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Gianfranco Murtas

A Mondo X con Baingio Piras

di Gianfranco Murtas

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Nei giorni in cui il padre Salvatore Morittu combatte la sua battaglia contro il Covid, nei giorni stessi in cui in tanti partecipiamo con sentimenti di fraternità alla sua santa sfida – dopo infinite altre da lui lanciate, con formidabile impegno umanistico, in comunione d’esistenza con i ragazzi affidatisi alle sue comunità – mi è stato e mi è caro richiamare memorie vivide della mia esperienza in Mondo X Sardegna, fra samaritani e personalità protagoniste del meglio.

Ho ricordato in due articoli recentissimi la figura di Zella Corona, ho riportato i testi di due lavori teatrali scritti per le comunità associate di San Mauro e Campu’e Luas – degli apostoli in visita a Villanova (ed in scambio di confidenze con i giovani comunitari) e dell’ideale dibattito fra Sebastiano Satta, Totò, Gesù di Nazaret e padre Morittu sui nessi e… sconnessi fra identità di derivazione passiva e pulsioni alla dimensione dell’“uomo planetario”… 

Ecco ora un omaggio, da me già anticipato tre lustri fa in Partenia, la Comunità, alla figura dolce e sofferente di Baingio Piras, scomparso anche lui, poche settimane dopo Zella Corona, all’inizio del 2000. 


Baingio, «In Paradisum deducant te Angeli...»

Baingio l'avrò incontrato, a quattr'occhi, nella sua cella-studio di San Mauro ma soprattutto nelle stanze della clinica medica Aresu, durante i ripetuti ricoveri fra 1998 e 1999, almeno cento volte. Ogni volta un'ora, o due, nella mutua confidenza. L'anima si apriva, e ne apriva un'altra. Due umanità entravano in dialogo, con le loro prevalenti inquietudini e le loro rare leggerezze. Con superiore sforzo e responsabilità, tutto monitoravo con discrezione, per scongiurare in lui - dal richiamo emotivo - derive di altro e aggiuntivo malessere.

Per una deliberata scelta di... pedagogia "della riappropriazione ", ogni volta che il discorso rischiava di scivolare verso le pagine più ingrate e anzi dolorose dei suoi ricordi di vita, l'impegno era infatti di riportarlo ad altre più distese pagine dell'ideale libro esistenziale: pagine sassaresi che, sia pure soltanto indirettamente e per mere ragioni di studio, con lui potevo aver condiviso e gustato, pagine che avevano la virtù di ricondurlo a pensieri positivi. Allora, tanto spesso, infatti, ridisegnavamo insieme le figure dei grandi professionisti - avvocati soprattutto - della Sassari degli anni della prima metà del Novecento, personalità che io avevo ritrovato nelle nicchie della militanza antifascista e/o di quella massonica, fra repubblicanesimo e socialismo, fra radicalismo e la ''Gio.Maria Angioy ", squadra e compasso... Ma anche altre figure emergevano dai nostri lanci e rilanci, ed erano quelle dei protagonisti della vicenda della Chiesa turritana: preti e laici - da padre Manzella a monsignor Giovanni Masia, da don Enea Selis ai fucini, a Francesco Cossiga stesso e al professor Segni - tutti (o quasi) cresciuti all'ombra di quei grande eppure discusso arcivescovo che fu il francescano monsignor Mazzotti. Per non dire poi dei successori di quell'insigne cofondatore dell'Università cattolica inviato da papa Ratti alla cattedra di San Proto: monsignor Agostino Saba - eminente intellettuale e sfortunato vescovo - e monsignor Paolo Carta, a me particolarmente caro...

A lui, a Baingio, dedicai uno dei quattro testi della mia Biblioteca del sardoAzionismo, quello intitolato a Michele Saba, il leader repubblicano di Sassari dagli anni della grande guerra alla morte, nell'ottobre 1957, passando per la lunga stagione dell'antifascismo democratico (galera compresa) e per quella, breve ma estremamente complicata, della ricostruzione anche istituzionale, fra politica ed amministrazione, fra 1943 e 1948: quella che coinvolgeva, sul fronte del protagonismo civile più scoperto, pure la stampa cittadina, prima L'Isola defascistizzata, poi La Nuova Sardegna risorta dalle ceneri del 1926, per merito del suo direttore ultimo-e-primo Arnaldo Satta-Branca e di tutta la concentrazione dei partiti...

