro di tutto.
«Tirendi afferma che non esistono fatti personali ma che la Giunta deve conoscere la verità.
«De Rose sostiene che si debba sapere come mai che il vecchio G.M. Gamberini abbia partecipato alle iniziazioni fatte da Gelli.
«Mennini ribadisce di non aver firmato o ricevuto assegni a richiesta.
«Villani specifica le quote versate dalla P2 per capitazioni; esse si riferivano sempre ai Fratelli del piedilista ufficiale.
«Gamberini risponde di non aver avuto deleghe da Salvini o da Battelli per iniz. alla P2, ma che Gelli ne aveva l’autorizzazione e lo pregava di intervenire. Ammette di aver peccato di ingenuità nei confronti di Gelli. Dichiara in modo solenne e definitivo di non aver mai visto né Mennini né altri FF. presenti riscuotere un soldo da Gelli.
«Viglongo chiede a Gamberini di assumersi ogni responsabilità dei suoi atti e dichiarare se ha ricevuto deleghe dal G.M.
«Prende la parola Battelli e riconosce di aver avuto un incontro con Gelli, di avergli consegnate alcune tessere e di essere stato ingannato da lui.
«Giglio rimprovera al G.M. di aver taciuto circa le trattative con Gelli, di aver mostrato sovrano disprezzo per la Giunta esprimendosi con termini poco lusinghieri nei riguardi dei singoli membri di essa…»;
11 luglio 1981: «Nella lettura del verbale del 6/6/81, a richiesta di Giglio, si aggiunge alla dichiarazione di Gamberini: Gelli giustamente non volle più fornire i nomi dei nuovi iniziati della P2 all’allora G.M. Salvini perché questi entrava in contatto diretto con tali personaggi…
«Il G.M. dice che tutti gli incontri che ha avuto con Gelli sono stati fatti in presenza di Mennini e di altri, ma sempre concordati e partiti da Mennini. Ha avuto 4 o 5 incontri partiti da Mennini. Ha avuto 4 o 5 incontri sempre in presenza di Mennini escluse le prime due nelle quali non si è parlato di tessere. È vero che Mennini diceva di non firmar neppure cartoline, però ad un dato momento lo consigliò di fare atto di buona volontà (tessere e delega per Palazzo Giustiniani!?!?).
«Battibecco tra Mennini e G.M. per il numero delle visite a Gelli. Mennini riconosce di averlo accompagnato tre o quattro volte, Battelli dice che le bugie non le ha dette soltanto lui e riconosce che la Giunta non è coinvolta con i fatti riguardanti Gelli; comunque dei cinque o sei incontri che ci sono stati con Gelli soltanto due sono avvenuti alla presenza del G.S.
«Tiberi dichiara che è caduto il rapporto fiduciario reciproco con il G.M. e presenta le sue dimissioni.
«Mennini dichiara anche lui di dimettersi e che si sente tradito dal G.M.
«Il Fr. Mosca si dimette perché Battelli risulta ora che ha persistito nell’errore che commisero Salvini e Gamberini.
«Altri FF. annunciano le dimissioni.
«Villani preso atto di queste dimissioni desidera sapere se la Giunta è stata informata del gravissimo problema relativo allo sfratto di Palazzo Giustiniani.
«Battelli legge la diffida dell’Ufficio Demanio di Roma a rilasciare libero l’immobile entro giorni trenta, a questo punto i FF. dimissionari decidono di restare al loro posto e De Donatis propone di indire una G.L. straordinaria…
«Il G.M. rifiuta di dimettersi e rifiuta di prendere impegno di non ricandidarsi… Il G.M. dichiara di aver invitato Gamberini a mettersi in sonno»;
29 agosto 1981: «Il G.M. alla domanda se avesse firmato o no tessere in bianco risponde: no assolutamente.
«Viglongo fa presente che son state recuperate 34 tessere in bianco con la firma in calce»...
Così poi dal verbale della tornata di Giunta di quel giorno, estrapolando per necessità dal testo completo e partendo dall’osservazione di Viglongo (noto editore torinese) del seguente tenore: «Secondo me dovremmo tornare a casa e cominciare a dire ai Maestri Venerabili che hanno in piedilista questi con doppia affiliazione, datevi da fare e…».
