Antonio Romagnino fra Marinetti e Nicola Valle, a Cagliari. E belle cose agli Amici del libro e nella saggistica
di Gianfranco Murtas
Fra Nicola Valle – cagliaritano registrato all’anagrafe di Pirri allora comune autonomo – e Antonio Romagnino – cagliaritano di Castello (via Lamarmora) correva una differenza d’età importante, o relativamente importante: 13 anni, classe 1904 l’uno, classe 1917 l’altro. Laureati l’uno (a Roma) nel 1926 l’altro (a Cagliari) nel 1939, ebbero un corso di vita in parte, ma fondamentalmente, parallelo, in quanto a propensioni culturali e professionali, fra lettere italiane ed insegnamento – anche l’insegnamento dettorino (e ricordando che di Valle docente di italiano e latino Romagnino fu allievo!) –, e naturalmente molte variabili a volgersi esse da una parte alla passione bis per la musica (violinista e orchestrale in un quartetto) e al servizio bibliotecario d’emergenza nell’immediato dopoguerra (come aggiunto e direttore del Gabinetto delle stampe), e dall’altra alle esperienze belliche nel nord Africa ed alla prigionia di due anni da “collaborazionista” in America come, dopo, a una certa e impegnativa militanza e dirigenza politica nel liberalismo. Vicini nelle produzioni saggistiche e in quelle, monumentali addirittura, pubblicistiche sulla stampa periodica e soprattutto quotidiana, seppure distanziate addirittura quasi mezzo secolo, nell’avvio della pratica, quelle fra i due: dal 1926 Valle, dal 1970 Romagnino. Vicini nell’associazionismo culturale/ambientale – si pensi alla Dante l’uno, a Italia nostra l’altro, uniti addirittura, seppure in successione, nella esperienza degli Amici del libro, di cui Valle fu cofondatore (ad Isili) nel 1944, nonché profeta e presidente ininterrottamente fino al 1983, e Romagnino presidente erede, o l’apostolo continuatore, dal 1983-84 al 1993.
I corsi paralleli di due intellettuali doc
Ebbero anche altre esperienze comuni, pur se di diversa durata e intensità, come nella Libera Muratoria cittadina, dal 1948 e per due decenni Valle, nel breve scavalco di anni fra ’50 e ’60 Romagnino, e il più comunque – a partire dall’humus di cultura umanistica e dalla piena cagliaritanità riflessa in tanti loro scritti per le redazioni o per gli editori – fu, va ripetuto, di una certa prossimità. Tali furono visti, conosciuti, apprezzati e ammirati nel tempo lungo che la sorte donò loro di vivere, i due professori: fino al 1993 Valle, fino al 2011 Romagnino.
Però a me è sempre sembrato che, nonostante questo, una qualche distanza marcasse quel rapporto sotto il profilo sia di una certa sensibilità sociale sia sotto quello delle modalità espressive del rispettivo talento.
Evidentemente non si tratta di delineare alcuna impossibile (e sgradevole) classifica di merito, si tratta semmai di cercare di avvicinarci a ricomporre i due profili che, nella loro diversità, arricchirono come pochi altri, nel tempo cagliaritano, il quadro cittadino.
E’ un tema, questo, che mi piacerebbe fosse affrontato e svolto da chi può, e soltanto in subordine o modesta, modestissima surrogazione, e se la salute m’assisterà, mi candido a tanto.
Ma intanto, celebrando il nuovo anniversario della scomparsa di Antonio Romagnino – che mi fu insieme maestro e speciale amico –, vorrei qui richiamare un episodio di… reciproca distanza (provocata o subita non importa) ed uno di avvicinamento, proponendo entrambi come tessere di un mosaico che sarebbe bello, documentalmente, ricomporre nella relazione fra Antonio Romagnino e Nicola Valle.
Il primo fa riferimento ad una polemica, perfino scintillante (e velenosa), sviluppatasi nell’autunno 1974 che ebbe come scenario la terza pagina de L’Unione Sarda. Bisogna dire, in proposito, che nell’estate era uscito a Cagliari Tuttoquotidiano, il giornale diretto da Piercarlo Carta con una linea editoriale che riportava a indirizzi moderati e di centro-destra in quanto ai posizionamenti politici nazionali ed a carezzamenti progressisti, o di sinistra il giudizio sulle condotte dei partiti alla Regione e negli enti locali isolani.
Sostenuto da una grafica modernissima, e d’avanguardia anzi, il giornale aveva anche introdotto una pagina culturale che sovente, anche per le collaborazioni prescelte, portava tematiche assenti nei fogli della concorrenza. In risposta a tanto, dunque, quasi si radicalizzò la nuova collocazione de L’Unione Sarda che, definito da parte sua anche un necessario restyling grafico, ebbe nella pagina culturale uno dei suoi nuovi punti di forza. (Allora, singolarmente, anche La Nuova Sardegna ad ipoteca SIR conobbe, vero fiore nel mezzo di un notiziario piuttosto modesto e anzi scadente e di una grafica complessivamente disordinata, una bella terza pagina di taglio tendenzialmente saggistico o monografico affidata ad Angelo De Murtas, già inviato speciale de L’Unione).
L’entrata in organico del quotidiano di Terrapieno di una personalità ancora giovane ma perfettamente strutturata anche da esperienze culturali ed artistiche estere come Alberto Rodriguez (di formazione comunista), e l’affidamento a lui della cura della terza pagina si rivelò indubbiamente una scelta molto fortunata per lo spessore dei contributi, tante volte saggi brevi, magari articolati in più puntate e presentati con un linguaggio sempre accessibile al vasto pubblico eppure mai qualunque o scontato, e fortunata anche per l’occasione che, con intelligenza, si offriva spesso di un dibattito a più voci, in una logica pluralistica sempre rispettata.
In un tale contesto, fu preziosissima – per qualità ma anche per quantità – la collaborazione di Antonio Romagnino, nella lista dei collaboratori ormai da alcuni anni (venendo egli dallo speciale delle recensioni librarie calendato al sabato e curato da Gianni Filippini, ma progressivamente “allargatosi” all’analisi ed al commento delle più varie questioni culturali e di costume, oltreché ecologiche).
Così suddivisa in tre ampie puntate – ciascuna delle dimensioni dei due terzi della pagina – venne, appunto nel 1974, la ricostruzione che il professore propose delle visite di Filippo Tommaso Marinetti in Sardegna, tanto più nel 1921 e nel 1938. Di questa ultima in particolare perché essa consentì all’autore dell’articolo di ricollocare la sua stessa esperienza di giovane – allora ventunenne – e di studente universitario iscritto alla facoltà di Lettere, nella temperie del fascismo che godeva allora della propria miglior stagione, quella detta “del consenso”, fra l’impresa coloniale e imperiale in Etiopia e la deriva razziale con quanto l’accompagnò e seguì, dal patto d’acciaio con la Germania (1939) a, successivamente ancora, l’infelicissima entrata in guerra (1940).
Scrive ad un certo punto Romagnino: «Chi rivede con la memoria la gioventù cagliaritana fra il 1935 e il 1940 difficilmente riesce a liberarsi del ricordo di una paradossale atmosfera di festa, che era una sorta di contestazione inconscia diretta contro coloro che intendevano richiamarla all’ordine e alla disciplina. Le adunate del Gruppo Universitario Fascista si risolvevano quasi sempre in rumorose chiassate e le sfilate, dietro ad un traballante e oscillante labaro dorato, più o meno romanizzante, si svolgevano nel più pittoresco disordine, tra lazzi senza fine, con allineamenti approssimativi, dinanzi ad autorità illividite. Anche le manifestazioni nazionali erano spesso segnate dalla goliardia irriducibile delle province sarde».
Ecco come, dunque, l’articolista si pose davanti alla sua materia: non per dar voti né a sé né agli altri, ma filtrando in quelle atmosfere presenti ancora nella memoria e nel sentire profondo quanto la lettura o rilettura delle cronache fissate sulla stampa del tempo ridestava nella precisione dei particolari. Questo e nient’altro. Il tutto reso – giudizio mio, ma credo condivisibilissimo – con una scrittura leggera ed elegante, sobria e pertinente, secondo una modalità di discreta ironia cui lo scarto temporale e la maturazione delle esperienze cumulatesi in quasi quarant’anni da quegli eventi autorizzava per certo e senz’offesa per alcuno.
Diversa l’opinione del professor Valle, 34enne al tempo degli eventi citati, 70enne al tempo della protesta anti-Romagnino. Valgono di nuovo i flash biografici: lui professore in cattedra e saggista musicologo (e altro) nel tempo lontano, presidente dell’associazione Amici del libro e della sezione cagliaritana della Dante nel tempo più vicino. Romagnino alla vigilia del suo pensionamento dalla scuola, fondatore della sezione cittadina di Italia nostra e, dal 1970, collaboratore di nome de L’Unione Sarda.
Un botta-e-risposta puntuto ma, naturalmente, civile ed educato. Ma un botta-e-risposta che lasciava intravvedere una riserva non saprei se e quanto remota di Valle verso il suo più giovane, ma pur autorevole, collega.
Tutto lascio, ho già detto, agli approfondimenti di un qualche futuro biografo sia di Romagnino che di Valle. Soltanto qui, dopo aver richiamato l’episodio del 1974, mi limiterei a ricordare che fra il 1983 e il 1984, rinunciando Nicola Valle a proseguire nella presidenza attiva degli Amici del libro, salì spontanea la candidatura del professor Romagnino (egli – varrà far appena menzione della cosa – neppure da molto s’era ripreso dallo smacco, direi offensivo dal parte del PCI, registratosi alle elezioni regionali del 1979, ed a tanto aveva positivamente contribuito l’uscita, nel frattempo, di due bellissimi saggi fotoscritti, sponsorizzati dalla Saia immobiliare: l’uno sul quartiere della Marina, l’altro sul quartiere di Castello, rispettivamente 1981 e 1982).
Agli Amici del libro
Sarà anche da esaminare il rapporto di Antonio Romagnino con l’associazione Amici del libro, magari anche nel suo nesso con la Dante. Dalle collezioni de Il Convegno (“Rivista [bimestrale] illustrata dell’Associazione Amici del Libro e della Dante Alighieri”) ho recuperato, del maggio 1980, il riferimento ad una sua relazione illustrativa degli scopi appunto della Dante, e del 1982 ad una conferenza, condivisa con il professor Fernando Pilia, su “I viaggiatori inglesi e francesi in Sardegna”: così nel salone della Camera di Commercio di Cagliari.
Il nome di Antonio Romagnino si era affacciato nella relazione Valle riguardante l’anno sociale 1980 ed apparsa su Il Convegno n. 7-8/1981, riguardo specificamente al ricambio del vertice associativo: Nicola Valle s’era dimesso dalla presidenza nel novembre 1980 (per l’«impossibilità di far fronte a sempre crescenti difficoltà, anche in relazione ai mutati tempi ed alle mutate esigenze di una società in rapida e continua trasformazione») auspicando una successione da parte di una personalità non soltanto autorevole culturalmente ma anche «animata da buona volontà organizzativa».
Di tanto riferendone L’Unione Sarda, si era saputo che la questione del passaggio di mano era stata posta dal professor Valle già nel 1976 e che, fra gli intellettuali cui egli aveva pensato ritenendoli fra i più idonei a prendere il suo posto e guidare il sodalizio, il nome del professor Romagnino rientrava in pieno insieme con quelli di Giovanni Lilliu, Angelino Usai, Fernando Pilia, Beppe Meloni, Giuseppe Loi Puddu, Mariolina Maxia… Evidentemente senza sviluppi.
Certo dovevano essere state superate le ombre del 1974, quelle derivate dal risveglio delle memorie marinettiane…
Aggiungerei poi che, nel quadro delle intense e sempre qualificatissime attività convegnistiche degli Amici del libro da lui promosse in stagione futura, Antonio Romagnino non perse di certo l’opportunità di contare sulla valentia del pur anziano professor Valle, invitandolo a svolgere una delle conferenze sui “cagliaritani illustri” programmate in due cicli, fra primavera 1990 e primavera 1991, anzi forse la prima di tutte. E parlò, Nicola Valle, di Filippo Figari. Critico letterario e critico, egli vantava competenze anche di critico d’arte e, ancorché in senso lato, di storico dell’arte. La sua fu una delle relazioni senz’altro più attese dal pubblico degli Amici del libro e segnò purtroppo anche l’episodio finale delle apparizioni pubbliche dell’anziano professore (cf. I Cagliaritani illustri, vol. I, pp. 241-271: l’impossibilità della sbobinatura del registrato consigliò di attingere ad altro già noto), ma sarebbe da aggiungere che un corposo saggio sul pittore di nascita cagliaritana egli lo aveva già felicemente pubblicato nel 1973 da Fossataro (cf. Filippo Figari: la vita, le opere, la monografia da cui appunto venne estratto un lungo passaggio per I Cagliaritani illustri).
