Con Gigi Dessì a L’Unione Sarda, nei primissimi anni ‘70
di Gianfranco Murtas
Mi vien da pensare spesso ai molti, troppi anzi, familiari ed amici, che lungo il tempo la sorte ha allontanato dalla mia vita, strappandoli dagli originali e irripetibili loro percorsi morali e sentimentali, dagli affetti più radicati e dalla missione sociale da ciascuno scelta per sé.
Nei miei rimpianti ha un posto singolare, in un mix di affezione e permanente ammirazione, Luigi (Gigi) Dessì che incontrai negli anni che ancora affondavano nella nostra adolescenza (o subito la seguivano), a Cagliari. In quegli anni di passaggio fra anni ’60 e anni ’70, che per noi – per noi figli di quella generazione con i piedi piantati nella società ancora sobria, direi povera, del dopoguerra – a Cagliari come ovunque in Italia erano segnati da un impegno politico e, per molti, anche partitico, nell’ampio arco suggerito dalle ideologie radicate nel sentire, non soltanto nel ragionare.
Lui liberale, io repubblicano, figli entrambi di culture politiche di minoranza ma orgogliose della propria storia: quella profetica del risorgimento nazionale. Negli anni nostri fra la maturità e l’inizio dei corsi universitari, fra giurisprudenza e scienze politiche o magari economia o lettere, fummo coinvolti da L’Unione Sarda nella redazione straordinaria che quindicinalmente ci consentiva di esitare una pagina “dei giovani”(testatina “Il mondo dei giovani”). La curava, quella pagina, Gian Tarquinio Sini, al tempo in forza alla cronaca cittadina (sarebbe stato successivamente capocronista e anche vicedirettore), e dei dieci più assidui, fra i trenta impegnati a dar contributi, eccelleva – anche per ragioni di età, come un fratello maggiore – Lucio Lecis che si era portato dietro diversi dei suoi sodali della GLI, la Gioventù Liberale Italiana. Gigi Dessì nel novero.
Gigi dunque lo incontrai a L’Unione Sarda e nelle occasioni di scambio fra i movimenti giovanili dei partiti, a casa liberale o a casa repubblicana, o nelle altre case politiche: nelle sedi – lui in via Roma, io in via Sonnino – che noi giovani allora sapevamo vivacizzare, togliendole dall’atmosfera seriosa in cui gli anziani, militanti o dirigenti, rischiavano involontariamente di imprigionarle, e magari associandole a quei salutari momenti d’illuminazione in cui un tale segretario o un tale competente sapeva riversava intelligenza, analisi e giuste sintesi, proposte e progetti d’interesse generale. Con immediato godimento nostro, con stimoli formidabili donati alla nostra maturazione personale, culturale e politica.
Da Gigi e con Gigi, e con lui da Francesco Putzolu, da Lucio ed Enrico Lecis, da Manfredo Atzeni, da Antonello Mascia e da quant’altri erano mille volte migliori di me mi sentivo – io pur radicato nel mio lamalfismo azionista (e quando anche Giovanni Spadolini, maestro ideale e teorico del “Tevere più largo”, iniziava la sua esperienza parlamentare) – come spinto a coltivare il rapporto con gli altri miei coetanei cresciuti nei campi del progressismo di traccia socialista come e, appunto e soprattutto, in quello della prossimità liberale. Non senza punture polemiche – ché io ero convinto della bontà del centro-sinistra, dell’alleanza centrista allargata ai socialisti, della concertazione programmatoria con i sindacati, mentre i liberali, anche i liberali gobettiani quali si qualificavano i militanti della GLI, erano ancora immobili nel loro no sempre ribadito, oltre che da Malagodi, da Ciccio Cocco Ortu (scomparso nel 1969) –, ma anche con una spontanea e reciproca umana simpatia.
