Cento anni fa nasceva Vincenzo Racugno, un anno fa l’abbiamo perduto. Ricordo del professore e Gran Maestro onorario dei giustinianei
di Gianfranco Murtas
Alle soglie dei cento anni, e dopo una lunga reclusione domestica non soltanto per la vecchiaia, ma anche e soprattutto per la grave invalidità che lo aveva colpito duramente e particolarmente ad entrambi gli arti inferiori, Vincenzo Racugno se ne è andato anche lui, ora è già quasi un anno. Lo ha fatto consegnando il suo nome certo all’accademia, alla medicina universitaria cioè, alla sua missione di vita puntualmente servita, ma anche alla politica ed alla massoneria. Proprio così come Bruno Fadda – suo gemello ideale –, che giusto dieci anni prima lo aveva preceduto nel gran passo. Come Fadda anche lui medico, anche lui autonomista maturato nel sardismo di cultura e sentimento italiani ed approdato, con incarichi anche di rappresentanza ed istituzionali, nel nobilissimo Partito Repubblicano Italiano, come lui massone e anche Gran Maestro onorario della Comunione di Palazzo Giustiniani.
Ho ricordato di recente, e con buon dettaglio in due lunghi articoli apparsi in Giornalia, alcune delle molte e appassionate vicende di vita pubblica di Bruno Fadda, cui pure nelle distanze mi associava un certo sentire l’umanità e l’impegno civile. Mi pare giusto e bello replicare, oggi, tale sforzo per onorare la memoria non soltanto di un altro sardo illustre, ma anche di un amico che nel tempo – quando ci fu soddisfazione e quando ci fu dolore – mi offerse molteplici occasioni di personale prossimità e confidenza.
Per fatto personale. Nel Partito Repubblicano Italiano e in Municipio
Io, allora ancora adolescente, lo conobbi all’inizio del 1971, quando anch’egli con il folto gruppo dei sardisti autonomisti (costituitisi in Movimento dopo l’espulsione dal PSd’A, avvenuta nel 1968 e motivata dalla candidatura nella lista dell’Edera alle elezioni per il rinnovo parlamentare di quell’anno) confluì appunto nel PRI, che aveva la sua gran bella sede – più facoltà universitaria “passeggiata” da Tito Orrù, Alberto Boscolo, Francesco Cesare Casula, Luigi Concas, Marcello Capurso e altri che non “sezione” della stretta tipologia partitica – nella via Sonnino al civico 128. Eravamo all’indomani del rinvenimento, nella casa del conte Enrico Dolfin, del monumentale ed inedito diario politico di Giorgio Asproni, e la facoltà di Scienze Politiche con le edizioni Giuffrè aveva messo in cantiere la pubblicazione del primo dei sette volumi programmati, nel decennio a seguire, all’interno di una “collectanea caralitana” promossa dalla preside Paola Maria Arcari. Gran merito di Bruno Josto Anedda, allora segretario regionale repubblicano (in passaggio di consegne a Giovanni Satta) e giornalista a Radio Cagliari, e, con il suo, gran merito anche degli indimenticati Tito Orrù e Carlino Sole, e di Maria Corona Corrias, Virgilio Porceddu, Nico Selis e degli altri giovani docenti che nell’impresa si sarebbero buttati a capofitto, con generosità infinita, per restituire dal mondo degli studi alle consapevolezze della politica corrente la grandezza di statista del canonico mazziniano bittese. Allora, dopo l’uscita della monografia su Vittorio Angius (a firma di Anedda, nei quaderni del seminario della stessa facoltà di Scienze Politiche), ad iniziativa dell’ENDAS benemerita, un folto gruppo di professori, di storici e di giuristi aveva preso a frequentare le sale repubblicane (tutte “anticate” dai grandi ritratti su legno di Mazzini e Cattaneo, Garibaldi e Goffredo Mameli, Saffi ed Armellini, Quadrio, Modena ed Alberto Mario, Colajanni e Ghisleri, ecc. e naturalmente tanto Asproni ingigantito, e Giovanni Battista Tuveri e Vincenzo Brusco Onnis) e qui… far lezione: erano appunto Boscolo ed Orrù, Carlino Sole e Macello Capurso, Leo Neppi Modona e diversi altri a montare sulla cattedra della sede di partito… Noi giovani avevamo una stanza tutta per noi, e il busto nobile di Giovanni Bovio – oggi a palazzo Sanjust, cioè in casa massonica – trionfava e accompagnava: era stato, il filosofo e parlamentare, per trent’anni il leader morale e politico dei repubblicani dopo la morte del Maestro, e quel busto in gesso pesante, rimontante al 1905, era stato sequestrato dai fascisti vent’anni dopo (quando i questurini perquisirono e chiusero la loggia di via Barcellona) e imprigionato per mezzo secolo nei magazzini bui del Comune.
Racugno era stato eletto consigliere comunale alle amministrative del 1970, quelle abbinate, nel continente, alle elezioni dei primi Consigli delle quindici regioni a statuto ordinario. E a Cagliari, passate le giunte di Angelo Lai (DC-PSI-PSDI) e di Eudoro Fanti (DC-PSI-PSd’A, con Bruno Fadda in rappresentanza dei sardisti), erano subentrati, in successione, tre esecutivi con sindacatura Franco Murtas: il primo, da luglio 1972 a maggio 1973, di centro-sinistra corto (DC-PSDI-PRI), il secondo, da maggio 1973 ad ottobre 1974, di centro-sinistra organico (DC-PSI-PSDI-PRI) e così il terzo, da ottobre 1974 ad agosto 1975. Racugno aveva raccolto proprio da Bruno Fadda, ora cugino politico avversario/concorrente non più sodale, la guida dell’assessorato all’Igiene e Sanità. In tempi di colera! di quella epidemia colerica che tanti allarmi aveva diffuso tra noi, in città e provincia, costringendoci tutti a salvifiche vaccinazioni di massa ecc. (Un quarto ma brevissimo mandato assessoriale lo assunse, fra l’estate e l’autunno 1975, cioè dopo il rinnovo consiliare, in un esecutivo di proroga a presidenza Salvatore Ferrara).
Ho accennato alla staffetta ricevuta da Vincenzo Racugno, in Municipio nel 1972, da parte di Bruno Fadda. E mi viene spontaneo associare qui, di nuovo, le figure di Fadda e Racugno: non soltanto per la futura militanza massonica (iniziata a Cagliari per il primo nel 1988 e per il secondo già nel 1975, rispettivamente nella loggia Lando Conti n. 1056 e nella loggia Hiram n. 657, la stessa di Armando Corona e Lello Puddu, di Achille Tarquini e Vito Tola, di Luciano Marrazzi, Fernando Pilia e Bruno Arba e tanti altri…) e neppure soltanto per la futura gratificazione della nomina a Gran Maestro onorario del Grande Oriente d’Italia; non soltanto per la condivisa esperienza partitica nel PSd’A (valga sempre ripeterlo: a fedeltà italiana, mai scriteriatamente indipendentista, sovranista o nazionalitaria) e quindi fra i repubblicani, che alla medesima scuola mazziniana e cattaneana si ispiravano; ma anche per questa sequenza amministrativa, nel comparto stretto della Sanità pubblica del capoluogo sardo.
Era lì, Vincenzo Racugno – il professor Racugno –, nella sala dell’intervista che quel giorno, domenica 21 marzo 1971, condussi con i miei compagni della FGR, interrogando Ugo La Malfa nientemeno, venuto in Sardegna per celebrare la confluenza dei sardisti nel partito dell’Edera, il partito dell’unità nazionale e delle autonomie territoriali, il partito della democrazia laica e riformatrice di vocazione europea ed atlantica, amico di Israele. Parlammo essenzialmente di Europa e dell’alleanza atlantica, a fronte delle paure titine per un replay in Jugoslavia dell’aggressione registratasi neppure tre anni prima a Praga da parte dei carri armati sovietici rimasti in sorveglianza in tutto l’est continentale… L’indomani a scuola ci avrebbero impegnati con il tema europeista appunto, e il professor Romagnino – un liberal-repubblicano di salde convinzioni – avrebbe guidato la commissione di giudizio incaricata dal Provveditorato… Con me i giovani repubblicani che sedettero tutti attorno al leader carismatico, orgoglioso lui e orgogliosi noi di rappresentare soltanto il due per cento e forse meno dell’elettorato, ma di rappresentare insieme una storia civile e politica assolutamente profetica, ineguagliata nel giusto mix fra istanze democratiche istituzionali e istanze sociali partecipative. Con quei miei coetanei convocati tutti… per ispirazione ad intervistare Ugo La Malfa – erano Franco Cossu, Roberto Dessì, Enrico Ruggeri, e Pier Giorgio Cadeddu e Walter Cappicciola, e Luciano Serra e Sergio Mura e Antonello Polese e Aladino Serra e quanti altri… – lui, Vincenzo Racugno il professore e consigliere comunale (non ancora assessore), insieme con Armandino Corona, Giovanni Maccioni e Mario Pinna, e Puddu e Tarquini e Casu e Delogu, era lì ad ascoltare domande e risposte…, forse soddisfatto di quei figli tanto diligenti, fino all’ora pranzo, ora di obbligato ritiro dalle chiacchiere dei giovani per la destinazione di un ospitale ristorante.
Negli anni di quella prima e unica sua consigliatura (e responsabilità di giunta) noi giovani incalzavamo, talvolta polemici, il rappresentante repubblicano in Municipio. Si discuteva allora, stando alla stretta agenda politica, del futuro di Sant’Elia, se farne un quartiere residenziale, come molti volevano, o migliorare radicalmente la qualità abitativa delle famiglie di ceto popolare che vi insistevano forse già dagli anni ’50, dalla fondazione delle cosiddette “case minime” e con un rinforzo a valle, con nuovi edifici in faccia allo stadio dei campioni e per l’accoglienza di quei tanti che dalla precarietà di Is Mirrionis non avevano potuto trovare rimedio nelle palazzine del CEP inaugurate nel 1968… La questione casa era esplosiva, allora, a Cagliari (essa agitava anche certi settori della Chiesa e certamente i giovani studenti di teologia che da Cuglieri si erano appena trasferiti nel capoluogo: nella primavera del 1972 essi, con alcuni professori ed animatori del seminario regionale e di quello diocesano, avrebbero volantinato e chiesto al cardinale Baggio una chiara presa di posizione). Non so quanto avessimo ragione noi giovani idealisti e un po’ semplificatori… sarebbe venuto su il mostro del Favero, e quanto invece avessero ragione coloro – e l’assessore Racugno fra essi – erano propensi a soluzioni diverse.
Pur essendo uomo di molte risorse “clientelari”, nel senso migliore del termine s’intende, non ce la fece, il professore ed assessore, al rinnovo elettorale del 1975 e da allora si ritirò, occupandosi a tempo pieno dell’università – cattedra e scuola di specializzazione di Radiologia – e del suo fruttuoso studio privato nella via XX Settembre. Al Partito Repubblicano Italiano naturalmente continuando a dare quell’aiuto che poteva, mai però da posizioni di primo piano nella contesa o nella rappresentanza, piuttosto nella… cerca dei voti e con il sostegno a qualche candidatura nuova… giusto come era stato, ma giocando in prima persona, nei vent’anni precedenti in campo sardista e anche in campo repubblicano.
La storia di una famiglia, e di un figlio super
Classe 1920, era nato, Vincenzo Racugno, a Ierzu nel secondo anniversario della vittoria nella grande guerra: appunto il 4 novembre. Quando la smobilitazione non era ancora completata, quando ancora in ogni paese della Sardegna si facevano i dolorosi conti dei costi in vite umane di quel gran macello. Quando, anche, il movimento degli ex combattenti andava organizzandosi nella forma partitica che sarebbe stata presto quella del PSd’A di cui egli, Vincenzo Racugno, sarebbe stato militante in gioventù e anche dopo.
Veniva da una famiglia di origini campane, da Secondigliano per la precisione. Il nonno – Vincenzo come lui – aveva attraversato il mare e raggiunto l’Isola, sistemandosi in Ogliastra dove aveva fatto e cresciuto la sua famiglia da quel 1890 circa. Commerciava in tessuti, e commercianti erano pure gli altri congiunti che presto lo raggiunsero. La Sardegna era povera quanto il Napoletano (seppure diversamente dal Napoletano), ma era per gran parte terra vergine, mentre in Campania la concorrenza, non foss’altro che per la densità demografica, era fortissima. Compiuta la missione del “trapianto” isolano, il vecchio se ne sarebbe tornato a chiudere i suoi giorni nella città natale, a un passo dal santuario dell’Addolorata e della Divina Misericordia, mentre la famiglia, larga ormai di padri e madri, zii e cognati, figli, cugini e nipoti radicatisi sul territorio, poteva già dirsi, ai primi del Novecento, pienamente sarda. Michele, il padre di Vincenzo jr. – del cui malavitoso e drammatico sequestro ancora è memoria in molti di noi – aveva sposato una Demurtas, Paola, figlia del sindaco di Ierzu Agostino (il primo eletto dal Consiglio e non nominato dal governo, nel 1899, e abilissimo nel contrasto alle povertà locali sia promuovendo diverse opere pubbliche sia debellando la fillossera). La trama parentale era solida nei suoi innesti: da una parte telerie e simili, dall’altra un mulino elettrico, e poi ancora ecco un albergo infine ospitante la caserma dei carabinieri…
Era quello il tempo che fu disgraziatissimo per Nicolò Businco, il padre di Armando – il celebre clinico cui è intitolato l’ospedale Oncologico di Cagliari – e di Ettore e Ottavio ed Arturo, ecc., tutti figli d’oro impegnati in mestieri e professioni e militanze democratiche, chi fra i repubblicani chi fra i socialisti… più tardi fra gli autonomisti. Nicolò, esattore (di origini piemontesi) per campare, fu davvero allora pubblica voce, con i cocchiani e con Luigi Merello e come capo di “sa farra ‘civrargiu”, spesa per lo sviluppo ferroviario dell’Ogliastra e Sarcidano, contro gli oligarchi locali di “sa farra ‘e pani”. Uomo di contrasto fu incolpato ingiustamente dell’assassinio di un suo collaboratore e, dopo una fuga disperata fino alla Corsica, arrestato e condannato all’ergastolo. Per essere riconosciuto innocente dopo diciassette anni di galera…
I Racugno ierzesi conobbero da vicino l’intera vicenda e di due figli di Nicolò, cioè di Armando ed Ottavio, il giovane Vincenzo Racugno sarebbe stato allievo e devoto seguace di militanza civile. Né la prossimità ai Businco fu la sola a dar vigore ed emancipare dall’isolamento ogliastrino la famiglia. Uno zio di Vincenzo, Giuseppe, medico e massone incardinato dal 1914 nella loggia Sigismondo Arquer e magna pars del Triangolo lanuseino, aveva sposato una Pirastu tortoliese, Giovanna, sorella di quel Virgilio da cui sarebbe venuta la tanta prole affermatasi nella politica sarda di parte comunista (oltreché nella medicina e nello sport) nel secondo Novecento. Ecco il milieu, l’ambiente affettivo e sociale, nel quale crebbe il Nostro che dopo le elementari frequentate in paese raggiunse i salesiani di Lanusei per proseguire con le medie e il ginnasio....