Parlare e scrivere di pittori e scultori, non meno che dei poeti, narratori e musicisti, fu una delle più gradite attività di Nicola Valle saggista e pubblicista, fin dal 1926, quando cominciò a pubblicare sulle pagine de L’Unione Sarda: Della Maria ha censito tre articoli in quell’anno – il primo il 3 ottobre (“Cultura d’arte”), gli altri a novembre e a dicembre –, altri due fra il 1927 e il 1928.
Nicola Valle a L’Unione Sarda dal 1926
Impegni scolastici e impegni editoriali rallentarono allora le produzioni che furono più intense nel decennio successivo, soprattutto dal 1937, e furono altri (nel decennio) 24 articoli, ed altri 8 fino ai bombardamenti – l’ultimo uscì il 24 febbraio 1943.
Riprese più intensa la collaborazione e fra il 1947 ed il 1950 i contributi firmati furono altri 41, ed ulteriori 62 fra il 1951 ed il 1958. Tradizioni sarde (Sant’Efisio) e coltivazioni e lavorazioni del corallo, schede sui paesi isolani e profili di teatranti, radiosportive e Dante poeta e Dante associazione, lingua italiana e scuola, operetta e xilografia, Venezia (tema ricorrente nel passaggio dei decenni) e capitali d’Europa, musicisti e melodramma, pittori e pittori e pittori nazionali e stranieri, Grazia Deledda e letterature continentali, recensioni librarie e Francesco Ciusa…
Certissimo è che fra il 1959 e i primi anni ’90 furono almeno altri mille gli articoli firmati da Nicola Valle sulle pagine de L’Unione Sarda. Se ne potrebbe tentare una paziente ricognizione, una classificazione ed uno studio tematico. Si potrebbe/dovrebbe anche incrociare questa produzione con quanto, eroicamente, egli seminò, per quei lunghi decenni, nelle pagine de Il Convegno e su altre riviste (pensiamo a Mediterranea, ma nei quotidiani penserei molto a Il Giornale d’Italia così negli anni del regime che dopo) e depositò poi nei suoi libri che tanto spesso i temi affacciati sulla stampa quotidiana o periodica riprendevano e sviluppavano, da Paese che vai a Ritratti letterari, da Persone e personaggi a Antichi e moderni, da Nuovi saggi a Variazioni sul tema, da Grazia Deledda a Cagliari del passato, da L’ autonomista in Sardegna a Narratori e poeti d’oggi, da Origini del melodramma a Il Tasso e la musica, e aggiungine altrettanti… saggi brevi o lunghi sul Satta, sul Borsi, sul Mameli, su Mozart, sugli incisori…
Nel novero, Scompare un’Isola che, ripubblicato nel 2004, a quarant’anni di distanza dalla sua prima uscita da Fossataro, fu prefato proprio da Antonio Romagnino.
Ristampare venti libri
Si voleva ristamparla tutta, la produzione di Nicola Valle, ad iniziativa degli Amici del libro ancora a presidenza Giuseppina Cossu Pinna nei primissimi anni del nuovo secolo: una ventina di libri e l’intera collezione de Il Convegno, oggi integra (dal 1946 al 1988) soltanto in pochi esemplari affidati ad alcune biblioteche pubbliche ed a qualche amatore (io stesso ne ho una collezione certamente abbondante ma altrettanto certamente lacunosa, seppure coperta per il più dalla fotocopia dei numeri mancanti).
La dott.ssa Giuseppina Cossu Pinna, insieme con Antonio Romagnino e Maria Elena Sanna e con il sempre solerte Alberto Contu, avrebbe dovuto lavorare, e lavorò infatti generosamente, al progetto editoriale di riedizione concordato con la Zonza editori e valendosi dell’arte grafica dello stabilimento Ghiani di Monastir. “Nicola Valle Le opere” doveva titolarsi quella collana fermatasi purtroppo al primo episodio per le note difficoltà aziendali della Zonza. E comunque, traccia concreta di una promessa virtuosa l’abbiamo in Scompare un’Isola. Viaggio in Sardegna, ed essa arricchisce la nostra biblioteca.
Qui di seguito, dunque, ripropongo gli articoli marinettiani di Antonio Romagnino, lo scambio polemico Valle-Romagnino – non senza ricordare, in proposito, che un lungo e importante articolo su Marinetti il professor Valle lo pubblicò in Ritratti letterari, pp. 437-442) –, ed anche la prefazione (che è più di una semplice prefazione) di Romagnino all’opera di Nicola Valle.
Associo in tal modo alla memoria del mio professore carissimo – maestro-amico di quaranta e più anni – la memoria del professor Valle: mi mancò con lui qualsiasi intimità, ma lo ebbi in varie occasioni, di persona o per iscritto, in specie circa vicende e luoghi della città d’un tempo, interlocutore/corrispondente di prestigio. E’ sempre bello accostare talento a talento, e Romagnino e Valle è indubbio che abbiano costituito, nella Cagliari del Novecento, una fonte di ricchezza intellettuale e civile di cui ancora noi godiamo e godranno le generazioni future.
Omaggio
E proprio così concludendo, mi permetto di estrapolare dalla citata prefazione del professor Romagnino alcuni brevi passi che mi sono sembrati meglio fotografare la personalità del più anziano e benemerito intellettuale cagliaritano. Che, dalla incidentalità originaria prevista in questo mio scritto, mi è sembrato particolarmente bello e doveroso innalzare con l’omaggio resogli da quel suo allievo-collega-continuatore…
«Valle, che per cinquant'anni è stato piantato nella sua città, con un'attività culturale che non ha pari, è riuscito a fare ogni cosa con una schiva e dura separatezza da tutto ciò che suonasse rumore o cercasse consensi»;
«Attento ai costumi isolani senza essere un folklorista e interessato a sa limba e alle sue realizzazioni letterarie senza farne un feticcio, prestissimo accoppiò una simpatica curiosità per le due facce della realtà sarda, quella agro-pastorale e quella cittadina»;
«La vita intellettuale di Nicola Valle è un traghetto che è andato su e giù per il mare che ci circonda. È questo il compito che cercava e spesso trovò per Cagliari: di essere insieme la Sardegna e l'Italia e il Mondo. Lo capì Pietro Leo, l'intelligente sindaco di Cagliari negli anni Cinquanta, il quale volle che gli Amici del Libro, per una unanime delibera del Consiglio Comunale, fossero ospitati nel palazzo di città»;
«…congiungere da una parte Cagliari con la Sardegna e dall'altra, attraverso la mediazione del capoluogo, traghettare l'Isola verso un più tumultuoso e vasto mondo. Così nella sala aperta sul Largo Carlo Felice, entro le viscere della fabbrica eretta da Annibale Rigotti nel primo Novecento, si succedette a parlare di scienza e di letteratura, di storia e di filosofia, di arte e di politica, il meglio dell'intellettualità italiana e sarda. Fra questi, molti intellettuali inurbati di fresco a cui gli Amici del Libro aprirono le braccia, come sa fare da sempre la città che li ospita. In tempi in cui, fra le tante lacerazioni che si tenta di ricucire, prende corpo la proposta di aprire un dialogo tra laici e cattolici, importa ricordare che Valle quel dialogo lo aprì subito, perché la sua laicità voleva dire tolleranza, incapacità a discriminare, pratica del dubbio e però anche rispetto delle fedi»;
«Erano anche quelli altrettanti ponti che lanciava lontano a superare le mura invisibili e però più ferree che sembrava essersi data Cagliari, dopo aver abbattuto quello che materialmente e militarmente l'aveva chiusa per tanti secoli. Anche i viaggi avevano quell'ispirazione. Non erano fatuamente esotici e non erano contatti fugaci con culture che, per questo, rimangono incomprensibili. Ma guidati invece da una mentalità europea, in cui ogni volta tuffava ciò che più conservava di una sardità irrigidita»;
«Quello di Valle è un lungo viaggio di formazione che dalla Sardegna a Torino, Genova, Firenze, Siena, Roma, Palermo e da qui all'Europa Centrale, la Scandinavia e l'America, disegna non solo luoghi, ma è anche quell'esplorazione incessante che fu la sua esistenza»;
«...egli fu invece un vero selezionatore dell'antico e fece, solo di quello che rimaneva valido, un utile fondamento del presente e del futuro».
«L’ultima raffica del futurismo» (20 ottobre 1974)
Filippo Tommaso Marinetti, l’incontrastato capo del futurismo venne in Sardegna due volte, tra il ’20 ed il ’21 e ancora tra il ’37 ed il ’39, quando ormai il movimento era in declino. Il “ciclone” marinettiano fu appena un episodio di costume che non incise in alcun modo nella vita culturale dell’Isola anche se ai “comizi artistici” tenuti in varie città e paesi non mancarono i contrasti rumorosi che hanno reso famose le serate futuriste, dall’applauso alla autentica pernacchia, dai consensi deliranti all’irrisione.
Non furono tutte stupide vuote senza senso le serate cagliaritane tra le due guerre. E a scuotere l’aria ferma della città, la sua spagnolesca sonnolenta apatia non fu necessario sempre l’evento crudele, come lo sparo rivendicatore della libertà nella tragica notte del 31 ottobre 1926.
Poteva accadere, seppure occasionalmente e di raro, che sfiorassero Cagliari e l’isola le vicende più rumorose del continente e che la nostra realtà eccentrica o periferica rientrasse nel giro più vasto, magari con fortissimi ritardi sull’orario generale, ad opera di reattivi insoliti che si mettevano improvvisamente in circolazione. Ebbe il senso di un discorso appunto allargato quanto accadde negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, quando Cagliari ed altri centri della Sardegna ospitarono l’ultima stagione del futurismo.
F.T. Marinetti fu fra il ’37 e il ’39 più volte nell’isola e con lui scoppiò per l’ultima volta proprio fra noi una tarda tempesta di aeropoeti e di versoliberisti, di pittori della sensazione dinamica, del complementarismo congenito, del moto e della luce come distruttori della materialità dei corpi, di musicisti odiatori del cantante e sostenitori del mondo enarmonico.
A gettare Marinetti in un ambiente culturale, quale quello sardo, anche più passatista dell’altro, con cui fino ad allora si era misurato, non furono tanto le gerarchie fasciste locali, che obbedivano alla consegna del Minculpop di utilizzare il capo del futurismo come garante dell’attenzione del regime al problema della cultura, quando un poetino di casa che dopo una stagione crepuscolare passò armi e bagagli nel chiassoso campo marinettiano, più corrispondente alla sua capricciosa indole e alle sue ambizioni giovanilmente ribollenti.
Gaetano Pattarozzi – questo il poeta sardo anzi cagliaritano protagonista della vicenda – si fece scudiero di Marinetti e il maestro capì a volo che quanto c’era di verginale nella stenta vita culturale dell’isola poteva servirgli a rinsanguare le fila del movimento, quando il futurismo, nonostante gli avalli (molto cauti) del fascismo, mostrava a vent’anni dalla sua fondazione qualche ruga profonda. Non era neppure molto servito a dar più credito al suo fondatore che, tornata con la campagna d’Africa, la guerra, da lui indicata come l’igiene del mondo, vi avesse partecipato intensamente e ne avesse ricavato lo scoppiettante Poema africano. Era stata una giubilazione e quasi un tradimento per i suoi seguaci più radicali che l’odiatore dei musei e delle accademie fosse diventato dal 1929 accademico d’Italia e quindi segretario della Classe di lettere della maggiore istituzione culturale del regime.
Si aggiunga che proprio il clima di severità, che il fascismo intendeva instaurare, e quell’atmosfera di cupa attesa che nei declinanti anni ’30, nonostante il trionfalismo ufficiale alimentato dai successi dell’impresa etiopica e della guerra di Spagna, si diffondesse in ogni manifestazione pubblica, mal si adattavano allo scanzonato funambolismo marinettiano. Proprio il fascismo, con quanto di funereo e ben incarnato dal Moschettieri del Duce tutti neri, affossa il futurismo e quel che di più vivo aveva avuto nel turbinio delle schermaglie che si erano accese in memorabili serate per le maggiori città d’Italia, fra un pubblico nato da un popolo di attori e quel poeta-guitto che fu Marinetti. Le serate diventarono sempre più rare, la stessa grande Milano tradizionale e futurista, come ebbe a chiamarla più tardi lo stesso Marinetti, emarginò il movimento.
Non gli rimaneva in quegli anni se non la provincia, appena da lui toccata nel primo decennio della sua storia, a conferma della sua natura aristocratico-borghese e per nulla popolare, e la provincia o una delle province fu appunto proprio la Sardegna, dove Marinetti sentì l’ultimo brontolio di tuono festoso della sua rumorosa fama al tramonto.
Ma Marinetti non era del tutto estraneo agli ambienti letterari della Sardegna, anche se sembrò che, l’ultima volta che venne nell’isola, i fascisti accreditassero il merito di averlo scoperto loro. Ci era venuto nel lontano 1921, un anno prima della Marcia su Roma, quando lo stato liberale boccheggiava.