Il discorso del Fratello Giglio, pur frammentario, è crudo e per taluni aspetti perfino drammatico, e dà la misura della febbre derivata da trascorse neghittosità o almeno intempestività nel combattere la montante patologia:
«In periferia hanno soltanto i giornali locali e la Repubblica, ai quali non si può dar credito. Sta a noi indicare queste cose non a loro. Sanno da un giornale, L’Unione Sarda, che c’è un tale che risulta su quel librone, però potrebbe essere una balla, come ci sono degli omonimi… Io dico “subito” [parte la segnalazione da parte della Gran Segreteria] esclusivamente per quelli che essendo già in Massoneria si sono iscritti alla P2 e a maggior ragione vogliamo limitare a quelli che essendo in Massoneria regolare hanno fatto i reclutatori ed i capobastone. Per questo propongo di farlo subito…
«Segnalo per i provvedimenti del caso… Io voglio portare Armandino Corona… Ti ricordi quanto io ti dissi sul verbale? Amico, [rivolto al Gran Segretario Mennini] non vorrei che tu e lui faceste questo per portare, faccio un’ipotesi, Armandino Corona, ti ricordi? Io lo voglio portare e non è una riserva mentale, riserva mentale è quando dico una cosa e ne penso un’altra… il discorso abbiamo deciso di non portarlo più in ballo, però se lo portiamo ancora in ballo io ti tirerò ancora addosso perché mi hai detto delle balle in Giunta… le balle che ha scoperto il Gran Maestro l’altro giorno, che non hai conosciuto Gelli, che non l’hai mai visto e ci sei andato anche tu da Gelli… e ci siete andati insieme…».
Il contrasto fra Giglio e il Gran Segretario a questo punto ancor più s’acuisce e le voci s’alzano e le parole dal sen fuggono in massa, dando plasticamente la prova della grave crisi di smarrimento in cui il Grande Oriente d’Italia sembra precipitato. Tant’è che il Ven.mo Battelli così chiude, con mesta ironia e di necessità, la seduta:
«Poiché anche per questa Giunta l’ordine del giorno si è esaurito nella concordia e nella fraternità e siccome, ripeto, questa Giunta suicida ha evidentemente molta fretta di suicidarsi, e il calendario delle prossime riunioni è già stato fissato, vi invito a levare le tende e vi ringrazio di essere intervenuti. Per queste interviste penso che sia stato già deciso di fare delle tavole d’accusa o inviti ai Maestri Venerabili a fare le tavole d’accusa».
Nuova riunione di Giunta il 28 novembre. Qualcosa di surreale permane, pur se i toni sono più distesi. Recita fra l’altro il verbale della seduta:
«Si passa poi ad esaminare la questione Giglio-Mennini che ormai si trascina da alcuni mesi. Il Fr. Mennini premette che quello che aveva annunciato tempo fa e cioè che avrebbe presentato alla Magistratura ordinaria una querela contro il Fr. Giglio per minacce ed una tavola d’accusa alla Corte Centrale, non è mai accaduto poiché non se la sente di accusare un Fratello anche se questi lo ha offeso. Propone quindi tre soluzioni per chiudere la vertenza e precisamente: 1) il Giurì d’onore ed indica come suo arbitro il Fr. D’Ippolito e come presidente del Collegio arbitrale il Fr. Corona, Presidente della Corte Centrale; 2) Una lettera di scuse che ha già predisposto e che leggerà nel caso fosse accettata questa seconda soluzione […].
«Il Fr. Giglio accetta sia la prima che la seconda soluzione e precisa: “Non voglio mortificare nessuno, mi interessa che tu confermi o dica o affermi che la notizia che hai comunicato qua circa i miei rapporti con Gelli, la hai riconosciuta non vera, a questo punto io ritiro tutto, ma se insisti nel dire che io ho avuto rapporti con Gelli per i miei affari personali io non posso e mi rivolgo al Giurì d’onore”.
«Il Fr. Mennini legge il documento che ha preparato che testualmente dice: “Presentazione di scuse del Fr. Spartaco Mennini al Fr. Mario Giglio. Dichiaro formalmente che quanto da me asserito nel corso della seduta di Giunta del 29/8/1981 e precisamente che il Fr. Mario Giglio insieme al Fr. Multineddu si sono recati tempo fa all’Hotel Excelsior per chiedere favori a Licio Gelli non risponde a verità. Pertanto chiedo scusa al Fr. Giglio e a voi Gran Maestro ed ai colleghi di giunta per aver offeso il decoro del Fr. Mario Giglio ed aver turbato gli architettonici lavori della Giunta. Quando feci la predetta dichiarazione mi basai su una lettera di Licio Gelli e su testimonianze di cui non mi sarei avvalso se non esasperato dalle continue provocazioni che avevo dovuto e dovevo sopportare. Poi ho maturato il convincimento che le parole del Fr. Mario Giglio, che in ogni occasione ha dimostrato perfetta coerenza con gli ideali massonici, politici e familiari, debba valer di più di quella di Licio Gelli, in perfetta tranquillità di coscienza e con profonda umiltà riparo all’errore commesso. Rinnovo quindi al Fr. Mario Giglio ed a tutti voi le mie profonde scuse. Chiedo che questo documento autografo sia allegato al presente verbale. Con il rituale abbraccio, Spartaco Mennini”.