Era piccolino, neppure andava ancora a scuola, quando il paese fu travolto da una tragedia impensabile: in pochi minuti affondati in una notte di gennaio, mani assassine avevano crudelmente tolto la vita a una famiglia intera, otto persone, fra cui vari minori, l’ultimo di due anni soltanto… Per anni lo shock accompagnò allora tutti quanti e tutti, anche i non credenti, si raccolsero attorno alla figura paterna di un prete anziano, umile e buono, don Carta – il mitico don Vincenzo M. Carta –, che ad Ierzu donò quarantaquattro anni della sua vita e il meglio delle sue energie umane e religiose promuovendo anche innumerevoli opere sociali a cominciare dalla Cassa di Risparmio contadina Sant’Erasmo patrono e dalla Cooperativa di Produzione e Lavoro e mai dividendo i suoi per sentimento o idealità…
Era vescovo d’Ogliastra, allora, il lucano monsignor Emanuele Virgilio – personalità di primissima grandezza dell’intero episcopato sardo del Novecento –, cui subentrò un milanese che male seppe inserirsi nella società locale (monsignor Antonio Videmari visse l’Ogliastra e la Sardegna giusto quando il fascismo al governo prese forma di vera e propria dittatura) e quindi, per un decennio, il cagliaritano monsignor Giuseppe Miglior, che ebbe sede a Lanusei invece che a Tortolì, e, dal 1936, l’ozierese Lorenzo Basoli...
Ho accennato a tali figure perché la società ierzese unitamente a quella più larga dell’Ogliastra e della intera Sardegna rifletteva in quel tempo – sia prima della Conciliazione del ’29 che dopo – della potenza sociale del clero, della centralità che parroci e vicari, canonici e vescovi assumevano nelle dinamiche locali, con una sorta di patronato nelle iniziative associazionistiche e così nelle relazioni con l’autorità civile.
Ne ho anche accennato per riportarmi al vescovo che, prima di Basoli e di Miglior e di Videmari e di Virgilio, ebbe la mitria d’Ogliastra: era monsignor Giuseppe Paderi Concas biografabile non soltanto, e certamente soprattutto, per la sua distintissima personalità, ma anche perché prozio del futuro Gran Maestro della Massoneria Armando Corona. Ché fra Ierzu e il Sarrabus – da cui don Paderi veniva e sarebbe venuto, nel 1921, Armando Corona – vi fu, nel primo decennio del secolo soprattutto, un certo scambio derivato dagli assetti familiari che si cercarono all’indomani dei patimenti rurali per via della fillossera, fonte anche di dolorosa emigrazione fuori Sardegna. Francesco Maurizio Corona raggiunse Villaputzu e nel 1907 fece famiglia con la giovanissima Chiara Paderi. Dal loro amore vennero al mondo dodici figli… Nella leva giovane appunto Armando/Armandino.
E quale sarebbe stato in futuro il rapporto fraterno fra l’ierzese Vincenzo Racugno classe 1920 e il villaputzese Armandino Corona classe 1921 è noto alle pagine della storia politica sarda del Novecento, e della storia del movimento autonomistico, del Partito Sardo d’Azione e di quello Repubblicano in particolare. E anche massonico, si sa.
Ma per restare ancora ancora al paese cui riportano anche svariati libri di storia locale – una intera biblioteca potrebbe dirsi e civile e religiosa quella ogliastrina, con contributi di autori come Tonino Loddo e Franceschino Delussu, Vincenzo Pirarba e Angelo Satta, Angelino Usai e Corrado Zedda, Filippo Corrias e Vincenzo M. Cannas, lo stesso vescovo Antioco Piseddu e soprattutto Tonino Serra… - e restare ancora a quel che era Ierzu negli anni dell’infanzia e prima giovinezza di Vincenzo Racugno, che sempre ne ricordava insieme con disincanto e partecipazione, lui fra i tremila, tremilacinquecento abitanti in gran parte dediti all’agricoltura e alla pastorizia, certo ancora potrebbe dirsi del differente ascendente che le attività parrocchiali esercitavano sulla popolazione maschile rispetto a quella femminile, di una certa propensione scaramantica e anzi superstiziosa largamente presente proprio in quest’ultima… Organizzata l’Azione Cattolica nei gruppi Donne e Gioventù Femminile, numerosi – forse 300 – i minori piuttosto assidui alle lezioni del catechismo, in progressivo recupero certe tradizioni più o meno devozionali, anche per l’avvenuto restauro delle chiese campestri intitolate una alla Vergine delle grazie l’altra a Sant’Antonio da Padova…
Nascere a Ierzu nel 1920, compiere i primi anni in un tempo che la grande storia collegava alla fine della grande guerra e all’affermazione della dittatura con le sue logiche sociali e autoritarie significava molte cose: intanto, con la graduale smobilitazione e cioè con il rientro dei soldati dal fronte si materializzò in paese una crescente tensione sociale cui contribuì tanto l’insoddisfazione dell’ “accoglienza” – non quella famigliare ma quella politica – dei rientrati quanto il ribollimento di quegli emigrati che, dalle esperienze di lavoro nelle miniere francesi o belga, portavano nel luogo natio ansie di democrazia sociale (se non di socialismo) che non potevano non scontrarsi con lo status quo.
Nel 1919 dilagò l’epidemia “spagnola” che giunse a sacrificare un centinaio di vite in paese (e 13mila in tutta l’Isola), aggiungendolo ai lutti ancora freschi per le perdite di ben 36 giovani ierzesi nella prima linea o negli ospedali da campo del nord Italia.
La questione sanitaria fu all’ordine del giorno, allora, a Ierzu e si protrasse per lungo tempo dato il contrasto fra il Comune e la Giunta Provinciale Amministrativa circa l’assegnazione della condotta: convissero infine, nel concreto, due medici entrambi stimati dalla popolazione – Iosto Miglior e Manfredi Mereu –, ma certo quel contenzioso ebbe a sommarsi ad altre motivazioni di diffuso disagio dei residenti, tanto più riguardo ai trasporti ed ai collegamenti (Sarrabus-Ogliastra-Sarrabus) dapprima negati dalla SATAS e infine concessi con oneri… a carico del Comune.
Il grande obiettivo sociale degli anni ’20 e ’30 di Ierzu fu la Cantina sociale, datasi forma soltanto nel secondo dopoguerra e la scuola media di circondario, venuta dopo ancora. Ma intanto almeno l’istruzione primaria trovò incoraggiamento e concreto sostegno, allargando progressivamente il suo raggio, così come in ogni modo si cercò di proteggere le fasce deboli del paese dalla minaccia sempre incombente della usura. Storie degli anni della dittatura e della stagione che era seguita alla seconda guerra mondiale…
E in varie conversazioni ora con Pierpaolo Vargiu, suo discepolo nella medicina radiologica (che ne avrebbe dato conto in una bella scheda biografica uscita nel 1996 nel volume Scritti in onore di Vincenzo Racugno, curato insieme con Giorgio Mallarini in occasione del congedo «dall’attivo servizio nell’insegnamento della disciplina radiologica» per limiti d’età), ora con me stesso nelle innumerevoli circostanze d’incontro confidenziale, da quegli anni ’70 in qua – mezzo secolo! – avrebbe raccontato tante cose e anche di quella sorprendente esperienza adolescenziale, sorprendente almeno per gli sbocchi conclusivi: di una speciale diligenza negli apprendimenti catechistici, alla scuola prima di “predi Carta” e poi dei preti figli di don Bosco, tanto da ricevere più volte un “attestato di religione”. Ma una diligenza foriera di altri passaggi verso una marcata religiosità, tanto marcata e… fatta irragionevole da non reggere infine il confronto con la realtà vera della vita e riscontrata nelle mille stanze del tempo, in ospedale e in aula, nella professione e nella politica.
Dal 1937 studente del liceo Dettori cagliaritano, nel quartiere della Marina, (e con rinforzo temporaneo presso l’istituto Dante Alighieri, nella parte più moderna della città, in quel segmento della via Dante non distante dal gran cantiere del nuovo palazzo di Giustizia), universitario negli anni fascisti che portano alla seconda guerra mondiale: negli anni in cui preside della facoltà di Medicina è il professor Giuseppe Macciotta (notissimo pediatra) ed il rettorato accademico è in capo a Giuseppe Brotzu subentrato nel 1936, e dopo un brevissimo interregno di Giovanni Cao di San Marco, a Mario Aresu. (Varrà ricordare qui che al professor Aresu, celebrato ufficialmente all’indomani della morte, nel 1963, dal professor Macciotta, proprio Vincenzo Racugno insieme con il suo maestro Ottavio Businco dedicherà il primo dei saggi o report scientifici nello speciale di Rassegna Medica Sarda uscito nel 1964: “Il nostro contributo alla Radio-diagnostica della echinococcosi”. Testimonianza importante anche della fatica di ricerca che ha impegnato il giovane dottor Racugno negli anni ’50 soprattutto e pubblicate negli anni 1956 e 1957).
La laurea nel 1946, non senza aver adempiuto agli obblighi militari di guerra: chiamato al corso di addestramento sanitario organizzato ad Iglesias per gli studenti universitari ed uscitone dopo qualche mese con il grado di sergente, viene inquadrato nei ranghi della Sanità militare in un ospedaletto medico-chirurgico allestito a Quartu Sant’Elena. Già nel 1943 – dopo i tragici bombardamenti su Cagliari e la fine, di fatto, della guerra in Sardegna – può riprendere gli studi. All’inizio del 1944 rientrano in città, un po’ per volta, tutti gli istituti universitari “sfollati” anch’essi nei paesi dell’entroterra, tanto più fra Campidano e Marmilla. Torna anche l’istituto di Radiologia con le sue delicate attrezzature ospitate, non per caso, e cioè per interessamento del direttore Ottavio Businco, proprio a Ierzu, e… nei magazzini di Racugno padre.
A Businco, compaesano e professore, Racugno si lega ancor più in quel 1944, quando a lui si rivolge per venire a capo di una febbre alta e durevole che l’ha colpito, riscontrata per malaria e così prontamente allora curata. Se perciò era forse orientato a specializzarsi, dopo la discussione della tesi, in ostetricia-ginecologia, la conversione avviene, nell’ultimo anno di corso, a pro della radiologia, attratto dalla personalità umana e non soltanto didattica del docente. Di lui frequenta le lezioni pomeridiane – la materia è facoltativa – ed a lui si presenta per sostenere l’esame, uno degli ultimi, l’ultimo forse dell’intero quinquennio. E quello che doveva essere un esame-episodio di gratitudine espressa al suo compaesano-professore diventa un esame-svolta di vita.
«Potrei riempire pagine e pagine per illustrare la gentilezza del suo animo, la bontà del suo cuore, la purezza dei suoi sentimenti», scriverà del proprio mentore, Vincenzo Racugno in un libro di memorie ierzesi. Fu, Ottavio Businco, anche pubblico amministratore di parte socialista, gestì gli Ospedali Riuniti di Cagliari alla ripresa postbellica e fu poi assessore alla cultura del Comune capoluogo. Questo per dire degli esempi di attiva militanza civile che passarono alla riflessione del giovane allievo che quasi in quegli stessi anni iniziò anche lui un impegno politico di lato alla professione.
Dunque la laurea che, come previsto, verté su materia ginecologica (“L’accorciamento dei legami rotondi nella retroversione uterina”) e poi la specializzazione. Non in ginecologia ma, come detto, in radiologia. Per questo – dovendosi riferire alla scuola assente in Sardegna ma attiva a Bologna – scrive ad Armando Businco, l’altro compaesano e fratello del professor Ottavio. Armando direttore dell’istituto di Anatomia Patologica di quella università e tornato a pieno titolo nel suo ruolo, dopo l’avventura del suo arresto e imprigionamento in un campo fascista della Repubblica Sociale Italiana. Il professore-e-direttore, potenza (morale) assoluta a Bologna, lo indirizza alla scuola radiologica di Giovanni Giuseppe Palmieri, forse la massima autorità nazionale nel campo. Ed è lui che, raccogliendo la richiesta pervenutagli, immediatamente le dà seguito, iscrivendo il giovanissimo collega-allievo alla specializzazione e con ciò… indirizzandone definitivamente la vita non soltanto professionale.
Ricordando Armando Businco, professore-e-Fratello
Armando Businco, mazziniano e azionista, repubblicano-sardista, massone. Altra figura di riferimento virtuoso per Vincenzo Racugno. Dico per il Vincenzo Racugno militante civile, per il giovane Vincenzo Racugno e per lui nel tempo, sempre: per lui che ne seguirà le mosse sulla strada delle idealità democratiche e repubblicane nell’autonomismo sardista. Per lui che ne seguirà le mosse anche nell’appartenenza massonica.