Anche allora il movimento era in crisi: dilaniato dalle opposte tendenze dei fautori del fascismo e dei suoi furiosi avversari. Fra i quali lo stesso Marinetti, che dopo essere stato con Mussolini nel 1919 e aver preso parte alla battaglia di Via Mercanti, aveva accusato nel 1920 il fascismo di revisionismo e di passatismo.
Proprio in una sua stagione di nuovo libera e accesa – nel fascismo doveva rientrare nel 1923-24 – Marinetti fu in Sardegna nel 1921, quando aveva appena scritto Al di là del comunismo, L’alcova di acciaio, Il tattilismo. Aveva 45 anni e, temperamento sanguigno, più che mai animato da un irriducibile radicalismo portava avanti il suo futurismo intransigente, lontanissimo dai temperamenti degli ultimi anni della sua vita.
Anche la stessa restaurazione classicistica della Ronda non lo impensieriva gran che in quegli anni e giustamente egli la confinava negli esercizi innocui di un accademismo senza alcuna presa sulla realtà morale e sociale dell’ora. Circolavano irrequietezze incontenibili, insofferenze variamente colorate, ma tutte fortemente radicalizzate per essere interpretate anche approssimativamente dalle gelide raffinatezze della prosa d’arte.
E il vento che ancora squassava le strutture artistiche e letterarie dell’establishment era del tutto simile a quello che investiva la democrazia liberale. I reduci erano tornati a casa da tre anni, ma il paese non smobilitava.
Anzi, proprio in Sardegna gli umori degli ex combattenti avevano assunto una intensità particolare e si erano espressi originalmente e con successo nelle battaglie del Partito Sardo d’Azione, anche se pure lì a fatica si facevano strada le più radicali istanze dei pastori e dei contadini. E così in quell’anno 1921, dopo il congresso di Oristano del 16-17 aprile, nelle elezioni di maggio il partito sardo raccoglieva quell’ondata di malcontento, conquistando ben quattro seggi: per P. Mastino e P. Orano, che risultavano confermati, e per E. Lussu e U. Cao, neoeletti.
C’era anche un simbolo popolare di tutto questo abbastanza diffuso: non era infrequente, nelle case piccolo-borghesi, della città o anche nelle più semplici dimore della campagna, sui comò, dove il gusto dell’epoca metteva insieme il santino e il vaso con i fiori artificiali, scorgere l’effige di un uomo magro e occhialuto, in cui non si era spenta la viva luce degli occhi del capitano Lussu, sotto cui si leggevano le parole, che ogni vero sardo si ripeteva e che davano un senso ben diverso che quello dei guerrafondai e dei nazionalisti all’inutile strage: «Non per un pugno di terra abbiamo dato la nostra giovinezza al vento ma per un ideale di giustizia e di libertà».
Marinetti piovve a Cagliari nei giorni 13 e 14 aprile, proprio alla vigilia del congresso costitutivo del Partito Sardo d’Azione e delle nuove elezioni del maggio successivo. Che cosa mai potessero dire alla coscienza civile più risentita dei sardi il suo parossismo nazionalistico e le sue sparate patriotarde è troppo facile immaginarselo.
Mentre negli stessi giorni Gavino Gabriel parlava al Politeama Regina Margherita su canti e i cantadori sardi, Marinetti per una settimana percorse la Sardegna, fermandosi a Sassari, Alghero e Monserrato, e tenendo i suoi comizi artistici in bilico fra il consenso e la pernacchia dello spettatore, fra l’applauso e l’invettiva o l’irrisione. Senza che però venisse mai a mancargli alla fine la simpatia di tutti, seguaci e avversari. Il cronista di allora marinettianamente così sintetizzava questo consenso finale che Marinetti riusciva sempre a strappare anche nelle sale più ostili: «Marinetti ha percorso la Sardegna come un ciclone. Treno, più il vino+discorsi+nostalgia di bombardamento di torsoli=simpatia. Simpatia è la simpatia che l’ha seguito in Sardegna».
Anche in quell’occasione, come diciassette anni dopo, tutto fu orchestrato con notevole collaudata abilità organizzativa. Le serate a Cagliari furono due: una per il pubblico grosso e più capace di stimolare la gragnuola di trovate marinettiane, si tenne al Teatro Civico di domenica sul tema “Futurismo e tattilismo” per iniziativa dell’Associazione Universitaria, ed un’altra si ebbe per un uditorio più selezionato e più esigente, che si era riunito all’Associazione della Stampa.
E anche allora Marinetti ebbe un giovane al suo seguito, che gli aprì il contatto con l’ambiente cagliaritano. Lo scudiero di Marinetti degli anni ’20, come Pattarozzi lo sarà degli anni ’30, fu Pippo Diaz Chareun. Questi in particolare, un po’ attore un po’ regista dilettante, curò la rappresentazione di un saggio di sintesi teatrale, che insieme con quello astruso del tattilismo, era l’argomento che Marinetti sviluppava in quegli anni.
La cateratta marinettiana non fu più che un episodio nella Cagliari del ’21. Né ci sono fatti del costume e della vita artistica tali da far ritenere che il suo discorso abbia inciso sul nostro ambiente più che con un contatto epidermico.
Si salvò solo la fortuna del mito marinettiano dello svecchiamento o del ringiovanimento, l’immagine di un futurismo alla Voronov o diremmo oggi alla dottoressa Aslan. Anche Pasquale Marica vi credeva, che in quei giorni con molta vivacità e gustosa capacità mimetica dello stile di Marinetti, così commentava la sua visita cagliaritana degli anni ’20 e la culminante serata del 14 aprile 1921 nelle colonne di questo giornale: «Marinetti toglie dalla gobba dei vecchi gli anni inutili che il tempo accumula burocraticamente sulle spalle dei suoi uditori: spiana le gobbe, purifica i reni come lo Jubod, vellica i diaframma, comunica vibrazioni radiografiche nei cervelli che ruminano i sei pensieri quotidiani con lentezza caramellosa, e fa penetrare nei muscoli inflacciditi dall’uso della penna o dall’abuso dell’ago un fiotto impetuoso di giovinezza lampeggiante e zamm… ogni fibra incancrenita si galvanizza, e frimm, ogni nervo ottusato dalla logica e dal buon senso sussulta, scatta, agisce… Quando Marinetti parla, urla, schiamazza, tambureggia, l’uditorio si muove sulle sedie, stringe i pugni, e anche quando è scandalosamente educato come quello di ieri, sprizza, scintille dagli occhi, vive, vive, vive…».
«Gli ultimi versi in libertà» (24 ottobre 1974)
Il leader del futurismo ritorna a Cagliari tra il ’37 e il ’38. La città sta vivendo un clima euforico e rumoroso tra manifestazioni fasciste in cui il grottesco si confonde con la goliardia e la burletta, elezioni di reginette di bellezza alla Terrazza del Lido, e rapide apparizioni alla prima di “Scampolo” di Dario Nicodemi. Gettata da un lato la feluca di accademico Marinetti rispolvera l’antico ardore e si produce in una serie di tournées di Alta Cultura in diverse località dell’isola; a Nuoro troverà perfino il coraggio di trasformare Sebastiano Satta in un poeta mussoliniano.
L’anno della grande stagione sarda di Marinetti – l’ultima del futurismo eroico e più rumoroso – fu il 1938. Il tempo e il luogo erano particolarmente adatti perché il movimento conoscesse un improvviso insperato revival. La guerra di Spagna volgeva al termine e gli italiani che qualche anno prima si erano familiarizzati con i nomi della Dancalia e del Tembien imparavano a conoscere meglio la Spagna, attraverso le vicende della guerra civile, e a più sicuramente localizzare Santander, Barcellona, Vitoria. E, per quanto a Praga nel cuore dell’Europa si uccidesse la libertà, molti italiani si illudevano che la pace potesse continuare.
Si accreditava l’idea che, conquistato l’impero, l’Italia avrebbe sostituito il fucile col vomere. A questo si credette che potesse servire far passeggiare per l’Italia i maggiori artefici del successo militare: Badoglio e Graziani furono anche a Cagliari e, a capo scoperto, uscendo dal modulo arcigno dei generali italiani e suggerendo la sensazione tranquillizzante di guerrieri a riposo, si presero, in Piazza Costituzione, in due giornate diverse, la loro parte di ovazioni, nell’euforia dell’ora.
L’illusoria tranquillità si traduceva nella popolarità di nuove canzoni: alla trionfalistica Faccetta nera era succeduta la languida Anna. C’era un germe di consumismo del sesso nelle forme tondeggianti ed opime delle donne di Boccasile, che irrompevano dalla rivista Grandi Firme di Pitigrilli. Si prese ad intitolare alla fortunata immagine i concorsi di bellezza balneari. E anche Cagliari nella terrazza del Lido, la sera del 13 agosto, elesse non una ma ben tre signorine Grandi Firme. Si rinnovava puntualmente la festa dell’uva.
Non serviva a guastare quella pigra atmosfera l’insistente ammonimento di Mussolini a non illudersi e a prepararsi. Né la visita alle truppe dislocate in Sardegna di Umberto, che era diventato ispettore dell’Arma di Fanteria, valse a scuotere la fede di molti nella forza di Mussolini per salvare la pace. Due opere del regime incoraggiavano l’immagine di un’Italia pacifica e quindi di una Sardegna che dalla tregua di armi ricavava qualche vantaggio: l’inaugurazione del nuovo ponte sul Tirso e la fondazione di Carbonia.
Eppure c’erano segni premonitori della bufera vicina: si istituirono in quell’anno gli ammassi, dopo aver proclamato che la battaglia del grano era stata di nuovo vinta con un raccolto di 78 milioni di quintali, e Mussolini diede inizio alla campagna razziale. Si faceva più attenta la permealizzazione, da parte del partito, della vita del paese in tutti i suoi aspetti. Le gare atletiche dei gerarchi erano di per sé uno spettacolo nazionale, mentre il Carro di Tespi, che a Cagliari diede l’innocuo Scampolo di D. Nicodemi, era quanto di morbida evasione si offriva all’Italia minore, in una ottica culturale vagamente popolare. Si vietava l’uso della sahariana come abito borghese, Gino Bartali vinceva il 32° Giro di Francia e Mussolini gli concedeva la medaglia d’argento al valore atletico. Proprio anche in perfetta consonanza col futurismo odiatore dell’esterofilia, per incidere sul costume, come si diceva, si pretese che si dessero nomi e caratteri italiani al pubblici esercizi, e che il fascistico voi fosse rigorosamente impiegato nei rapporti fra personale e clientela.
In questa menzognera atmosfera di pace c’era anche posto per la fumisteria marinettiana.
Ma era soprattutto l’ambiente cagliaritano che ne si adattava a quanto di goliardico e di scapigliato Marinetti rispolverò per gli amici sardi, dispellendo l’animo di un tempo di sotto alla feluca e la rendigote carica di alamari di accademico d’Italia.
Chi rivede con la memoria la gioventù cagliaritana fra il 1935 e il 1940 difficilmente riesce a liberarsi del ricordo di una paradossale atmosfera di festa, che era una sorta di contestazione inconscia diretta contro coloro che intendevano richiamarla all’ordine e alla disciplina. Le adunate del gruppo Universitario Fascista si risolvevano quasi sempre in rumorose chiassate e le sfilate, dietro ad un traballante e oscillante labaro dorato, più o meno romanizzante, si svolgevano nel più pittoresco disordine, tra lazzi senza fine, con allineamenti approssimativi, dinanzi ad autorità illividite. Anche le manifestazioni nazionali erano spesso segnate dalla goliardia irriducibile delle province sarde: un universitario cagliaritano, oggi valoroso professionista, fu proclamato a Bologna, littore di «aria proveniente dallo stomaco che viene fatto uscire rumorosamente dalla bocca» (Zingarelli). Fu appunto questa provincia spensierata a rendere quasi naturale il ritorno di Marinetti nell’isola, dove, portato qua e là dall’infaticabile Pattarozzi, imperversò per un anno almeno, rifattosi il giocherellone di un tempo.
I particolari dell’incontro fra Marinetti e Pattarozzi non sono noti, ma è da credere che il nostro poeta abbia conosciuto Marinetti quando questi tornò nell’isola, dopo sedici anni, in occasione delle Celebrazioni dei grandi di Sardegna.
Pattarozzi era un oscuro poeta che aveva pubblicato per le Edizioni Ariel, appunto nel 1937, un libro di versi, L’Eremitaggio, cui aveva premesso una benevola introduzione Francesco Sapori. Era nato a Cagliari nel 1914 dall’avvocato Mario e da Mariuccia Cocco Ortu, figlia del ministro giolittiano. I suoi versi tenui, che inclinano spesso a toni fiabeschi («Cammina, cammina, cammina, il cuore si perde nel sogno / in un dolcissimo sogno con una fata turchina») sono una tarda eco crepuscolare e fanno pensare insistentemente a Gozzano e, nei toni più tristi («Un passero morente sotto un pesco / nella sua veste bigia francescana / mi ricordò morir Santo Francesco»), financo a Corazzini e a quel Vincenzo Soro che della musa malata era stato in Sardegna, negli anni ’20, un ripetitore non volgare.