«A Baingio Piras, ovvero la fertilità pedagogica della sofferenza», questa la dedica. Ebbe, Baingio, un moto di commozione che molto mi colpì, il giorno che gli consegnai copia del libro in ospedale. Gli parve d'essere ricollocato nel suo ambiente di gioventù - la Sassari borghese - e insieme, con una sua specialità di samaritano fra samaritani, nel nuovo scenario d'una fine di secolo segnata dallo sconquasso sociale provocato dalla droga di massa. E altre copie me ne chiese per alcuni suoi amici, per dire, forse, e certo con umiltà, dell'inedito e originale riconoscimento... L'avevo assunto, infatti, con piena convinzione, e non soltanto per l'affetto spontaneo e fervido che mi stringeva a lui, in quel gotha tutto sardo dei nuovi apostoli sociali che m'era parso bello idealmente gemellare ai grandi della democrazia mazziniana, pure sardi, che avevo biografato fra i protagonisti dell'antifascismo militante: Ines Berlinguer e Stefano Siglienti erano toccati ad Annibale Cois («professore del fare discreto»), Francesco Fancello ad Ettore Cannavera («umanista oltre la frontiera»), Cesare Pintus a Franco Oliverio («anticipatore per gusto di solidarietà»), Michele Saba, appunto, a Baingio Piras.

Fra amici con un idem sentire si parla anche con i silenzi e si parla anche con i libri. Ne ricordo un altro che mi feci premura e godimento di donargli: Attorno a su scannu'e tabas, il racconto dell'infanzia di mia madre e, in parte, nel rimbalzo generazionale, anche della mia: la sua nella nativa Arbus, lungo gli anni della grande guerra, poco prima poco dopo, la mia lungo gli anni '50, nel passaggio fra l'impeto coraggioso della ricostruzione postbellica e i primi passi del consumismo di massa. Ecco un altro dei temi al quale potevamo volgerci, quando la malinconia dei racconti d'una salute non più rispondente accennava a farsi troppo carica...

Il libro glielo donai il 26 giugno 1999, nell'occasione del suo terzo compleanno comunitario, con una lunga, meditatissima dedica a mano. «Tutto torna», era la conclusione di un ragionamento tutto basato sui ricami di Provvidenza nella sua «esistenza per certi aspetti surreale, e quasi una controvita». Richiamavo alla sua riflessione i tratti genitoriali del suo servizio a San Mauro, proprio la fecondità della sua «missione pedagogica ed umanistica».

Nonostante queste premesse, sono mancato completamente nella fase agonica, fra novembre 1999 e febbraio 2000, di Baingio. Preminenti obblighi familiari - per analoga tristissima contingenza - mi impedirono, se non con due o tre finestre soltanto, di andarlo a trovare nella stanza dove Lina, Bea e gli altri (quanti!) da San Mauro e Campu 'e Luas ogni giorno, a turno, assicuravano la loro presenza e la loro premura.

L'incontro, poi, l'ultimo, all'obitorio e nella chiesa di San Mauro, per la messa esequiale. E nella fila per testimoniare pubblicamente il patto, nel mezzo dei fratelli Severo... E dopo ancora, la stampa, in un libro di frammenti, del testo teatrale che - lui ancora in vita - a lui si voleva dedicare, secondo l'ispirazione dell'«Uomo planetario» di Ernesto Balducci... E quella "lettera a Baingio e a Dio" dei ragazzi sul palcoscenico, pensata come omaggio postumo... («Hai trascorso con noi... È vero, vorremmo risarcirti... La povertà non è solo materiale... Eri ricco, eri colto, eri esperto... Tu l'hai visto ai tuoi funerali... Sappiamo che hai lasciato degli scritti... Pensando e parlando con te... O Dio che sei il grande regista... O Dio che sei caro e necessario...»), con la conclusione corale dei ragazzi militanti nella ricordanza dopo che nell'assistenza...



