Villacidro e Giuseppe Dessì nella tesi di laurea alla Pro Deo di don Angelo Pittau (a.a. 1966-67)
di Gianfranco Murtas
Giusto vent’anni fa pubblicai un libro – La città chantant, monarchica clericale e socialista – che voleva celebrare Francesco Alziator e Giuseppe Dessì, due riferimenti centrali nella mia ricerca letteraria, tanto più nello spazio regionale sardo. Partito per stendere una breve introduzione circa l’anno che ne aveva visto la nascita novant’anni prima (non avevo avuto la pazienza di aspettare il centenario!), da quel 1909 cagliaritano mi feci irretire sentimentalmente, e le poche pagine previste diventarono più di duecento. Dovevo poi dare spazio a una intervista – riuscita bellissima grazie all’intervistato – con il professor Antonio Romagnino, con il racconto dettorino nel quale egli avrebbe dovuto impigliare insieme Alziator, Dessì e se stesso. Conclusione: la raccolta dei miei scritti (con lo sbobinato anche di lavori televisivi) sugli autori di La città del sole e di Paese d’ombre – titoli emblematici e solo all’apparenza oppositivi – si ridusse o confinò alle ultime (e ulteriori) cento pagine, integrate, per onorare specialmente Villacidro, da due contributi esclusivi: del giovanissimo Nicola Cois, cidrese-cagliaritano allora studente universitario alla Bocconi, e di don Angelo Pittau, magnifico prete di larghe missioni, in Sardegna e altrove.
Voglio qui riferirmi a questo ultimo contributo che volli trarre dalla sua tesi di laurea discussa nell’a.a. 1966-67 presso l’Università internazionale degli studi sociali “Pro Deo” di Roma, all’interno del cui Istituto superiore di scienze e tecniche dell’Opinione pubblica egli si specializzò in giornalismo. Relatore e correlatore i proff. Bernardino Cogo e Vitaliano Rovigatti. Titolo del lavoro: L’ambiente sociale nell’opera di Giuseppe Dessì.
Ordinato presbitero da un anno e qualcosa, mentre svolgeva il suo apprendistato come viceparroco a Tuili, alla vigilia anche della sua partenza per il Vietnam in guerra (vi sarebbe rimasto prete fidei donum e poi professore e missionario e giornalista, per mille giorni, tornandovi dopo per completare un rapporto ONU sul genocidio dei Montagnard), don Pittau concluse anche i suoi studi universitari (replicandoli quasi dieci anni dopo in Pedagogia all’Università di Sassari), e li concluse con un focus originale e profondo sulla letteratura dessiana suggestivamente centrata sul paese degli avi comuni.
Il lavoro meriterebbe una pubblicazione, come molte cose prodotte dall’animo fecondissimo di questo prete che è anche un poeta fascinoso nella essenzialità dei suoi versi e giornalista sempre sul pezzo, oltre che operatore sociale dalle infinite risorse. Sempre – qualunque sia il suo campo d’impegno – evangelicamente sospinto a dare testimonianza certa, garbata e concreta.
Ora che è appena uscito il suo libro-intervista Viaggiando Chiesa (curato, oltre che da me, dall’editore Andrea Giulio Pirastu, e itinerante per presentazioni) mi pare bello riproporre quegli stralci che pubblicai due decenni fa e che, risegnalando una importante tappa di vita di don Pittau oggi ottuagenario, allora meno che trentenne, danno ancora l’onore della ribalta ad uno degli scrittori più amati dell’intero Novecento italiano: Giuseppe Dessì.
Si tratta di alcune parti estrapolate dai capitoli I ("Villacidro: ambiente storico dello scrittore") e III ("L'ambiente delle opere", con una intervista a Dessì).