Certo non fanno pensare allo sferragliare del futurismo. Semmai un preannuncio delle intonazioni falso epiche e imperiali cui si abbandonerà più tardi il poeta dopo la conversione al futurismo, è nell’Ode trionfale a Gabriele D’Annunzio, stampata nel 1935 da Edoardo Granero, magna cum peritia, come dice la scritta solenne in latino del frontespizio, ma non senza qualche taciuta perplessità, quando alle aquile imperiali, dell’antifascista che fu sempre questo abile tipografo-editore cagliaritano, costretto a comporre in eleganti “novissima” questi versi: «Sale, un vol d’aquile, grande / Ad oriente / Meravigliosamente / Il sole appare / Ardente in cielo, quale fiamma viva / Quasi divino annunzio le campane / Suonano a stormo dalla Cattedrale».
Tra D’Annunzio e Gozzano si divideva un gusto di provincia, fortemente in ritardo, che non sapeva nulla di Ungaretti e di Montale, e che si muoveva nell’ambito di una cultura di respiro liceale.
Ma prevaleva D’Annunzio, e non solo nella magniloquenza retorica. Carta e larghi margini dell’edizione tendevano al raffinato e facevano pensare alle edizioni sempre curatissime dell’Immaginifico, ormate di preziose incisioni. Di D’Annunzio d’altronde Pattarozzi si ricordava ancora quando di lì a poco fondava la rivista Ariele, apocopato poi in Ariel, dove la bella veste non riusciva a nascondere la pretenziosità del sottotitolo “Rivista di Alta Cultura”, cui non corrispondeva la collaborazione che, seppure spesso illustre, era però di seconda mano, accompagnata dall’insistente didascalia «per gentile concessione dell’editore».
Certo alcuni nomi di collaboratori (Guido Mazzoni, Vittore Pisani, Emilio Santini, Antonio Anile, Francesco Orestano, Giuseppe Ungaretti, Massimo Bontempelli) cui si aggiunsero alcuni valenti studiosi ed artisti sardi (F. Alziator, M. Mundula, S. Cambosu, F. Loddo Canepa, C. Floris, M. Delitala, A. Zucca, F. Melis Marini, E. Marras) facevano effetto e servirono, in un angusto ambiente come il nostro che non aveva strumenti per entrare addentro nell’operazione e capirne interamente il giovanile dilettantismo, una certa curiosità intorno al suo direttore.
Marinetti invece era all’apice della sua carriera, ed era quindi quasi scontato che fosse prescelto come oratore per la Celebrazioni Sarde che si tennero fra il 2 e il 27 ottobre 1937, organizzate dalla Confederazione fascista dei professionisti e degli artisti e dalla Sezione di Cagliari dell’Istituto di Cultura Fascista. Vi parteciparono personalità diversamente illustri: Arrigo Solmi, Goffredo Bellonci che celebrò Grazia Deledda, Giuseppe Bottai. Nello sforzo di allargare l’area della sardità nel campo degli uomini illustri, lasciando però fuori chi non era facilmente accomodabile, si ripescarono come sardi, con un po’ di sorpresa data la ristretta cerchia che nell’economia delle celebrazioni si poteva abbracciare, Giovanni o Mario De Candia, Maria Cristina di Savoia, i Mameli. GM. Angioy invece fu completamente ignorato, mentre nessuno allora sapeva che Gramsci, il più illustre sardo del sec. XX, era morto appena qualche mese prima nella clinica “Quisisana” di Roma.
La vittima di Marinetti fu S. Satta, che egli celebrò a Nuoro il 13 ottobre 1937. Come gli accadeva, neppure dinanzi al nostro poeta, più materiato del classicismo carducciano e quindi lontanissimo dal versoliberismo futurista, Marinetti arretrò o rinunciò ad un’interpretazione secondo i suoi canoni. Anzi fu più radicale: la storia poetica di Satta diventò nelle sue mani disinvolte lo svolgimento da forme irrigidite e chiuse a forme sempre più aperte e dinamiche, e quindi sostanzialmente futuriste.
Attribuita al primo Satta una musicalità un po’ monotona, lo vede dominato dall’ansia di svincolarsi e insieme di condannare l’analisi per raggiungere una maggiore sintesi. E, senza ritegno riconosce al futurismo l’ufficio di liberazione del Satta migliore, incatenato dal vero classico: «Dai Canti barbaricini ai Canti del salto e della tanca Sebastiano Satta certo scosso dall’avvento del futurismo col verso libero e le parole in libertà dà un magnifico balzo in avanti fuori dalle strettoie di un verismo del voto all’antica pietra tombale delle tradizioni delle morali grette calunnie di villaggio e della pettegola cattiveria che fiorisce nelle solitudini».
Satta futurista saluta marinettisticamente la civiltà delle macchine: «L’avvento dell’automobilismo è salutato con gioia dal villaggio dello stazzo dalla tanca della bardana e dal Poeta che cantano con bella indipendenza di ritmi le ruote vittoriose e le inebrianti velocità seppelliscono nobilmente la vecchia Sardegna».
Tutto prepara l’ultimo volo dell’orazione marinettiana e l’ultima profanazione critica: «La poesia del grande Poeta sardo abbraccia l’intera Sardegna con un girante sguardo canoro e questa ne gode schiumando con un audace promontorio d’italianità anzi un perfetto trampolino Mussoliniano adatto a balzi italiani sul mondo. Un’ariosità e un fresco dinamismo fascista vivifica i ritmi sgombri da vecchi motivi e da vecchie cadenze. L’ampiezza dell’immagine esalta il lettore che sentendo la gioia con cui la parola sarda si fa assorbire dalla parola italiana si trasfigura anch’esso nella lettura e nutre il suo cuore col succo patriottico e poetico della Sardegna e del suo grande poeta Sebastiano Satta».
Non si conoscono gli umori della serata, non si sa come il pubblico presente abbia reagito, ma forse importa poco, e importa invece dire che questo preannunciava abbastanza chiaramente il tono delle avventure cagliaritane di Marinetti dell’anno dopo.
«Avanguardia e poesia nella Cagliari degli anni ’30» (27 ottobre 1974)
L’ultima stagione futurista singolarmente fiorita in Sardegna per il tramite di un poeta locale – Gaetano Pattarozzi – si svolge, tra lazzi e rumori, mentre l’Europa già si trova sotto l’incubo della guerra imminente. Nel capoluogo sardo la vita di provincia viene animandosi per gli scontri tra futuristi e passatisti e per le trovate di Marinetti che propone alle signore di tingersi le labbra in tricolore per essere più aeropoetiche e fasciste.
Giampaolo Dossena che scrivendo una “guida letteraria d’Italia”, fermatasi per ora all’Italia settentrionale, con l’occhio sul volto che hanno assunto città e località diverse nella voce degli scrittori, si dovrà ricordare, per Cagliari, di Pattarozzi e delle sue simultaneità. Nessuno ha scritto meglio di Pattarozzi e con più felice novità di una città povera di architetture emergenti e ricca doviziosamente di orme naturali impareggiabili. Se qualcuno vorrà ricordare Cagliari attraverso la trasfigurazione di un poeta, dovrà citare questi versi del suo Aeropoema futurista della Sardegna: «Abbassarsi / vederti / stringere nelle mie mani / come bastioni alpini / le tue torri pisane / per sciare giù dal Castello / alla superficie patinata del mare», o questi altri sulla conca acquea a cui Cagliari si affaccia: «Sul Golfo degli Angeli galleggiano / ninfee violacee di nuvole / in una trasparenza di cristallo / balzano i monti di Pula / pietrificata vigna / di grappoli solari».
Per scriverli il povero Gaetanino volava sul cielo della città a mille metri, come voleva il maestro, senza nascondere candidamente che cosa gli costasse in incontenibili voltascomachi quel duro lavoro che era diventata la idoleggiata poesia: «Narici dilatate / puzzo di benzina / freddo sudore / salivazione / su la sacchetta pallido in adorazione / pago il tributo all’etere / che ho voluto violare / Ultima zavorra che mi legava alla terra».
Era proprio uno scotto che doveva pagare perché il suo libro avesse un’invidiabile edizione. Apparve nel 1939 nelle Edizioni Futuriste di Poesia, e cioè in una collana prestigiosa dove, accanto a Mafarka il futurista di F.T. Marinetti, che ebbe un burrascoso seguito di sequestri, c’erano Il codice di Perelà e L’incendiario di Aldo Palazzeschi, Poesie elettriche e Rarefazioni e parole in libertà di Corrado Govoni.
Ma non sappiamo neppure con certezza se quei voli siano mai avvenuti: non dovevano essere molto facili in una città, che si apprestava a diventare, nel conflitto vicino, una delle più importanti basi aeree del Mediterraneo. Più sicura dall’immagine del volatore è invece quella del camminatore accanito, cui pochi resistevano: vi riusciva la mite minuta sua compagna di allora, portata dall’amore, quando si arrampicava nelle strade di Castello, per raggiungere la facoltà di lettere, che frequentava molto saltuariamente, o il Palazzo del Governo, dove il prefetto Canovai non era insensibile ai suoi progetti di pubbliche manifestazioni culturali.
Pattazzoni lasciò in Ariel la sua originaria maniera, scrivendo per il suo primo maestro un saggio intitolato Guido Gozzano. Quando si convertì al futurismo, la rivista che non era andata oltre qualche numero cessò le pubblicazioni e il suo posto fu preso da un foglio intitolato “Mediterraneo futurista” che si proclamava senz’altro, a dimostrare che il futurismo aveva messo le tende in Sardegna, “Organo dei gruppi futuristi italiani”.
La mediterraneità corrispondeva alla posizione di Marinetti, che ancora era costretta a difendersi dall’accusa insidiosa che il carattere libertario del movimento mal si conciliava col culto dell’autorità proprio del fascismo. Anche non sempre tollerato era il titolo di avanguardia che Marinetti riproponeva periodicamente per il futurismo, col rischio di essere coinvolto nella persecuzione da cui movimenti consimili erano colpiti nell’alleata Germania, nonché quello di internazionalismo, che almeno il futurismo delle origini aveva voluto arrogarsi.
Per tutto questo, senza escludere che lo suggerisse lo stesso Marinetti, il titolo di Mediterraneo futurista che Pattarozzi diede al suo nuovo giornale rientrava pienamente nello spirito dell’antico e del nuovo futurismo.
Marinetti si era specializzato, nelle sue predilezioni tecnicistiche, in un linguaggio matematicizzante che ricorreva spesso alla figura della formula chimica o dell’equazione. Ne coniò una anche per il suo ultimo fedele discepolo: Sangue Sardo + futurismo x fascismo = Gaetano Pattarozzi grande poeta non preveduto dagli avi. Era un’equazione di primo grado ad una incognita: il fascismo di cui era almeno dubbia la capacità moltiplicatrice dell’estro poetico.
Di questo Pattarozzi ne aveva di nativo in abbondanza, e semmai per affinarlo avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più severo che l’attivismo futurista.
Nel quale il giovane si gettò a capofitto, anche con qualche sortita fuori dell’isola, come quella per la serata al teatro Salieri di Legnago, a riprova della predilezione per la provincia dell’ultima stagione marinettiana («Godiamo senza fine la saporita ingenua focosa atmosfera di certe cittadine nostre che trascurate dai treni e dagli aeroplani addentano golosamente le goliardiche comitive futuriste irte di frizzi imagini utili propagandisti e infinite aeropoesie»).
A Cagliari invece fu creato il Gruppo Futurista Sant’Elia (così chiamato non dal toponimo cagliaritano, ma dal nome dell’architetto futurista morto nella prima guerra mondiale). Ne facevano parte Pattarozzi, Forlin, Mattana, Corona e Gaetani. E ci fu anche un manifesto specifico dei futuristi sardi (G. Pattarozzi, R. Micheloni, N. Camellini, G. Curtoni, P. Saragat, O. Carcassi, A. Boscolo, I. Mereu) che, denunciati i vizi atavici dei sardi (immobilità fisica, rovesciamento dello spirito teso alla fantasticheria e al pettegolezzo maligno, ostruzionismo sistematico, mania critica, boria sprezzante) si proponevano: «Con lo slancio eloquente della littorina che a primavera sveglia i rosei mandorli fiori male imprigionati nel loro quadrato di fichidindia con foglie plaudenti e succose lampadine elettriche Noi futuristi vogliamo distruggere nella poesia e nelle arti questi cinque vizi sardi che frenano ancora il potente e splendido avvenire della Sardegna. Tutto ciò stabilendo e perfezionando rapporti aeroposesia aeroarti e sport simultanei con tutte le sponde e le isole del mediterraneo».