Non ricordo bene quando ne parlai con lui, con Vincenzo, di Armando Businco libero muratore, forse quando mi detti a preparare una serata, a palazzo Sanjust, per celebrare, nella ricorrenza centenaria, l’aiuto sardo ai terremotati di Messina e Reggio: allora, infatti, Armando Businco fu nella squadra dei trenta studenti cagliaritani impegnati nell’opera di barellieri fra il porto e gli ospedali da campo allestiti a Palermo per il ricovero dei feriti e mutilati che, in nave (dato lo smantellamento della rete ferroviaria), giungevano nel capoluogo da Messina. E fu, Businco, anche corrispondente de L’Unione Sarda che, in prima pagina, pubblicava le sue cronache puntuali e dettagliate. Quel Businco, ancora, che iniziato massone nella loggia Karales dell’obbedienza ferana, fu regolarizzato nel Grande Oriente d’Italia nel 1914 e della sua loggia divenne l’Oratore e il caput dopo la scomparsa, nella grande guerra, del giovane Venerabile Ottavio Della Cà. Quel Businco, insisto, che tenne uno dei discorsi funebri, al monumentale, per Guido Algranati, il giovane Fratello professore di fisica al Dettori, datosi la morte per una grave depressione…
Non conosceva questi trascorsi fattuali del suo Maestro, Vincenzo Racugno, ma certo li intuiva, li dava per scontati in una verosimiglianza con il fare sempre straordinariamente nobile dell’anziano professore che seppe dire no ai nazisti pagandone un alto prezzo. Questo scrisse di lui nel 1996, consegnando la sua testimonianza a Franceschino Delussu per quella sua bella miscellanea dal titolo Il Canonico V.M. Carta tra Seulo, Loceri e Ierzu e delicatamente integrandola con una pagina dolcissima della figlia Leila:
«Nato a lerzu l'11.6.1886 conseguì la laurea in medicina a Cagliari nel 1912 coI massimo dei voti e la lode. La sua tesi di laurea fu giudicata degna della pubblicazione: segno, questo, che costituiva l'evidente preludio alla sua carriera di fecondo ricercatore scientifico.
«La sua carriera universitaria, iniziata subito dopo la laurea, l'ha visto percorrere, velocemente ed in un continuo successo, le varie tappe che l'hanno consacrato nel gennaio del 1927 professore di Anatomia Patologica a Perugia. E' stato successivamente chiamato in varie altre sedi (Cagliari, Palermo, Cagliari) ed, infine, nel 1938 è approdato ad una delle sedi più ambite: Bologna, nota allora con l'appellativo di "La Dotta".
«Per due anni, in Bologna, ricoprì anche la carica di Preside della Facoltà. All'atto del collocamento "fuori ruolo" nel 1956 il Ministro della Pubblica Istruzione gli conferì il "Diploma e Medaglia d'Oro dei Benemeriti della Scuola delle Scienze e delle Arti".
«L'attività scientifica di A. Businco è stata molto vasta (633 pubblicazioni, di cui 139 personali). Di notevole importanza sono i suoi lavori sulla malaria e sulla echinococcosi nonché i grandi contributi alla diagnostica isto-patologica dei tumori. In questo filone di ricerca scientifica è di grande importanza il contributo dato allo studio dei tumori del sistema reticolo-endoteliale che è culminato in una monografia del 1948 giustamente apprezzata in tutto il mondo.
«E' certo per questi fondamentali contributi alla conoscenza dei tumori, che la sua memoria fu onorata con la dedica al Suo Nome del 1° ospedale oncologico della Sardegna che infatti si chiama "Ente Ospedaliero A. Businco".
«Uomo di elevatissime doti umane e di grande generosità ha dedicato la sua feconda esistenza al bene degli uomini e della Patria. Partito volontario allo scoppio della 1° guerra mondiale ha trascorso quattro anni sempre in prima linea. Sempre militante nel Partito Sardo d'Azione fu eletto nel dopoguerra Consigliere Provinciale.
«Durante il ventennio fascista fu un fiero oppositore della dittatura che certo non poteva accettare un uomo come lui, libero, coraggioso ed amante della giustizia.
«Era quindi logico che durante la lotta per la liberazione dai fascisti e nazisti si schierasse dalla parte dei partigiani subendo, per questo, il carcere e la deportazione. Sempre nelle file del Partito Sardo d'Azione fu più volte candidato alle elezioni politiche.
«Io che ho avuto la fortuna ed il piacere di accompagnarlo in campagna elettorale nel 1953 rimasi affascinato dalla Sua grande personalità, dal Suo entusiasmo, dal Suo desiderio di combattere per una Sardegna migliore.
«Un uomo di grande bontà che viene ricordato dalla figlia Leila con queste parole commosse: "Mio padre, a cinquantacinque anni, perse un figlio diciassettenne, Carlo, che era una promessa di bene. Ne rimase segnato per il resto della vita, ma l'assoluta mancanza di fede rendeva questa sventura ancora più amara. Questa mancanza, anche sofferta, era forse dovuta all'esperienza della Sua fanciullezza violentata dalla vicenda giudiziaria del padre, vissuta come somma ingiustizia. In anni tardi la Sua vita spirituale era dominata dalla sofferenza per il prepotere del fascismo, che vedeva come un nuovo trionfo dell'ingiustizia e del male. E non solo per le continue e gravi difficoltà opposte alle Sue mete pure brillantemente raggiunte.
«"Anche gli studi umanistici e scientifici, percorsi da laico con successo, lo avevano tenuto lontano da problemi religiosi, ma della religione rispettava ministri e manifestazioni, insegnandoci, con l'esempio, a rispettarli.
«"Quando morì Suo figlio, vide mia madre attingere alla fede rassegnazione esemplare, e trarne speranza, ma non riusciva a credere, né a sperare, per quanto adesso lo desiderasse.
«"Nelle notti insonni, assillato dal pensiero di quella perdita senza speranza che ha giudicato sempre una mutilazione, chiedeva al mistero, inutilmente, un segno consolatore.
«"Intanto, anche a Bologna, nella cui Università insegnava, la guerra si faceva sempre più presente con bombardamenti continui. L'istituto da lui diretto era ubicato in zona a rischio per cui trasferì nell'ambito del più protetto Policlinico i servizi primari, meno la voluminosa biblioteca, che sistemò nel vasto seminterrato dell'istituto stesso. Mio padre decise che doveva essere lui e non gli assistenti a rischiare eventuale bombardamento, quando occorresse consultare qualche volume; così, la più grave incursione aerea su Bologna Lo colse tra quei libri.
«"L'ampio ambiente, dai muri spessi e dalle volte imponenti, pareva offrire, specie nella convergenza delle pareti, una certa sicurezza. Perciò si rifugiò in un angolo rassicurante, con il volume da consultare
«"Era un uomo naturalmente coraggioso, aveva fatto tutta la grande guerra in prima linea, rischiava ogni giorno la vita nell'attività clandestina antifascista: il bombardamento era un rischio scontato.
«"Aspettava il cessato allarme, tranquillamente, quando sentì, netta e chiara la voce del figlio morto, che lo chiamava ripetutamente dall'angolo opposto a quello in cui si trovava. E corse verso quella voce, appena in tempo per evitare il crollo da cui si salvò solo l'angolo appena raggiunto. Mi sono sempre detta che ha vissuto così la Sua "via di Damasco". L'ha proseguita con l'onestà intellettuale, che gli era propria, leggendo e rileggendo le Scritture e i testi, che potevano aiutarlo ad approfondire la fede, con umiltà, con zelo da neofita.
«"Anche nel lavoro scientifico, coltivato sino agli ultimi giorni di vita, portava il segno della Fede, finalmente raggiunta.
«"Aveva ottant'anni, quando Lo trovai alla scrivania nella mia casa di Bologna, alle tre del mattino. La testa bianca era china a seguire la Sua scrittura minuta, sul foglio di un'ennesima pubblicazione. Lo rimproverai, preoccupata che non riposasse abbastanza. Non posso, mi rispose, è come avessi appena cominciato da quando guardo ogni cosa con gli occhi nuovi che mi ha dato la Fede, e scopro nuovi orizzonti".
«La morte lo colse in Cagliari il 4 Settembre 1967 quando ancora, malgrado il peso degli anni, il suo spirito era sempre vivo e sempre teso verso quegli ideali di giustizia, di libertà e di amore per il prossimo dei quali aveva fatto lo scopo della sua vita».
Mi consento qui una digressione che, invero, può essere un approfondimento. Se importava a Leila Businco una lettura della vicenda di vita del padre nella più intimistica delle chiavi è certo, certissimo, che nella ricezione di quella testimonianza e nel rimbalzo d’essa che Vincenzo Racugno volle curare per la pubblicazione cui fu richiesto di collaborare v’era più d’un sentimento sotterraneo e inconfessato.
Anche a lui non importava ricordare qui, di Armando Businco, l’affronto subito – con altri valorosi colleghi sanitari – dalle armi nazi-fasciste in Bologna per l’occultamento del radium utile alle diagnostiche dell’ospedale Sant’Orsola ed affidato all’istituto di facoltà, oppure la carcerazione della prepotenza nel terribile campo di Fossoli dopo che nel comando bolognese del Sicherheitsdienst di via Santa Chiara e nel carcere di San Giovanni in Monte a disposizione delle SS, come anche alle Caserme Rosse (fu nel successivo trasferimento a Peschiera del Garda, da dove avrebbe dovuto raggiungere un campo di lavoro in Austria, che egli riuscì a fuggire, con altri compagni del Partito d’Azione, durante un mitragliamento partigiano del convoglio). Non importava questo, perché questo lo avrebbero raccontato i libri di storia. Importava piuttosto, e in doloroso segreto, accostare mentalmente alla richiamata vicenda di lutto del professore, quella di anni lontani o lontanissimi, la propria, più recente e ancora bruciante: la perdita di un figlio, giovanissimo medico, di Roberto, per un incidente durante una manifestazione sportiva di parapendio: tanto più in una fase di complessi e irrisolti rapporti familiari e dunque proprio per questo, forse, causa di una pena senza rimedio.
Il ricordo dell’avv. Matteo Spano il mazziniano ierzese
Importava anche altro, nell’accostamento segreto alla esperienza di vita di Armando Businco suscitato anche dalla testimonianza di Leila. Il sentimento di religione, se non proprio la fede nella trascendenza, cioè: quel tanto che possa dirsi superamento di una lettura puramente materialista dell’umana vicenda da compiersi sulla terra e nel tempo. La militanza massonica avviatasi nell’autunno 1975 con la rituale cerimonia di dedicazione “alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo”, la stessa sua presidenza di numerosi lavori rituali, con formulari pronunciati coram populo e che rimandano a una tensione verso un non tempo godibile nelle Valli Celesti, non poteva non aver seminato nell’intimo di Vincenzo Racugno uomo maturo e professionista pienamente affermato sensazioni e riflessioni che all’indimenticato Maestro ierzese ammirato a Bologna e ovunque lo riportavano…
Né forse a tutto questo era estranea la memoria di quanto, ancora ragazzo, proprio quando a Cagliari aveva calzato i ruoli del liceale dettorino, aveva appreso dalla famiglia e dagli altri del paese. Della morte cioè dell’avv. Matteo Spano, personalità stimatissima a Ierzu, un generoso idealista dai trascorsi giovanili mazziniani, di cui un giorno Tonino Serra avrebbe tratteggiato il profilo, inquadrandolo nelle relazioni anche e soprattutto professionali suscitate dall’esser Ierzu capo Mandamento e sede di Pretura.
S’accompagnava, in quegli anni del cartone fascista, forse soltanto alla sua religiosità mazziniana, di derivazione risorgimentale, distante sempre da ogni prossimità alla fede cristiana declinata dalla teologia e predicata nelle chiese. Ascoltava e non parlava, infine, l’avv. Spano colpito da un tumore alla gola. Ascoltava le parole di predi Carta che lo visitava con riguardo e discrezione e gli porgeva «le parole dei Sacri Libri, antiche eppure vive, che potevano lenire la sofferenza del malato», comprendeva che «nel profondo del suo animo il can. Carta parlava non all’ateo che gli stava di fronte, ma a se stesso, per sondare la povertà della natura umana che solo nel Vangelo rinveniva ragioni di speranza. Il malato lo ascoltò in silenzio, come se ascoltasse un amico che non vuole convincere ma invoca comprensione, che confida i propri dubbi e non ha la presunzione di fugare quelli degli altri».
Chiude così Tonino Serra evocando in punta di penna la magia di quei momenti, di quel momento: «Per l’avvocato fu come tornare indietro nel tempo, alla ricerca delle proprie radici esistenziali, non si accorse di piangere in silenzio, in preda ad una struggente ma serena convinzione del tempo che finiva. E accettò con naturalezza il dono che sommessamente, dopo tanto tempo, gli veniva offerto dal sacerdote che si apprestava ad abbandonare la stanza: un crocefisso, pegno della sofferenza e del suo profondo significato morale.
«L’avvocato Spano morì alcuni giorni dopo, il 2 maggio del 1938 e al suo funerale partecipò tutto un popolo, convinto di accompagnare all’eterno riposo un uomo giusto. Venne sepolto nel secondo gradone del cimitero di San Vincenzo e don Carta, che era stato nominato suo esecutore testamentario, gli fece innalzare un monumento funebre che lo ricorda nel suo atteggiamento severo e con lo sguardo pensoso…».
Per l’adolescente che dai salesiani lanuseini del ginnasio era intanto passato al laico approccio liceale cagliaritano, e proprio allora era tutto attraversato o pressato, addirittura devastato da un confuso e tumultuoso carico di domande sul senso della vita e la signoria del pensiero, sui patti sempre problematici fra libertà e coscienza, sul dovere della critica alle contraddizioni profonde presenti nel campo largo della Chiesa come gli era stata prospettata oltre i riti e le liturgie, la vicenda di vita e di morte dell’avv. Spano entrò indubbiamente come una semina nuova non di risposte però, ma di nuovi dubbi.
(Questa “perla”, trattando di Vincenzo Racugno, ho creduto di doverla offrire alla conoscenza di chi voglia coglierla, anche per l’amore che io stesso ho avuto per la figura di Matteo Spano, che biografai ora sono più di trent’anni fa, nella galleria dei mazziniani sardi fra fine Ottocento e primissimo Novecento rifluita poi nel corposo volume L’edera sui bastioni. Ancora studente egli fu fra i fondatori della Fratellanza Vincenzo Brusco Onnis con sede cagliaritana nella piazza Martiri e, in sodalizio con Alfonso Dessì – prossimo zio del celebre scrittore Giuseppe Dessì, e pure lui fondatore-studente del movimento repubblicano cagliaritano al tempo di Giolitti – ottenne da Giovanni Bovio l’epigrafe che al monumentale di Bonaria ancora onora la personalità eccellente del direttore de L’Unità italiana e di numerose altre testate di predicazione mazziniana).
La specializzazione, la libera docenza, la cattedra
Il massimo dei voti alla specializzazione nel dicembre 1948 (titolo della tesi “La radioterapia dei tumori del sistema retico-endoteliale”, argomento che – avrebbe confidato lo stesso Racugno a Pierpaolo Vargiu – gli era stato suggerito per ricondurlo ad alcuni preferiti filoni di ricerca del professor Businco a Bologna stessa). Due anni – il 1949 ed il 1950 – fra Bologna e Milano: nel capoluogo felsineo, con borsa di studio, come assistente interno dell’istituto radiologico “Luigi Galvani, dopo un tuffo pieno nella politica militante ed elettorale nel segno del sardismo risorto – al primo affaccio della Regione autonoma cioè – e il primo cimento nella medicina di base in quel d’Ogliastra (fra Ierzu e Tertenia e Perdas…), a Milano per alcuni mesi per fare esperienza presso l’Istituto dei tumori.