Tutta la valle è un giardino
Al Leni e a sa Spendula «sono legati la vita, la tradizione, i gusti, gli usi, i costumi, la ricchezza dei villacidresi» —Dall'orto «si distingue il carattere del padrone, dell'uomo, lo stile della famiglia» e dalla sua economia è condizionata la stessa religione – Il paese di Susu e quello di Basciu, fra ostilità e relazioni – La multisocietà: i pastori, i contadini, i ricchi, i servi, i minatori, ogni gruppo è portatore «dei valori e della miseria della umanità» – «Ognuno ha legami strettissimi con la sua parentela» e questa lo compromette con i «fatti principali del paese»: «il villacidrese ha sempre una sua opinione, non si lascia guidare facilmente, ha sempre una posizione da difendere»
Villacidro è un grosso borgo della Sardegna ai piedi della catena del Linas, s'affaccia nel Campidano con uno sguardo prolungato sino al golfo di Cagliari, ai monti del Gennargentu, al Campidano di Oristano.
Nel 1848 aveva settemila abitanti, nel 1909 quando dava i natali a Giuseppe Dessi, lo scrittore di cui ci occupiamo in questo studio, aveva ottomila abitanti. Era quasi una città per numero di abitanti, per la sua ricchezza agro-pastorale, per i suoi uffici che il Regno Sardo-Piemontese vi aveva messo; ma soprattutto era un paese con tutti i limiti che un paese comporta, un paese di campagna senza relazioni con gli altri paesi: autosufficiente nella sua economia e nella soluzione dei suoi problemi. Non ha e non aveva grandi famiglie nobiliari che s'impongano sulle altre. Per imporsi sugli altri bisogna avere i soldi. I soldi si fanno lavorando sodo: padrone e servi con le pecore, con le semine, con i frutteti, padrona e domestiche in casa. I soldi non vengono sprecati ma capitalizzati comprando altre terre, altre pecore, seminando di più, piantando altri frutteti, scavando altri pozzi.
Non bastano nemmeno i soldi a volte per affermarsi sugli altri: ci vuole una personalità capace, una capacità di dimostrarsi "uomini". È facile che padroni diventino poveri, e che dei poveri diventino padroni. C'entra il lavoro, c'entrano le bardane, c'entra l'incapacità.
A volte in alcune famiglie, qualche figlio non veniva mandato dietro le pecore o ad arare. Gli facevano prendere il lento trenino che portava ad Ales e lì frequentava il ginnasio, se era bravo passava ai licei di Cagliari, poi all'Università di Cagliari, di Pisa o di Torino. Se giungeva all'Università diventava qualcuno, si affermava.
I villacidresi non amano essere inferiori agli altri. Studiano legge e diventano professori nella Università e senatori del Regno come Antioco Loru, o primo presidente della Suprema corte di Cassazione come Emanuele Piga, si danno alla politica amministrativa e diventano sindaci di Cagliari, come i Pes, intraprendono la carriera militare e diventano generali come i Dessì. E si potrebbe continuare parlando dei Murgia con la fabbrica di liquori caratteristici, dei Cadoni con la prima industria molinaria, dei Pinna con la prima industrializzazione dell'agricoltura.
Villacidro è un comune ricco. Ha 18 mila ettari di terreno e molti di questi sono boschivi o seminativi. Molti suoi proprietari possiedono i terreni più fertili dei paesi confinanti come Samassi, Serramanna, Villasor, Vallermosa. Le montagne sono piene di boschi; dove i toscani [...] hanno tagliato indiscriminatamente i boschi, il Comune ha fatto un meraviglioso rimboschimento, parlo del 1880! I terreni del Comune di pianura lottizzati vengono affittati a basso prezzo ai poveri, per seminarli. Nei boschi il villacidrese può tagliare liberamente per le esigenze sue, molte tasse a Villacidro non esistevano perché il Comune non ne aveva bisogno. I pastori hanno e avevano, per un piccolo prezzo, pascolo sufficiente per le loro greggi.