Quante e quali le suggestioni che venivano a noi ventenni, e anche meno che ventenni, dallo scenario nazionale e internazionale allora! Erano ancora gli anni della guerra nel Vietnam che mille rimbalzi nelle emozioni e nelle proteste giovanili produceva in Europa oltre che in America dopo le grandi stagioni del pacifismo nei campus universitari fra le canzoni di Joan Baez e Bob Dylan, dopo la contestazione parigina sul nostro continente… Così dopo – da noi – l’“autunno caldo”, i tentativi più o meno riusciti di riforma sociale – dalla sanità pubblica al sistema pensionistico, dalla scuola (esami di maturità) all’università (liberi accessi) – e la nuova legislazione divorzista e quella istitutiva delle regioni…, così dopo le ampie insoddisfazioni riformatrici dei primi ministeri morotei, peraltro senza che mai le opposizioni sapessero proporre alternative di formula, o ricambi se non nelle politiche (della spesa) più spesso demagogiche.
Ma non intendo qui allargare troppo la riflessione o le rievocazioni di complessità bisognose di approcci documentati e riposati, cinquant’anni dopo, circa quella fase della vita del mondo e dell’Italia, della Sardegna e della generazione giunta alla primissima maturità considerando le grandi novità che erano entrate, o allora entravano nelle cronache e nei giudizi dei giornali: dalla decolonizzazione mai interamente compiuta ai rischi permanenti di conflagrazione nucleare, dalle armate diffidenze della guerra fredda (ecco ancora nel 1968 Praga) alle lente progressioni della Comunità Economica Europea, all’evento conciliare dagli strascichi contraddittori nelle assegnazioni di valenza alla modernità secolarizzata, da noi – nel chiuso regionale sardo – dai piani attuativi della Rinascita alle repressioni manu militari dei fenomeni banditeschi, o allo sviluppo parallelo della industria sporca (quella petrolchimica delle illusorie verticalizzazioni) e del turismo costiero…
Nei nostri anni di formazione davamo quel che potevamo. L’Unione Sarda (allora a direzione Crivelli, anche se forse fu proprio Crivelli a decidere, dopo un anno e più di sperimentazione, di smettere – ci fu detto per pressioni dei comandi militari offesi da alcuni articoli libertari…) ci offerse allora, dall’8 aprile 1971 al 13 luglio 1972, trentadue sue pagine bianche da riempire. Le riempimmo. Gigi Dessì contribuì con la qualità elaborativa che gli era propria. E i testi che seguono documentano il suo pensiero, la sua maturazione, le sue analisi critiche, le sue aspettative.
8 aprile 1971 (Luigi Dessì)
La legge per il servizio civile sostitutivo
Processo alla coscienza imposto agli obiettori
Pare che anche in Italia i tempi siano maturi perché si arrivi al riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. Lo spunto per questa considerazione ci viene fornito dalla notizia che alla commissione difesa del Senato si è conclusa la discussione preliminare sul provvedimento legislativo che dovrà ora passare all’esame dei due rami del Parlamento.
Al di là delle dimensioni numeriche del fenomeno, l’obiezione di coscienza rappresenta indubbiamente un argomento scottante che, investendo molti tabù della vita pubblica italiana, pone il problema di una seria conciliazione tra libertà individuale e vincoli collettivi.
Il fenomeno dell’obiezione nacque in Inghilterra, quando la libera comunità inglese riconobbe ai Quaqueri la facoltà di esimersi dal prestar il servizio militare, nello stesso modo in cui aveva accettato che l’eresia non fosse motivo per venire cacciati o puniti dalla collettività. Oggi, oltre che in Inghilterra, il problema dell’obiezione ha trovato una qualche forma di soluzione in quasi tutti i Paesi democratici, mentre non è privo di significato il fatto che venga negato specialmente negli Stati totalitari.
Attualmente in Italia l’obiezione di coscienza è giuridicamente assimilata al rifiuto da parte del militare svogliato di compiere una qualunque mansione gli sia affidata, e questo fatto non può che costituire un parallelo umiliante per l’obiettore. Mentre, poi, il normale soldato disobbediente viene punito una sola volta per il suo comportamento, l’obiettore sconta numerose condanne per lo stesso motivo sino ad assommare un numero sproporzionato e paradossale di anni.