Come ogni futurista, anche Pattarozzi ebbe bisogno di un passatista, su cui appuntare le sue accuse. Fu scelto come sorpassato Nicola Valle («E’ simpaticissimo il dimenarsi di Nicola Valle… che oggi si accorge di essere finito nei quadri della riserva»), che non aveva più di 35 anni e che aveva solo il torto, agli occhi dei futuristi più arrabbiati, di essersi occupato delle origini del melodramma italiano e di coltivare la musica classica.
I nostri futuristi ne ricevevano pizzicotti sanguinosi: Valle chiamava Marinetti S.E., effeti e nel Popolo di Roma all’indomani del Concorso di Poesia, che si celebrò a Cagliari, scrisse un pungente articolo sui tre poeti che al Quisibeve erano stati incoronati con un premio sonante di mille lirette ciascuno.
A parte le polemiche di Pattarozzi (un’altra ne ebbe col Perseo, che era una rivista togata accusata di paludato accademismo) la attività dei futuristi sardi si svolgeva all’insegna di una festosa goliardia.
Marinetti, che veniva tra loro sempre più spesso, ospite di Pattarozzi alla Villa Congiu, in Corso Vittorio Emanuele, oggi residenza del rappresentante del Governo presso la Regione Sarda, rivaleggiava con quei giovani nonostante avesse superato i sessant’anni. Scorrazzavano per l’isola, con una preferenza particolare per il Sulcis, dove tennero memorabili comizi. A Iglesias finì come ai tempi eroici delle lontanissime origini a torsolate, a Carloforte Pattarozzi e Giuseppe Fanni tennero in piazza un’applaudita lettura pubblica, a Gonnesa di sopra un vagoncino che serviva per il trasporto dei minerali Pattarozzi arringò la folla leggendo La Mula di batteria e La battaglia di Adrianopoli del maestro.
A Cagliari continuarono le forsennate deambulazioni di Gaetanino, cui, nonostante l’età, partecipava anche Marinetti. Qualche volta era però costretto a sostare e in una di queste fermate obbligate, conquistato dalla grazia di due banani che ne ornavano l’ingresso, proclamò un locale che si apriva sotto il Bastione verso Piazza Costituzione il più bello orinatoio del mondo. L’esotico continuava ad affascinarlo ed era rimasto una sua memoria perenne: anche la luce abbacinante di Cagliari, il suo cielo perennemente terso lo faceva riandare al suo oriente mai rinnegato.
Anche i banchetti rientravano nella vacanza sarda di Marinetti. Se ne celebrarono di misura pantagruelica: Pattarozzi era parco, come diceva la sua figura essenziale, ma Marinetti aveva mascelle, della allegra ferocia di quelle di C.E. Gadda, che gli fecero onorare ai Quattro Mori la cucina sarda, a base di porchetto e di cinghiale, nonostante una fastidiosa ulcera, che s’era portato dall’Africa e che consolava con grossi bicchieri e di latte, intercalati ai forti vini nostrani.
In quest’atmosfera si collocarono alcune manifestazioni artistico-culturali, legate a questo ospite illustre, ormai assiduo della città, che si svolsero tutte nel 1938. Intanto la mostra di aeropittura, che si tenne alla Passeggiata Coperta in ottobre e che per il valore di molti espositori (Alberti, Dulgheroff, Falchetto, Crali, Tato, Cunico, Menin, Dottori, Fasulli, Favalli, Peschi, Peucello, Valeri, Korompal, Zeln, Momnachesi, Prampolini, Marras, Lepori, Andreoni, Boccato, Baldessari, Scanini, Forlin) ebbe un’importanza nazionale, ed una notevole risonanza anche per la presenza di Luigi Russolo, teorico con Francesco Balilla Pratella dell’arte dei rumori e inventore dell’ “intonarumori”, le cui idee sono ora riconosciute tra quelle che hanno più giovato alla musica d’avanguardia.
Ma anche la celebrazione di Arnaldo Mussolini nel VII anniversario della morte, con un discorso di Marinetti al Politeama R. Margherita la sera del 21 dicembre, rientra in quest’ultima stagione vissuta dal futurismo in Sardegna. Marinetti uscì spesso in quell’orazione dell’ufficialità del tema e ancora una volta vi fece risplendere il suo genio metaforico. Per dire della mitezza di Arnaldo, che si contrapponeva secondo una mitologia accreditata dal regime alla fermezza del Capo e alla necessaria cattiveria del dittatore, Marinetti la paragonò all’atmosfera serena di bambini chini sui compiti intorno ad un tavolo su cui piove la luce benigna di un lume casalingo. Si ricordò anche degli occhi di Benito e li vide come «i fanali prodieri di una torpediniera puntati a forare le tenebre della notte o della foschia».
Ma più marinettiana di tutte fu la serata del 17 febbraio, in occasione della proclamazione del premio di poesia, volute dal prefetto Tito Cesare Canovai. L’atmosfera si fece immediatamente goliardica, come desiderava Marinetti, quando, avendo un incauto presentatore, che aveva voluto allargare con galanteria, non ignota anche ai gerarchi più duri, le sue parole alle donne, cui il Gruppo “Fois”, organizzatore della serata, aveva fatto occupare tutta la platea, aveva detto: «La donna fascista si distingue dall’uomo per un piccolo particolare…», non fu lasciato finire perché la sala sorse in piedi al grido entusiastico «per quel piccolo particolare eia! eia!” eia! alalà».
Marinetti si liberò presto del premio e liquidò in un certo senso ruvidamente anche i premiati (Salvatore Deledda, Francesco Zedda, Ludovico Gaetani, i tre delle mille lirette di N. Valle), proclamando: «Pattarozzi sarebbe stato certamente il vincitore del premio al quale però con suo grande dolore non ha potuto partecipare perché segretario della commissione giudicatrice».
Quindi iniziò il vero e proprio spettacolo: il tambureggiare sul tavolo, le onomatopee stentoreamente gridate, il commento gestuale furono il sonoro e la mimica che accompagnarono il trascinante racconto della guerra marinettiana, diventata il Poema africano. Anche lui non si sottrasse al fascino della macchia tutta femminile della platea. E dopo aver divagato sui neologismi autarchici del futurismo (rrr invece di chic, appetitosa invece di sex-appeal, volantista invece di autista o chauffeur, capannone invece di hangar, quisibeve invece di bar) e aver rivolto alle donne presenti l’appello pure autarchico «Aggraditevi meglio di una cosa brutta italiana che di una cosa bella straniera» a loro dedicava la spumeggiante trovata finale: «Recentemente mi occupavo di un’altra cosa importante ed è delle labbra rosse delle donne. Non immaginatevi che voglia dire la sciocchezza che molti vorrebbero attribuirmi, che le donne non si devono tingere le labbra. Io voglio anzi che si dipingano, ma perché si dipingono di rosso? Io propongo delle labbra tricolori: un tricolore dipinto sulle labbra formato dal bianco dei denti e dal verde del labbro inferiore. Così secondo me si abolisce il rosso unico del bolscevismo e si fa risultare l’italianità spavalda del tricolore».
Quando, finito lo spettacolo marinettiano le luci si spensero, in quella lontana sera del 17 febbraio 1938, nella sala, che si era da poco rinnovata sulla tinta predominante del giallo oro e che sarebbe stata presto devastata dalle fiamme distruggitrici, non si chiudeva solo l’ultima chiassosa stagione futurista, fiorita inaspettatamente in Sardegna, ma anche la breve pausa di un’effimera pace, di cui Cagliari godette, prima che si aprissero nel suo corpo le ferite sanguinose della guerra.
«Nicola Valle e Marinetti» (3 novembre 1974)
Vedo non senza sorpresa il mio nome tirato in ballo a sproposito nell’articolo Marinetti in Sardegna, apparso sull’Unione di domenica scorsa. In esso si dice che il depositario del futurismo nella Sardegna di allora (1938), avendo bisogno di un passatista su cui appuntare le sue accuse (?) scelse me come sorpassato e già finito – secondo lui – nei quadri della riserva. Vi si dice inoltre che i futuristi di Cagliari avevano da me ricevuto pizzicotti sanguinosi, per aver io chiamato Marinetti S.E. Effetì (cosa che, al contrario, divertiva lo stesso Marinetti) e per aver scritto un pungente articolo sui tre poeti incoronati con un premio di mille lirette ciascuno.
Il sistema di leggere e di citare solo quel che conviene, e di isolare artificiosamente frasi di comodo, perché i lettori bevano senza incertezze, non mi sembra corretto. A parte il fatto che, anche citate in questo modo, le frasi su riportate non suonano ostili verso nessuno, né a suo tempo urtarono la suscettibilità degli interessati, debbo rettificare più di una inesattezza , per quanto mi riguarda: a) Anzitutto, già a quei tempi (avevo poco più di trent’anni) avevo già pubblicato dell’altro oltre a Origini del melodramma (libro peraltro lodato dai maggiori critici letterari e musicali, e pertanto fuori di luogo appare farci su dell’ironia: sarebbero stati ben felici di firmarlo, tutti quei fresconi che allora, e dopo, speravano d’esser presi sul serio facendo da reggicoda a Marinetti); b) Non è affatto vero ch’io abbia scritto un pungente articolo sui tre poeti premiati: al contrario, per quanto avessi era stima solo di Zedda, ebbi parole di incoraggiamento per tutti, e di tutti parlai con grande, eccessiva, schietta simpatia e benevolenza. Sfido chiunque voglia leggere quell’articolo con obiettività, a provare il contrario (v. Il popolo di Roma del marzo 1938); c) Non è affatto vero che io sia stato scelto perché passatista (?). Sarebbe stata l’ennesima corbelleria di quel gruppetto di corbellati e corbelloni. Infatti sarebbe bastato informarsi meglio, o chiederlo allora direttamente allo stesso Marinetti – del quale mi onoro di essere stato amico fin da quando lo conobbi a Perugia, all’Università per gli stranieri, nell’autunno del 1928. Ma perché non leggere e non citare piuttosto un mio articolo, pubblicato sull’Unione Sarda del 2 ottobre 1928? Si tratta di quasi un’intera pagina celebrativa di Marinetti e di quel che di buono si poteva reperire (sia pure con molta buona volontà) nel Futurismo, articolo che, oltre ad essere stato apprezzato ed approvato dallo stesso Marinetti (come prova la fotografia che si compiacque inviarmi con dedica) contiene affermazioni e concetti che, detti allora a braccio nelle due lezioni di cui si tratta, sono rimasti in gran parte inediti. Sarebbe stato utile che l’estensore dell’articolo Marinetti in Sardegna li avesse tenuti presenti; certo più utile che andar cercando di punzecchiare e insinuare malignamente, magari solo nell’intento di far dello spirito. Ognuno ha il suo stile, è vero; ma questo era il modulo di allora fino a una cinquantina d’anni fa, questo sì, ch’è vero passatismo!...
Anche l’affermazione, secondo la quale io sarei finito già fin d’allora, poco più che trentenne, nei quadri della riserva, è un altro esempio di malignità che rasenta la corbelleria; ed averla citata oggi è per lo meno ridicolo, tanto più dopo le prove negative fornite dalla maggior parte di quei corbellati, corbellatori e corbelloni ai quali si attribuisce la battuta, e che si autoproclamavano poeti e scrittori futuristi.
Ripeto: ognuno ha il suo stile, è vero, ed ognuno fa ciò che può. Ma mi piace ripetere anche qui un mio vecchio slogan: non abbiamo il dovere di essere intelligenti ed acuti, ma abbiamo l’obbligo di essere leali e di rispettare la verità. Nicola Valle
Nel terzo dei miei articoli Marinetti in Sardegna, in cui non ho fatto storia e ancor meno Storia ma solo cronaca, ho testualmente scritto: «Come ogni futurista, anche Pattarozzi ebbe bisogno di un passatista, su cui appuntare le sue accuse. Fu scelto come sorpassato Nicola Valle (E’ simpaticissimo il dimenarsi di Nicola Valle… che oggi si accorge di essere finito nei quadri della riserva), che non aveva più di 35 anni e che aveva solo il torto, agli occhi dei futuristi più arrabbiati, di essersi occupato delle origini del melodramma italiano e di coltivare la musica classica. I nostri futuristi ne ricevevano pizzicotti sanguinosi: Valle chiamava Marinetti S. E. effeti e nel Popolo di Roma all’indomani del Concorso di Poesia, che si celebrò a Cagliari, scrisse un pungente articolo sui tre poeti che al Quisibeve erano stati incoronati con un premio sonante di mille lirette ciascuno».
