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Gian Paolo Marcialis

Un disastro annunciato

Racconto di fantasia sulla scomparsa di Villacidro a causa di un'alluvione

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Un disastro annunciato.

Fin dai primi giorni di ottobre cominciò a piovere incessantemente. Il cielo era perennemente ricoperto da una caligine grigia, compatta, pesante, foriera di oscure minacce. La pioggia veniva giù fitta e copiosa, senza violenza, calma, sorniona.

Dopo un’estate particolarmente asciutta e calda, il 29 e 30 agosto ci furono i giorni dell’ira: monte Omo, Castangias, Seddanus e parte della pineta del Carmine furono percorsi da furibondi incendi che devastarono il territorio mettendo in pericolo anche le abitazioni e creando il panico nella popolazione. La pioggia venne dunque salutata come un dono provvidenziale. Ma non mancarono le voci allarmate che ipotizzavano scenari apocalittici: la montagna, priva del suo manto vegetale, lacerata dal calore insopportabile, resa fragile nel suo equilibrio idro-geologico, avrebbe potuto franare e la Fluminera, un canale che lo attraversava per tutta la sua estensione, avrebbe sicuramente creato grossi problemi di intasamento e conseguente straripamento con l’arrivo delle piogge.

Quello della siccità era un flagello ciclico a Villacidro. Ogni anno gli abitanti provavano vera e propria angoscia nel vedere i loro orti soffrire per la penuria d’acqua e l’angoscia si mutava in disperazione quando l’orto seccava e peschi, aranci , ciliegi levavano i loro nudi rami rinsecchiti al cielo come a chiedere: perché questo castigo?

L’acqua ora, invece, continuava a cadere dal medesimo cielo plumbeo e chiuso, con regolare intensità, di giorno e di notte. Il giorno era separato dalla notte unicamente dall’intensità della tonalità di grigio che, via via che il giorno scorreva, diventava sempre più oscura per divenire nero-pece alle prime ore del crepuscolo. Questa tetra caligine confondeva i contorni delle abitazioni e la linea dei monti sovrastanti il paese, monti che vagamente si intuivano dietro la spessa coltre di nubi e nebbia che tutto avvolgeva.

Le cime di Cuccureddu, Cuccur’e Frissa, Coxinas, Monte Omo non si distinguevano più, inghiottite dalla densa caligine che confondeva il paesaggio.

I villacidresi, la notte, stavano ad ascoltare preoccupati il continuo picchiettare di quell’insolita pioggia e, dopo quindici giorni di ininterrotto diluvio, la preoccupazione divenne panico generale.

La memoria collettiva degli abitanti andò ad un lontano episodio accaduto nel 1842, anno da tutti chiamato s’annu de is sennoreddas. Scrive lo storico : «Pioveva e parèa che l’acqua venisse giù a corbelli. Lo scroscio della pioggia, misto al rombo assordante del tuono, facèa traballare il suolo. A mezzo la notte si scatenò un terribile uragano. La Fluminera, ingrossata improvvisamente, sdegna il suo piccolo letto e l’onda nera e impetuosa mugghia sinistramente, flagellando i muri delle case che sorgono sulle rive. Molte brecce sono già aperte qua e colà sui muri di parecchi fabbricati, che, scossi dalla fiumana, rovinano, lasciando alla povera gente appena il tempo di salvarsi. La pioggia continua a cadere abbondante. Sulla riva sinistra, presso il piccolo ponte , stava una casetta di poche stanze, abitata da due donne, zia e nipote, che campavano sull’ago. Esse dormivano tranquille, quando cominciò ad infuriare la tempesta, ignare della disgrazia che le sovrastava. Il fiumicello, ingrossato maggiormente, urta con rimarchevole violenza contro i muri della povera abitazione. Ad un tratto un terribile rovinio sveglia quelle sventurate. Atterrite per la sùbita intuizione della disgrazia, balzano dal letto esterrefatte e, stringendosi una nelle braccia dell’altra, cercano scampo: ma l’onda nera e vorticosa ha già invaso la stanza e le avviluppa. Sopraffatte dallo spavento, si dimenano in mille guise, cercando di uscire da quell’abisso orrendo, piangono, gridano aiuto…ma invano. Le vie sono deserte: nessun rumore all’infuori del frastuono delle acque. Intanto l’impeto della Fluminera scuote fortemente i muri della casa, e le suppellettili, sballotate di qua e di là, si spezzano nella furia del turbinio. E l’acqua saliva, saliva in quella stanza, dove le povere donne, straziate dal pensiero della morte vicina, facevano gli ultimi sforzi della disperazione…Ma tutto è inutile. L’onda furente, con un ultimo scrollo, distrugge il piccolo fabbricato e trae nel suo corso le vittime…»