La prima proposta di legge in materia, per quanto riguarda il nostro Paese, risale al 1949 e porta la firma dell’on. Calosso; nelle successive legislature diverse parti politiche presentarono altre proposte di legge le quali, pur prospettando differenti soluzioni, partivano tutte dal presupposto della necessità di riconoscere l’obiezione di coscienza. Nessuna di queste proposte è riuscita a compiere grossi passi avanti. Nel frattempo è andato aumentando il numero dei processi per l’obiezione, l’opinione pubblica s’è maggiormente sensibilizzata nei riguardi del problema ed oggi ci si avvia finalmente a colmare questa carenza legislativa ricercando un equilibrio fra i tre obbiettivi interessati della sicurezza dello Stato, eguaglianza dei doveri e libertà di coscienza.
La legge che sta prendendo corpo non manca, tuttavia, di suscitare critiche da varie parti ed in special modo da parte della Lega per l’obiezione di coscienza che da tempo si batte per vedere risolto questo spinoso problema.
I punti controversi della proposta di legge sono due in particolare:
1) il fatto che una commissione variamente composta (militari, magistrati, psicologi) venga incaricata di giudicare sulla sincerità e sulla validità dei motivi addotti dall’obiettore a sostegno della sua scelta;
2) il fatto che il servizio sostitutivo al quale saranno chiamati gli obiettori sia di durata superiore al normale servizio di leva.
Per quanto riguarda il primo punto si rileva che risulta estremamente arduo imbastire un processo alla coscienza dell’obiettore, mentre per il secondo punto si depreca che il servizio civile sostitutivo venga ad assumere con la sua maggiore durata un carattere ingiustamente punitivo ed a creare una discriminazione tra eguali, contraria ai precetti costituzionali. Spetterà ora al Parlamento dare un volto definitivo alla legge.
22 aprile 1971 (Gigi Dessì)
L’abbassamento della maggiore età
Ai diciottenni non basta il solo diritto al voto
Cosa pensano gli italiani del diritto di voto ai diciottenni? A questa domanda risponde un’interessante inchiesta Doxa pubblicata di recente e dalla quale risulta che il 51 per cento degli intervistati di tutte le età s’è dichiarato contrario, il 32,2 per cento favorevole, mentre il restante 16,8 per cento non ha espresso una opinione in merito. La stessa inchiesta svolta tra ragazzi dai 16 ai 20 anni ha fatto registrare una percentuale di favorevoli del 52,1 per cento mentre il 39,4 per cento ha espresso un giudizio negativo.
Da questi dati appare evidente quanto i pareri siano discordi. Intanto, alla fine di marzo, la commissione affari costituzionali della Camera ha approvato in sede referente un provvedimento che, se venisse approvato anche dal Parlamento, fisserebbe a diciotto anni l’età minima per essere elettori ed a ventidue anni quella per essere eleggibili, modificando in questo senso le norme costituzionali.
I giovani tra i diciotto ed i venti anni sono in Italia circa 1 milione e 200 mila, cioè una forza elettorale in grado di modificare sensibilmente l’attuale equilibrio politico. In ogni partito sussistono profonde indecisioni sul problema di quali gruppi politici potranno maggiormente contare su questi nuovi voti, ma tutti si dichiarano favorevoli al voto ai diciottenni per non perdere le simpatie dei giovani. Quasi tutti i partiti, inoltre, pongono alla base dell’emancipazione politica dei giovani le medesime considerazioni: si afferma che i giovani di oggi maturano prima rispetto alle passate generazioni sia per l’accresciuto ritmo delle comunicazioni, sia per la più intensa partecipazione alla vita sociale.
Ho voluto raccogliere sull’argomento le opinioni di alcuni studenti cagliaritani all’uscita del liceo Dettori, dove ultimamente s’è tenuta un’assemblea per discutere del voto ai diciottenni. Mi ha detto Gigi Pirastu, di maturità quest’anno: “Qui al Dettori abbiamo studiato attentamente il problema, tenendo in considerazione anche l’esperienza fatta in Inghilterra, dove la commissione parlamentare Latey ha svolto un interessante lavoro. Durante il dibattito in assemblea la maggior parte degli studenti s’è detta favorevole al voto ai diciottenni”.
Massimo Falchi, secondo anno di liceo: “In fondo – afferma – la contestazione è nata proprio da una mancanza di partecipazione e quindi di responsabilizzazione da parte dei giovani. Con il voto ai diciottenni s’andrebbe incontro a quelle aspirazioni giovanili che oggi sono costrette verso altri sbocchi”.