Baingio e la sua missione, a Sennori

Dei molti articoli di stampa dedicati a Baingio Piras, e che fanno spessore nelle cartelle della mia emeroteca, ve n'è uno che merita una rilettura rispettosa, proprio per il rispetto che il giornalista mostra verso il protagonista della vicenda che deve raccontare: è di Pier Luigi Piredda, uscito sulla Nuova Sardegna del 7 aprile 1994 con il titolo «Esule in Bolivia perché vittima di un'ingiustizia». Un virgolettato che riprende l'accorata dichiarazione del professionista «esule» in SudAmerica per diciannove lunghissimi, penosi anni ed arrestato nel 1992 per essere rinchiuso dei carcere di Buoncammino. Eccone il testo:


«Ero andato via appena saputo che avevo perso, che era finita, che nel mio futuro c'era il carcere. Una decisione improvvisa, che non comunicai neppure ai miei amati genitori. Decisi di sparire e soltanto dopo oltre due mesi scrissi per tranquillizzarli, dirgli che stavo bene. E da quel momento, con i miei genitori ho instaurato uno strettissima rapporto epistolare. Bellissimo e struggente. Leggere le lettere di mio padre e di mia madre mi riempiva di gioia. E di dolore. In quei momenti sentivo forte la nostalgia, che mi chiudeva lo stomaco e quasi mi impediva di respirare. Ma poi, passati i primi momenti, ritrovavo la serenità. Quella serenità d'animo che tuttora mi deriva da una certezza che ho nella mia coscienza: l'innocenza. Sono innocente. È stata questa certezza la mia forza in questi anni, la stessa che mi aiuterà in quelli che ancora dovrò trascorrere in carcere. Ingiustamente. Al posto del vero assassino del possidente cagliaritano Gianni Picciau, che non si è mai preoccupato di chi è costretto a marcire in carcere per colpa sua».

Baingio Piras, 64 anni, laureato in giurisprudenza a pieni voti nell'università di Sassari, una carriera legale sfolgorante fino al 1967 quando davanti a lui si erano improvvisamente aperte le porte del carcere con l'accusa di aver partecipato al fallito sequestro e omicidio di Gianni Picciau (ucciso nel giardino della sua villa di via Marconi, a Cagliari) è tornato a Sennori dopo 21 anni. Ci potrà stare soltanto cinque giorni, come disposto dal giudice di sorveglianza di Cagliari, ma per lui sono più che sufficienti. Appena ha riaperto la porta della casa di via delle Conce non è riuscito a trattenere le lacrime. Non era cambiato nulla da quel giorno di aprile del 1967 quando era uscito per andare a comprare un giornale e non era più rientrato.

Capelli bianchi, abito blu scuro sopra un gilet in lana e una cravatta granata a righine gialle e azzurre, trascorre queste giornate di libertà a casa delle zie, che non l'hanno mai abbandonato e adesso si stanno battendo per far ottenere la grazia a quel «nipote sfortunato». Per riuscirci hanno coinvolto tutto il paese che ha risposto con entusiasmo, riempiendo di firme i registri che saranno inviati al Presidente della Repubblica con la richiesta di remissione in libertà.

«Sono tornato a Sennori per portare a termine una missione: riunire nella stessa tomba - ha spiegato il detenuto, che ha ottenuto il suo primo permesso dopo due anni esatti di carcerazione dei dodici che dovrà trascorrere a Buoncammino -. Mio padre, che è morto quando ero esule (esule e non latitante, si badi, perché Piras si è sempre definito vittima di un'ingiustizia e proprio per questo non ha mai fatto richiesta di grazia ritenendo che fosse un'ammissione di colpevolezza, ndr) in Bolivia, è stato sepolto nella tomba di famiglia, mentre mia madre, morta quant'ero appena stato arrestato, è in quella di parenti. In questi giorni sto predisponendo tutto per riunirli e lasciare un posto per me accanto a loro. Almeno nell'aldilà staremo vicini, insieme...».

Non riesce a nascondere la commozione, gli occhi gli luccicano. Ma riprende a raccontare, un racconto frammentario di 21 anni di solitudine che neppure oggi vuole dividere con altri. «Non sono mai stato in Corsica e nella Città del Vaticano dove, ho saputo soltanto da poco tempo, sono stato cercato a lungo. Francia, Spagna, Svizzera? No, nessuno potrebbe mai avermi visto lì. Appena andato via da Sennori ho trascorso alcuni mesi in giro per l'Europa, senza meta. Poi ho raggiunto la Bolivia e non mi sono più mosso. Non ho mai fatto il parrucchiere, ma altri lavori che mi hanno permesso di vivere dignitosamente. Ho tradotto libri, persino il codice penale. Non ho mai frequentato italiani, ma soltanto un ristretto gruppo di professionisti boliviani. La paura non mi ha mai abbandonato e la libertà non può essere completa se c'è anche un solo granello di paura. Quando sono stato arrestato, mi sono reso conto che l'avevo messo nel conto e, da quel momento, ho aperto un altro capitolo della mia vita».