Il rientro a Cagliari alla fine del 1950. Assistente volontario ma già valeva, a dargli rango, la competenza intanto maturata sul continente. Una competenza che, confermata da pubblicazioni scientifiche che via via sarebbero venute nel tempo, valeva già… una cattedra (fra esse è particolarmente nota quella riguardante i tumori da “fogu aintru”: “Leucoplachie e tumori del palato nei fumatori di sigaro ‘a fogu aintru’, cioè con la brace del sigaro rivolta verso l’interno del cavo orale”). Anni intensi che, avrebbe raccontato lui stesso, furono preziosi nella formazione specialistica di numerosi giovani medici destinati alle migliori carriere, fra reparti ospedalieri e istituti universitari, e di molto avrebbero innalzato le quotazioni nazionali della scuola cagliaritana in capo al professor Ottavio Businco. Assistente incaricato nel 1952, di ruolo nel 1955, aiuto nel 1960.
Pur nelle ristrettezze organizzative e operative, cominciando da quelle logistiche, l’Istituto di Radiologia dell’Università di Cagliari nei primi anni ’50 e poi lungo il decennio si dette allora obiettivi e raggiunse, fra alti e bassi, i suoi obiettivi. Vincenzo Racugno partecipò in pieno alla bella avventura. Il dettaglio lo raccontò quello stesso coprotagonista a Vargiu che l’aveva interrogato, come detto, per una speciale pubblicazione che onorasse l’ormai anziano professore al termine della sua carriera accademica.
Disponeva allora di 400 mg. di radium, l’Istituto, senza saperlo o poterlo utilizzare. Si trattava di chiedere prestito di spazi all’astanteria, non disponendo esso di posti-letto, per taluna applicazione occorreva chiedere anche la collaborazione di privati (la casa di cura Sant’Anna).
Nel 1954 un altro passaggio professionale: uno studio radiologico a Quartu Sant’Elena (in società col collega Piero Ravasio), presto gratificato da una convenzione con l’INAM compensatrice di tanta fatica, e, nel frattempo, una missione di studio – cento giorni – a Parigi, alla Foundation Curie, ad accrescere ed affinare conoscenze da diffondere fra i colleghi e mettere a frutto nella diagnostica e nella terapia. E anche una genialata raccontata sempre, nei viaggi a ritroso della memoria, per dimostrare come il tempo sia sempre galantuomo: una corretta diagnosi dell’inconcludenza di un certo macchinario venuto dall’America (un dosimetro Victoryn), diagnosi non condivisa dall’équipe e dal suo direttore soprattutto, salvo poi essere riconosciuta non soltanto corretta ma addirittura perfetta.
In vista del conseguimento della libera docenza, venuta nel 1959, si moltiplicarono allora gli studi e le pubblicazioni (grazie anche alla collaborazione di… trascrittrice di Ottavia Cugurullo, l’assistente sociale in forza all’Istituto e fedele amica). Così più avanti, fino al 1965 per il conseguimento dei titoli per la cattedra cui sarebbero seguiti l’insegnamento straordinario (1967) e la direzione dell’Istituto di Radiologia (1971, al ritiro del professor Businco). E ancora ricerca e insegnamento, e cura. Decine, centinaia di pazienti gli furono affidati dai diversi reparti ospedalieri, negli anni centinaia e migliaia addirittura… Uomini e donne d’ogni condizione. Nella folla dei malati, in cui ognuno ha dignità pari all’altro, anche un collega di speciale nome e benemerenza: don Mondino De Magistris, involatosi 86enne nel 1959 con un tumore comunque affrontato con gli strumenti migliori della scienza e della abnegazione dei medici curanti.
Direttore della scuola di specializzazione, guida illuminata ed esperta di giovani medici – saranno 300 complessivamente – mossi forse tutti, in tempi pur così diversi da quelli della sua stagione, dal fascino misterioso della “scienza delle ombre” come egli stesso ebbe a subirlo. Un successo della accademia e della medicina tout court, una soddisfazione certa per il suo maggior protagonista. Ma, nello sviluppo possibile ed anzi auspicabile dell’Istituto – fra radiodiagnostica e radioterapia – non mancarono certamente le difficoltà legate forse soprattutto a una insufficiente comprensione da parte dei vertici della politica sanitaria e della stessa amministrazione universitaria.
Traccia di queste doglianze è in diverse interviste, vere o simulate, dello stesso Racugno. Mi rifaccio adesso a “Vincenzo Racugno: 50 anni tra raggi X e gamma”, a firma di Gian Carlo Chabert, uscito come editoriale del n. 2/1996 di Rassegna radiologica sarda ed a “Vincenzo Racugno”, colloquio di Mario Frongia con il professore ora in ritiro, per Cartelle cliniche. La sanità regionale al microscopio: ricette, storie e virtù di ventiquattro medici, uscito nel 1997.
«Dopo una serie di tentativi, diciamo così, pacifici, ho fatto denuncia alla procura della Repubblica perché in reparto è stato distrutto l’apparecchio di rontgenterapia: è passato un anno e non è ancora successo niente e quel che è bello è che abbiamo i locali nuovi che possono ospitare ventiquattro pazienti: sono chiusi a chiave solo perché Igino Meloni dice che la struttura è all’Oncologico. Si rende conto in che genere di caos viviamo?», confidò a Frongia. E ancora, ricordando i termini della sua carriera e scoprendo in essa soprattutto le delusioni: «Ho il rammarico di non aver potuto fare di più per i pazienti. Avrei voluto migliorare ulteriormente la qualità del reparto… Nel 1983 il secondo piano dell’Istituto è diventato inagibile, smettemmo di ricoverare e il lavoro proseguì al primo piano dove avevamo quattordici malati. Nel 1992 Igino Meloni decise di chiudere il reparto ricoveri dell’ospedale per poter ristrutturare. I lavori sono finiti, patologia medica e neuro hanno riaperto, mentre a noi, nonostante ci sia il materiale nuovissimo accatastato all’ultimo piano, non hanno permesso la riapertura… Quando eravamo in auge abbiamo avuto fino a 48 ricoverati…».
Mani e piedi piagati, il dono alla missione
Confidò al suo intervistatore, ancor più dolorosamente: «Guardi le mie mani, così come i piedi, sono completamente rovinate da cinquant’anni di radioterapia: una radioterapia d’altissimo livello, da tutti considerata d’élite… Sono state le lotte politiche, così come accade tuttora, a penalizzare chi lavora seriamente e porta avanti con dura applicazione progetti importanti. Le lotte danneggiano i pazienti. Alla lunga l’assistenza decade e solo chi può e ha i soldi va a curarsi fuori. Per gli altri, stragrande maggioranza, c’è da pagare un prezzo salatissimo».
Aggiunse andando in retrospettiva: «Fino agli anni ’70 abbiamo avuto macchine all’avanguardia: nel 1958 uno dei primi betatrone d’Italia era nel mio reparto. Oggi non ci sanno l’acceleratore lineare perché dicono che non lo sappiamo usare. Dimenticano che il primo libro di elettroni accelerati l’ho scritto un sacco di tempo fa, e Cossu, il mio successore, è in grado di far funzionare un acceleratore fin da domani, e fanno anche finta di scordarsi che il primo cancro dell’utero l’ho curato col radio nel 1953, quando ero appena tornato da Parigi». Una paziente che, da quelle cure, ha goduto un altro mezzo secolo di vita!
Racugno barone dell’università? Non sfuggì alla domanda l’intervistato: «Mario Sebastiani, collega e amico, ha riassunto bene questa storia del baronato: “Vincenzo, quando noi siamo arrivati a tavola era finito tutto e hanno cominciato a sparecchiare”… Siamo stati schiavi del potere e per giungere alla cattedra di prima fascia abbiamo penato. Quarant’anni fa la vita in ospedale era durissima: entro dieci anni si doveva conseguire la libera docenza altrimenti ti licenziavano. E’ vero, mi hanno chiamato barone ma non è detto che lo fossi».
Altre notizie di quel periodo – anni ’70 e ’80 soprattutto – vengono dalle minuziose ricostruzioni di Vargiu: «… tempi assai difficili per la esauste casse della Regione e dello Stato e i finanziamenti per la Sanità scarseggiano, in particolar modo quando le spese da sostenere sono assai ingenti, come nel caso delle complesse apparecchiature necessarie per le attività di radiodiagnostica e di radioterapia.
«Gli sforzi congiunti di Racugno e dei Rettori Boscolo e Aymerich per attivare le procedure rivolte all’acquisizione delle macchine più moderne si scontrano spesso con l’insensibilità dei politici e, soprattutto, con l’ottusità della burocrazia.
«Nel 1974 il nuovo apparecchio di cobaltoterapia, acquistato con fondi in gran parte provenienti dalla stessa attività assistenziale dell’Istituto, giace nelle casse che lo ospitano, nel cortile esterno dell’Ospedale, esposto ad ogni intemperia. Il Commissario dell’Ente, per un cavillo burocratico, non ne consente l’allocamento nei locali all’uopo predisposti, privando così i pazienti di un importante sussidio terapeutico nella cura dei tumori.
«Anche quella volta, Racugno è costretto ad intervenire con tutto il peso del suo prestigio (è Assessore comunale in carica) ottenendo che sia allontanato il vecchio Commissario, il cui mandato è da tempo scaduto, e venga finalmente nominato il nuovo Consiglio di Amministrazione che lo sostituisce. E’ inevitabile dunque che la prima delibera licenziata dai nuovi Amministratori, nel corso della loro riunione di insediamento, sia proprio quella che, riconoscendo una sacrosanta esigenza della collettività, dispone l’immediato utilizzo della preziosa apparecchiatura terapeutica di proprietà dell’Istituto di Radiologia.
«I tempi si fanno ancora più bui e le risposte dei politici alle continue richieste di finanziamento latitano al punto da indurre Racugno, nel 1982, a chiudere l’accesso alla scuola di specializzazione in Radiologia che, deprivata dei macchinari necessari, rischia di non essere più all’altezza del suo ruolo nella formazione dei nuovi radiologi».
Alla scuola insuperata di Ippocrate
Affiancato dai colleghi Cossu, Perra e Cocco e col sostegno del preside Balestrieri, Racugno – ritrovando «lo spirito guascone della gioventù» –, negli ultimi anni della giunta Melis e immediatamente successivi trovò una migliorata interlocuzione con gli assessori Ladu, Steri e Fadda e un deciso rilancio: vennero attivati i nuovi servizi di Ecografia, Senalogia, Radiologia Odontoiatrica, Radiologia Interventistica e Tomografia Computerizzata che, oltre a rispondere alla domanda dell’utenza, costituirono «validi motori dell’attività scientifica e didattica dell’intero complesso universitario». Si rafforzò anche, in limine, l’assetto… postRacugnana: al professor Cossu destinata la direzione dell’Istituto si affiancò, alla testa della scuola di specializzazione, il professor Giorgio Mallarini, proveniente da Genova.
Aveva fatto cenno, nella sua intervista per Cartelle cliniche, alla condizione dei suoi arti. E dei suoi piedi e delle sue mani abbiamo saputo anche noi che gli siamo stati amici e confidenti lungo gli anni, ne abbiamo avuto conoscenza e abbiamo condiviso il dolore, almeno quello morale, di Vincenzo Racugno. Fino alla traumatica e definitiva mutilazione, alla operazione di rimedio e “salvifica”, e ancora nei tempi successivi e purtroppo di non minore impedimento fisico da lui sempre affrontato con ammirevole coraggio nella casa di viale Merello. Ne scrive anche Vargiu: «Alla sua attività di diagnosta, e in particolare alle migliaia di esami contrastografici sull’apparato digerente eseguiti tra il 1954 e il 1985, con le insufficienti protezioni fisiche degli anni più eroici, è da ascrivere il danno radiante a carico di entrambi gli avampiedi che, per tanto tempo, ha costituito un pesante cruccio per il Professore, costretto a sottoporsi a svariati (e mai risolutivi) interventi di chirurgia ortopedica e obbligato a deambulare con le ormai famose “mezze polacchine”, scarpe private della loro parte terminale per evitare il doloroso appoggio sul terreno della ragione più distante del piede».
E sembra bello perché significativo, a questo punto, il richiamo all’ammonimento che Vincenzo Racugno ha sempre indirizzato ai suoi allievi, ai giovani medici ai quali la medicina deve apparire sempre sì una professione, ma una professione-missione, con un tanto di più di carica morale. Bene hanno fatto i suoi intervistatori, volta a volta, a presentare questo aspetto della docenza del cosiddetto “barone”, che egli ha sempre sentito come un suo “dono” ai giovani allievi e colleghi, ma che amava dispensare, almeno per testimonianza di vita, anche a noi che medici non eravamo, ma amici e confidenti: «Non dimenticate mai il giuramento di Ippocrate, ma applicatelo ogni giorno alla vostra attività di medici. Il nostro obiettivo e la nostra massima soddisfazione professionale ed umana risiedono nella lotta contro la malattia, finalizzata a risolvere, o quanto meno a lenire, le sofferenze del paziente. Ecco, il ruolo centrale nella Sanità non spetta ai medici, né ai parasanitari, né alle attrezzature diagnostiche e terapeutiche. Il ruolo centrale è quello del fratello malato, la cui condizione infelice deve costantemente essere in cima ai nostri pensieri, stimolandoci ad offrire sempre il massimo dei nostri sforzi e delle nostre attenzioni».
Una vita per l’ospedale e l’università: ogni giorno dalle 7 alle 13 e la sera. Un congedo dalla operatività ordinaria, a carriera conclusa e a pensionamento raggiunto. Ma non una estraneazione dalle stanze dell’Istituto, almeno per qualche anno ancora, fino all’intervento chirurgico appunto salvifico ma non di meno invalidante. E alla protesi e a quel girello o deambulatore domestico…
Nella politica, all’indomani della guerra
Soltanto chi non conosca la storia dei movimenti e dei partiti politici potrebbe pensare che la militanza di Racugno prima nel Partito Sardo d’Azione e poi nel Partito Repubblicano Italiano si sia sviluppata con un salto ideologico. La cosa evidentemente non è trattandosi di due formazioni che, in contesti storici in parte diversi, hanno attinto alle stesse fonti ideali: il mazzinianesimo e il cattaneismo, fra l’autonomismo comunalista ed il federalismo regionalista cioè. Di più: che hanno condiviso, per larga parte nelle formazioni di Giustizia e Libertà, l’antifascismo clandestino e anche quello combattuto dapprima in Spagna quindi in patria, nella resistenza. In unione anche, per le parentele valoriali e i Maestri comuni, con il Partito d’Azione.