Una voce di dissenso è quella di Tiziana Ledda, diciottenne: “I giovani non hanno un’adeguata preparazione politica e ciò li spinge inevitabilmente verso dannosi estremismi”.
Benedetto Natalini, 17 anni, critica invece il modo in cui viene affrontato il problema in Italia: “Il voto ai diciottenni non può essere disgiunto dall’abbassamento della maggiore età che resta fissata al compimento del ventunesimo anno. Non ha senso riconoscere ai diciottenni il diritto di votare e nel contempo continuare a negare loro la capacità d’agire dal punto di vista giuridico”.
Quest’ultimo punto è senz’altro importante poiché, quand’anche al diciottenne italiano venisse concesso di votare, gli sarebbe sempre proibito, ad esempio, contrarre matrimonio senza autorizzazione, fare una donazione, vendere una proprietà. Alla stessa età, d’altro canto, il nostro ordinamento lo ritiene idoneo ad essere chiamato alle armi, a prestare il proprio lavoro stipulandone i relativi contratti, ad andar in carcere e non in riformatorio qualora sia ritenuto colpevole di reato.
Inoltre, se si fosse scelta la strada dell’abbassamento della maggiore età, sarebbe bastato modificare l’articolo 2 del codice civile che stabilisce appunto il raggiungimento della maggiore età a 21 anni e portarlo a 18. In questo modo si sarebbe potuto evitare il lungo iter parlamentare cui dovrà andar incontro l’attuale provvedimento che modifica l’art. 48 della Costituzione che prevede l’attribuzione del diritto di voto al raggiungimento della maggior età.
Il dibattito che si svolge tra i giovani resta comunque aperto e sa cogliere i vari aspetti del problema: è già un buon segno di maturità.
20 maggio 1971 (Paolo Cossu e Gigi Dessì)
Inchiesta sulla crisi dei movimenti politici giovanili
I partiti ci strumentalizzano con l’autoritarismo
“La funzione dei movimenti giovanili di partito è viziata alla origine – ci dice il prof. Botticini, esponente del PSI –. Essi infatti si propongono di formare dei quadri che servano esclusivamente per la organizzazione del partito e quindi per la conquista del potere. Ciò causa la mancanza di una concreta autonomia: i giovani vengono incanalati, se ne mortifica la personalità strumentalizzandoli”.
Questa è la voce del primo degli esponenti dei movimenti giovanili di partito con i quali abbiamo parlato nel corso di una inchiesta volta a stabilire strutture e problemi di questi organismi nella loro visione attuale. Tutti hanno posto l’accento con diverse sfumature sulla esistenza di una profonda crisi di tale forma di associazione.
Pietro Bulla, dirigente della federazione giovanile repubblicana: “La crisi è principalmente di contenuti; sono le idee nuove che mancano. Ciò si riflette inevitabilmente nella struttura dei movimenti giovanili, struttura autoritaria e impostata gerarchicamente, che ricalca del resto l’apparato di partito”.
Il segretario provinciale della gioventù liberale di Cagliari, Enrico Carta, identifica la crisi dei movimenti giovanili in quella dello associazionismo così come era strutturato prima che la contestazione lo travolgesse. Egli così descrive le vecchie associazioni: “Palestre d’esercizio per pochi addetti ai lavori, per quel vertice dirigenziale che pensava ed agiva per conto di una massa di soci che rimaneva estranea ed indifferente”. Sempre secondo Carta la contestazione giovanile, nascendo da una richiesta di partecipazione, non poteva non travolgere queste vecchie strutture associazionistiche.
Giorgio Carta, responsabile dell’organizzazione giovanile del PSDI, aggiunge: “Non bisogna credere che l’anelito dei giovani verso l’associazionismo si sia estinto; in realtà si cercano nuove forme di riunione. Sono i partiti che non riescono a venire loro incontro”.
Il rappresentante del movimento giovanile del PSIUP non ha a tutt’oggi risposto alle poche domande rivoltegli.