Si ritornò ad invocare i santi protettori di Villacidro, in particolare santa Barbara e san Sisinnio, san Rocco. Quando il fragoroso rombo del tuono ri ripercuoteva sulle livide cime dei monti e l’abbagliante schiantarsi del fulmine solcava il tetro cielo perdendosi nella sottostante pianura del Campidano, le donne atterrite si segnavano con tremore esclamando santa Brabara mia! E sant’Arroccu miu! Gli uomini, invece, uscivano nei cortili e scaricavano in cielo i loro fucili, nella convinzione che gli spari avrebbero aperto le nubi e fatto cessare la pioggia. Ma né santi, né spari evidentemente servivano: la pioggia continuava a cadere incessante, implacabile.

Intanto cominciavano a verificarsi inquietanti fenomeni.

A monte del rio Fluminera, nella zona di Castangias, l’impetuoso corso d’acqua, costretto da una scellerata opera di cementificazione perpetrata anni addietro a seguire un tortuoso cammino, procurò il primo disastro. La furia delle acque trascinò nel letto della Fluminera massi, cespugli, detriti vari che formarono una formidabile barriera al deflusso della fiumana minacciosa. Il canale di cemento faceva, a poche decine di metri dal punto in cui un tempo zampillava una sorgente, un’anomala strozzatura ad angolo retto (voluta, si diceva in paese, dall’architetto di turno per non espropriare il terreno di un suo amico…). Ebbene, proprio laddove il canale assumeva questa assurda strozzatura, si depositò l’immane catasta di detriti che impedì il regolare deflusso dell’acqua…

A il fiume in piena trovò comunque il suo percorso inondando l’intera valle di Castangias e precipitandosi lungo lo stretto canale. Intanto, come se le antiche e mai sopite superstizioni villacidresi avessero evocato il potere malefico delle temute cogas, dalle rupi del sovrastante Monte Omo, violentato dagli immani roghi del 29 e 30 agosto, cominciarono a staccarsi enormi masse di roccia e terra che, con sinistro rimbombo, precipitarono a valle, tutto schiantando nel loro poderoso rovinio. A niente servì la muraglia di cemento e rete metallica posizionata negli anni precedenti per trattenere, si diceva, le frane: finirono miseramente spazzate via come se fossero state di paglia e l’immane frana rovinò sulla Fluminera sottostante.

La parte alta del paese (bisciad’e susu) in pochi istanti mutò completamente aspetto. Furono in pochi a rendersi conto di quanto stava accadendo, sia perché gli avvenimenti accaddero di notte, sia perché si succedettero a tale velocità che soltanto gli abitanti dei quartieri bassi (bisciad’e basciu) fecero in tempo ad accorgersene. Chi, di questi ultimi, si affacciò alla finestra, atterrito dall’immane fragore e dalla visone spaventosa che andava udendo e vedendo, fece solo in tempo a vedere, inorridito, che la parte alta del paese non esisteva più: case, strade, alberi, tutto sparito, sepolto da una apocalittica valanga d’acqua e rocce che, tutto sovrastando, si precipitava bramosa di altra distruzione verso la parte bassa del paese.

Si poteva scorgere appena la sommità del campanile della chiesa parrocchiale che s’intravedeva tra le raffiche sferzanti e l’onda colossale che precipitava.

Poi, accompagnata da un infernale boato, arrivò l’onda annientatrice e fu l’apocalisse. Il grattacielo che sorgeva al centro dl paese, risuonò di un immane boato e si afflosciò su se stesso sollevando una formidabile colonna di detriti che, sollevati prepotentemente al cielo, ricadevano con orribile frastuono dappertutto.

La fiumana intanto avanzava, ricoprendo la parte bassa del paese con le sue ombre di morte.

In breve l’intero borgo venne sommerso da quella maligna fiumana di pietre, detriti, alberi, automobili accartocciate.

La furia degli elementi praticamente rase al suolo l’intero paese. La fiumana d’acqua e detriti arrivò fino ai paesi a valle: Samassi, Serramanna, San Gavino, Sanluri…

Fu un disastro di proporzioni colossali: i morti ammontarono a oltre 40.000.

Villacidro non esisteva più

Dopo sei secoli tornò a essere disabitato.

Così come riportato in una Carta Reale del 27 ottobre 1414 dove si legge: «Dempta Villaxidro cum terminis deserta et sine aliqua popolatione»

GIAN PAOLO MARCIALIS


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