Vincenzo Racugno, forse anche per la memoria della testimonianza democratica dell’avv. Matteo Spanu a Ierzu, certo per l’esempio riconoscibile ed ammirevole del professor Armando Businco non meno che per il carisma scintillante di Emilio Lussu rientrato in Sardegna, dopo tre lustri di lontananza (ora per il confino ora per l’espatrio in Francia), nel 1944 s’accostò al Partito Sardo d’Azione. Esso s’era risvegliato, come tutti gli altri, dopo l’8 settembre 1943, dopo l’armistizio cioè.
Fu all’inizio, s’intende, un avvicinamento sentimentale, sarebbe divenuto politico col tempo, nell’arco di quattro-cinque anni: ché dopo quella data di partenza sarebbero venute le elezioni comunali in paese (e negli altri comuni) – così nella primavera 1946 – ed a giugno quelle per la Costituente unitamente al voto referendario; nell’aprile 1948 sarebbe toccato alle prime elezioni parlamentari – con Lussu e Pietro Mastino senatori di diritto – e nel maggio 1949 sarebbe stata la volta della Regione al suo esordio costituzionale. E nella lista sardista sarebbe stato incluso, per il collegio di Nuoro, anche il suo nome.
Un lustro pieno – quello fra il 1944 e il 1949 – che sarebbe stato il contenitore temporale straordinario di eventi sia della vita personale del giovane Racugno che di quella politica nel riassaporo della libertà e, via via, della democrazia.
Sul piano privato e professionale, ne ho accennato, la malattia e la guarigione, la conclusione del corso universitario, la laurea e la specializzazione, l’avvio del “mestiere”, nelle condotte d’appoggio in Ogliastra, il “ponte” Sardegna-Bologna, lo stretto rapporto con Armando Businco dopo che con suo fratello Ottavio direttore dell’Istituto di Radiologia dell’ateneo cagliaritano.
Sul piano politico e interno al focus sardista tutta una sequenza di congressi: nel 1944 l’assemblea di Macomer che sancì l’alleanza dei Quattro Mori con il Partito d’Azione (e la confluenza delle sezioni azioniste nell’Isola nei ranghi di quelle del PSd’A), nel 1945 il bis ad Oristano (con la prima sconfitta di Lussu e della sua mozione socialista) e il congresso dei giovani del partito, nel 1947 il congresso di Cagliari (anche con l’affacciarsi della proposta liberal-socialista e dei ceti medi di Gonario Pinna e la conferma del “centro” Mastino-Melis nella dirigenza), nel 1948 il congresso – ancora a Cagliari – della scissione lussiana con la conseguente formazione del Partito Sardo d’Azione socialista presente anche alle elezioni regionali dell’anno successivo. Sul piano elettorale quel tanto di turni ora amministrativi ora politici generali ora regionali di cui ho riferito prima. E sempre con una partecipazione “di servizio” del giovane neodottore ierzese.
Si pensi un po’. Ierzu fu uno dei quaranta comuni della provincia di Nuoro (e degli 81 nella conta regionale) che votò per la repubblica contro la monarchia il 2 giugno 1946. E il contributo dei sardisti fu determinante, assieme a quello delle sinistre. L’opzione repubblicana raccolse infatti 1.276 consensi, contro i 695 andati alla monarchia. In quella medesima tornata elettorale volta a dar corpo alla Assemblea Costituente il PSd’A ricevette 654 voti, mentre 619 andarono alla lista democristiana e 446 a quella comunista.
Sardista e repubblicano
«La reazione al Fascismo sfociò in una vasta e diffusa adesione emotiva al Movimento Sardista i cui punti di riferimento erano, in Ierzu, Armando Businco e Vincenzo Racugno. Per la maggior parte degli ierzesi si trattava di un’ideologia genericamente progressista per cui, quando le posizioni politiche di Emilio Lussu, leader storico del Partito Sardo, si avvicinarono a quelle della Sinistra social-comunista, i sardisti ierzesi si orientarono verso i partiti che si erano andati formando clandestinamente durante il Fascismo, confluendo in massa nella Democrazia Cristiana e nei partiti di Sinistra; un’esigua minoranza si collocò nell’area laica liberal-democratica». Così Tonino Serra, medico e scrittore con esperienze lui stesso amministrative sul fronte democristiano, sintetizza le dinamiche politiche ierzesi dall’immediato secondo dopoguerra alla fine del secolo (cf. Ierzu storia di un paese contadino, Cagliari, Edizioni della Torre, 1992).
Interessa qui focalizzare la prima fase del lungo periodo, e di esso ricordando la figura eminente di Vincenzo Racugno – al di là del grande patronato morale del professor Armando Businco – ricorda anche i suoi maggiori sodali: il notaio Attilio Demurtas, Antonino Demurtas, Manfredi Contu, Tommaso Cocco, Franceschino Pisano e lo stesso Michele Racugno, commerciante e titolare di un cinematografo e di altre attività nonché padre del Nostro.
E proprio Michele Racugno fu eletto in Consiglio comunale nella prima tornata amministrativa giunta dopo venti e passa anni dall’ultima conta democratica, insieme con diversi altri compagni di fede, fra cui Cocco, Contu, Antonino Demurtas ecc. La prima giunta fu costituita con l’esclusiva presenza sardista (per tre anni con lo stesso Michele Racugno) e sardista fu lo stesso sindaco Attilio Demurtas. Il PSd’A vinse allora, infatti, il confronto con la DC, riscuotendo 557 suffragi contro i 421 degli avversari.
Si trattò di un’amministrazione fattiva che intervenne in primo luogo sul sistema fognario e viario, sulle scuole, le carceri e la sede municipale, provvide alla sistemazione dell’acquedotto e del cimitero ed ottenne un considerevole finanziamento dell’Ina Casa per un programma di edilizia popolare; né marginale fu, in tale contesto, la delibera relativa alla costruzione di diverse scuole rurali.
S’avviò anche in paese, in quegli anni, la campagna di bonifica dall’infestione malarica e venne impostata anche la complessa pratica per l’istituzione della scuola media, più articolata si fece la rete commerciale mentre diversi cantieri di lavoro furono aperti fra l’altro favorendo gli accessi al costruendo ospedale sanatoriale “Tommasini”.
Se qualche iniziale cenno di “modernizzazione” parve affacciarsi sulla scena paesana, meglio integrando – anche nell’immaginario collettivo – Ierzu all’intera Sardegna e anche all’Italia metropolitana in accelerata ricostruzione anch’essa, certo qualche provvedimento di rinforzo delle casse comunali fu necessario adottarlo (con l’addizionale sull’imposta di famiglia, una tassa di circolazione sui veicoli, l’imposta consumo) e questo forse comportò il maturare di diversi orientamenti nelle scelte elettorali future, non soltanto amministrative ma anche politiche, tanto più a favore del blocco democristiano. (Il fronte moderato avrebbe avuto da allora in poi la guida del paese per un quarto di secolo, fino cioè al successo delle liste di sinistra, più tardi ancora rinforzatosi per il rinnovato apporto sardista, seppure di un sardismo molto diverso da quello conosciuto ed espresso dal giovane Racugno negli anni ’40 e ’50 ed ancora, da esponente della dirigenza provinciale e in prevalente collaborazione con i repubblicani, ’60).
Annunciato al VI congresso di Macomer svoltosi a fine luglio, i giovani del PSd’A nuorese celebrarono il loro nel capoluogo barbaricino, presieduto da Joyce Lussu, nell’ottobre 1945 (ad un anno di distanza dalla data inizialmente programmata) e nell’aprile 1946 replicarono, con i compagni del Cagliaritano e del Sassarese a Macomer, tenendo a base della loro discussione una ampia relazione di Mario Melis. I lavori si conclusero con la elezione del direttivo regionale in cui Racugno – che dopo l’estate avrebbe discusso la sua tesi di laurea – venne eletto con altri quattro in rappresentanza dei giovani sardisti della provincia di Cagliari (nuova sede di residenza).
Ma se di quell’anno – del 1946 cioè – è ben da immaginarsi un impegno a pro delle liste dei Quattro Mori tanto alle amministrative di Ierzu quanto al voto per la Costituente, è del 1947 la memoria documentata di una partecipazione diretta nell’agone politico. Ancora a Ierzu e in chiave anticlericale, in contraddittorio con don Salvatore Fiori, il cappellano dell’Argentiera sceso in campo a sostegno dei democristiani. Raccontando di quell’esperienza – anche con me, e non una volta soltanto (forse per l’amore-odio, educato sempre, nei confronti del clero, o della supponenza di un certo clero) – Vincenzo Racugno fattosi ormai anziano recuperava un pieno gusto di sé assolutamente compiaciuto, forse perché godeva di una certa sua indole disincantata e perfino, al bisogno, iconoclasta che il rigore della professione lo aveva obbligato a tenere a freno…
Con don Fiori accusatore di Lussu – del Lussu concubino e divorzista, del Lussu che ha osato non battezzare il figlio, del Lussu nemico del Concordato… - in una delle sue perorazioni inquadrate nella “settimana sociale” in svolgimento nella parrocchiale, il giovane Racugno ha uno scambio polemico: contesta che gli eventi miracolosi evocati dalle Scritture possano accogliersi con una logica umana che non sia integralmente fideistica. Risponde il relatore introducendo nella controversia elementi estranei al tema, entrando cioè nel privato famigliare ed accusando il suo contraddittore di essere rampollo di famiglia ricca, non idoneo dunque a prender le parti del popolo ignorante (e fedele) perché povero… E’ fuoco alle polveri, una baraonda alimentata dai sardisti confluiti in massa a Sant’Erasmo e con il povero don Fiori imprigionato in chiesa…
Altre scene nel 1948, nella campagna elettorale per il primo Parlamento repubblicano. Il PSd’A candida al seggio senatoriale, nel collegio di Cagliari ed in quello di Oristano il professor Armando Businco: l’eletto sarà poi, con il quoziente del collegio nuorese, l’avv. Luigi Oggiano cui si affiancherà, nella prima legislatura, l’avv. Pietro Mastino e anche lo stesso Lussu (fino alla sua confluenza nel PSI), entrambi senatori di diritto in quanto parlamentari dichiarati decaduti nel 1926 da apposita legge fascista. Businco tornerà come nome nobile del sardismo come candidato al Senato nel collegio di Oristano e candidato anche alla Camera nella circoscrizione isolana nel 1953: in entrambe le circostanze, e per quanto possibile, Racugno fu l’accompagnatore dell’anziano professore prossimo ormai al ritiro dalla cattedra e dalla direzione della scuola di specializzazione in stomatologia a Bologna. E non solo l’accompagnatore, anche il generoso e appassionato “cercatore” di preferenze nella speranza di un successo comunque… improbabile.
Analogamente per altri compagni di partito con cui maggiore era la sintonia – fra essi certamente Anselmo Contu – tanto più in occasione delle prime elezioni regionali del 1949, quando lui stesso fu candidato, nel medesimo collegio di Nuoro, così presentato da Il Solco nel suo numero preelettorale del 7 maggio: «Dott. Vincenzo Racugno di Michele, nato ad Ierzu il 4 novembre 1920. Laureato in medicina e chirurgia nel 1946 presso l’Università di Cagliari. Specializzato in radiologia medica nel 1949 presso l’Università di Bologna. Membro del primo Direttorio del Partito Sardo d’Azione (Sezione Giovanile)». Batté ovviamente soprattutto Ierzu e l’Ogliastra, con l’obiettivo della dignitosa partecipazione non certamente della vittoria…
Con Lussu e contro Lussu
Bisogna dire che nel 1949 la scena era però diversa da quella presentatasi l’anno precedente e ancor di più da quella del 1946. Perché allora Lussu, pur con tutto il suo carico di socialismo con cui avrebbe voluto “contagiare” un partito intimamente interclassista, a larga base rurale e, nelle città, a base piccolo borghese quale era il PSd’A, era ancora un leader riconosciuto ed amato dalla militanza: era stato ministro nei governi Parri e De Gasperi ed uno degli esponenti di primo piano del Comitato di Liberazione Nazionale che aveva diretto, fino al 1946, la politica governativa nazionale, ed era stato il dirigente di più alto livello che aveva pilotato l’alleanza fra i Quattro Mori e il Partito d’Azione. Era stato, in quel 1947 delle bordate di don Fiori a Ierzu, il bersaglio facile della polemica del sacerdote che, colpendo lui “ateo” e il suo Partito d’Azione, intendeva colpire il Partito Sardo alleato di quell’aborrito Partito d’Azione divorzista e anticoncordatario, contrario alla messa di ringraziamento per la fine della guerra…
Racugno era stato abbagliato anche lui dal prestigio del leader e lo aveva difeso in ogni occasione.
In vista del IX congresso sardista convocato a Cagliari, al teatro della Manifattura Tabacchi, per il 3-4 luglio 1948, Lussu gli scrisse auspicando il suo appoggio alla mozione socialista che la propria corrente avrebbe presentato al voto dell’assemblea dei delegati: «Caro Racugno, se non mi sbaglio, tu a grandi linee non discordi da questa mozione che ti accludo. Se così è fammi sapere qualcosa, ma soprattutto scrivi ai tuoi compagni della Sezione del PSd’A di Ierzu spingendoli all’entusiasmo, perché quel benedetto di “neo-guelfo” di Anselmo Contu si è imborghesito in forma inaudita e sta terrorizzando l’universo presentandomi come una specie di comunista armato fino ai denti. Cordialmente, tuo». Al suo manoscritto allegava, Lussu, il testo stampato della mozione che si concludeva con gli evviva al Partito Sardo d’Azione, all’Autonomia, alla Repubblica, al «Socialismo nel mondo!», recante un centinaia e passa di firme…
Ma il socialismo di Lussu, che prestissimo avrebbe portato quest’ultimo alla scissione e alla fondazione del Partito Sardo d’Azione socialista e, alla fine del 1949, alla confluenza nel Partito Socialista (dove già erano finiti gli azionisti socialisti della scena nazionale) – un Partito Socialista legato da un patto unitario con il PCI obbediente in pieno allo stalinismo moscovita! – era lontanissimo dalle idealità e dai sentimenti di Vincenzo Racugno che non si fece incantare dalla sirena e restò lealmente interno alla militanza sardista.