Secondo Pierluigi Onali, membro della segreteria regionale della federazione giovanile comunista, “Le difficoltà che incontrano i movimenti giovanili di partito nell’uscire dai vecchi schemi condizionano la loro stessa esistenza. Questo è accaduto o per una sorta di servilismo o per aver voluto tentare uno scontro diretto con il partito”.
Interessante al riguardo è l’esperienza di Vincenzo Vargiu, delegato provinciale del settore giovanile della DC: “Sono stato eletto all’inizio di quest’anno e la mia, francamente, è una esperienza molto triste. I giovani vengono tenuti fuori dall’apparato del partito, si ha paura di loro e si vorrebbe che servissero solo per coreografia. Il dibattito interno si svolge non riguardo ai problemi, ma al numero delle tessere sulle quali possono contare le varie correnti del partito. Basta pensare che a molti giovani viene rifiutata la tessera dai dirigenti di sezione per motivi facilmente comprensibili. Ciò avviene ed è cosa nota!”.
Dai colloqui avuti con i già citati esponenti è emersa, tra gli altri tipici metodi usati dai vecchi e sclerotizzati partiti per “sculacciare” i giovani nel momento in cui questi cercano soluzioni nuove e quindi scomodo, la drastica riduzione dei finanziamenti.
I movimenti giovanili di partito risultano quindi non solo inutili, perché assolutamente privi di incidenza, ma anche dannosi poiché inculcano una certa mentalità che induce i giovani a porre in primo piano la lotta per un potere fittizio anziché la ricerca di modi più corretti e quindi anche più efficaci di fare politica.
A questo punto mi è parso logico domandare agli intervistati la loro opinione circa lo scioglimento delle associazioni di questo tipo.
Enrico Carta considera lo scioglimento come la fase preparatoria per arrivare ad una nuova strutturazione dei movimenti, una strutturazione che comporti una autonomia garantita statutariamente e che consenta ai giovani di fare politica con il peso contrattuale che deriva loro da un movimento numeroso, vivace e critico.
Per Pietro Bulla lo scioglimento “è ciò che aspetta il partito per emarginare definitivamente le forze giovanili. Per quanto riguarda noi repubblicani, pensiamo di risolvere il problema della crisi con un duplice tesseramento per cui, pur continuando a far parte della federazione giovanile, già a 18 anni si può partecipare a tutti gli effetti alle assemblee di partito”.
Il prof. Botticini ritiene che si debba avere fiducia nelle possibilità di critica e di autocritica dei giovani. “I gruppi politici dovrebbero comprendere l’esigenza di raggruppamenti autonomi al di fuori dalle sigle di partito – ci dice –. Dovrebbe essere formata una organizzazione paritetica frequentata da esponenti dei vari partiti che partecipano alle attività culturali e di ricerca. Mi rendo però conto che, allo stato attuale delle cose, questa proposta risulta in gran parte utopistica”.
Di fronte a tali dichiarazioni, la nostra opinione è che una vera soluzione comporti l’autoscioglimento degli organismi giovanili di partito. Autoscioglimento che sia sì una tappa, ma verso l’ingresso diretto dei giovani all’interno del partito. Sarebbe infatti un errore sia l’insistere nell’esperienza dei movimenti giovanili di partito, sia il trarre da questa esperienza le motivazioni per un esodo dagli stessi. Un’obbiettiva analisi della realtà italiana dimostra che il potere risiede essenzialmente nei partiti e che di conseguenza l’impegno politico deve svilupparsi soprattutto in essi. E’ anche logico domandarsi come i giovani, al loro ingresso diretto nel partito, possano evitare il pericolo di essere fagocitati o emarginati come fino ad oggi è accaduto. Si tratta, allora, di arrivare all’impegno politico in possesso di una base culturale formatasi al di fuori degli schemi tradizionali.
24 giugno 1971 (Manfredo Atzeni e Gigi Dessì)
E’ davvero in crisi il Movimento Studentesco?
Le divergenze ideologiche rischiano di compromettere l’unità dell’azione
Negli ultimi anni innegabilmente la forza più viva della politica giovanile è stato il movimento studentesco. Particolarmente utile la sua funzione nel portare avanti con una critica travolgente a strutture ormai decrepite problemi d’importanza fondamentale, come la partecipazione diretta di tutti gli studenti alla gestione della scuola e la lotta contro l’autoritarismo.
