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Gianfranco Murtas

Con l’affetto del cuore, al fianco di padre Morittu che recupera la sua salute

di Gianfranco Murtas

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I santi frati di San Pietro in Silki e gli amici della comunità di S’Aspru assicurano che il nostro padre Salvatore Morittu è in ripresa, sofferta e però, nel metro della medicina, sicura. Le cure stanno dando risultato, ed è quel che attendevamo, che speravamo per lui e per noi, per tutti.

Sempre prossimi a lui con il pensiero se non materialmente, a lui confermiamo fraternità ed amicizia, ammirazione grata per la fatica francescana – fatica sociale – che, dacché aveva soltanto trentatré anni, ed era un minore osservante colto e forse destinato a qualche cattedra d’insegnamento, s’è voluto caricare sulle spalle, rinnovando quotidianamente il suo impegno. Sono ormai quarant’anni, già quarantuno, a pensarla da quei primi contatti con Mondo X di padre Eligio Gelmini (oggi quasi ennuagenario!).

Ho avuto per lunghi anni l’onore di poter dare un contributo alla sua impresa, in comunità e in ospedale. Ho avvertito allora la necessità anche di fissare sulla carta l’esperienza che non era soltanto individuale, ma collettiva. E lasciare un documento e una testimonianza per l’utile di chi sarebbe venuto domani, ché tutto è sempre in divenire nella vita, e i fatti d’oggi spiegano molto di quel che sarà in futuro, e possono aiutare i futuri, conoscendoli nella natura e nelle dinamiche, a fronteggiare le responsabilità nuove…

In questo quadro, fra il molto altro, detti alle stampe, negli anni ’90, le rassegne di Partenia in Callari. Uscirono tre edizioni, un supplemento alla prima, un supplemento alla terza (quest’ultimo tutto mirato al sistema comunitario di don Angelo Pittau, per molti aspetti pedagogici ispirato esso pure al modello Mondo X: fu Partenia in Norbio).

Ognuna delle tre edizioni ebbe una dedica, ché il pensiero si rivolgeva sempre a quei compagni d’umanità con i quali mi fu dato di condividere in profondità, in comunione, momenti alterni e impressionanti di dolore e di speranza.  

A Luciano, amico caro e dolcissimo, maestro nell’esempio.

A Tonino, amico dell'accoglienza, coraggioso signore nello stile.

A Rita e Mauro, avremmo desiderato invecchiare insieme.

Già al mio capolinea, io sono per gran parte, oggi, figlio di quelle esperienze, di quelle immersioni nei drammi personali di un’infinità di giovani miei conterranei, così come delle loro famiglie conosciute anch’esse nella intimità. Sono forse quattrocento coloro che ho accompagnato a morte dopo averli accompagnati nella malattia negli anni ’90, e anche prima e anche dopo.

Certo poi tante storie d’ospedale e di comunità hanno invece avuto sorte diversa, positiva, felice. E anche dai successi di questi amici rinati ho tratto, traggo, energie per continuare a fare, nelle ristrettezze imposte dalle circostanze, la mia parte pur sempre più residuale.

Saltando e cantando per il graduale ma deciso recupero di salute di padre Salvatore Morittu richiamo alla memoria del cuore i tanti che a lui per primo e ai suoi collaboratori, a me anche, hanno donato la loro fiducia.



Partenia 1996

In Paradisum. C'è una pagina del nostro Francesco Alziator - grande storico delle vicende millenarie di Cagliari e della sua cultura popolare, scrittore colto e, col suo estro metaforico, autentico fascinoso poeta - in cui la città viene definita, per le bellezze del suo ambiente naturale, del suo sole, del suo mare e delle sue pietre, «anticamera del Paradiso».

Ho pensato spesso a questa definizione tanto suggestiva quanto affettuosa del luogo nel quale entrambi siamo nati. Ed ho però, giorno dopo giorno, in questi miei ultimi millecinquecento giorni, allargato e trasformato il senso di quell'estasiata immagine letteraria. Fino a dire: non anticamera, Cagliari è «in Paradiso».

L'ho detto, lo dico, col cuore gonfio di un'angoscia che non saprei comunque tradurre in parole. Perché è un'angoscia tutta solcata da un senso tremendo di lutto, dal passaggio irrefrenabile di lutti travolgenti, cui soltanto la fede personale nel Risorto sa offrire una consolazione.