Il paese non ha storia; le chiese, una romanica-pisana, l'altra spagnola, non presentano particolarità. Una chiesetta di campagna dedicata a San Pietro appartenne verso il 1000 alla mensa episcopale del Vescovo di Suelli. Antichi canti di chiesa, is coggius, in onore del santo locale che la leggenda vuole nato a Villacidro, parlano di una città bella e splendida che sorgeva in riva al fiume Leni.
Già il Leni! Non è un fiume, è un torrente. Il Leni con l'altro torrente più piccolo "Sa Spendula" sono tutto Villacidro. A questi due torrenti sono legati la vita, il carattere, la tradizione, i gusti, gli usi, i costumi, la ricchezza dei villacidresi.
Il villacidrese ara e semina molto, ma calcolatore sa che la terra non produce, quindi non le dedica molto tempo, infatti nei seminativi dopo arato e seminato, ripassa solo per mietere. L'altro tempo lo trascorre in riva a questi due corsi di acqua, che formano due magnifiche vallate. I piccoli appezzamenti di terreno pian piano li ha trasformati in meravigliosi aranceti, l'acqua l'ha trovata scavando pozzi di cinque, dieci, venti metri. Ogni anno li fa più profondi ricercando l'acqua, che in estate si nasconde nel terreno sabbioso, ogni anno rende il terreno migliore togliendo le pietre, mettendo concime. Ha capito che la terra delle valli è buona e la sfrutta. Tutta la valle è un giardino. Ecco che ne risale le pareti piantandovi ulivi, mandorleti, ciliegi, meli, viti; dalle pareti delle valli sale ai canali e alle conche della catena delle montagne sfruttando le sorgenti naturali.
Pian piano negli orti gli uomini costruiscono una casupola, le donne ci vanno a raccogliere le frutta, vi cucinano, fanno il bucato, la giornata viene vissuta all'orto e di sera si torna in paese. Mentre i grandi mietono i piccoli irrigano l'orto, mentre i grandi arano e seminano i piccoli e le donne negli orti custodiscono i frutti. Tutti sono legati sentimentalmente all'orto; dall'orto si distingue il carattere del padrone, dell'uomo, lo stile della famiglia. Orti chiusi da fittissime siepi di fichidindia, di rovi, piante alte con le foglie un po' giallognole: famiglie di vecchi. Orti chiusi da filari di olivi, foglie verdissime degli aranci, terreno molto lavorato e sfruttato: piccoli orti di famiglie di pastori. Orti con frangivento di cipressi, recinti con fil di ferro, con viali segnati da fiori: orti di ricchi con un certo ingentilimento dovuto alle relazioni con la città.
L'orto lega alla terra il villacidrese, gli fa amare la natura, gustare il cielo. L'orto è anche il problema più grosso delle sue relazioni sociali. Se non ha grane con gli altri per le siepi dell'orto, per le servitù di passaggio o di acqua, se il suo pozzo non disturba le vene dei pozzi dei vicini o il suo non è disturbato dagli altri, tutto è risolto. Toccare l'orto, il pozzo soprattutto, è toccare la pupilla dell'occhio. Guai, arguai! L'orto vive dell'acqua nella lunghissima estate; dell'acqua del pozzo che ogni anno diventa più profondo. La manifestazione stessa della religione è legata all'economia degli orti.
San Sebastiano è la festa delle arance. San Pietro, che ha una chiesetta nella zona del Leni, viene festeggiato in campagna, perché s'incominciano a raccogliere le prime frutta. San Giuseppe, anche lui con una chiesetta in campagna, si vede spostare la festa da marzo al periodo delle ciliegie e delle nespole. San Sisinnio, il santo più festeggiato, ha una chiesa magnifica in campagna e in campagna ha la festa in agosto, nel periodo delle pesche, dell'uva, delle pere, delle susine, delle angurie.
Il caldo di luglio è vinto dalla devozione alla Madonna del Carmine con una chiesa frequentatissima le sere del novenario nella collina prospiciente il paese coperta di bellissimi pini.