Ma oggi molti lo danno per spacciato: la necessità di unire le forze di fronte al rinascere dei movimenti neofascisti ha mascherato le difficoltà del momento, messe in evidenza dal dissenso tra Capanna e Saracino a Milano, tradizionale roccaforte del M.S., e dal proliferare dei gruppi della sinistra extraparlamentare, spesso nati da sue scissioni. E’ di questo parere Pierpaolo Mura, studente liceale di diciotto anni, che ha subito voluto precisare: “Io come studente laico e democratico mi occupo di politica studentesca pur senza aderire al movimento studentesco in senso stretto. Trovo che la etichetta dell’antifascismo non basti a coprire la crisi del M.S. Sorto come movimento di base apartitico, esso ha finito per deludere quanti avevano guardato con simpatia alla sua carica libertaria. L’elusione progressiva dei problemi, l’atteggiamento chiuso di chi cospira nei suoi quadri, rivelano che il M.S. resta attaccato ai propri miti, incapace o incurante di intraprendere una azione incisiva volta alla trasformazione di strutture politiche e sociali”.
Quasi a controbattere queste affermazioni, G.M. del primo anno di medicina ci ha ricordato: “L’assemblea popolare dell’Olimpia del 4 aprile in risposta alle provocazioni fasciste; lo sciopero generale del 7 aprile in appoggio alla lotta dei minatori; la manifestazione del 25 aprile, anniversario della resistenza; le numerose manifestazioni di sostegno alla lotta dei popoli dell’Indocina. In tutte queste iniziative c’è stata una concreta unità tra operai, contadini e studenti, e sono cadute le diffidenze verso il M.S. Infatti quest’anno la lotta del M.S. a Cagliari ha teso a sviluppare un vasto movimento politico degli studenti, contro il governo ed al fianco delle masse popolari. Ci si è sforzati, cioè, di fare capire agli studenti che il loro diritto allo studio ed al lavoro non è un obiettivo perseguibile rimanendo nell’ambito della scuola, ma solo schierandosi nel fronte di lotta che le masse popolari hanno da lungo tempo aperto per la loro emancipazione contro il governo espressione del capitalismo. Naturalmente la partecipazione degli studenti è ancora lontana dal coinvolgere la maggioranza, anche se si sono fatti passi avanti. Resta da perdere, a mio parere, la caratterizzazione cittadina del M.S. ed acquistare un legame con la situazione complessiva della Sardegna”.
Maurizio Sarritzu, 18 anni, studente del secondo anno del liceo classico, ci ha dichiarato: “Oltre che dalla lotta al neofascismo, l’anno scolastico che si è concluso è stato caratterizzato dal superamento di certe posizioni settorialistiche. In una parola si è riusciti ad assumere sempre più la mentalità del movimento di massa. Resta, però, sempre il problema di una corretta impostazione dei rapporti con la classe operaia, problema risolto solo teoricamente per ora”.
Venendo a parlare delle numerose divisioni esistenti nell’ambito dello stesso movimento studentesco, abbiamo raccolto opinioni contrastanti.
Per Marco Piga, 17 anni, studente del Dettori, l’eccessivo frazionamento è indice della crisi del movimento: “Gli aderenti ai vari gruppi, come CAP, UCI, Manifesto etc., considerano la propria posizione l’unica veramente marxista e si accusano gli uni con gli altri di essersi imborghesiti. Debbo dire però che riescono a mostrarsi uniti quando le circostanze lo richiedono”.
“Di fronte alle aggressioni fasciste siamo tutti compagni – ha affermato invece A.F., primo anno d’ingegneria –. Le divergenze con gli altri gruppi della sinistra extraparlamentare sono nate da differenti analisi di situazioni concrete, più che da divergenze ideologiche nate dall’interpretazione dei testi. Purtroppo queste divergenze provocano un allentarsi dell’unità nell’azione concreta. Ma di fronte alle provocazioni restiamo uniti”.