«In carcere ho avuto molto più tempo per pensare, senza paura - ha continuato il procuratore legale sennorese -. Ho analizzato la mia vita e trovato dentro di me la forza per continuare. Leggo molto, di tutto. L'ultimo libro che ho divorato è stato Sopra il processo di Salvatore Satta. A Buoncammino sto bene, mi occupo della "carpetta" (un termine carcerario per indicare il vivandiere) e delle "domandine" per i permessi».

Sereno, pacato, non ha perso la grinta di avvocato. Basta ricordargli i giorni dell'arresto, del processo. Dell'ira. «Sono stato assolto in primo grado per non aver commesso il fatto - ha spiegato con rabbia, battendo i pugni sulle ginocchia—, condannato in appello e poi la conferma anche in Cassazione nonostante il pg, incredibile, avesse chiesto l'assoluzione definendo mostruosa la condanna. A quel punto, che cosa dovevo fare? Sono innocente, il carcere mi sembrava un'ingiustizia e allora scelsi l'esilio. Avevo saputo dell'omicidio Picciau la mattina successiva quando il cameriere dell'hotel Mediterraneo di Cagliari mi portò il giornale in camera col caffè. Due mesi dopo sono stato arrestato. Perché? Perché avevo saputo del delitto da un giornale?».

Scarabocchi aggrovigliati ai ricordi, sfuocati...

Aveva la sua macchina dattilo portatile - strumento umile ma come di resurrezione - nella sua stanza al primo piano "clausura" di San Mauro, nella seconda metà degli anni '90, e molti fogli e molte cartelle, un numero sempre crescente perché correzioni e integrazioni venivano ad approfondire ed allargare, senza posa, il discorso con il sé che l'aveva ispirato e richiesto, a futura memoria.

Una stanza-cella, la sua, ben diversa, debbo immaginare (senza peraltro necessità di troppa fantasia), da quella dei carceri che l'avevano accolto ed umiliato, in città per la detenzione piena, prima, in paese per la semilibertà, poi. Quest'altra, nell'antico e caro convento dei minori osservanti di Villanova, era invece una cella-reggia, fatta di dignità ed intelligenza, di cultura e spiritualità.

Mi dette, nel nome della reciproca confidenza, il suo testo, chiedendomi una lettura critica; a lui proposi i miei suggerimenti, e i ritocchi formali che appartengono al contributo di mestiere di qualsiasi buon correttore di bozze che sia anche, appunto, lettore critico. Si parlò più volte di questa futura stampa in volume, della sua articolazione interna, e magari del titolo, dell'epigrafe («La mia innocenza non semplifica la cosa... Ci sono tante sottigliezze in cui il tribunale si perde. E alla fine, da una parte qualsiasi dove originalmente non c'era niente, tiro fuori una grande colpa». Kafka, Il processo cap. VII).

E intanto eccone un'anticipazione. Che è anche anticipazione d'un riscatto civile che non potrà mancare né tardare ancora...


«Parola mia. Firmato Baingio»

Non è che mancasse il tempo, il problema era come occuparlo, e non è facile quando non si hanno idee sull'oggi, peggio sul domani, cioè quando la vita la si sente dominata dal precario. Bighellonando, mischiato con un mondo di perditempo e scansafatiche, rovistando nelle bancarelle, scartando e scegliendo, fra cianfrusaglie e libri ingialliti ed incompleti, trovai un libro di Elie Wiesel, squadernato e rosicchiato. La copertina, sopra sfondo grigio, aveva abbozzati tre cappi rossi da patibolo, come fossero tenuti da mani invisibili e cadessero dall'alto: uno era più piccolo degli altri due. Wiesel racconta quando stette in un «campo» ed era ragazzo. Fra tante miserie descrive il giorno in cui vennero radunati per assistere alla morte per impiccagione di due adulti e di un bambino colpevoli di niente. Narra come li vide salire sopra il patibolo, parla dei loro occhi e della loro paura. Racconta «la notte» e quel silenzio che permetteva sentire cadere le foglie del bosco vicino: li vollero tutti lì perché vedessero il loro domani. Davanti all'impiccagione del bambino, «angelo dagli occhi tristi.., livido, quasi calmo, che si mordeva le labbra», coperto dall'«ombra della forca», agonizzando sotto i loro occhi per oltre mezz'ora «fra la vita e la morte», li costrinsero stare tutti lì sino al suo ultimo respiro. Qualcuno che stava dietro di lui, vedendo quella creatura penzolare e dimenarsi, domandò a se stesso ed agli altri: «Dov'è il buon Dio? Dov'è... Dov'è dunque Dio?»; «Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...», fu questa la risposta che gli dette la voce che stava in lui.