A Gesù Bambino nel grande presepio della chiesa parrocchiale, le famiglie portano grandi canestri di mandarini. Il giovedì santo nella sacra rappresentazione dell'ultima cena, sulla tavola vengono messi rami con grappoli d'arance.
Per quanto sono stati agricoltori e pastori, i villacidresi erano gente dura. Specialisti in bardane, in crassazioni, in produzione d'acquavite e spacciatori della stessa in tutta la Sardegna. Ribelli all'autorità costituita, tanto che l'unico ricordo di Villacidro nella storia è che il sicario per la uccisione del viceré spagnolo nel 1600 fu un nobile villacidrese.
Ma se ieri erano politicamente alle estremità di destra e di sinistra con socialisti e massoni, oggi pian piano si sono trasformati. Scomparso il banditismo, la produzione privata di acquavite trasformata in una seria fabbrica di liquori, scomparse le faziosità di parte, si va facendo una società nuova. Il boom economico si sente, una fabbrica tessile di 30 miliardi si prepara a dare un'altra trasformazione al paese.
Ma la prima trasformazione l'ha data questo andare dei villacidresi da un'economia agro-pastorale primitiva a quella più evoluta delle colture.
Dove abbiano attinto questa spinta è difficile dirlo: si parla di una immigrazione d'ebrei, ma se questa origine ha fondamento nel carattere del villacidrese, che tende più a produrre che a spendere, storicamente sembra insostenibile anche se l'abitato distrutto nelle guerre arborensi ed aragonesi risorse nel 1414 per iniziativa di don Giovanni Siviller e non si sa chi furono i nuovi abitanti di Villa Xirdi.
Il villacidrese non lega con gli altri paesi, anzi il paese stesso è diviso in due parti Susu e Basciu, Su e Giù. E tra le due zone c'è una "frontiera", un istmo quasi, dove il paese si restringe per poi allargarsi di nuovo, e non è lontano il tempo in cui i giovani delle due zone li si scazzottavano di santa ragione per futili motivi. Non corre buon sangue tra le due zone. I signori abitano Su ma vi abitano anche i loro caprari e sono la maggioranza. Quelli di Giù sono poveri braccianti, piccoli proprietari di terre, famiglie ricche di terre e d'armenti ma giunte alla ricchezza pian piano con il risparmio e la capacità, comprando le terre che i signori vendevano. Le ragazze di Su si sposano con i giovani di Giù che salgono la domenica nelle strade principali per la passeggiata e la Messa cantata; un ragazzo di Su difficilmente però si sposa con una ragazza di Giù.
Diviso così spazialmente, il paese trova altre divisioni psicologiche.
I pastori sono in lotta con gli agricoltori, perché i pastori non vogliono che gli agricoltori arino le terre del Comune togliendo pascolo alle pecore, ma i pastori a loro volta tolgono con le pecore le terre alla semina.
I padroni, is meris, (piccoli o grandi) con i loro servi e serve hanno relazioni che tutti accettano come necessarie però niente affatto giuste. Alcuni giungono all'amicizia e al rispetto della personalità, ma non alla giustizia. Numerosi sono i servi e la miseria è grande, soprattutto dei servi pastori. Anche tra i servi c'è distinzione: ci sono quelli che sono riusciti a mettere da parte qualcosa, hanno pecore, arano qualche terra per conto loro. Altri non hanno niente, oltre quello che dà loro il padrone. Non hanno casa, famiglia, non vengono mai in paese, a volte sarà la padrona stessa a sposarli con una domestica.
Anche tra i ricchi c'è differenza. Ricco è chi ha terra e bestiame. Ricco è chi ha cinque ettari di terreno, carro e buoi, come ricco è chi ha cento ettari, orti, case, mandrie e greggi. Tra loro c'è un abisso, anche se non sembra. All'autosufficienza dei piccoli proprietari, corrisponde il sarcasmo dei grandi con l'intrigo, per cercare di portarli alla miseria con l'usura.