L’esperienza elettorale si ripeté nel 1958, quando i sardisti optarono per l’alleanza di lista con l’olivettiana Comunità e altre formazioni minori (Avanguardia operaia e Partito dei contadini): le preferenze furono allora 272; così ancora così ancora alle comunali di Cagliari nel 1964 (appena 27 le preferenze, tante quante quelle del prossimo astro nascente Armando Corona, e per… neppure un cenno di campagna, ché l’importante era di eleggere Titino Melis e magari anche Carlo Sanna). Per il resto egli collaborò, compatibilmente con quanto l’Istituto gli consentiva, con questo o quel candidato da lui più stimato, così come cercò di essere presente alla vita del partito accettando la delega ai congressi via via convocati, a partite dal X del 1951…
Fra i protagonisti è, dal 1965 e fino al 1968, delle contese interne al Partito Sardo: lo sviluppo impetuoso della corrente separatista di Antonio Simon Mossa senza palese smentita da parte del direttore regionale Giovanni Battista Melis – peraltro deputato eletto e iscritto al gruppo parlamentare repubblicano presieduto da Ugo La Malfa – aveva radicalizzato le posizioni della vasta area “italianista” comprendente dirigenti del calibro di Pietro Mastino, Peppino Puligheddu, Sebastiano Maccioni, Nino Ruju, Tonino Uras, Armando Corona, Marcello Tuveri, ecc. Racugno con loro. Eccolo così presente sottoscrittore (con Tuveri, Bellisai, Uras, Corona, Casula, Ortu e altri) della minoritaria mozione “Democrazia Sardista” al congresso provinciale di Cagliari del gennaio 1966 (ed è toccante lo scambio epistolare con Ovidio Addis che la maggioranza melisiana avrebbe voluto con sé: «[Pietro Melis] ha messo in dubbio che tu la pensassi come noi e che io e te avessimo avuto alle ore 13,30 circa della domenica uno scambio telefonico nel quale tu accettavi la candidatura nella nostra lista… Malgrado i tradimenti e le defezioni, malgrado la ignobile campagna condotta contro di noi, non possiamo lamentarci: i 1.230 voti da noi ottenuti sono voti di veri democratici…»); eccolo al convegno degli autonomisti (antiseparatisti) del febbraio 1968, a Nuoro; eccolo avversario dichiarato dell’imminente congresso del partito cui nega autorevolezza politica; eccolo infine candidato nella lista repubblicana (1.760 preferenze), stavolta concorrente di quella dei Quattro Mori, alle politiche del 1968. Da qui l’espulsione dal PSd’A con Armando Corona, Sergio Bellisai, Sebastiano Maccioni, Luigino Marcello, Salvador Athos Marletta, Nino Mele, Tonino Uras – gli altri candidati nella lista dell’Edera – e la partecipazione alla costituzione del Movimento Sardista Autonomista. Con questo eccolo in nuove candidature: nel 1969, con i simboli associati dell’Edera e dell’Isola (per il Movimento Sardista Autonomista), alle regionali (1.479 preferenze raccolte nell’intero collegio comprensivo dell’Iglesiente e dell’Oristanese oltre che del Cagliaritano, Sarrabus-Gerrei incluso), e ancora nel 1970 per il rinnovo del Consiglio comunale del capoluogo (finalmente eletto con 851 preferenze personali).
Nel marzo 1971 la formale confluenza nel Partito Repubblicano Italiano (già anticipata, anche con la sua firma oltre che con quella di Armando Corona, Peppino Puligheddu, Nino Ruju e Salvatore Ghirra, nell’ottobre 1970). Membro della direzione regionale paritetica fra le due componenti fondative e ancora disponibile a nuovi cimenti per la raccolta di voti ai turni elettorali via via proposti dal calendario politico ora regionale ora nazionale: per la conta parlamentare del 1972 (2.223 preferenze nella circoscrizione larga dell’intera Isola), per quella regionale del 1974 (966 preferenze nel collegio di Cagliari), ancora per quella amministrativa (cittadina) del 1975 (che gli costerà la mancata conferma nel Consiglio comunale di Cagliari, 493 preferenze).
La signorilità nel prendere atto dell’insuccesso ed il distacco dalla venalità che pur appartiene, per le luci della ribalta, ai vincitori, lo aiutarono allora – come detto – ad indirizzare nuovamente in pienezza le sue energie e il suo tempo alle fatiche dell’Università e, per altro verso, alla nuova esperienza che, nello stesso 1975, a novembre, cominciò in Massoneria. Soltanto accettò l’invito, rivoltogli a fine 1976 dalla direzione regionale repubblicana a segreteria Puddu (ma in passaggio a Salvator Angelo Razzu), di essere cooptato nello stesso organismo con altre importanti personalità del mondo accademico e professionale (Eolo Belardinelli, Francesco Cesare Casula, Raniero Massoli Novelli, Ilio Salvadori, Guido Sforza, Achille Tarquini, Tancredi Pilato, Alberto Mario Saba, Sergio Massenti, Mario Lomonaco, Antonio Maccioni, Aniello Macciotta, GioMaria Casu) nella direzione regionale dell’Edera. Pur restando nell’area della leale militanza repubblicana – anche in tempi di cosiddetta seconda repubblica, e sempre nell’area del centro-sinistra –, non volle più replicarsi nei cimenti né elettorali né congressuali, e se il mazziniano (ancorché lato sensu) dovette farlo, preferì farlo nella sua loggia…
Ma al di là del livello prettamente politico della sua partecipazione alla vita pubblica isolana o cagliaritana, chi volesse un giorno meglio approfondire – e sarebbe lavoro meritorio – la modalità (e i risultati) del suo impegno nella rappresentanza o nelle istituzioni dovrebbe focalizzare i circa milleduecento giorni trascorsi, fra il 1972 ed il 1975, con la responsabilità di assessore all’Igiene e sanità del Comune di Cagliari. Tanto più, allora, chiamato a fronteggiare l’impetuosa epidemia colerica che coinvolse più regioni d’Italia e molti centri dell’Isola.
«Mi misero a disposizione la macchina del Comune ma io mi mossi sempre e solo con la mia 500. E non chiesi mai cento lire per la benzina», confidò al giornalista che, vent’anni dopo, l’interrogava per Cartelle cliniche…
Un massone nuovo s’affaccia a palazzo Chapelle
Come ho accennato, l’esaurirsi del suo protagonismo politico – nella dirigenza e nei concorsi elettorali – si combina temporalmente, in Vincenzo Racugno, con l’inizio della sua esperienza massonica. In essa troverà motivazioni nuove, forse anche più gratificanti, per un impegno regolare e regolato, costruttivo sempre, teso ad armonizzare aspetti diversi della sua personalità, in una stagione di vita che, seppure non ancora di consuntivi, certo induceva a tirar qualche somma…
«Ero assessore comunale. Un Fratello mi sentì parlare e mi disse: “Tu è come se fossi già massone perché parli e agisci come un massone”»: un flash di memoria girato al taccuino di Mario Frongia ambulante fra i clinici di maggior nome della piazza sarda, un flash poi integrato da altre pillole di buon gusto civico ed antitabù o verità rivelate e immodificabili: «Sono diventato massone quando avevo vinto il concorso da dieci anni… Il carrierismo e il tornaconto personale non sono contemplati nello statuto massonico… Abbiamo subito campagne di stampa diffamatorie che ci hanno legato ai delinquenti… Ci sono magistrati corrotti, cassieri infedeli, carabinieri che rubano, operai assenteisti, giornalisti che scrivono bugie: dappertutto esistono mele marce… Se un massone viene ricercato per un qualsiasi reato e chiede protezione, lo ospito e chiamo i carabinieri per farlo arrestare, subito dopo, per permettergli la migliore difesa, sono pronto ad indebitarmi per pagare il collegio legale...». Battute che, nella sostanza, riprendono il profilo di una onesta militanza, nel rispetto di trasparenti idealità e di regole del vivere democratico, così come riferito al cronista Roberto Paracchini in forza a La Nuova Sardegna (cf. “Quando il medico è massone. Sono molti i giovani che chiedono di entrare nelle logge. Poteri occulti, sanità, banche e giornali”, 23 ottobre 1986; “Son massone e me ne vanto. Contrario alla riservatezza. Tra virtù e peccati”, 18 ottobre 1993).
La cerimonia di iniziazione fu presieduta, fra le Colonne della loggia Hiram, dal Ven. Mario Giglio. Ventotto anni dopo, e dopo molte esperienze maturate nella Fratellanza, egli fu nominato dalla Gran Loggia – cioè dall’assemblea congressuale nazionale del Grande Oriente d’Italia –, su proposta del Consiglio dell’Ordine, Gran Maestro onorario unitamente ad altri esponenti di primo piano della Libera Muratoria giustinianea: Ernesto D’Ippolito, Pietro Spavieri e Francesco Spina. Essi si aggiunsero allora agli altri dieci già in carica: Piero Bonati, Orazio Catarsini, Manlio Cecovini, Massimo della Campa, Francesco Landolina, Luigi Manzo, Ivan Mosca, Piero Sinchetto, Enrico Palmi ed Eduard Stolper. L’anno successivo si sarebbe aggiunto un altro sardo: Bruno Fadda.
Di Vincenzo Racugno la Gran Segreteria del GOI diffuse la seguente scheda biografica (cf. Erasmo Notizie n. 11/2003): «Sardo di Jerzu, in provincia di Nuoro, nasce il 4 novembre 1920. Uomo di grande personalità e cultura ha dedicato la sua vita alla ricerca medica che lo annovera tra i principali esponenti in campo radiologico. Per trent’anni ha diretto l’Istituto di Radiologia di Cagliari svolgendo un’attività intensa che gli è valsa nel 1997 la nomina a professore emerito dell’ateneo cagliaritano.
«Anche la passione politica ha caratterizzato la sua vita all’interno prima del Partito Sardo d’Azione e poi del Partito Repubblicano Italiano nella cui compagine ha svolto l’incarico di assessore regionale [recte: comunale] alla sanità.
«Entrato nel Grande Oriente d’Italia nel 1975, il Fratello Racugno è stato accolto nella Loggia Hiram 657 di Cagliari, una delle tre [?] più attive del Campidano, diventandone il Maestro Venerabile, dopo essere stato 1° Sorvegliante. Successivamente ha svolto l’incarico di giudice del tribunale circoscrizionale della Sardegna per un triennio. Ma il suo nome rimarrà indelebile negli annali della Massoneria isolana per un fatto straordinario: una cospicua donazione a favore della circoscrizione sarda che, grazie a lui, ha potuto dotarsi di una delle più belle sedi del Grande Oriente in tutta Italia, il palazzo Sanjust nel prestigioso quartiere di Castello a Cagliari.
«Il Fratello Racugno è inoltre uno dei pochissimi Fratelli sardi che è stato insignito per ben due volte dell’onorificenza Giordano Bruno (classi Afrodite e Athena). Il riconoscimento risale alla seconda metà degli anni ’80.
«Amante della musica mozartiana, è sua l’iniziativa di dare vita nell’Oriente cagliaritano alla Loggia Wolfgang Amadeus Mozart 1147 alla quale tuttora appartiene».
Maestro Venerabile nella stagione Corona
Caput Magister della cagliaritana loggia Hiram Racugno lo divenne nell’anno 1982-83, appena tre mesi dopo l’elezione di Armando Corona alla carica di Gran Maestro.
Al tempo funzionavano a Cagliari sei logge e altrettante operavano fra Carbonia, Oristano, Sassari, Arzachena e Nuoro. Il panorama obbedienziale non contemplava ancora quella gran quantità di denominazioni (concorrenti del GOI) affermatasi negli anni successivi: il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani deteneva cioè l’esclusiva della presenza massonica sul territorio isolano. Detenne il Maglietto di comando del suo ensemble per un triennio, nel Tempio che dal 1977 era stato allogato in un moderno stabile della via Zagabria a Genneruxi, dopo che per tre lustri esso aveva trionfato al piano alto del prestigioso e storico palazzo Chapelle.
Giudice eletto del Collegio circoscrizionale regionale ebbe modo, fortunatamente piuttosto di rado, di doversi occupare di malesseri e… sgrammaticature (peraltro fisiologiche in un contesto associativo che andava per progressive implementazioni), preferendo risolvere in sede di giurì d’onore o di amichevole mediazione le questioni portate all’attenzione del tribunale.
In questi termini affrontò ogni problema anche nel governo ordinario della sua simbolica officina e con la sua presenza accompagnò, in diverse occasioni, le vicende di vita anche di altre logge, partecipando in ulteriore alle cerimonie di accoglienza ed iniziazione di svariate personalità della società civile cagliaritana affascinate dalla utopia massonica (egli la Libera Muratoria la definì così: «E’ un insieme di fondamentali e insostituibili regole morali e comportamentali»), così come a quelle di lutto, di congedo dai Fratelli più amati. Abbracciò, accogliendolo, Gianfranco Contu, salutò, perdendolo, Mario Sebastiani… Replicando, negli anni a seguire, scene liete e scene tristi altre dieci, venti, cinquanta molte…
Fu appunto di quel periodo il “caso De Magistris”, cioè la denuncia fatta dal sindaco di Cagliari circa ipotizzate interferenze di uomini delle logge negli affari comunali: ipotizzate, mai documentate, e invero credibilmente inesistenti.
Al giornalista che lo interrogava – «Perché tanti medici nelle logge? si parla di centri di potere…» - così rispose: «Se fosse così io non dirigerei un reparto disastrato come questo di radiologia. Avrei già ottenuto le attrezzature necessarie e il rinnovo dei locali». E circa il grado di “massonicità” dell’ospedale Businco e la presenza di medici iscritti alla P2: «Si tratta di un ospedale pubblico, le assunzioni sono fatte con le procedure previste dalla legge». Così anche sulle commissioni aggiudicatrici di gare d’appalto per la sanità, compresa quella per l’acquisto della Tac: «Le macchine da me indicate non sono state scelte».
Nell’ottobre 1989 le logge cagliaritane lasciarono la sede di Genneruxi per trasferirsi nel quartiere antico di Castello, andando ad abitare il solenne palazzo Sanjust.