Gli errori di cronaca che mi si attribuiscono non sono evidentemente tali, perché: 1) nel 1938, cui i fatti ricostruiti si riferiscono, Valle nato nel 1904 aveva 34 anni; 2) non ero tenuto a fornire una scheda bibliografica completa di Nicola Valle ma solo ad indicare che cosa presumibilmente di lui più stesse sullo stomaco dei futuristi (e melodramma italiano e musica classica è da ritenere fondamentale che non piacessero molto a chi faceva aperta professione di disprezzo della tradizione).
Quanto invece alle valutazioni di Valle le lascio al sicuro gusto del lettore, cui non riuscirà difficile stabilire – facendo più attenzione di quanto non abbia fatto l’autore della nota polemica, al valore che normalmente ha il corsivo nella scrittura a stampa per riprodurre parole altrui o un pensiero che non si condivide – da che parte fosse, tra passatisti e pseudo-avanguardia, chi ha scritto la cronaca dell’avventura sarda di Marinetti ed dei suoi goliardici seguaci isolani. Antonio Romagnino
Un intellettuale, uno scrittore eclettico
(prefazione a “Scompare un’Isola. Viaggio in Sardegna”)
Può sorprendere che un intellettuale come Nicola Valle, così attento alla vita culturale ed ai suoi influssi sulla vita civile, desse anche un posto preminente alla poesia, che sembra quasi sempre distaccare dalla realtà e dalla possibilità di influenzarla, liberarla dai suoi mali. E, invece, Valle fu un lettore appassionato della poesia e la introduce anche quando il tema che affronta non sembra giustificare uscite dalla realtà più concreta. A questo tema della poesia riconduce l'inserzione in Scompare un'isola dell'originale proposta, di inventare una sorta di Natale dedicato ai poeti, per salutarli e festeggiarli, come si fa nei confronti di qualsiasi creatura umana in quella festa religiosa. "Un immaginario", si precisa a pag. 27 del libro che è tra le nostre mani, fatto di contenuti lontani dalla poesia, che riesce "un pretesto di prendere contatto, attraverso la poesia, con l'anima di una regione e con la sua gente". Che è come mettere al di sopra delle scienze sociali, che si ritengono unici strumenti efficaci da impiegare nella vita socio-politica, la creazione affettiva e sentimentale, che riterremmo lontana da qualsiasi utilità nella vita sociale. L'invenzione non crede che possa essere realizzata e, peraltro, questo non gli impedisce di precisarla in ogni particolare. Intanto sceglie questo originalissimo Natale coi Poeti, da celebrarsi a Nuoro "perché lì anzitutto sopravvivono le più belle leggende e le più belle canzoni natalizie; poi per il buon tepore delle antiche case confortate dal fuoco dei grandi camini, per i buoni dolci caldi, di miele, di cacio e di pasta che vi si possono gustare in questi giorni, per l'aria frizzante e leggera che arriva dalle montagne vicine colme di neve, per la semplicità e la umanità della gente che ancora conserva abitudini antiche e patriarcali, e specialmente perché Gesù amerebbe quelle campagne tutt'attorno, popolate di pecorelle bianchissime e di boschi come allora...". Che si è voluto citare non solo come documento della conoscenza personale che Valle possedeva della Sardegna insulare unitaria, e però inoltre variata, ma anche per mettere, finalmente, a fianco dello studioso severo, e financo talvolta "freddo", come ingiustamente è stato sentito, l'umanità ricca ed accesa, che pure lo caratterizzava nella sua silente austerità. E di quel festino originale Valle propone anche coloro che dovrebbero fare gli onori di casa per tutti i poeti, che accorreranno da ogni parte della Sardegna. Sfilano accanto a poeti già famosi: Sebastiano Satta, Salvatore Cambosu e poeti e poetesse allora meno noti: Peppina Dore (suor M. Giovanna Dore), Antioco Casula, Tonino Ledda, Attilio Maccioni, Marcello Serra, che si alternano recitando le loro creazioni, lontani da ogni gara poetica. E più precisamente, invece, tutto poesia, come l'invenzione stessa della manifestazione, ancora sostenuta come meritevole di essere realizzata, a chiusura delle pagine dedicate in questo libro all'invenzione originale: "Tutto questo non è che un sogno, una fantasia natalizia, ma potrebbe essere verità almeno una volta all'anno, se in occasione della grande festa ad ognuno fosse concesso trascorrere il suo Natale come vuole, e se ci saranno uomini devoti della poesia, desiderosi di un mondo migliore e di sollevarsi fino al confine tra il sogno e la realtà". Ma la varietà degli interessi artistici e letterari di Nicola Valle danno a questo libro una dimensione enciclopedica. Ecco quindi l'autore trapassare dalla poesia all'arte e, in particolare, ad un genere meno praticato e meno ricco di artisti autorevoli. E la ricerca è premiata dalla scoperta di quello, che è stato in precedenza appena accennato, e ciò accade quando in questo libro la Sardegna diventa "terra d'incisori". I sardi sono tanti a praticare quell'arte – a partire dal cagliaritano Carlo Chiesa (1855-1912) – che Valle finisce per condividere il giudizio di Virgilio Guerini in Le arti di questo mezzo secolo in Sardegna e dichiarare, come lui, che la presenza che continuamente si rinnova di incisori sardi nelle esposizioni internazionali, avrebbe già potuto, nel secolo appena terminato, riconoscere il primato dell'isola nel mondo, per quell'arte alimentata da un'ispirazione e una tecnica tutte particolari. Fino a farne come uno specchio razziale, che Valle non ha esitazioni ad abbracciare, con un giudizio complessivo, di notevole efficacia: "Molti hanno continuato a ripetere che per l'incisione c'è un gusto che i sardi hanno nel sangue. E si è anche detto che di tale fenomeno si potrebbe dar ragione considerando le attitudini ataviche di questo popolo. I sardi antichi, i contadini, i pastori incidevano – è vero – i calci degli archibugi alla maniera degli Arabi, ed anche le zucche di vino istoriate e fregiate con gusto squisito e con ricchezza di fantasia. Così pure le splendide conocchie lavorate con pazienza e bravura degne di un orafo: e i portapolvere da caccia, i bicchieri in corno bovino, i cucchiai, le saliere, le tabacchiere e i cento altri utensili, compresi i sigilli con i quali decorano il pane casalingo ed i dolci, senza dire poi dei mobili, degli arredi sacri, e specialmente delle splendide cassapanche, dei cassoni nuziali dove si ripongono interi e vistosi corredi, incisi in duro legno di castagno, riccamente e nelle forme più varie". Che è una delle pagine numerose, che appaiono in quasi tutte le opere dello studioso e che hanno la liricità propria dell'habitat primario, e cioè della vita domestica, ogni volta, come qui a fare più efficaci i giudizi e le analisi descrittive del critico, col rapportarlo vivificante all'arte.
Questo è un libro di viaggi, come tanti altri scritti dall'autore e come dice il titolo, un po' melanconico con l'annuncio della scomparsa di tutto o di molto di quello che il viaggiatore accarezza con gli occhi e, ancor più, col cuore. Anzi si familiarizza con la letteratura dei viaggi, che per secoli ha raccontato il Grand Tour: esplorazione entusiastica dell'Italia tutta, esclusa la Sardegna, che comincia ad essere visitata da stranieri e italiani, solo fra l'Ottocento e il Novecento. Ed è anzi proprio uno di questi, l'inglese David Herbert Lawrence (1885-1930), l'autore del romanzo L'amante di lady Chatterley e del libro di viaggi Mare e Sardegna, ad essere preso a modello da Valle che, pur senza citarla, ricordava certamente la scenetta della moglie di quel viaggiatore che, quando finiscono la visita al mercato cittadino già famoso per la sua opulenza, si mette a saltellare intorno al marito, piagnucolando e gridando, pestando i piedi: "Voglio tornare a Cagliari, voglio vivere a Cagliari". E così giudicava nei suoi Ritratti letterari (1978) quel viaggiatore inglese: "Quello che resta e resterà di Lawrence, dunque, il meglio di lui, è qualcosa che trascende le sue momentanee intemperanze, la sua insofferenza, le sue stramberie e la ricerca del primordiale a tutti i costi, resterà di lui la poesia". E ne dava subito un saggio, citando il brano famoso dello scrittore inglese dedicato alla bellezza di quella città di pietra che era per lui Cagliari: "Ed ecco, d'improvviso, Cagliari: una città nuda che sorge ripida, ripida e dorata, ammucchiata dalla pianura verso il cielo, al vertice della vuota insenatura informe. È strana e un po' incantata, non ha nulla di italiano. La città si ammucchia alta e nobile insenatura, e mi fa pensare a Gerusalemme: senza alberi, senza riparo, sorge così un po' nuda e fiera, remota come nel passato della storia, come la città di un messale monastico miniato". Così accade che, nella prima parte di Scompare un'isola. Viaggio in Sardegna, seppure attenuato, sentiamo, in Valle, l'entusiasmo caldo di quell'inglese, specie quando non accarezza i monumenti e tutto ciò che esige come una religiosa contemplazione, e gli occhi, invece, si posano sul quotidiano e sul comune. Sono le pagine più vicine al lettore quelle, numerose, che ci raccontano come, fino a ieri, abbiamo cantato, ballato, mangiato. Anzi quest'ultimo tema è ripreso, alla conclusione della seconda parte, dedicata al viaggio verso l'interno dell'isola (dai villaggi e dalle cittadine sul mare a quelli sui monti), con un titolo prepotentemente invitante: Itinerario gastronomico.
Non si sbaglia, quando si dice che Valle non ha mai viaggiato con quelle comitive chiassose, ma anche rigidamente disciplinate, protagoniste del turismo di massa. Il viaggio di Valle è invenzione, creazione soggettiva, divisa al più con sua moglie e sua figlia. Ritorno alla solitudine ed insieme alla ricchezza dei viaggiatori di un tempo, che ne facevano un'occasione di accrescimento morale ed intellettuale. Insomma, allora in lui risuscitava lo spirito del Grand Tour, che per l'aristocrazia e borghesia europee era stato uno strumento di autoeducazione. Da questa soggettività, il bisogno di scriverne, di confessare l'esperienza compiuta. Almeno due opere rientrano in questo filone della pubblicistica di Valle: Scompare un'isola. Viaggio in Sardegna (1964) e Paese che vai (1985). Il libro più lontano nel tempo, quello che è sotto i nostri occhi, nella ricorrenza del centenario della nascita del suo autore, è anche il più lirico, anzi il più poetico di tutti i libri che Valle ha pubblicato. Già nel titolo risuona come un consuntivo doloroso, che si sente anche più amaro, considerando la distanza che Valle aveva sempre mantenuto rispetto alla "sarditudine", a quel sentimento di appartenenza alla propria terra, fatto di repulse per il mondo altro e di feticismo per le cosiddette radici. Eppure senza usare termini estremistici, come omologazione, Valle sente che la Sardegna, proprio quella migliore e più valida per essere conservata, conosce guasti e frane. Cominciava l'assalto al suo patrimonio naturale, la sua ricchezza storico-artistica conosceva incurie e degradi. Anche il costume volgeva al peggio. Non solo si facevano più fosche le antiche ombre con i gravi episodi di banditismo, ma si indeboliva anche il tessuto delle vetuste virtù domestiche e comunitarie. Questo libro dovrebbe definitivamente staccare Valle dalle acque morte in cui vengono esiliati coloro i quali si crede scrivano solo cose erudite e non anche di alto valore artistico. Tra le pagine più belle ne troviamo una che è poesia ed insieme eloquenza, oltre ad un'importante testimonianza di quelle capacità dell'autore di trapassare dal particolare al generale, in questo caso da Oristano all'intera isola. Eccola: "Il suo poeta a sentire Camillo Bellieni sarebbe ancora Eleonora: basterebbe guardare, secondo lui, al capriccioso svolgimento della materia del suo codice e alla viva e fresca realtà storica che traspare dal complesso delle sue norme, per sentire il profumo di intensa poesia che emana da questo vecchio libro. Che, perciò, visto così, ci appare davvero il libro della Sardegna, il poema della Sardegna tutta: così come nella forte donna d'Arborea e nella città che fu la capitale del suo Giudicato c'è un po', come in sintesi, tutta l'isola, tutta la sua storia fatta di patimenti e di avventure".
Questo lo si sente anche in Cagliari del passato, scritto vent'anni dopo Scompare un'isola, nel 1983, un altro "viaggio" e perfino il più difficile perché destinato esclusivamente alla sua città, senza esplorazioni dell'interno della sua terra, come in Scompare un 'isola. In questi casi, infatti, si corre il rischio di essere travolti dal molto che si è portati ad amare. Giorgio Bassani, che alla sua Ferrara deve l'ispirazione di gran parte della sua opera, ammoniva che chi vuole iscrivere delle cose sotto i suoi occhi fin dal suo primo soffio di vita, deve amarle e deve anche un po' odiarle, e precisava: "Io mi sono staccato dagli amici fraterni e infantili, mi sono allontanato da quello che la gente volgare pensa che sia la vita, e in certo senso sono morto alla mia città. Per uno che voglia scrivere, bisogna morire alle cose di cui si vuole scrivere: altrimenti no, non si è veri scrittori". Questo è avvenuto anche per Nicola Valle, si voglia o non si voglia dargli la targa di "scrittore". Cagliari del passato correva questo pericolo, per quel legame, con i luoghi che ci sono più familiari, che bisogna spezzare e, insieme, riallacciare. Con la memoria certo, ma anche con una trasfigurazione vigilata, dell'estro e della cultura. L'operazione che è riuscita a Valle.