E ci sono poi i signori che sono tutt'altra cosa dei ricchi. Hanno qualcosa della media borghesia, hanno relazioni con la città, vestono modernamente, in estate vanno al mare, ospitano le famiglie principali di Cagliari, che vengono in paese per passare i mesi di villeggiatura.
Tra i pastori, i contadini, i ricchi, i servi si inserisce un altro gruppo ben caratterizzato e assai diverso dagli altri: il gruppo dei minatori. Ieri lavoravano nella miniera di Villacidro oppure a Monteponi, Ingurtosu, Montevecchio, Buggerru. Il lavoro in miniera era la soluzione disperata, l'ultima soluzione da prendere. A tal punto disperata che se si vuole augurare male ad uno nel paese si dice ancora «che tu finisca in miniera!», ti spaccisti in miniera! Se i servi sono poveri loro sono più poveri ancora, sanno di essere poveri e questo è peggio, perché non li fa rassegnare alla sorte. Il minatore di solito è carico di figli e i figli come succede nelle altre case, non lo possono aiutare nel suo lavoro. Deve lasciare sola a lungo la moglie, sorgono gelosie e la pace delle famiglie se ne va. Il minatore villacidrese per tutti questi motivi scopre presto l'odio di classe, la lotta politica, i movimenti socialisti. La domenica sera è di prammatica scazzottarsi con le varie correnti. Compare presto anche la dinamite, che il sabato sera a turno turba la pace delle varie case dei signori.
Tutti questi gruppi sociali, tuttavia, sono ricchi di umanità, dei valori e della miseria della umanità. L'uomo non è schiacciato né nel povero, né nel ricco. L'uomo appare soprattutto nel rispetto della famiglia, della giustizia e di un certo equilibrio sociale. Ognuno ha legami strettissimi con la sua parentela, legami d'affetto, di solidarietà, di compartecipazione alla vita intera. Una parentela vastissima lo lega ai fatti principali del paese, facendolo partecipare come protagonista e impegnandolo a prendere posizione.
Il villacidrese ha sempre una sua opinione, non si lascia guidare facilmente, ha sempre una posizione da difendere. Allo stesso tempo è geloso della sua famiglia, di sua moglie, dei suoi figli, delle sue figlie soprattutto, della sua reputazione. Ha un senso sacro della vita per questo. La vita per lui è un mistero, mistero che lo porta a Dio, al soprannaturale. È per le nascite e per le morti, infatti, che sente più vivo il legame soprannaturale suo e con un ritorno magari anche alla pratica dei sacramenti. Ha una fede vivissima anche se non mancano posizioni arretrate, come la credenza in folletti cattivi, is cogas, il ritorno dei morti a disturbare i vivi, la ricerca di tutte le soluzioni nel destino: quando non si affaccia, e non molto raramente, la frase: «E chi lo sa? nessuno è mai ritornato».
Ecco il villacidrese, ecco Villacidro almeno sino al 1956. E mettiamo questa data perché in quegli anni c'è stato un primo rovesciamento economico.
L'agricoltura è in crisi e i villacidresi si sono dissanguati comprando macchinari per arare sempre di più. Inizia l'emigrazione. Subito dopo iniziano grandi lavori per conto del Comune e della Regione che danno impiego a centinaia di operai, gli stessi minatori lasciano Montevecchio e Monteponi per lavorare in paese. I ragazzi possono frequentare le medie e dopo le medie le magistrali della vicina San Gavino o il liceo classico del paese. La popolazione scolastica cresce, tutti mandano i figli a studiare. Anzi soprattutto gli operai mandano i figli alle scuole, mentre il contadino, il piccolo proprietario è costretto a farsi aiutare dai figli, per poter restare a galla. Il figlio lo aiuta fino ai vent'anni, poi fa il militare e dopo emigra. Si dà il caso di figli di proprietari di trenta ettari di terreno, che vanno a fare gli operai a Torino o nelle imprese.