Lo immaginai sospeso ed oscillante, «la lingua pendula, ingrossata, bluastra», gli occhi sbarrati, senza rantoli. Una domanda che ogniqualvolta la si pone da sofferenza per perforare l'anima e l'intelletto, per creare incertezze.

«Chi sei Tu, mio Dio - gli rimproverò con rabbia Wiesel davanti al massacro - chi sei in confronto a quella folla addolorata che viene a gridarTi la sua fede, la sua ira, la sua rivolta? Che significa la Tua grandezza, Signore dell'Universo, di fronte a tutta questa debolezza, di fronte a questa decomposizione, a questa putrefazione? Perché turbare ancora i loro spiriti malati, i loro corpi infermi?». Era l'ira per l'ingiustificato e l'incomprensibile, è la domanda che non avrà risposte immediate lasciandoci impauriti, con il senso dell'abbandono che è solitudine. Da sempre se ne chiede il perché avendo come risposta niente altro che silenzi sentendosi soli, abbandonati a se stessi, senza orizzonti come se la bussola fosse impazzita.

Il fatto, le domande, la risposta rintronarono nella mente; si cercavano spiegazioni per paura che crollasse ciò che si poté salvare. Non si compresero né si comprenderanno il perché delle inutilità. Non si comprendono i colpevoli silenzi che sanno sempre di indifferenza.

Un amico sereno e paziente, un anziano padre gesuita, preoccupato per il mio distacco mi fece chiamare. Comprese i dubbi e le inquietudini. Quel pomeriggio fu particolare. Lo rivivo: ero un fiume in piena, turbolento, ascoltò senza interrompermi; ne rivedo la lentezza con cui si alzò dalla scrivania, lo sguardo pensoso e distante come cercasse fra i testi di teologia morale e di sociologia, lì tutti in ordine, la risposta, ebbi l'impressione la meditasse; ricordo il silenzio che separò come spartiacque i sentimenti: «Queste torture - disse - danno soltanto due risultati: o si dispera o si ama. Non sarò io che darò la risposta che attendi - continuò - vedrai se sarà giusta o non lo sarà; deciderai da solo, non ora, col tempo, non oggi, col tempo. Sono queste delle risposte senza scadenze, né sono per impazienti. Nella tua situazione poi!...».

Vi sono nella storia degli uomini e del singolo avvenimenti che saranno chiari soltanto nel tempo, se vorremo vederli ed interpretarli. Si comprenderà come la "causa prima" delle tenebre siamo noi, soltanto noi e nessun altro. È Giovanni che semina e pone il lievito quando dice a noi, i dubbiosi, che la vita era in Lui e «la vita era la luce degli uomini. E la luce risplende fra le tenebre: ma le tenebre non l'hanno ricevuta». Ricalcò quel «e le tenebre non l'hanno ricevuta».

Non si ha predisposizione per il trascendentale né si è portati per queste altezze da vertigini, ma il vedere «impiccati», come il trovarsi sul patibolo, permette intravederLo ogni giorno nella forca che ciascuno erige per l'altro.

Non è facile, non lo è per nessuno, parlare dei propri sentimenti o delle proprie sensazioni, è complicato; in questo caso poi, parlare a chi? Non si intende parlare a nessuno, e non perché non si possa o non si voglia comprendere ma perché la monotonia del vivere da a tanti la sensazione del "già visto": non interessa. Non si potrà essere sereni, non lo si sarà né verso gli altri né verso se stessi per essere o troppo severi o troppo compiacenti, quindi non si sarà veri; inoltre vi è il rischio, diciamo la certezza, d'essere malamente fraintesi perché si pensa che si pretenda scusarsi, giustificarsi oppure avere da dire un qualcosa quando non si è che un nome qualsiasi fra i tanti qualsiasi ed un fatto fra i tanti; non si è nient'altro che uno qualsiasi ma il fatto non è un fatto qualsiasi.