«Il Fr. Giglio accetta il documento che viene allegato al presente verbale ed esprime la sua gioia perché una vecchia amicizia, turbata da un banale episodio, riprenda con lo stesso entusiasmo di sempre.
«Anche il Fr. Mennini contraccambia uguali sentimenti di affetto. I presenti approvano questa riconciliazione ed il Gran Maestro esprime il suo compiacimento».
Meriterebbe certo più d’una considerazione questo episodio che quattro cartelle dattiloscritte fissano per la storia insieme con quanto, all’apparenza ordinario, sembra invece eccezionale nel momento in cui tutta la Comunione giustinianea pare travolta dallo sconcerto della pubblica opinione. Perché si discute, immediatamente dopo, della… prossima crociera all’isola de La Maddalena per l’ormai imminente centenario del passaggio all’Oriente Eterno del Fr. Giuseppe Garibaldi; del promesso dono, da parte della Gran Loggia d’Austria, di una stalla comunale, un autobus ed un asilo d’infanzia al sindaco di Santo Menna di Salerno, comune terremotato nel trascorso inverno, mentre il soccorso del GOI sarà di 77 milioni di lire; dei contenuti di una relazione del presidente del Collegio della Toscana che pare oltremodo autoritario nei confronti delle logge della Circoscrizione (per il che occorrerebbe riprecisare – è l’insistente richiesta – l’ambito di competenza amministrativa dei Collegi); della situazione debitoria della URBS, l’immobiliare del Grande Oriente d’Italia.
Comunque, una memoria dello scontro Mennini-Giglio si avrà molti mesi dopo, alla vigilia della Gran Loggia che segnerà il passaggio del Supremo Maglietto da Battelli a Corona. Perché essa rimbalzerà sulla stampa (cf. Il Giornale d’Italia del 7 febbraio), con palese intento di danneggiare il Gran Segretario uscente e ricandidato “autonomo” –, cui anonimi scontenti e pavidi avranno fornito documenti di prima e talvolta seconda mano. Tanto da indurre lo stesso Gran Segretario a diffondere una circolare, datata 10 febbraio 1982, chiaramente rivelatrice di tanti umori e malumori presenti e insistenti, in cui fra l’altro si legge:
«Alla volta dei MM.VV., dei Fratelli Maestri, alle redazioni dei giornali, alla Commissione d’inchiesta per la P2 e non so a quali altre persone o enti, è partita una lettera anonima con allegata la copia di una tavola d’accusa rivolta contro di me che l’Ill. mo Fr. Mario Giglio, membro di Giunta, inviò al Gran Maestro il 9/9/1981 e che ritirò il 28/11/1981.
«Le tavole d’accusa, in verità, presentate contro di me nella stessa data dal Fr. Mario Giglio furono due, non una. Forse se fosse circolata anche l’altra si capirebbero le ragioni della presentazione delle tavole d’accusa e del successivo ritiro, ma non voglio aiutare gli anonimi a gettare ancora discredito sulla nostra Obbedienza per difendere la mia persona ed il mio comportamento, perché non ho nulla di che vergognarmi. Sono in grado di smentire qualunque calunnia… L’unico aspetto positivo di tutta la vicenda è stata la riconciliazione tra me ed il Fr. Mario Giglio, perché con la stretta di mano con cui chiudemmo l’incidente, avemmo l’opportunità di rinnovarci i sentimenti di stima e di lunga amicizia che non avevano fatto mai difetto».
Il molto, troppo daffare negli anni ’80
Negli anni a seguire – quelli della gran maestranza Corona (1982-1990) – il nome di Mario Giglio resta, per libera scelta, entro i confini del Rito Scozzese: qui assume progressivamente ruoli di vertice. Asceso da tempo al 33° e ultimo grado della Piramide, egli viene nominato Ispettore Regionale della Sardegna. (Ne è abbondante traccia di cronaca nel mio volume Franco d’Aspro, maestro d’Arte e di Loggia). Con Elvio Sciubba, Sovrano Gran Commendatore dal 1986, partecipa al Supremo Consiglio ricoprendo la dignità di Gran Guardasigilli, Archivista e Bibliotecario aggiunto.
Le vicende profane legate al suo ufficio di direttore generale della Popolare di Sassari – prima le tensioni interne alla dirigenza dei Servizi di Centrale e particolarmente squassanti nel Consiglio d’amministrazione, quindi il commissariamento della Banca e gli strascichi giudiziari, infine la malattia sempre più invalidante e la vedovanza giunta malauguratamente a sciogliere un vincolo d’oltre mezzo secolo con la sua carissima Paola Perantoni – trarranno sempre più Mario Giglio fuori dalle relazioni del Tempio, costringendolo ad una sofferente solitudine.
Gli affetti domestici, quegli altri fili d’amore che sa persistenti anche se non sempre visibili, attenueranno, ma non potranno assorbire, l’amarezza fattasi anticipazione di morte.
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