Pian piano cade tutto uno stile, cadono usi, costumi. L'industria delle costruzioni, la riforma agraria di Sodd'e Pani, il commercio spicciolo della frutta nei paesi della Sardegna, i cantieri di rimboschimento, i mutui della Regione, portano al boom. Ma chi è caduto, e sono i contadini, i proprietari, resta caduto anche se non ha venduto.
Un mondo è franato. Un mondo frana oggi che si sta costruendo una fabbrica che impiegherà 3.000 donne e 1.500 uomini. Il pastore, la serva, il bracciante si incontrano nelle stesse scuole di addestramento con i figli di quelli che prima erano i padroni, is meris, con quelli che sino a ieri chiamavano per rispetto: i piccoli padroni, is merixeddus. Siamo in un momento di passaggio, in attesa di assestamento. Anche per gli agricoltori le cose vanno cambiando: i prestiti delle banche, la meccanizzazione, l'irrigazione, gli animali selezionati, le possibilità di commercio, danno speranze di futuro. Il paese è in boom in tutti i campi. Gli abitanti sono 13.000, la popolazione scolastica oltre i duemila, ottanta gli universitari.
Questa Villacidro il 1909 dava i natali in una casa di via Roma a Giuseppe Dessì, narratore dei più apprezzati di questi giorni. Suo padre è colonnello dell'esercito quando lui nasce, il fratello del padre è medico, il nonno paterno è medico anche lui. La madre è figlia di una famiglia delle più ricche del paese, una famiglia potente. Il padre della mamma si è fatto da solo, è stato sindaco del paese per lungo tempo, pian piano ha aggiunto sempre nuove terre alle terre che già possedeva. Durante la sua amministrazione del paese molte montagne vengono rimboschite, pinete vengono piantate, vasti terreni sono comprati dal Comune. La sua ricchezza è qualcosa di enorme, nelle sue mani aumenterà continuamente e nelle mani poi dei figli andrà sempre diminuendo.
Famiglia patriarcale questa del nonno materno di Dessì, servi e serve attorniano i padroni con una devozione senza limiti. La religione è sentita profondamente, il senso anche della giustizia e della carità, quella giustizia e quella carità però consona all'ambiente, al tempo, alle esigenze.
Come un Dessì studia, fosse stato un Pinna avrebbe lavorato la terra. Non gli piace studiare perché ha conosciuto la libertà che può dare il denaro, le ricchezze e anche il lavoro dei campi. Nelle elementari ha un maestro che non lo capisce, alle medie i professori sono di poco valore, al ginnasio pure. Non riesce a concludere nulla e li abbandona, torna a Villacidro.
La prima Guerra Mondiale è finita, il padre è tornato da questa [col grado di] generale, si è coperto di gloria nel Carso, nell'Isonzo con i suoi battaglioni di sardi, soprattutto villacidresi. Era un uomo duro come militare e la prima Guerra Mondiale l'ha temprato, ma era anche villacidrese e per questo si è circondato di villacidresi, proteggendoli, aiutandoli. Tornato dalla guerra è l'uomo delle raccomandazioni, delle pratiche, perché gli piace essere del popolo e in mezzo al popolo, gli piace essere venerato da questo popolo.
Il generale però non è tenero con il figlio. Non studia? vada a lavorare. Ed ecco Dessì a contatto con la campagna, con i domestici, eccolo fare il contabile in un caseificio degli zii. Un tempo di meditazione, tempo di contatto vero con la natura, con gli uomini, con il mondo sardo. Dessì si matura, e in questa maturità pensa di continuare gli studi. Studia privatamente per il liceo, poi va all'università a Pisa, per studiare lettere. Momigliano, Russo, sono i suoi docenti. Così incomincia il suo distacco dalla Sardegna. Tornerà a Villacidro durante le vacanze, dopo la laurea. Villacidro e il suo ambiente, per lui resteranno come li ha conosciuti negli anni in cui studiava privatamente e partecipava alla vita agricola della famiglia del nonno: i ricordi si imprimono, entrano nel mondo del subcosciente, diventano spinta per una ricreazione nel presente di quel passato, diventa un passato da realizzare nel futuro, un mito.