Sono appunti confusi, arruffati; parlerebbero di stanchezze che non avranno termine e di ingiustizie fra le troppe, del come e del quanto queste torturino; parlerebbero di una calunnia fra le tante, delle sue conseguenze come delle solite trame per erigere patiboli. Sono scarabocchi aggrovigliati ai ricordi, sfuocati, presi in un certo periodo con discontinuità, intercalati a modeste considerazioni o a pensieri di altri che in quel momento ebbero importanza particolare; aiutarono respirare quando si era affaticati per guardare i percorsi fatti e come li si erano fatti per in seguito riprenderli da soli come si iniziò. Accadono per tutti i fatti che scavano impietosamente la vita tanto da modificarla, addirittura trasformarla; fra questi vi è l'esser stati violentemente privati delle condizioni serene per vivere le degradanti ed avvilenti; vi è l'invidia un tempo mal celata modificatasi in gioia maligna per le disgrazie altrui. Schadenfreude si direbbe in tedesco: vi sono gli odi, i fastidi, le antipatie, da tempo controllate, che esplosero con il vigore che da la compiacenza per la caduta dell'altro...


La condanna venne data ad un uomo qualsiasi che in una notte d'estate, per precisione d'agosto, stando nel solito albergo, dopo avere riposato, venne al mattino svegliato dal cameriere con il caffè ed il quotidiano. Coricato sorbisce il caffè, si accende la sigaretta, come in quella mattina fecero migliaia di uomini, e come loro legge il giornale, ordinato con il caffè al portiere di notte (poco dopo le 24). Nel leggere la prima pagina venne a conoscenza, come nell'identica maniera ne vennero tutti a conoscenza, venne a conoscenza, si ripete, di un omicidio consumato a qualche kilometro di distanza da dove lui riposava e mentre riposava così come riposavano a quell'ora migliaia di uomini. Come tutti prosegue leggendo altre notizie. Si alza, va al balcone che da sul mare, lo sente, respira l'aria salmastra, si stiracchia per liberarsi dalla pigrizia, si sbarba, si doccia come fecero quel mattino migliaia di uomini; sceglie la camicia e la cravatta; la solita lavanda; si controlla se è presentabile, non fieschietta per non saperlo fare; quel giornale sta là sparpagliato sul letto; inizia il suo giorno e mentalmente se lo organizza; guarda l'ora per I'appuntamento preso dalla sera precedente con il meccanico per delle riparazioni da fare alla macchina, saluta spensieratamente amici e conoscenti, così come fecero migliaia di uomini; si interessa con dei funzionari del suo lavoro; ritira la macchina, sente i commenti su quell'omicidio (è un fatto di cronaca, non gli interessa più di tanto); pranza, si riposa, paga il conto, parte per la casa, continua avere le quotidiane relazioni sociali poiché niente gli accadde per non dover proseguire la vita di sempre; è lo sviluppo normale di giorni normali: ebbene, quell'uomo che visse serenamente il suo riposo notturno, la sua mattina, il suo giorno e i suoi giorni come li vissero quelle migliaia di uomini, fu indagato, inquisito, detenuto, processato, assolto, scarcerato e poi condannato per averlo ritenuto responsabile di quell'omicidio che seppe soltanto dalla stampa, come lo seppero le migliaia di uomini, mentre dormiva, come dormivano migliaia di altri uomini, riposandosi e non partecipando, né sapendo, sotto qualsivoglia maniera, di alcun assassinio commesso per un qualsivoglia movente da una qualsivoglia persona o persone. Fra le migliaia di uomini che si trovavano in quella identica situazione, reale e psicologica, venne, fra questi, ritenuto corresponsabile di quell'omicidio con altri non partecipi oltreché assenti per delle elaborate quanto demenziali fantasie, ordite, fomentate, retribuite, ritenute veridiche per ragioni di politica criminale e giudiziaria come per ambizioni e vanità personali.