Nicola Valle ha lasciato scritto che non vi fossero che la moglie e la figlia intorno alla bara. Che della sua morte si informasse la gente ad esequie avvenute, che la notizia non desse luogo a visite e necrologi. Ecco, i necrologi, spesso una vetrina per chi si associa a un lutto senza un'intima convinzione. Valle, che per cinquant'anni è stato piantato nella sua città, con un'attività culturale che non ha pari, è riuscito a fare ogni cosa con una schiva e dura separatezza da tutto ciò che suonasse rumore o cercasse consensi. Questo non vuol essere un necrologio o tenta di non esserlo, liberando la memoria da ogni tentazione oratoria e facendola aderire a fatti sicuri e inoppugnabili. Intanto la coincidenza: egli è morto nell'anno in cui si è ricordato il martirio di Cagliari sotto i bombardamenti. E c'era anche lui nel 1943, a credere ancora nella rinascita della città con Giovanni Lilliu e Francesco Alziator per fondare subito, appena cessato il fragore delle bombe, gli Amici del Libro. Era una fede nella cultura che veniva da lontano. Da quando fresco di laurea, a Roma, raccolse in Variazioni sul tema (1933) e Origine del melodramma (1936) i suoi studi che discendevano dalla prima antica passione per l'opera lirica e la musica in genere. La musica, e non solo come spettatore o studioso, ma anche come abile esecutore ed interprete, lo accompagnò per tutta la vita e si intrecciò agli altri due culti: per la letteratura e per le arti figurative. È accaduto di rado fra noi che un intellettuale vivesse quella sua polivalenza e in tempi in cui trionfa il chiuso specialismo, quella sua avventura aperta a tutto il bello sembra essere tramontata per sempre. Ma anche più importante è l'apertura del rapporto che Valle ebbe con la Sardegna. Era un intellettuale prodotto da una cultura urbana (era nato a Pirri nel 1904 da Mario Valle e Giuseppina Brignardello, di antica famiglia sassarese), che non ebbe mai in lui un carattere conflittuale.
Attento ai costumi isolani senza essere un folklorista e interessato a sa limba e alle sue realizzazioni letterarie senza farne un feticcio, prestissimo accoppiò una simpatica curiosità per le due facce della realtà sarda, quella agro-pastorale e quella cittadina. Per questo vicino a Filippo Addis e Gavino Gabriel delle aree più interne, ci sono in una delle sue prime opere, Mattino sugli asfodeli (1933), i cagliaritani Tarquinio Sini e Mercede Mundula.
Diverso è anche l'uso che egli fa del patrimonio artistico e letterario isolano. Non lo incapsula nell'estraneità al singolare e al più lontano, ma gli fa varcare il Tirreno e lo affiata con le coeve correnti artistiche italiane ed europee. La vita intellettuale di Nicola Valle è un traghetto che è andato su e giù per il mare che ci circonda. È questo il compito che cercava e spesso trovò per Cagliari: di essere insieme la Sardegna e l'Italia e il Mondo. Lo capì Pietro Leo, l'intelligente sindaco di Cagliari negli anni Cinquanta, il quale volle che gli Amici del Libro, per una unanime delibera del Consiglio Comunale, fossero ospitati nel palazzo di città. Non era solo la sede stabile, dopo tante peregrinazioni e sistemazioni precarie, ma l'emblema stesso di quello che Valle aveva fatto ed ancora avrebbe fatto per lunghi anni: congiungere da una parte Cagliari con la Sardegna e dall'altra, attraverso la mediazione del capoluogo, traghettare l'Isola verso un più tumultuoso e vasto mondo. Così nella sala aperta sul Largo Carlo Felice, entro le viscere della fabbrica eretta da Annibale Rigotti nel primo Novecento, si succedette a parlare di scienza e di letteratura, di storia è di filosofia, di arte e di politica, il meglio dell'intellettualità italiana e sarda. Fra questi, molti intellettuali inurbati di fresco a cui gli Amici del Libro aprirono le braccia, come sa fare da sempre la città che li ospita In tempi in cui, fra le tante lacerazioni che si tenta di ricucire, prende corpo la proposta di aprire un dialogo tra laici e cattolici, importa ricordare che Valle quel dialogo lo apri subito, perché la sua laicità voleva dire tolleranza, incapacità a discriminare, pratica del dubbio e però anche rispetto delle fedi. Questo particolare atteggiamento, che non ha escluso contrasti per un suo carattere non facile, lo ha sempre guidato nella pratica del mondo.
Aveva come scrittore una grande capacità di ritrarre i personaggi più diversi, ed è stupefacente il gran numero di letterati, artisti ed uomini di cultura, che egli ha incontrato e poi felicemente scolpito in Ritratti letterari (1978). Erano anche quelli altrettanti ponti che lanciava lontano a superare le mura invisibili e però più ferree che sembrava essersi data Cagliari, dopo aver abbattuto quello che materialmente e militarmente l'aveva chiusa per tanti secoli. Anche i viaggi avevano quell'ispirazione. Non erano fatuamente esotici e non erano contatti fugaci con culture che, per questo, rimangono incomprensibili. Ma guidati invece da una mentalità europea, in cui ogni volta tuffava ciò che più conservava di una sardità irrigidita. Paese che vai (note di viaggio), pubblicato nel 1985, è preceduto da un'introduzione del valoroso letterato Enrico Falqui, che pur non nominandolo, formula giudizi che si adattano all'autore sardo del saggio. Come questo: "Anche gli articoli dei viaggiatori variano quanto i viaggiatori stessi e il loro gusto e il loro intento e il loro modo. Alcuni viaggiatori lavorano sul vivo, altri sulla memoria. Chi su due piedi, cammin facendo, e chi da fermo, tornato a casa. Chi bada più agli uomini e chi ai luoghi. Qui è l'occhio ad avere il sopravvento, lì l'udito, ma sempre al servizio della riflessione". Quello di Valle è un lungo viaggio di formazione che dalla Sardegna a Torino, Genova, Firenze, Siena, Roma, Palermo e da qui all'Europa Centrale, la Scandinavia e l'America, disegna non solo luoghi, ma è anche quell'esplorazione incessante che fu la sua esistenza. E pure Cagliari ha un suo specifico libro. Cagliari del passato (1983) non è solo un libro di memorie ma anche un'analisi del passato che può essere ravvicinato al presente: gli sciocchi che usano farlo potrebbero mettere anche Valle fra i laudatores temporis acti, ed egli fu invece un vero selezionatore dell'antico e fece, solo di quello che rimaneva valido, un utile fondamento del presente e del futuro. E tutto compiendo come in una solitudine rabbiosa, senza consorterie, comparume sardesco, amicizie politiche. Aveva anticipato da molto una figura auspicata e però sempre rara di intellettuale. Questa: che se proprio sul treno devi salire, non debba pretendere di guidarlo.
Quando Nicola Valle è morto il 27 ottobre 1993, la pietà sardesca ha ricordato che da molto non era più sardista. Eppure anche solo il libro L'idea autonomista in Sardegna, pubblicato nel 1947 con introduzione di Camillo Bellieni, avrebbe dovuto rappresentare una sua intatta benemerenza. Quando uscì, la guerra era finita da solo due anni ed il suo autore aveva già una bella notorietà di intellettuale versatile, ma orientato in tutt'altra direzione con i suoi interessi prevalentemente letterari e musicali. Sorprese dunque e sorprende ancora che Valle si occupasse, negli anni della ripresa, di questo argomento storico-politico, apparentemente così estraneo ai suoi gusti più noti. In realtà non è così, solo che si pensi al posto che ha avuto sempre la Sardegna nell'opera di Nicola Valle. Che un intellettuale, così profondamente radicato nella sua terra, abbia pensato di dare uno sguardo al cammino che l'idea autonomistica aveva fatto in circa un secolo, appare sotto questo riguardo meno sorprendente. Anzi dimostrava che questo cammino, portato avanti fra molte difficoltà, con grande fatica di coraggiosi protagonisti e di gruppi fortemente ideologizzati, aveva conquistato adepti fuori dal discorso politico. Pubblicato alla vigilia della emanazione dello Statuto della Regione autonoma, il libro di Valle ebbe tutto il sapore di un consenso insperato all'opera, che altri strenuamente avevano portato avanti per tutta la vita. Se ne accorse Camillo Bellieni, dettando una prefazione al libro di Valle, in cui affermava che esso dimostrava come quel processo verso un reggimento autonomo dell'Isola non fosse "una convulsa agitazione di massa, priva di precise direttive, spinte da oscuri interessi, guidate da mestatori, ricercanti l'avventura per un qualsiasi possibile esito. Vi era stata invece una tormentosa ricerca spirituale, per cui il popolo sardo aveva chiarificato le sue ragioni d'essere, i suoi eterni valori". Appunto la ricostruzione di questa storia ideale è il merito del lucido libro di Nicola Valle che fu il primo a familiarizzarsi, quando erano ancora semplici nomi, con i padri dell'autonomia: G. Battista Tuveri, Giov. Maria Lei Spano, Ignazio Esperson, Egidio Pilia, Camillo Bellieni, Raimondo Carta Raspi. Ma non senza raccogliere voci anche più lontane. Come quella di Giuseppe Mazzini (citato nella pag. 27 della seconda ed., 1988, del suo saggio L'idea autonomista in Sardegna con pref. di Camillo Bellieni): "La Sardegna fu sempre trattata con modi indegni dal governo sardo: sistematicamente negletta, poi calunniata, bisogna dirlo altamente, perché quella importante frazione del nostro popolo sappia che siamo complici delle colpe governative, che conosciamo e numeriamo, quelle colpe, che intendiamo cancellare, appena l'unità ci darà campo di provvedere alla libertà e all'ordinamento interno, sociale e politico. Sì, i molti e lunghi dolori della Sardegna non trovano che silenzio e indifferenza fra noi... La Sardegna ha una storia di dolori, d'oppressioni, d'arbitri governativi, non ancora raccolti, ma le pagine sconnesse ne appaiono, ovunque si guardi, tra documenti e ricordi".