Durante gli anni dell'università si innamora di una ragazza del popolo figlia di un domestico del nonno. Lui è un Dessì, ma il padre l'avrebbe anche lasciato libero di sposarsi, chi ostacola le nozze sono soprattutto gli zii, che cercano di imporsi con le chiacchiere, con un'opera di persuasione sulla ragazza stessa. E ci riescono, è la ragazza a un dato punto a rinunciare. Eppure Dessè le vuoi bene sinceramente, e non come posa intellettuale. Una ferita grossa si apre nel [suo] cuore, non la valuta subito ma a distanza di anni e di vicissitudini della vita, liete e tristi, con il ricordo e con trepidazione sulle possibilità sfuggite va a questo momento della sua vita. Nelle sue opere, con una delicatezza di mistero, riaffiora spesso questo motivo.
Questa ragazza del popolo sarà il simbolo più bello della Sardegna, sarà la possibilità sfuggita di una restaurazione dell'unità della sua persona e della realizzazione di quell'ideale di giustizia e di uguaglianza e di amore a tutti i livelli. Da questo amore realizzato avrebbe dovuto nascere un uomo nuovo, una famiglia nuova che avesse tutta la bontà, la bellezza, la giustizia, l'equilibrio delle diverse classi sociali, a cui per mezzo del padre e della madre partecipava.
Laureato inizia la sua carriera di professore. Dopo una esperienza di insegnamento in una scuola cattolica a Paderno del Grappa, ritorna a Villacidro. La seconda Guerra Mondiale è vicina, vicina è la fine di un mondo, del suo mondo. Il padre vecchio, i Pinna rischiano il fallimento per l'imprudenza di alcuni zii: non tutto è chiaro in questo fallimento, la sua famiglia perde una parte dei beni che doveva ereditare per mezzo della madre. Lasciata Villacidro insegna a Sassari. Diventa direttore didattico, provveditore agli studi alla fine della guerra. Qui conosce l'altro aspetto della Sardegna, quello puramente pastorale, quello dei banditi. È socialista dichiarato adesso, per una spinta naturale verso la giustizia, una giustizia distributiva dei beni tra gli uomini. L'educazione religiosa ricevuta in casa non è che un ricordo.
Una vacanza non concessa per la venuta di De Gasperi in Sardegna lo fa trasferire in continente: doveva essere silurato, ma un intervento del Vaticano lo salva. L'intervento arriva perché nel periodo del fascismo difese dagli zelanti federali Carlo Carretto, che insegnava a Bono, in uno dei suoi circoli didattici. Trasferito a Ferrara si trova assai bene. Ha una buona cerchia di amici, comincia a farsi strada anche come narratore. Importanti riviste l'hanno come collaboratore sia in Sardegna come in Continente.
Da Ferrara passa a Roma nel 1953. La maturità è arrivata. La Sardegna nella sua lontananza si fa desiderio e categoria. È il periodo del romanzo I Passeri e poi della Giustizia: uno dei periodi più felici.
Ancora è a Roma scrittore ormai affermato sempre con il desiderio di scrivere qualcosa di più valido. Un romanzo che riprenda tutti i suoi temi e li unifichi. Un romanzo che parte dalle origini del suo nonno e porta ai nostri giorni: storia della sua famiglia e storia e contenuto della Sardegna.
Dessì: «Ero come piantato in una comunità, Villacidro era la felicità della mia infanzia»
Quanto deve al suo ambiente personale?
«Moltissimo. Credo di essere uscito da uno stampo preciso che è un luogo e un tempo ben determinato. Credo di dover molto alla educazione paterna più che alla scuola. Dalla scuola non ho avuto niente. Ricordo qualche maestra con simpatia. Alle medie ero un cattivo scolaro ma erano cattivi anche i professori e le scuole. Devo molto alla Sardegna e a Villacidro. Villacidro è stata la prima società umana con cui ho avuto contatto, società organizzata con le sue diverse classi».