Quel che è accaduto e sta ancora accadendo a Cagliari ha dell'assurdo, eppure è realtà, come sanno le mille famiglie che, da quando è iniziata l'epidemia, hanno dovuto contare nella loro casa i morti. Morti giovani. Invariabilmente.

Ne ho conosciuto e frequentato, e li ho seguiti come ho potuto, nel morale e nel materiale, circa trecento. Li ho accompagnati «in Paradiso». Sono un numero enorme davvero, per questo dico che Cagliari giovane è «in Paradiso». E so perfettamente che nessuno è omologabile all'altro, perché ciascun uomo è unico ed irripetibile. Di ciascuno infatti ricordo volto e voce, nome e confidenze, di ciascuno reco il lascito delle speranze rapsodicamente alternate alla cupezza dello scoramento.

Il fiore morto. Tutto questo è successo perché il quinto moro, maledettissimo e subdolo invasore, ha giocato furbescamente la sua partita truccata, perché ha imbrogliato una dopo l'altra le sue vittime, carpendo la buona fede dei più deboli e associandosi, anche quando non invitato, alle compagnie spontanee degli adolescenti di Sant'Elia e di Is Mirrionis, del CEP e di Sant'Avendrace, dell'hinterland - Quartu, Quartucciu, Selargius, Monserrato, Sestu, Elmas, Assemini... - ma anche dei quartieri "bene" moderni, e di quelli antichi imbarbariti pure essi dall'ignavia di amministratori destinati all'inferno (e sia pure soltanto l'inferno del giudizio storico).

Il quinto moro ha regalato il suo fiore morto, ha conquistato proseliti in piazza e nei vicoli, infine ha presentato il conto. E continua, negli anni, già da vent'anni, a pretendere da ciascuno il saldo. Senza sconti e senza pietà.

Alle mura di Partenia. Mi sono accostato al recinto molti anni fa. Veramente sono già due decenni. Intanto per capire qualcosa di ciò che iniziava a succedere nella mia città, fra i miei coetanei adolescenti o poco più. Prima fonte la stampa, frugata ogni giorno in lungo e in largo per censire le prime tracce, per raccogliere i primi materiali della ricerca dettata da una precisa vocazione.

Era il tempo dei drogomani ideologizzati, della contestazione e poi dell'eversione modello "fumo", presto scivolata nel più inquietante modello "pera". Era il tempo, quasi, della fondazione della prima comunità di recupero: recupero alla lucidità della mente ed alla ragione della vita. Stavo per mettermi a seguire, ma a distanza, le imprese al loro esordio dei francescani minori che in Sardegna avevano dato incarico a uno, dei loro più giovani e più promettenti - il padre Salvatore Morittu – di organizzare una sede d'accoglienza per chi, disperato, avesse finalmente deciso di di voler tornare a vivere.

Don Ettore Cannavera, che i drogomani se li era tenuti in casa a Santa Margherita, qualcosa di più preciso mi aveva spiegato proprio in quel periodo, fornendomi alcune coordinate, alcune chiavi di lettura di quel fenomeno dilagante che andava coinvolgendo veramente un numero impressionante e crescente, di ragazzi e di giovani.

Nel 1984 fui più direttamente introdotto nel recinto degli eroinomani, attraverso la frequentazione epistolare - da allora sviluppatasi in almeno cento episodi - con Pinucceddu, giovane di dieci anni più piccolo di me, ma che al suo maggiore s'era applicato con la pazienza di un maestro buono, per insegnargli i rudimenti della vita, insieme, della piazza e del carcere.

Una università replicata, direi, si e snodata fra molte sessioni, ho dato tutti gli esami, propedeutici, fondamentali, complementari; da emarginazione sociale ad alcoolismo, da disoccupazione a "spaccio", da case popolari a "crepacuore", da latitanza dell'amministrazione a "diserzione scolastica, da prima carcerazione a "recidiva", a quant'altro. E intanto casa mia ha iniziato ad essere, negli studi e negli altri vani, cucina compresa una tana, concedendosi alla frequentissima raccolta di sfoghi e di progetti magari illusori, casa d'accoglienza autopropostasi non senza incertezze e non senza consapevolezza dei limiti della sperimentazione. 

Forse della fine del 1987 è l'incontro-personale con padre Morittu, e da allora, in crescendo, si è sviluppato il tentativo di trasformare stima ed ammirazione in forme attive e continuative di collaborazione, magari nel reinserimento.