Non parrebbe vero, eppure lo è; lo è perché il potere è amministrato da uomini non da spiriti; lo è perché non esiste per nessuno di loro la presunzione assoluta del non abusare del potere né del non divenire prevaricatore. Essere uomini delle istituzioni, non significa essersi spogliati dalla propria realtà umana sia essa miserabile od eroica.



Non credetti potessi amare così tanto la mia terra da sentirla nel respiro, ingoiandone l'amarezza per starne lontano probabilmente per sempre. Era lontana ma per il miracolo dell'amore non la sentivo distante: l'odore del mirto mi trasportava ai suoi querceti come quello della ruta alle sue scogliere. Bastava quel qualcosa per farmela rivivere per poi risentire il dolore per non possederla né viverla, per averla soltanto desiderata; stava in me profonda, la vivevo, la palpavo quasi, dandomi pace per sognarla come pianto nel pensarla. Seppi d'amarla. Soffrii per la mancanza dei suoi silenzi e dei suoi canti, è una sofferenza differente, non si sa come esprimerla, aveva forse sapore di silenzi o di tempeste, era come se ti camminassero sopra. Guardando i mari e le montagne degli altri mondi li trasformavo con il sogno nel mio mondo ed il risveglio diveniva angoscia e quest'angoscia era piacevole per averla sognata.

Sentivo i giorni e gli anni accumularsi ed io lì lontano senza una ragione, soffrendone la mancanza ed amandola di più. Conobbi le lagrime della nostalgia, ed è così che ne assaporai la salsedine: si divenne schivi, taciturni, chiusi in se stessi, schiavi dei ricordi come avviene per gli amori perduti. Scrisse Neruda che «l'esilio è lavoro amaro»: «amargo trabajo el exilio».

Sapere che non si è attesi, né oggi, né domani, né dopo, né per il dopo del dopo, possedere questa realtà era sprofondare. Fra quelle pareti le solite cose senza anima. Tutto ovvio, al loro posto, nel loro silenzio, ed era con lui che si doveva convivere. Seppi che non si sarebbero mai più udite le voci della attesa. Si sentiva tormento per quella anormalità che diveniva normale. Ogni giorno come ospiti stanchi, inebetiti e confusi nella precarietà del momento. L'essere soli e il sentire d'esserlo significa essere dominati da quel "tutto è inutile". Parevano secoli quegli anni. Non si pensava né si era capaci analizzarsi perché affaticava, stancava tutto.

Nella tecnica cinematografica il rimandare indietro la pellicola per rivederla si definisce "roll-back". Iniziò nell'uomo-merce questo andare a ritroso per poi riesaminare i fatti, riviverli giù da quando venne consegnato intatto per essere custodito come il committente l'ordinò e lo pretese per così doverlo far ripartire dal punto che sarebbe dovuto essere giustamente definitivo e risultò, per volontà degli alchimisti, essere solo sospensivo. Strani ricordi. Lo Stato, lui non sa per non avere anima propria, inizia attuare in maniera subdola la lobotomia già da quando si è buttati in quella spirale con i riti tribali della burocratica consegna amministrativa: si sente il silenzio delle anime in un mondo fuori dal mondo, l'enclave, i movimenti controllati da altri, trascinati dai fatti, impotenti per il lungo deposito a causa di quella "legale" sostituzione di persona. Si è ricevuti nudi come riceve il mondo le sue creature, si è denudati come nei lager e nei gulag per essere simbolicamente spossessati di se stessi, si è necessariamente umiliati affinché si comprenda che non ti ci appartieni più; non hai diritto alla dignità che confondono per orgoglio, sei di un altro [...]. Iniziava la trasformazione molecolare dello spirito come definisce Gramsci la detenzione.

Si è stanchi nel domandare il "perché". Si è presuntuosi anche nelle sventure. Come sfida che sa d'accusa chiediamo: «perché a me»? ma mai «perché non a me?». Chi si suppone che uomo sia per dover essere rispettato dalle sofferenze, addirittura da non doverne essere sfiorato? Nessuno è differente da nessuno, "siamo del mucchio", come nessuno è migliore o peggiore di nessuno, non si è differenti dai tanti che subirono le identiche umiliazioni, né si è migliori per non averle subite né peggiori per subirle. La sfida è orgogliosa. Ma perché non anche a me?


Fonte: Gianfranco Murtas
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