Quali ritiene che siano i valori più propri dell'ambiente suo e che, naturalmente, ha messo in luce nelle sue opere?
«Per me lo scrivere è stato un fatto di sentimento piuttosto che intellettuale, e sentendomi legato a quest'ambiente soffrivo moltissimo quando mi dovevo allontanare. Villacidro, la casa di mio padre era il mio centro. Quindi ciò che mi ha colpito di più è stato questo dualismo: paese-città, isola-continente: Villacidro, Cagliari, Sardegna, Continente. Vedi San Silvano.
«Raggiungere un equilibrio. Non tanto qualcosa che serve agli altri ma a me. Come uno che tenta di liberarsi di un complesso. Non è che inizialmente abbia fatto un ragionamento su tutto questo; a me pareva però che solo lì si potesse vivere, perché solo lì pareva ci fosse la libertà, [la] giustizia, solo lì ci si volesse bene e ci fosse dignità umana. In un primo viaggio che feci a Brescia e a Venezia, mandato da mio padre per visitare dei parenti, fui preso da un'angoscia insopportabile. Quando uscivo per le strade mi trovavo sperduto, senza possibilità di comunicare. Ero sempre ossessionato dall'angoscia della solitudine e dal tormento del ritmo della vita. E questo è continuato anche dopo. Sentivo questa angoscia anche negli altri. A Civitavecchia gli emigranti, i soldati di leva sperduti certamente più di me, mi facevano l'impressione che poi mi hanno fatto i negri; eravamo una razza reietta, respinta. Lo sentivo nei miei riguardi e degli altri. Forse una sensazione sbagliata tutto questo».
Quali valori del suo ambiente ha messo in luce e perché questi valori?
«Questo volersi bene, questa giustizia, questa umanità, libertà…, in realtà forse non c'erano, ma sembrava che si potessero subito realizzare. C'era la possibilità del ripristino della giustizia distributiva. C'era una distinzione di classi accentuata, ma mio padre pur essendo un generale trattava il popolo con modo umano. C'era un rapporto umano in tutte le classi, che permetteva di sentire che si era in una comunità, piantati in essa. Poi la libertà: la libertà del contadino e del pastore. Io stesso godevo di una libertà sconfinata quando ritornai in paese dopo aver abbandonato gli studi. In città no. Villacidro era la felicità; la città mortificazione, limitazione.
«La cosa principale era l'affetto delle persone. C'erano delle persone a cui volevo bene e che mi volevano bene. E per gli altri era lo stesso. Il risultato era che mi appariva una società, un mondo basato sull'amore, e la felicità era in questo amore.
«Quando mi fidanzai con Maria C. pensavo che sposando quella ragazza io realmente mi univo alla società dei poveri, a quella vita rustica, pastorale, a quella partecipazione vitale così profonda in loro. Non era una posizione intellettualistica, ma sentimentale. La vita di amore del resto è la cosa più importante che ci sia. Se si realizzasse tutto questo, nel mondo non ci sarebbero gli equivoci che portano all'odio, all'ingiustizia e alla guerra. Questo è anche il valore principale del Cristianesimo e me ne sono accorto. Me ne sono accorto specialmente con l'avvento di papa Giovanni: è stato l'unico uomo di Chiesa che ho sentito evangelico.
«Io credo che, dai tempi della mia infanzia, nel mondo nel quale ho vissuto, la società sia andata disfacendosi e corrompendosi perché si è allontanata dai valori di cui ho parlato prima, si è allontanata dal Cristianesimo. Ha creduto di poter sostituire ai valori del Vangelo altri valori. Io sono socialista e sento che vale la pena di battersi per l'eguaglianza, la giustizia, la pace, la libertà, ma senza allontanarsi dal Cristianesimo, da una Chiesa ideale (di Papa Giovanni) aperta ai problemi sociali, a quelli del terzo mondo».
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