Agli infettivi. Ancora nello stordimento d'un mio patimento familiare, in mano le agende del samaritano e del civis quidam, ho messo piede, all'inizio del 1992, in un reparto ospedaliero che i giornali, con qualche enfasi letteraria, erano soliti chiamare "lazzaretto" e anche, e peggio ancora, "inferno".

Un esperienza già tante altre volte raccontata e in questo libro ancora ripetuta. E l'assunzione, nel cuore, di un lutto che non mi lascia pace. Con il pensiero volto al «Paradiso» speciale dei miei più cari, ma la parola e le mani tese sempre a soddisfare le necessità di qui, anche per onorare quelli che mi hanno preceduto nel mio destino: Marcello, Roberto, Marinella, Massimo, Marco, Daniela, Valerio, Sandro, Gesuino, Sandro, Fabrizio, Marcello, Roberto, Valentino… Ora anche tu, Luciano.

Sgorga spontanea l'invocazione: De profundis clamo ad te, Domine, Domine, audi voce meam, secondo il verso del salmo 129. 

Onoriamo i morti servendo i vivi. Partenia è grande e dà lavoro a tutti. C'è posto, in piazza ed al carcere minorile, alla casa circondariale e nelle colonie penali, c'è posto nelle comunità di recupero e negli ospedali, c'è posto nelle case del Getsemani sparse un po' ovunque.



Partenia 1997

Osservo e segnalo ad altri senza avarizie, la virtù civile dei molti affaccendati all'interno della fabbrica della solidarietà: dei miei amici e maestri Ettore Cannavera, Salvatore Morittu ed Angelo Pittau, di uno scienziato come Paolo Emilio Manconi, di operatori o funzionari dal "cuore di carne" come Franco Oliverio e Pierpaolo Congia, Sandro Marilotti e Gianluigi Loi. Ammiro la fattività di un volontariato che non si scoraggia mai e si rinnova sempre nell'impegno - gli Uniti per la Vita, l'associazione San Riccardo Pampuri, la Casa della Speranza... ­ e seguo con affetto le nuove esperienze dei ragazzi che si sono emancipati dalle ferali seduzioni del quinto moro, reintegrati nella lealtà di un programma comunitario. Ma guardo anche all'avversario che ha nome e cognome, agli Infettivi o a Buoncammino e magari in qualche palazzo della politica senza meriti, e ne misuro sconcertato la potenza. Sono ora colpito, però, e lo confesso, dai miei lutti, e procedo come impaurito e forse, chissà, impazzito, dietro il carro delle nuove altre cento bare.

Smarrimento esistenziale. Navigo attorno a un'isola, che è come il grande deposito dei princìpi che hanno orientato la mia vita. Navigo ormai per niente, senza quasi più alcuna capacità d'approdo. Perché, già stanco, sto per darmi sconfitto. Forse non sono nato per combattere, sono nato forse per rendere onore a quelli che hanno combattuto e hanno lasciato, perdenti, la scena. La mia rabbia per l'ingiustizia hic et nunc è il monumento che elevo alla mia inettitudine ed all'impotenza dei migliori. Essi sono ogni giorno di più domati dai sepolcri imbiancati che popolano come generali privi di dignità le istituzioni politiche come le case vescovili e le direzioni dei giornali. Tutte sedi che si sono autodefinite presidio della società e della democrazia, ma sono invece lo scandaloso artificio che tiene prigionieri i deboli, sfamati con la benedizione chiacchierona di qualche eccellenza gallonata o lo sbrigativo trafiletto in cronaca, e rincuorati con gli ammuffiti formulari degli scarichi di coscienza.

Come Giobbe a Partenia. Se non trovo più la ragione di alcunché mi accade da presso, non mi resta, dunque, nell'estrema fedeltà a me stesso, che vestire, qui a Partenia, i panni di Giobbe e non inveire, no mai, contro il Cielo - il Cielo ci ha regalato libertà e responsabilità, e gli uomini hanno riempito del loro e l'una e l'altra - ma piuttosto interrogare Domineddio. Una domanda, la prima e la sola, tutta contenuta in appena una parola: perché? Sembra niente ed è tutto. Non avrò risposta. Aggiungo: è giusto che non l'abbia, perché in quel silenzio è il rispetto laico che Dio assicura alla sua creatura. Ma è, non di meno, un'interpellanza giusta e giustificata. Domando: perché mille miei coetanei, almeno mille, e sono di più ancora, in un arco di tempo che è teso appena nel decennio, si sono involati bruciando la loro età e consumandosi nello strazio morale e fisico?