A palazzo Sanjust
La notizia di una generosa offerta da parte di Vincenzo Racugno correva da mesi fra la militanza massonica cagliaritana. Finalmente il nome del mecenate emerse e fu reso di dominio pubblico, anche fuori dai ranghi della Fratellanza. Raggiunse la stampa, divenne motivo di commento tanto negli ambienti politici quanto in quelli meno impegnati della opinione cittadina. Lo stabile non era in buone condizioni: si trattava di bonificarlo e anche di operare vari interventi interni per adattare gli spazi alle necessità. Si doveva andare per stati di avanzamento e consentire una prima e parziale fruizione, al piano terra, soltanto dopo la conclusione di alcuni lavori d’urgenza.
Dopo le sedi volanti degli anni ’40, quelle del corso Vittorio Emanuele e poi di via Portoscalas nel decennio successivo, dopo palazzo Chapelle (dal 1960) e via Zagabria (per un dodicennio) ecco la… terra promessa, anche se, in un primo momento, nella più dimessa geometria di un “alloggiamento” in capo a due Templi di diverse dimensioni e ad alcune stanze fungenti insieme da Passi Perduti e Segreteria comune. Davvero un “alloggiamento” precario, per la buona pazienza di tutti, per la fruizione delle logge cosiddette simboliche o azzurre e delle Camere capitolari, sia scozzesi che criptiche, ma ormai anche del Rito di Memphis e Misraim, cioè dei Riti (da intendersi come “scuole di specializzazione” per i Maestri delle logge interessati ad approfondire filoni iniziatici particolari).
Nel 1989 le logge cagliaritane erano ormai dieci, quasi undici (e presto sarebbero state dodici-tredici). Dieci logge: alle sei storiche degli anni ’70 se ne erano aggiunte tre nel corso del 1986 – la Francesco Ciusa n. 1054, la Giorgio Asproni n. 1055, la Lando Conti n. 1056– ed una nel 1988 – la Hur n. 1068. Alle viste (inizio 1990) era la De Molay n. 1094, di poco spostata nel tempo (primavera 1991) era la Enrico Fermi n. 1105, e dei… rumors allungavano già la prospettiva (al 1992) verso la Concordia n. 1124 e (al 1993) verso la Vittoria n. 1134… Una loggia nuova all’anno, a Cagliari, benché si trattasse più di un esito di differenziazioni o di articolazioni che non di infoltimento complessivo delle Colonne. Comunque un bell’andare, in parallelo ad un inizio di sviluppo anche altrove: in Gallura, a Sassari, ad Alghero…
Ci volle un anno intero per le prime sistemazioni. L’atto di acquisto fu soscritto il 5 ottobre 1988: erano stati ben diciassette, fra intervenuti di persona o con delega, i comproprietari dello storico edificio in riconversione chiamati a firmare presso lo studio del notaio Fernanda Locci: discendenti di quel ceppo di cavalieri antiqui ed onorati che furono i Sanjust di Teulada protagonisti (con i cugini degli altri rami: i Rapoll, i Neoneli, ecc.) di un antimassonismo sanguigno e mai placato. Per l’URBS – la società immobiliare del Grande Oriente d’Italia – intervenne un commercialista di piena fiducia incaricato anche della alienazione del cespite di via Zagabria, il cui ricavato doveva andare in sostanzioso accantonamento per i prossimi lavori di riattamento dello stabile di Castello. Per tale onerosissima ristrutturazione, peraltro, il Fratello Racugno si era detto pronto a formalizzare (e formalizzò poi) anche una seconda e non meno generosa donazione: un’area fabbricabile in zona di Su Planu, così raddoppiando, a conti fatti, la propria offerta liberale alla Fratellanza cagliaritana e circoscrizionale. L’impresa edile incaricata dei lavori di ristrutturazione dell’edificio di piazza Indipendenza sarebbe stata compensata in natura, appunto con il compendio selargino.
Vendetta della storia, a guardare alla vicenda in chiave ideologica o delle memorie dottrinarie. Onestà vuole si dica, però, che mai i massoni degli anni ’80 e ’90 del Novecento (e forse a maggior ragione quelli del Duemila) si sarebbero fatti vanto – né se ne sono fatti per il concreto – della rivincita della Libera Muratoria sugli schematismi dogmatici di quel tardo guelfismo ostinatosi a combattere, anche a Cagliari, liberalismo e democrazia e, in quel seno ideale, la Massoneria patriottica e civile, in cui ravvisava cedimenti o sviamenti valoriali e morali…
Costruito nella seconda metà dell’Ottocento sulle fondamenta di una semidemolita caserma dei regi carabinieri, proprio in quel sito castellano s’alzava, nel XVIII secolo, una delle primissime sedi dell’Università degli studi di Cagliari. Ad applicarsi al suo rifacimento era stato l’ing. Edmondo Sanjust, futuro alto dirigente del Genio Civile (e fra gli autori del piano regolatore generale di Roma al tempo della sindacatura Nathan), parlamentare dal 1909 e poi anche sottosegretario. Il palazzo divenne così residenza domestica e studio professionale del cugino avv. Enrico Sanjust di Teulada (sposato dal 1875 con una Amat di San Filippo), autorevole leader del clericalismo cittadino e diocesano, e dunque anche autore delle punture antimassoniche, nel passaggio di secolo.
Appassionato di musica e di teatro, l’avvocato realizzò – entro le corpose mura dell’edificio – anche una sala di rappresentazioni, con palcoscenico e una cinquantina di posti a sedere. Qui organizzava, con qualche frequenza secondo il calendario cittadino del tempo, le feste sociali della buona nobiltà cittadina.
Una trentina le luci, su diversi ordini, affacciavano ed affacciano ancora sulla piazza Indipendenza e sulle fiancate che corrono lungo le parallele vie Canelles e Lamarmora. Eleganza e gusto e, però, anche sobrietà neoclassica. Nel contesto, degno di speciale ammirazione era, all’interno, il grande scalone in marmo che dall’ingresso principale portava al piano superiore.
Se la storia civica ed architettonica della città non avrebbe potuto evidentemente smettere di chiamare il palazzo con il nome della famiglia che l’aveva commissionato e abitato per oltre un secolo, la denominazione era invece, per contratto, impedita alla Massoneria. Realisticamente, per qualche decennio ancora – lo spazio di una o due generazioni – avrebbero convissuto le due denominazioni: casa massonica di piazza Indipendenza 1 per gli appartenenti e nella carta ufficiale, palazzo Sanjust per tutti gli altri.
Due documenti a firma del Gran Maestro Corona e del presidente del Consiglio d’Amministrazione della URBS spa (poi srl) Francesco Bellandi sancirono, per l’oggi e il domani, l’“effettiva” proprietà (o chiamalo l’uso inderogabile) dell’immobile in capo alla Fratellanza massonica cagliaritana. Si trattò di due lettere indirizzate entrambe al Consiglio dei Maestri Venerabili di Cagliari.
Questa la prima, datata da Roma il 12 dicembre 1988:
«Il Grande Oriente d’Italia in persona del Gran Maestro Armando Corona, nella sua qualità di Azionista della Soc. URBS spa, e la Società URBS spa con sede in Roma, via Giustiniani n. 5, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione Sig. Francesco Bellandi, / premesso /
«che l’URBS spa è intestataria dell’immobile sito in Cagliari, con fronte alla piazza Indipendenza in angolo con via Canelles confinante con proprietà Eredi Felice Boi o loro aventi causa e con la via Lamarmora; per averlo acquistato con atto rogito notaio Dott. Fernanda Locci, del 5 ottobre 1988, rep. n 825630, vol. 16141, registrato e trascritto a Cagliari, / dichiara /
«che l’immobile stesso verrà destinato a Casa Massonica della Città di Cagliari, con vincolo a tempo indeterminato, facoltizzando, previa richiesta delle necessarie autorizzazioni, i componenti della Commissione, dalla stessa società nominata, ad eseguire tutte le opere di ristrutturazione, ammodernamenti e modifiche per assicurarne la piena funzionalità.
«E’ data altresì facoltà di utilizzare sul piano commerciale, se consentito, quelle parti dell’edificio che venissero considerate non necessarie e/o indispensabili all’attività massonica».
E questa la seconda, datata ancora da Roma il 17 giugno 1989:
«Il Grande Oriente d’Italia in persona del Gran Maestro Armando Corona, nella sua qualità di Socio della Società URBS srl e la Società URBS srl, con sede in Roma, via Giustiniani n. 5, in persona del Legale Rappresentante pro tempore, ai fini del presente atto regolamentare autorizzato dal Consiglio di Amministrazione, dichiara di voler figurare quale acquirente del bene immobile sottodescritto nell’interesse esclusivo delle Logge Massoniche della Città di Cagliari, in quanto queste ultime prive di personalità giuridica.
«Detto acquisto va inteso, secondo specifico accordo, a titolo meramente fiduciario con l’obbligo di metterlo a disposizione delle stesse Logge per l’utilizzazione che le stesse, attraverso il Presidente del Consiglio dei Maestri Venerabili dell’Oriente di Cagliari ed i componenti della Commissione da questa Società nominati, riterranno più opportuna.
«Si impegna conseguentemente di eseguire tutte le disposizioni, istruzioni e indicazioni che proverranno per iscritto dalle suindicate persone in rappresentanza delle Logge Massoniche della Città di Cagliari, in ordine sia alla gestione, sia a qualunque altro adempimento che si manifestasse necessario, ivi compresa la alienazione, a qualsiasi titolo, ad altre persone fisiche o giuridiche che saranno indicate: il tutto ovviamente con ogni spesa ed onere economico e fiscale a carico delle Logge Massoniche di Cagliari.
«L’immobile oggetto della presenta dichiarazione è costituito da: area di circa 5.000 mq. in Comune di Selargius loc. Su Planu».
Come detto, la prima plenaria delle logge attive nell’Oriente (ma con rappresentanze anche delle altre) venne convocata per la sera di lunedì 9 ottobre 1989. Forse erano duecento i presenti, accalcati nel Tempio del piano terra e nelle sale più prossime (con accesso esclusivo, per qualche tempo, dalla via Canelles). A presiedere i lavori fu ovviamente il Ven.mo Armando Corona.
Rivolto alla Stella Fiammeggiante, sopra il tronetto del Maestro Venerabile, così invocò il Gran Maestro: «Luce misteriosa e divina, fuoco sacro, anima dell’Universo, principio eterno del mondo e degli esseri, simbolo del Grande Architetto dell’Universo, rischiara il nostro spirito, illumina i nostri lavori, fortifica i nostri animi ed infondi in noi il fuoco vivificante della Massoneria!...».
Accendendo il primo dei tre candelabri (a tre fiaccole) soggiunse: «Che queste fiamme misteriose possano illuminare con la loro luce i profani che avranno accesso in questo Tempio e facciano loro apprezzare la grandezza e la santità dei nostri lavori».
Adempiono in successione il 1° e 2° Sorvegliante ripetendo le formule del rituale altre volte pronunciate per la consacrazione dei Templi cagliaritani: «Che il fuoco sacro riscaldi e purifichi le nostre anime; che la luce ci illumini e ci guidi e che i lavori che si svolgeranno in questo Tempio siano accetti al GADU». «Che questa luce diriga noi sulla condotta dei nostri lavori; che essa ci infiammi del vero amore al lavoro che il GADU ci impone, dandoci, Egli stesso, esempio di lavoro senza interruzione e senza riposo».
Calendario di partecipazioni e riconoscimenti
Non sarebbe possibile, evidentemente, compilare una specie di agenda, tempo per tempo, delle attività liberomuratorie di Vincenzo Racugno nell’ambito discreto della sua loggia o in quello più articolato della circoscrizione giustinianea sarda.
Basti qui ricordare – partendo dalla tormentata fase dell’abbandono del GOI da parte del Gran Maestro Di Bernardo, nella primavera 1993 e, in autunno, della pubblicazione, da parte dei giornali regionali, dei piedilista delle logge isolane – una intervista (più sopra richiamata) concessa a La Nuova Sardegna del 18 ottobre all’insegna del «Son massone e me ne vanto». Si tratta, obiettivamente, di una modesta esternazione in linea con la modestia delle domande-cliché.
Interrogato circa imbarazzi e difficoltà a dar conferme, da parte di molti Fratelli i cui nomi sono apparsi nelle liste, dichiarò: «Anche tra i massoni vi sono persone molto diverse tra loro. Io ad esempio appartengo a quella categoria che se dice “io sono massone” non corre nessun rischio, nel senso che sono al massimo della carriera. Altri, invece, hanno timore dei pregiudizi della gente… Oggi la massoneria è vittima di una campagna di stampa negativa».
E circa le indagini giudiziarie promosse dal procuratore Cordova, o l’ambizione venale che spingerebbe alcuni a chiedere l’ammissione alla loggia: «Indagini: si dimentica sempre di dire che si tratta di logge deviate, non di massoni: di delinquenti che non hanno niente a che spartire con noi. Ambizioni: non nego che qualcuno si sia iscritto alla massoneria cercando il proprio tornaconto personale ma poi, vedendo che non ne ricavava niente, queste persone se ne vanno».
Logge coperte: «Posso escluderlo categoricamente, le logge sono solo quelle che avete pubblicato voi».
Sui nomi da tirare a indovinare come in un banalissimo gioco di società, questo, quello e quell’altro non comparso negli elenchi? «Posso affermare che si può essere anche iscritti in un’altra città. Facciamo l’esempio del capitano dei carabinieri o del funzionario di banca che viene trasferito da una parte all’altra: può frequentare qui ma essere iscritto da un’altra parte. In massoneria nessuno è obbligato a frequentare la propria loggia…».
Dunque, la veridicità delle liste? «Senz’altro per almeno il settanta per cento…».
Perché tanti medici? «Non saprei… Sì, sono molti, ma vi sono anche molti ingegneri, avvocati, liberi professionisti in genere».
Ma è giusto insistere sulla riservatezza? «A titolo personale dico di no. Ma vi sono persone che per esigenze di lavoro o familiari preferiscono mantenere nascosta la loro frequenza delle logge».
Il travaglio fu comunque duraturo. Per alcuni mesi, giusto a cavallo fra 1994 e 1995, vennero affidate a Vincenzo Racugno le funzioni di vice presidente del Collegio circoscrizionale.
Buona parte del 1997 fu impegnata a dar concretezza ad una gemmazione della loggia Hiram, e l’operazione si compì proprio attorno alla figura magistrale di Vincenzo Racugno, dal quale anche era partita la proposta della intitolazione della nuova formazione: Wolfgang A. Mozart.