Non completamente d’accordo V.B., studentessa diciottenne: “Chi entra nel movimento lo fa per una scelta ideologica ben precisa. Poi però la sua analisi personale potrà portarlo ad una divergenza con la maggioranza: è naturale che esista una pluralità di opinioni, ma al momento dell’azione restiamo uniti”.
7 ottobre 1971 (Gigi Dessì)
Difficile l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro
Perdono il posto dopo il tirocinio
A settembre, di ritorno dalle ferie, un apprendista cagliaritano ventenne è stato licenziato dalla azienda tipografica presso la quale lavorava. Motivo: riduzione del personale, riduzione che si limita al licenziamento del solo apprendista il quale, guarda caso, stava per terminare il periodo d’apprendistato avendo così diritto ad una nuova qualifica e ad un maggiore salario.
Dietro questo episodio, a parte le conseguenze psicologiche individuali, v’è il problema della regolamentazione che il nostro ordinamento prevede per l’apprendistato. Per avere chiare le dimensioni quantitative di questo problema basti osservare che oggi in Italia circa un milione di giovani occupati vengono qualificati come apprendisti, specie in Emilia, Toscana, Sardegna e nelle zone del centro-sud ove esistono soprattutto piccole e medie aziende artigiane.
Ma vediamo più da vicino cosa sia l’apprendistato e cosa significhi essere apprendisti. Si tratta di un rapporto basato sul principio che il lavoro si impara in fabbrica e l’operaio si qualifica lavorando: ma non è un mistero per nessuno che oggi, con la crescente meccanizzazione e la forte divisione del lavoro, l‘apprendista è portato ad imparare una sola mansione che in brevissimo tempo è in grado di esercitare allo stesso modo di un operaio. Rispetto all’operaio egli percepisce però un salario di gran lunga inferiore, non gli vengono riconosciute quelle garanzie democratiche sancite dallo Statuto dei diritti dei lavoratori né “la giusta causa nei licenziamenti”; inoltre non ha alcun diritto ad indennità per malattie o infortuni.
La legge che regola l’apprendistato prevede che insieme all’addestramento pratico nell’azienda, il giovane frequenti corsi complementari di istruzione: riguardo a questi corsi, da alcuni dati del 1968 si apprende che su 831mila giovani apprendisti in attività in quell’anno, solo poco più di 95mila avevano terminato il corso d’istruzione.
E’ evidente che su questa strada si corre il rischio di supersfruttare i giovani lavoratori, là dove invece l’intenzione sarebbe di istruirli, addestrarli, qualificarli: si consente l’impiego di giovani che rendono come operai ma che vengono pagati come apprendisti e che, dopo il duro lavoro giornaliero in fabbrica, non sono certo in grado di seguire i corsi complementari.
A ciò si aggiungano le innumerevoli controversie salariali che riguardano coloro i quali a vent’anni hanno terminato l’apprendistato senza che venga loro riconosciuta la nuova qualifica, o, se riconosciuta, non sempre ricevono un salario adeguato. L’episodio riportato all’inizio può servire bene da esempio. Tra gli altri, anche numerosi movimenti giovanili di partito si sono posti il problema in termini radicali. In un convegno tenuto all’inizio dell’estate, a Ravenna, i movimenti giovanili del PRI, del PSI, del PCI ed altri gruppi hanno parlato chiaramente della necessità di abolire l’apprendistato mettendo in rilievo come questa abolizione sia in stretta connessione con la riforma scolastica: essi hanno invitato sindacati, partiti democratici, enti locali e Regioni a battersi perché cessi lo sfruttamento legalizzato della mano d’opera giovanile.
“E’ necessario superare le inutili scuole attuali di apprendistato e creare nuovi corsi che qualifichino dal punto di vista sia tecnico che culturale” – mi ha detto Erminio Murtas, cagliaritano, ventun anni, studente lavoratore che si occupa da tempo di questi problemi –. “Per far ciò è necessaria una scuola riformata la quale, garantendo un effettivo diritto allo studio, offre dei corsi complementari di addestramento e di qualificazione professionale gestiti in modo diretto dalla Regione con l’intervento dei sindacati e degli Enti locali”.
Comunque la risposta a livello politico per questo problema tarda ancora a venire.
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