Parlo per i miei: noi siamo stati chiamati al mondo nel torno di anni in cui la patria si risollevava con gradualità misurata ma affidabile dalle devastazioni belliche. Era un ciclo storico ancora lento nelle sue intime dinamiche sociali, ma che ha preparato tutto quello che è venuto dopo.

Sì, essi, ed altri erano ancora più giovani come fratelli minori e quasi figli, venuti quando il benessere materiale e i nuovi assetti sociali già rendevano della patria un'immagine di conquistata modernità. Pure essi hanno ceduto, ancora ragazzi, alla malia del fiore morto... Mille, anche più, che avrebbero potuto tessere la storia dell'oggi e del domani. Che avrebbero potuto germinare famiglie e godersi la bellezza e la bontà dei figli e dei figli dei figli. Che avrebbero potuto realizzarsi in attività civili ed in mestieri creativi e disciplinati, volti alla generale crescita sociale. Che avrebbero potuto recare alla vita morale della nazione il contributo dell'ingegno e della fede, di un ideale e di uno slancio di generosità, l'apporto di una competenza professionale, di una cultura indagatrice e capace di risposta. Che avrebbero potuto offrire il sostegno ulteriore ed originale di una virtù spontanea, forse di un impulso pedagogico, forse di una sensibilità solidaristica...

Che ne è stato, Domineddio, di tutti loro? Che ne è ora, che vivono nel non-tempo, nel non-spazio, di questi miei colleghi in umanità conosciuti e amici, atomici eredi, al mio pari, di una millenaria vicenda sedimentatasi in questa porzione infinitesimale dell'universo mondo che è Cagliari nostra, proiezione e sintesi della Sardegna intera?

Una voce per mille e più. Tu non mi rispondi, come hai fatto dapprima con Giobbe. Ma come Giobbe insisto: «io sto dinanzi a te e tu non mi consideri, ti comporti ostilmente verso di me, mi sollevi e mi fai cavalcare sul vento, struggi la mia forza, mi conduci alla morte, speravo invero il bene ed è sopraggiunto il male, scuro in volto me ne vado; senza sole, la mia pelle si è annerita su di me, la mia arpa si è mutata in lutto, il mio flauto in voce di pianto...».

Dò voce allo sconforto collettivo di una folla impressionante di madri e di padri, di coniugi, di fratelli e di sorelle e di figli, tutti orfani di un affetto e di una speranza di futuro.

Infine ti desti, Domineddio, e ti riveli per Chi sei, schiacciando me come Giobbe sotto una teoria di controdomande che mi umiliano perché raccontano la tua signoria assoluta su quanto esiste: «cingiti come un prode i fianchi: ti interrogherò e tu ammaestrami».

Su cosa potrò ammaestrarti? -

Ripeterò le parole dello scrittore moderno, dello storico laico e cristiano del nostro tempo per il quale «il credente piega le ginocchia e si sottomette al suo Dio»: «Non importa. Credo nella Tua Provvidenza, Signore... so che le Tue vie sono giuste, che non puoi dirigere che a fini ultimi buoni».



Partenia 1998-1999

Lo dicono le statistiche e lo confermano i medici che da tre lustri pieni sono i più esposti sul fronte della lotta all'AIDS, anche i nostri Paolo Emilio Manconi e Silverio Piro: la strage è cessata. Come quella di 343 anni fa, che stravolse la città dei quindicimila residenti e la regione dei duecentocinquantamila. Porteremo in giro per le strade di Sant'Elia e di Pirri, di Is Mirrionis e del CEP, di Monserrato, Selargius, Quartu e San Michele il nostro protettore martiri gloriosu sempre all'opera. E intanto però la buona nuova allevia l'angoscia delle macabre contabilità passate e ci sostiene nel recupero di fiducia verso il domani.

Consuntivi e nuovo futuro. Quel che è avvenuto davvero nel decennio precedente non è dato che la comunità civile possiede interamente, e anche la politica forse lo ignora. Soltanto chi è stato colpito nell'intimità dei suoi affetti, gli operatori che hanno tentato di opporre strenua resistenza al nemico imbaldanzito dai successi, chi va per cimiteri per imparare a ben vivere conosce la verità. Millecinquecento caduti, negli ospedali, nelle case, nei carceri anche, nella speranza o anzi nell'illusione di scamparla, nel dolore fisico ma sempre anche intensamente morale, nella amara solitudine talvolta, nella sconfortata ma dolce compagnia dei più fedeli sovente.