La storiografia contemporanea più avanzata ha riconosciuto queste benemerenze civili di Nicola Valle. Lo hanno fatto in particolare giovani studiosi come Leandro Muoni in Aldo Accardo L'isola della rinascita. Cinquant'anni di autonomia della Regione Sardegna, Editori Laterza, 1998, pag. 140: "E a Cagliari pertanto fece la sua comparsa, animata da uno spirito nuovo di operosità tuttavia non disgiunto da un sentimento antico della tradizione umanistica e borghese, l'associazione artistico-letteraria degli Amici del Libro presieduta da Nicola Valle (ma caldeggiata e sostenuta anche da personalità quali Giovanni Lilliu – che ne propose il nome – Felice Melis Marini, Luigi Crespellani, Lorenzo Giusso, Francesco Alziator, Marcello Serra, Francesco Zedda, per tacere degli altri). Fin dal suo sorgere fu ospitata dallo stesso Ateneo cittadino fra le pareti della Biblioteca universitaria, presso la quale Valle fungeva da direttore, e qui egli costituì l'annesso Gabinetto delle Stampe, preziosa documentazione storico-artistica locale. L'associazione, che nella persona di Nicola Valle si gemellava anche alla Società Dante Alighieri, fu ben presto e meritoriamente patrocinata dal Comune di Cagliari per interessamento del sindaco di allora, Pietro Leo, che le fece attribuire una sede stabile nei locali del Palazzo Civico. Il pretesto per la prima manifestazione pubblica degli Amici dei Libro, nel marzo 1946, fu la commemorazione da parte di Jader Jacobelli, Enrico Marongiu e Luigi Crespellani di una fulgida figura di intellettuale nato nell'isola ma apertosi alla cultura europea, Giaime Pintor, caduto nel fiore degli anni durante un'azione partigiana. Il sangue d'Europa sarà il suo sangue, e il sangue della rinascita nazionale, avevano ammonito gli oratori". Una benemerenza di Nicola Valle che era stata riconosciuta due anni prima da Aldo Accardo nel suo Cagliari, pag. 204, Editori Laterza, 1996: "Due iniziative segnarono la ripresa della vita culturale: la fondazione degli Amici del Libro – frutto della caparbietà e dell'intelligenza organizzativa di un musicologo ed italianista molto noto nell'isola, il prof. Nicola Valle – che consenti ai cagliaritani di ritrovarsi per discutere di letteratura e di arte in modo molto più libero e meno retorico del passato, aggregando la borghesia intellettuale urbana all'interno di una struttura che è ancora oggi felicemente attiva ed operante, e l'avvio, grazie ad apparecchiature di fortuna in parte rimediate dagli alleati, delle trasmissioni di Radio Sardegna, che divennero rapidamente un punto di riferimento ed un appuntamento quotidiano per tutti i sardi". Una benemerenza quella che si guadagna Valle con la sua attività, che appare ancora più rilevante se si tiene conto del numero ridotto degli intellettuali cagliaritani che potevano dargli una mano. Come afferma ancora Leandro Muoni nel libro, che già si è citato: "Vale la pena di notare fin d'ora questo fatto indicativo per la storia sociale dell'isola: che cioè solo sporadicamente furono gli uomini di cultura come tre anni più tardi Nicola Valle con il suo studio su L'idea autonomista in Sardegna - a presagire e tracciare per primi, e se non per primi in assoluto, comunque tra i primi, un ritratto storico e idealmente programmatico di quello che doveva essere l'argomento obbligato (oltre che il compito politico-istituzionale all'ordine del giorno) di ogni discussione possibile sulla Sardegna dei futuri decenni. In realtà però gli scrittori (e gli intellettuali in senso stretto) dell'isola restarono abbastanza estranei al dibattito preliminare di quegli anni sull'autonomia, il federalismo, il decentramento, la gestione commissariale, l'ordinamento a base regionale, che fu sostanzialmente dei politici. A dimostrazione di quanto fosse certamente imperativo l'adempimento pratico di tale causa o idealità nella coscienza collettiva dei sardi, ma anche incerta e immatura (o in ritardo) la sua consapevolezza culturale. Una presenza solitaria di Valle, che lo caratterizza anche nella sua produzione creativa, come nuovamente lo vede Muoni, nello stesso libro che ancora si menziona: "Un testo" che è proprio quello che a quarant'anni di distanza si ripubblica "che costituiva una delle prime registrazioni letterarie, pur in un'ottica conservatrice e garbatamente dilettantesca e poligrafica quanto signorilmente avveduta e intellettualmente onesta, dell'irrimediabile tramonto di una civiltà arcaica, tradizionale, paesana. Stiamo parlando di Scompare un'isola. Viaggio in Sardegna di Nicola Valle (Fossataro, Cagliari, 1964); dove in forme apparentemente svagate se non dispersive, affiorava però un concetto quanto mai pregnante: e cioè che la scoperta della Sardegna stava per concludersi. Ma si sarebbe conclusa con bagliori ancora corruschi".
Valle è stato il mio insegnante di italiano e latino al liceo "Dettori", poi - finita la guerra e tornato a casa, ne sono diventato amico, ho frequentato gli Amici del Libro e gli sono succeduto come presidente nel 1984, per dieci anni. Guidato per quarant'anni da Valle il sodalizio aveva corrisposto a quella fiducia che la città gli aveva espresso col voto consiliare. Valle era diventato anche dirigente nazionale della Dante Alighieri e questo aveva allargato le sue possibilità di contatti con gli intellettuali oltre Tirreno. Sarebbe troppo lungo anche solo accennare ad un elenco pure ristretto di quelle "serate", tra le quali molte memorabili, che richiamavano vere e proprie folle in quella sala diventata famosa. Vi furono letti tutti i cento canti della Divina Commedia e restò sempre frequente la presenza di conferenzieri venuti dal Continente. Tra questi Carlo Cassola all'apice della sua carriera di narratore e Mario Apollonio che tenne una serie di lezioni sulla storia del teatro. Ma anche: Valerio Mariani, Umberto Bosco, il cardinale Baggio, Giovanni Lilliu, Mariolina Maxia, Claudio Varese, Francesco Alziator, Mario Ciusa Romagna, Francesco Masala, Massimo Pittau. Si celebrarono anche importanti centenari: Michelangelo, Grazia Deledda, Alessandro Manzoni, l'Unità d'Italia, ecc. In una stretta collaborazione con la Dante Alighieri vennero organizzate mostre di incisori sardi (delle cui opere Valle aveva ormai una collezione preziosa di oltre duemila pezzi, alcuni rarissimi) a Roma, Firenze, Venezia, Padova, Genova, Milano, Siena; mostre e conferenze per far conoscere il patrimonio archeologico e le bellezze naturali dell'isola; mostre all'estero (Svizzera, Germania, Ungheria, Francia, Norvegia, Austria, Finlandia, Stati Uniti). Valle era un parlatore lucido e non leggeva mai quanto aveva da dire che affidava all'estro del momento ed al suo pensiero. Un ex allievo degli anni Trenta rammenta quanta bellezza della Vita Nova di Dante riuscisse a comunicare la voce di quell'insegnante, nelle lezioni pomeridiane, che si vivevano con qualche stanchezza rispetto a quelle del mattino. Eppure tutto questo lasciava il tempo a qualcosa di molto diverso dagli impegni del letterato. Valle praticò a lungo l'equitazione, frequentando assiduamente l'ippodromo cagliaritano, dove il cavallerizzo godeva delle lezioni e dell'assistenza di un suo ex allievo: Paolo Racugno, pure lui votato all'equitazione.
Ma il grande impegno di buona parte della sua vita fu la rivista Il Convegno, uscita per la prima volta nel 1946, poco dopo che gli Amici del Libro avevano preso ad operare in città. Già il titolo dice che cosa il suo direttore si proponesse: la stessa aggregazione, di letterati, studiosi, senza discriminazioni ideologiche, che si proponeva l'associazione. Le collaborazioni non mancarono ed anzi bisognava selezionare il vasto materiale che approdava nella redazione della rivista, ma il peso editoriale rimase unicamente sulle spalle di Valle, che nella rivista portò avanti ancora di più il suo impegno, finalizzato a valorizzare i vari aspetti della cultura isolana. Non a caso ogni fascicolo esibiva in copertina riproduzioni di opere degli artisti isolani, specialmente incisori, ed al suo interno la parte iconografica riconduceva quasi sempre alla Sardegna. Ma sono soprattutto i contenuti della rivista che assicurano a Valle una benemerenza unica: l'aver sostenuto, più di ogni altro, il recupero di quanto poteva salvare la Sardegna dal silenzio. Impossibile riportare tutti gli argomenti trattati dalla rivista. Citiamone alcuni: lingua e dialetto (1981), i numeri unici dedicati a singoli, artisti e scrittori – Franco Lai (1976), Cosimo Canelles (1975), Gavino Gabriel (1982), Antonio Amore (1971), Giuseppe Pau (1969), Salvatore Satta (1982), Filippo Figari (1973), Grazia Deledda (1963) –, la proposta di creare a Cagliari un museo delle incisioni e delle ceramiche (1980), l'illustrazione di Bosa (1976), la storia e l'attività della Dante Alighieri (1966, 1979), la storia della Basilica di Bonaria (1970), la crisi della Giustizia (di cui Valle si fece, assolutamente anticipatore, 1982), le celebrazioni dell'Unità d'Italia (1961), il settantennio dell'Unione Sarda 1889-1958 (1958), un'utilissima rassegna della stampa (1975), una altrettanto utilissima rassegna dell'attività degli Amici del Libro (1975), il numero speciale del gennaio-febbraio 1988 con un saggio inedito su Gabriele D'Annunzio di Giuseppe Susini, ecc. Questi titoli possono dare solo una pallida idea del monumento di informazioni, rivalutazione e vere e proprie scoperte, innalzato dalla rivista di Valle su quel terreno friabile che, per valutazioni antagoniste e spesso partigiane, è stata la cultura isolana. Il Convegno non ha mai voluto assumere la supponenza delle riviste specialistiche ed, invece, senza derogare dal rigore della documentazione, si è sempre indirizzata verso il pubblico più ampio.
Anche l'iniziativa assunta dagli Amici del Libro per pubblicare un Almanacco letterario ed artistico della Sardegna rientra in questo impegno divulgativo. Si apre con la nascita dell'associazione e con la presentazione delle conferenze di quell'anno, tenuta da Valle il 2 marzo nell'Aula Magna della Biblioteca Universitaria. Seguono felicissime pagine che contengono una poesia inedita di Grazia Deledda; le Confessioni di Salvatore Farina nel centenario della nascita; un ricordo di Giaime Pintor dovuto al suo fedelissimo amico Enrico Marongiu; una novella inedita di Giuseppe Dessì intitolata Silenzio, un'altra di Filippo Addis intitolata Rondini; la leggenda di Gemma Fernando Golfo degli Angeli; le leggende arabe di Nicolò Mura; la novella di Salvatore Cambosu Contadini; ancora un inedito di Grazia Deledda intitolato Sardegna mia, con saggi sulla grande scrittrice sarda di Attilio Momigliano, Lorenzo Giusso, Lucio D'Ambra e lo stesso Valle; una novella di Elisa Butta intitolata Incubo; un reportage di Nicola Valle su un suo viaggio in Barbagia; la novella di Pietro Casu Il tigrotto; un saggio di Pietro Pancrazi su Sebastiano Satta; una novella di Giuseppe Dessì intitolata Innocenza di Barbara. Inoltre inediti di Mercede Mundula, liriche di Montanaru, Stefano Susini e Sebastiano Satta, caricature e disegni esornativi di Tarquinio Sini, Felice Melis Marini, Cipriano Efisio Oppo, Antonio Mura, Giovanni Marras, Stanis Dessy, Rita e Giovanni Thermes, Enzo Loi, Battista Ardau Cannas, Vico Mossa, Ubaldo Badas, Giuseppe Biasi, Primo Sinopico, Teodor Cavallazzi, panorami delle varie arti. Tutto questo veniva da lontano, con una fama che era nazionale, quando la firma di Valle apparve in calce all'articolo Letteratura sarda, apparso nel numero speciale de Il Ponte interamente dedicato alla Sardegna (sett.-ott. 1951). Oltre agli artisti isolani da lui già ricordati ed a quelli che avrebbe successivamente studiato (Anton Ettore Maury, Eugenio Tavolara, Beppe Porcheddu, Carmen Melis, Marcello Serra, Antonio Scano, Arturo Filippi, Dionigi Scano, Attilio Deffenu), vi compaiono gli uomini destinati a dominare la scena politica italiana nei decenni successivi (Emilio Lussu, Luigi Crespellani, Antonio Segni, Giuseppe Brotzu).
Di questo panorama così variegato, che cosa toccava maggiormente l'uomo, andava a penetrare nel profondo della sua anima, era messo, insomma innanzi a tutto? Difficile coprire con altre immagini quella di lui, che non mancava mai ai concerti o alle rappresentazioni delle Opere liriche, tenessero nei teatri antichi della città – il Civico e il Politeama – oppure nelle sedi aperte dopo le distruzioni belliche: gli Auditorium di piazzetta Dettori e via Bacaredda ed il teatro Massimo. Incancellabile anche l'immagine dello spettatore tramutatosi negli anni giovanili in un capace violinista e che quando, fondando gli Amici del Libro, contribuiva alla ripresa della vita cittadina dopo le torture della guerra, teneva concerti con la sorella Lina nella sala dell'Istituto dei Ciechi, in viale Fra Ignazio. A dare come un fondamento all'ispirazione di questa vocazione dominante, c'è un sorta di confessione. Una confessione indiretta, rappresentata da un pensiero di Arrigo Heine che Valle cita in uno scritto di Nuovi saggi, dedicato al poeta e critico musicale tedesco. Questo il pensiero: "Che cosa è la musica? Questa domanda mi ha perseguitato ieri sera prima di addormentarmi. Potrei rispondere che è un prodigio. Sta fra il pensiero e la sua materializzazione, è un crepuscolo fra la luce dello spirito e la tenebra della natura".
Certo, Valle non era solo un raffinato intenditore di musica, ma anche un parlatore finissimo, un affascinante conferenziere. Parlava a braccio, come si dice, come se il gesto della mano o del braccio facessero la parola e questa non venisse, invece, dal di dentro, dalla mente e dal cuore. Anzi è la parola che si spegne, l'ultima sua immagine. Aveva accettato, quella sera, di commemorare Filippo Figari in preparazione delle celebrazioni dei cagliaritani illustri, che si tennero agli Amici del Libro fra il 1990 e il 1991 Ma ad un certo punto il suo pensiero prese a farsi disordinato, confuso, cominciò a farfugliare, divenne incomprensibile. Fu necessario, quando quelle 34 conferenze vennero raccolte in due volumi, ritagliare il testo del suo intervento dal saggio che al grande pittore cagliaritano egli aveva dedicato nel 1973. Si ritirò e, quasi senza più parola, prese a rifugiarsi, con la moglie e con la figlia, in uno dei sedili di ferro, lungo il viale che si apre poco lontano dalla sua casa, in prossimità di San Saturno. Già allora, si osa pensare, lo accompagnava il sonno di Heine, lo cullavano segretamente le sue stesse musiche.
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