La Bolla di fondazione, a firma del Gran Maestro Gaito, porta la data 4 settembre dello stesso 1997 e l’attribuzione del numero d’ordine 1147. L’installazione delle cariche avvenne venerdì 6 febbraio 1998. L’organico era di 17 Maestri ed un Compagno d’arte. Parteciparono anche due Fratelli non di provenienza Hiram ma uno dalla loggia Risorgimento, un altro dalla loggia Sardegna. Nell’ensemble sembrarono in giusto mix gli anziani ed esperti – tre erano stati già Maestri Venerabili (con Racugno anche Walter Angioi e Giuseppe Marrone) – ed i giovani Maestri. L’uomo-macchina, il Segretario-organizzatore cioè, era Vincenzo Tuveri, singolare operatore del commercio da sempre appassionato alla ricerca esoterica ed a quella storica, e fecondo collegamento con la Quatuor Coronati perugina da cui ogni anno venivano pubblicati lavori di pregio.
Primo Caput magister fu eletto Adriano Sanna, personalità di grande autorevolezza ed esperienza affiancato, come 1° Sorvegliante, da Eugenio Lazzari che successivamente ne avrebbe rilevato il Maglietto.
Alla cerimonia di installazione, presieduta da Michelangelo Avignoni – presidente pro tempore del Collegio circoscrizionale – parteciparono rappresentanze di numerose logge: di Cagliari ovviamente ma anche di Carbonia ed Alghero, di Oristano e Sassari, nonché di Roma, Pino Torinese, Milano, Bari, Genova. Fra le originalità della nuova officina merita infatti segnalare il suo inserimento in un circuito nazionale (e in prospettiva internazionale) di logge dantesi il titolo mozartiano: con esse ogni anno, e secondo una logica di rotazione delle sedi d’incontro, la formazione cagliaritana avrebbe allestito lavori comuni.
Nella sala dei labari
Ancora non si erano conclusi i lavori di ristrutturazione e adattamento di palazzo Sanjust alle necessità delle logge cagliaritane che a fine decennio – l’ultimo del Novecento – assommavano ormai a 13 e raccoglievano qualcosa come 350 Fratelli, numerosi dei quali erano anche impegnati nelle parallele attività dei corpi rituali. Ancora dell’intero palazzo si stava sfruttando soltanto il piano terra nel quale era stato comunque allestito una bellissima e capiente sala detta “dei Labari” e intitolata giustamente a Vincenzo Racugno (!), prossima all’ingresso della via Canelles. E fu proprio qui che sabato 13 maggio 2000 si svolse, ad iniziativa del Collegio, il convegno “La tolleranza e la solidarietà nella società multietnica e multiconfessionale”. Relatore principale Paolo Bullita, direttore del Centro servizi informatici amministrativi della Università di Cagliari; comunicazioni recarono Patrizia Tuveri, Anna Carta Ferrari, Antonello Maccioni e Antonio Tedesco. Coordinò Pierluigi Serra. Parteciparono i Gran Maestri aggiunti Mario Misul e Massimo Bianchi, nonché il Gran Tesoriere Fernando Ferrari. Presenti anche l’ex Gran Maestro Armando Corona e l’assessore alla Cultura del Comune di Cagliari Gianni Filippini, che portò il saluto dell’Amministrazione.
Le crescenti difficoltà di deambulazione costringevano ormai l’anziano professore a una vita per il più ritirata. Sicché fu nella sua abitazione che il Venerabile della Wolfgang A. Mozart, accompagnato da altri dignitari, lo raggiunse il 19 luglio 2002 per donargli i paramenti del 33° grado della Piramide scozzese conferitogli dai vertici del Rito nella persona del Pot.mo Corrado Balacco Gabrielli (docente di oftalmologia all’università di Bari egli lascerà, alla sua morte sopraggiunta nel 2017, ben 700mila euro all’Amministrazione civica per sovvenire l’infanzia in difficoltà e per il restauro dei beni culturali ed artistici pugliesi; importanti beneficiarie del Sovrano scozzese saranno anche le suore di Madre Teresa di Calcutta per le loro attività assistenziali, e con loro godranno di tanta munificenza altresì l’Unesco, la Società nazionale di oftalmologia, l’Università).
L’atto sarebbe stato affisso nella sala dei Passi Perduti di palazzo Sanjust: «Il Maestro Venerabile, i Dignitari, gli Ufficiali ed i Fratelli tutti di Loggia si stringono in un unico fraterno, affettuoso abbraccio a Vincenzo Racugno / Per felicitarsi con lui per il conferimento del 33° grado del RSAA».
Evidente la ragione di tanto solenne riconoscimento: la generosa donazione della sede alle logge cagliaritane, agli uffici collegiali ed ai diversi Riti. Fra essi soprattutto quello scozzese – il corpo rituale più numeroso nell’Oriente-Zenit cagliaritano – aveva avuto e ancor più avrebbe avuto vantaggio dalla buona azione: la capienza della casa massonica, con quella moltiplicazione dei Templi che era stata disegnata e cui si stava lavorando, avrebbe favorito la sempre migliore accoglienza delle loro fatiche fra Camere cosiddette di perfezionamento, Capitoli, Areopaghi e Tribunali.
Una bella notizia in un anno particolarmente triste, il 2002 che vide involarsi alcuni dei dignitari più dinamici fra Cagliari e Sassari, da Gianfranco Cusino a Franco Tammaro, e fra breve, ancora nel capoluogo, avrebbe visto cadere Gianfranco Porcu ed Emanuele Zirone.
A.D. 2003
L’agenda del 2003, per quel tanto che è stato possibile recuperare, appare discretamente piena… Sembra illuminare il nuovo anno la notizia dalla programmazione, a Cagliari, dell’opera mozartiana Il Flauto magico! Fu lo stesso Racugno a diffondere l’anticipazione. Occorreva prepararsi. Sarebbe stato il 30 maggio al Teatro Lirico con la regia di Stephen Medcalf. L’evento avrebbe potuto essere in sé un atto di virtuosa propaganda delle idealità liberomuratorie in una città (quella colta amante la musica e il teatro) ancora troppo ostile o diffidente. La loggia, le logge erano già tutte invitate…
Alla Gran Loggia di marzo la nomina a Gran Maestro onorario con quanto l’accompagnò. E l’8 novembre la partecipazione - una di quelle fattesi ormai sempre più rare – ad una tornata rituale: per impreziosire con la sua parola la felice la plenaria promossa dalla loggia Sardegna per la consegna dell’onorificenza della Giordano Bruno a due Fratelli particolarmente meritevoli in campo umanitario. Uno dei quali in organico alla Wolfgang A. Mozart. A nome del Gran Maestro Gustavo Raffi fu proprio Racugno ad insignire del collare onorifico i due prescelti.
Ma poi sarebbe stato lui, poche settimane dopo – il 26 dello stesso novembre – a ricevere le formali insegne di Gran Maestro onorario. Duecento forse i presenti assemblati in più sale, presenti i maggiori dignitari sardi e i Venerabili in carica.
A presiedere i lavori fu il nuovo M.V. Vincenzo Tuveri, mentre toccò al Fratello Andrea Allieri – prossimo ad assumere la carica di presidente circoscrizionale – tracciare un profilo umano e massonico di Vincenzo Racugno, rilevando come egli, pervenuto alla iniziazione in età già matura (55enne), quando ogni obiettivo profano (sociale e professionale) era stato già raggiunto, fosse stato «sempre spinto a ritrovare il senso della vita nel fare – e fare bene, persuadendo gli uomini a coltivare la ragione, dopo aver imparato a coltivarla nel suo intimo; la vita – ecco le parole di Allieri – è un’opportunità da cogliere sempre e comunque, la chance per aiutare il prossimo. Questo è ciò che ha animato fino ad oggi la sua incessante attività come uomo, medico, politico e naturalmente massone».
L’Unione Sarda dette risalto quasi immediato alla notizia con un articolo di Giovanni Puggioni, accompagnato da una grande foto del professore, con il suo classico farfallino, in posa. Titolo “Dalla loggia del Castello al Grand’Oriente d’Italia” con sommario “Nominato Gran maestro onorario a Palazzo Giustiniani. La Casa di piazza Indipendenza diventerà una biblioteca”.
«Per i fratelli massoni cagliaritani è un grande avvenimento…», scrive Puggioni in un pezzo generoso, sul filo della nota-stampa del GOI, e però, al solito, con non poche imprecisioni e riprese caricate e inverosimili di dichiarazioni attribuite: «Solo adesso, con il titolo dei Gran Maestro onorario in tasca, Vincenzo Racugno rompe il silenzio sulla Casa massonica di piazza Indipendenza: “Se oggi accoglie la loggia più importante e frequentata della città – dice con soddisfazione – è opera mia”. Nel senso che almeno l’80 per cento dei soldi serviti all’acquisto sono usciti dalle sue tasche.
«Ed a questo punto il radiologo massone in pensione rivela anche i programmi dei massoni per il futuro. “La loggia – dice – è già cambiata rispetto a qualche anno fa. Le porte sono aperte a tutti, soprattutto per attività culturali come nei giorni della manifestazione Monumenti aperti: forse è la più visitata”.
«In programma però c’è di più: “Intanto il completamento del programma avviato – puntualizza Racugno – ma soprattutto la creazione della biblioteca storica della loggia e della massoneria in Sardegna”.
«Dopo la rivoluzione del gran maestro Armandino Corona in campo nazionale e quella seguita nelle 14 logge cagliaritane con circa 5mila (sic!) iscritti, nel nuovo corso c’è spazio solo per la conoscenza sempre più profonda del mondo massonico, dei suoi riti e delle sue convinzioni religiose e sociali».
Gli ultimi impegni
2005. In vista del solstizio d’estate la Wolfgang A. Mozart si fece promotrice della posa, nella sala dei Passi Perduti, di una stele commissionata per onorare il benemerito Gran Maestro onorario. Questa la dedica che accompagnava l’opera: «Nella quotidianità e lungo la via iniziatica / ha incessantemente operato per il bene / della Massoneria e delle Logge della Sardegna. / Grazie alla sua generosa donazione / del prestigioso palazzo Sanjust / ne è stata resa possibile l’acquisizione affinché / nella sua rinnovata veste / ospiti gli architettonici lavori / dei Liberi Muratori / dell’Oriente di Cagliari».
Il 29 giugno fu forse l’ultima partecipazione personale alle attività massoniche. Si procedeva all’insediamento del nuovo Maestro Venerabile della loggia Wolfgang A. Mozart nella persona di Eugenio Lazzari – altro fertilissimo ottuagenario! – dopo che l’eletto alcuni mesi prima aveva dovuto rinunciare perché chiamato alle funzioni di giudice della Corte Centrale (quella stessa che negli anni ’70/80 ebbe per primo presidente Armando Corona e nel cui ambito il tribunale presieduto dal sardo Paolo Carleo espulse Licio Gelli nel 1981).
La presenza di Racugno era da leggersi come un omaggio speciale e personale al nuovo eletto, suo collega nella docenza universitaria (ad Ingegneria però, non a Medicina) al quale era legato da lunghissima e fraternissima amicizia. Tanta festa per l’eletto, non meno per il Gran Maestro onorario.
Il 4 giugno 2007 la loggia Hiram n. 657 celebrò i suoi primi quarant’anni di vita. Era stata, la Hiram, una delle più dinamiche dell’intera circoscrizione sarda e al suo vertice si erano susseguiti negli anni alcune delle personalità più in vista della Libera Muratoria isolana, da Mario Giglio a Sabino Jusco, ad Armando Corona, a Bruno Arba, ecc.
Presenti numerosi ospiti, fra cui i due Gran Maestri onorari Bruno Fadda (nominato nel 2004) e Luigi Sessa (invitato a tenere una conversazione sul simbolismo massonico nel suo sviluppo dal XIV secolo fino al passaggio alla dimensione più strettamente speculativa), la tornata fortemente voluta dal subentrato Caput magister Francesco Puxeddu per l’ascolto di testimonianze e lo scambio di doni, si concluse con la trasmissione dei saluti inviati dal Gran Maestro onorario Racugno, visitato nel pomeriggio presso la sua abitazione. In anni ormai lontani anch’egli ebbe, infatti, l’onere faticoso del Maglietto… A lui il dono di una scultura argentea, riproduzione del gioiello di loggia entro una artistica cornice di legno.
Una nuova visita ricevette il Pot.mo Fratello – così nei titoli scozzesi – in prossimità del Natale 2008. Compatibilmente con le sue condizioni di salute (in specie per l’intervenuta mutilazione chirurgica del piede) i Fratelli della Wolfgang A. Mozart sarebbero andati ancora, in delegazione, negli anni successivi: porgendo i loro auguri (e da lui ricevendoli) essi avrebbero continuato a tenerlo informato sull’andamento delle attività fraternali.
La sua morte – il suo passaggio all’Oriente Eterno – lo scorso anno, il 27 dicembre, nel calendario cristiano e civile giorno dedicato a San Giovanni Evangelista, l’apostolo della Luce, santo patrono – insieme con il Battista – della Libera Muratoria universale. La camera ardente a palazzo Sanjust, la salma onorata da centinaia di persone, da amici ierzesi e cagliaritani, da vecchi colleghi, medici giovani e anziani, dai reduci sardisti e repubblicani, dalle rappresentanze delle logge giustinianee e non soltanto di queste.
Di recente, purtroppo, la nobile generosità mostrata da Vincenzo Racugno verso la Fratellanza massonica cagliaritana è stata mortificata, anzi drammaticamente e reiteratamente umiliata – con le pagliacciate imposte al busto storico nientemeno che di Giovanni Bovio – figura magna celebrata in special modo proprio dal Ven. Biggio della loggia Wolfgang A. Mozart –, l’irrisione web della stessa ritualità liberomuratoria, il greve linguaggio nazi-fascista e volgarmente sessista a commento di scempi fotomontaggi – da un folleggiante cosiddetto Venerabile di una loggia screditata oltre ogni dire nella sua dirigenza e però, come tale! accettata e protetta dalla presidenza circoscrizionale, dal corpo ispettivo e giudiziario nella sua totalità, dalla platea militante che pur avrebbe dovuto testimoniare, a testa alta e in coerenza con i vincoli morali contratti con la iniziazione, i valori umanistici che di Vincenzo Racugno mossero l’intera vita. Segni dei tempi, tempi di Barabba e Ponzio Pilato redivivi, fra troppi plaudenti senza dignità e qualche atterrito nicodemico.
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