Al dato regionale Cagliari ed il suo immediato hinterland hanno partecipato con il 70, 80 per cento. C'è chi ha detto che la città s'è ripulita, che i quartieri si sono come riossigenati. Bestemmia di animali inconsapevoli. Ci siamo impoveriti di gioventù, invece, e ci vorranno generazioni per ristorare l'umanità e la nostra area urbana delle loro perdite.

L'offesa alla vita è, peraltro, venuta ben prima del virus infame. Col quinto moro invasore che ha sparso a piene mani il suo fiore morto agli adolescenti nostri; per gabbare loro, le famiglie, la società. Per mutare i giovani nostri in zombie senz'autonomia, in simulacri senza dignità, in manichini eterodiretti da un impulso nelle mani di maledettissimi mercanti controDio.

C'è chi ha compiuto per tempo le sue scelte di campo, perché ha saputo leggere i fatti senza filtri ideologici e piuttosto con quella carica umanistica e di partecipazione cristiana coltivata dagli animi migliori. Io cito i miei amici, ma so che non sono, né sono stati, i soli, né soli, nella lotta. Lo so, ma li evoco per nome e cognome come simboli di una coscienza tempestiva e munita di necessario coraggio etico e civico.

L'intelligenza dei samaritani. Temerario ed anticipatore, Salvatore Morittu, e però indubbiamente favorito dal manto profetico ed amico di padre Dario Pili il provinciale e dall'universo spirituale ed affettivo dei frati minori, che hanno conferito all'inizio e anche alla fine le strutture pur malconce di conventi antichi ripensate nel nuovo vigore dell'accoglienza francescana. Un po' meno fortunato Ettore Cannavera, tante volte isolato nelle sue azzardate e pur lucide sperimentazioni, dalle eccellenze che comandano e dai conformisti, non pochi anche nel presbiterio locale. Grazie ad entrambi, a Cagliari e poi anche nell'altro capoluogo, per quello che hanno fatto e che resterà nella storia sociale di questa nostra terra in questa fine di secolo ed all'alba del secolo nuovo.

Grazie ad Angelo Pittau, che è un riferimento alto non soltanto di Villacidro o della diocesi a me carissima di Ales, ma dell'intero bacino medio campidanese, fin verso Oristano (dove avarizie clericali impedirono a padre Morittu, nei primi anni '80, di aprire una comunità). Altra personalità, amata da molti, incompresa da altrettanti però ignoranti, refrattari alle buone opere non meno che ai versi spirituali del prete-poeta. 

Nel tempo, anche nella nostra Isola, la Chiesa ha offerto alla società civile un servizio umanitario di straordinario livello. Tornano alla mente - fra cento altri - i nomi di dottor Angioni, di signor Manzella, di padre Solinas al quale io bambino avrò servito mille messe a Sant'Eulalia. E proprio a Sant'Eulalia ecco un altro protagonista di vita ecclesiale e sociale, e civile, e culturale, di Cagliari che si immedesima nelle tribolazioni di Partenia. Un sacerdote intraprendente e col pregio di essere, lui prete, non clericale, ha riportato la sua parrocchia, tra rapsodiche avversioni, agli antichi "fasti" della carità quotidiana, rimodulata secondo la montiniana formula della "promozione umana", che esige un impegno soggettivo al riscatto ed accompagna però sforzo e travaglio.

In epoca di migrazioni transcontinentali Mario Cugusi ha aperto la sua chiesa ai musulmani ed altri stranieri in cerca di alfabetizzarsi per un miglior inserimento familiare e lavorativo in città. Ha rinunciato ai suoi privilegi, alla canonica che ha offerto agli sfrattati senza tetto, all'altra casa dove ha allestito una scuola serale popolare intitolata - e qualcosa il nome vorrà pur dire - a monsignor Oscar Arnulfo Romero. Altre povertà, altri poveri, altri smarriti e confusi, disorientati in cerca di indirizzo sensato.

La memoria e il servizio. Un ciclo si è chiuso, infausto e dolente quanto le parole non bastano certo a spiegare. Restano i doveri. Onorare i caduti è uno di questi. L'ho fatto, l'ho faccio. Da una madre samaritana ho ricevuto proprio oggi uno scritto ritrovato fra le carte del figlio scomparso ora sono giusto mille giorni: un figlio volterriano, che ha però confidenza con Domineddio, come con Gibran, Tagore e Kipling. Leggo, trascrivo.

«Regola il ritmo della mia vita, Signore. Calma il battito del mio cuore, acquetando la mia mente. Rallenta il mio passo frettoloso con una visione delle eterne distese del tempo. Dammi, in mezzo alla diuturna confusione, la calma stabilità delle montagne millenarie. Spezza la tensione dei miei nervi e dei miei muscoli con la serena musica del canto dei ruscelli vivente nella mia memoria. Aiutami a conoscere il magico potere ristoratore del sonno...».

Ho compreso nel novero quelli della mia famiglia di Mondo X e quelli che hanno scelto altri luoghi per risuscitare al senso della vita, all'orgoglio di essere nel mondo, nonostante il male incalzante, le stilettate di una salute infedele, i presagi di una fine ineluttabile. Né ho escluso quelli che liberamente hanno operato scelte diverse, rovinose anche nella vita morale, ma io non sono giudice, sono soltanto uno che accompagna.

So però che i caduti si onorano non solo col culto delle memorie, ma anche e direi soprattutto col servizio ai vivi. Per questo, nella varietà degli spazi affollati dai cittadini di Partenia, ho desiderato indugiare nei pressi del carcere, quello incivile del "belvedere" cagliaritano, quello collegiale alla periferia di Quartucciu, e raccogliere notizie, e dialogare e farmi interprete degli afoni. Ed indugiare anche presso l'ospedale odiato da chi pur ha voluto inorpellarsene davanti alla platea elettorale. Quante amare, e tenere, confidenze di sconfitti mi porto dentro, quasi pesi morali, anche, per l'impossibile ribellione al nequitoso spettacolo di gerarchi infingardi e di spocchiose zanne controDio... Ora penso a te, innocente che, dalla notte stessa della Natività, voli sull'aquilone...

Si dica pure male dei delinquenti in cattività. Vengo da una scuola di dottrina politica - quella di Mazzini e dell'azionismo - che poggia sui doveri dell'Uomo il proprio codice. Non ho mai sposato il perdonismo di moda ed alla vittima dell'aggressione va sempre il primo pensiero e la solidarietà. A chi è stato offeso, pestato e derubato, alle persone deboli scippate e trascinate senza pietà da tossici disperati. Per dire soltanto di un filone di corrente criminalità, e sia pure "micro", urbana.

Ma estraneo come mi sento, per scelta di vita, ai sinedri non so pronunciare sentenze. Ed affermo invece di aver conosciuto persone in carne ed ossa, non quelle dei fascicoli processuali o delle cronache di nera, che sono autentiche risorse, che hanno talenti da spendere al servizio della collettività. Non credo ai figli di un male metafisico, e anche quelli che bollo come maledettissimi seminatori di morte per il vile guadagno dello spaccio, io non li escludo perché non ne ho né facoltà né desiderio. E aspetto, al contrario, di essere ammesso al dialogo per costruire insieme un nuovo scenario di civiltà. Mi scandalizzano e sconfortano di più i farisei che non i delinquenti.

Nelle strade anche le più belle di Cagliari s'affacciano delle enclaves autocefale ed autonormate - Buoncammino è una di queste - che non possono, per il diritto repubblicano, disumanare coloro che pur sono chiamati a pagare per le colpe sociali sanzionate da un ordinamento pienamente legittimato dalla democrazia. In troppi, invece, imbestiati da chi o da cosa non sa corrispondere al dettato costituzionale, obnubilando la loro mente, finiscono per cedere al fare prepotente e violento. Osservo come il tormento di coscienze inimicate col vivere civile si esasperi fino alla rovinosa piena della irrazionalità. Meritano rispetto i direttori dei carceri e gli agenti di custodia, lavoratori al servizio dello Stato, cioè dell'interesse generale, e vanno incoraggiati nell'adempimento del loro ingrato ufficio. Forti del senso morale maturato nella propria esperienza umana, sono chiamati a partecipare anche essi, con gli altri operatori professionali, nella comprensione e financo nell'amicizia, all'azione "rieducativa" del detenuto che non perde mai la sua condizione personale e civile. La virtù di un servizio pubblico come è quello del Centro Adulti, pure esso di emanazione ministeriale, tempera appena le rigidezze di un sistema che si rivela soltanto punitivo, nel quale si sedimentano ignavia e torpore della politica e dei politici: parlamentari di collegio, rappresentanti regionali e sindaci compresi.


Anche questa volta, con immutato spirito di vicinanza, la redazione di Giornalia si associa agli auguri affettuosi rivolti da Gianfranco Murtas al padre Salvatore Morittu. Andrea Giulio Pirastu 


Fonte: Gianfranco Murtas
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