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Gianfranco Murtas

Conversazione con Guido Portoghese, presidente uscente del Consiglio comunale di Cagliari.

Discutendo della città e dell’area metropolitana, del presente e del futuro (partendo dalla storia) d’un capoluogo condiviso

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di Gianfranco Murtas

Gigi Riva nel cuore, sempre, e Sant’Efisio fratello protettore - Frugando nei libri sulla storia cittadina, Cagliari ingenerosa una volta… - Magazzino universale e… vampiro - La città en marche di Bacaredda e quella metropolitana d’oggi - Il miracolo del Bastione - Profilo di un ingegnere prestato all’Amministrazione civica - Partendo dall’ultima esperienza: la presidenza consiliare - Da Pintus a Mandolesi - Le trasformazioni della città - Di Sant’Elia e del Poetto - Andando alle elezioni: uno sguardo tutt’attorno – La città a palazzo, il palazzo in città - La pianificazione territoriale - L’ambiente riconquistato e la città del mare - A dir del centro storico - La città dell’innovazione e del terziario avanzato - La città dello sport e dell’intrattenimento - Per il pragmatismo amministrativo, ma in una visione politica - Una conclusiva riflessione: uno per tutti, tutti per Cagliari (metropolitana)


«I cagliaritani, giovani e meno giovani, amano Cagliari, ci stanno bene pur se non manca loro qualche legittimo motivo di insoddisfazione, di sofferenza. Faccio un discorso generale. Quei tanti che frequento, e sono molti davvero, per la professione e nell’associazionismo in cui sono impegnato fin da ragazzo, per le amicizie personali o di famiglia, per lo stesso ufficio che ho ricoperto nell’Amministrazione, mi hanno dato sempre l’impressione positiva di essere dentro lo spirito cittadino e voler bene a Cagliari: alla fine, tutti quanti abbiamo ricevuto in dono la nostra città, insieme con la vita, dai nostri genitori, da chi faticando in tempi più difficili ci ha preparato il terreno. Oppure l’abbiamo ricevuta, questa nostra città, trasferendoci da luoghi più o meno vicini, facendone la nostra patria elettiva. C’è il radicamento delle generazioni e c’è un radicamento più recente, ma non meno sostanziale, per molte migliaia fra noi. Siamo cagliaritani nel presente, gli uni e gli altri, costruiamo insieme il futuro nostro e di chi verrà… Però direi che sono cagliaritani ormai tutti i sardi. Molti anni fa si parlava di Cagliari come città-regione, e un po’ nel bene e un po’ nel male Cagliari si è proprio realizzata, fin dalla ricostruzione del dopoguerra e dall’inizio anche dell’esperienza della autonomia speciale, come città-regione: città-riferimento di un territorio vasto, provinciale e anche interprovinciale, città degli uffici e dei grandi servizi, dei mercati e ipermercati anche, del grande sport o del teatro fra prosa e lirica, secondo una antica tradizione di gusto e competenza – si pensi alle stagioni dell’anfiteatro romano –, così come dei cinematografi che hanno conosciuto epoche d’oro ed oggi sono rimodellati nelle multisala, e ancora dei monumenti e dell’università, dello svago e del Poetto, dei santuari religiosi – Bonaria, Sant’Ignazio da Laconi, ecc. – e della sanità pubblica e privata, il Civile e il Brotzu, Is Mirrionis, le case di cura… Quanta Cagliari c’è nel vissuto dei sinnaesi o dei quartesi o di chi ha casa a Sarroch e magari nel medio Campidano, a Villacidro e Sanluri, e così oltre? Dico, quanta Cagliari c’è, sia pure per aspetti diversi, nei giovani – metti nei liceali o negli universitari – e negli anziani del vasto territorio provinciale e perfino regionale? E, vedendola dalla parte opposta, potrei anche chiedere: quanto c’è dell’hinterland, della provincia, ecc. nella città capoluogo, dico nelle nostre esperienze di cagliaritani “puri”? Quale e quanto contributo d’umanità, d’esperienza, di cultura, di abilità lavorative, di sofferenza e anche di preghiera ha offerto a Cagliari il suo entroterra di nord, di est e di ovest, tutta l’area vasta?».

Guido Portoghese parla spontaneamente, così come gli viene, della sua (e mia) città, un po’ sentimento e un po’ domanda, riflessione critica. E’ stato presidente del Consiglio comunale negli ultimi tre anni, ha lavorato in Consiglio, fra aula e commissioni, per otto anni complessivamente, e prima ancora ha svolto ruoli importati in una circoscrizione cittadina. Prima di rivolgergli qualche domanda su quel che ha fatto e sul quel che vorrebbe ancora fare, mi sembra giusto ascoltare e registrare. Aiuta a comprenderne la personalità. Quel che dice vale anche come testimonianza sua personale, di uomo e cittadino, al di là del suo incarico e della responsabilità amministrativa per la quale nuovamente si presenta al giudizio di fiducia della cittadinanza.

«C’è una ragione di utilità generale, in questo dimensionamento qualitativo cittadino aperto al più vasto hinterland, un dimensionamento propriamente cagliaritano che vedrei anche beneficiario dei contributi del territorio d’intorno, della provincia, delle zone interne, ma c’è pure un dato di sentimento che mi piace cogliere e su cui vorrei confrontare la mia opinione con quella tua e degli altri in generale. La prendo alla lontana, per spiegare meglio la mia idea. Pensiamoci: il grande Cagliari si presentava negli stadi della penisola e anche dell’estero con i quattro mori, lo ha detto tante volte Gigi Riva e lo hanno detto e ripetuto i suoi colleghi campioni dello scudetto 1970, Tomasini e Reginato, Poli e Brugnera, Greatti... 

Gigi Riva nel cuore, sempre, e Sant’Efisio fratello protettore

«Il Cagliari sentiva la rappresentanza di un intero popolo, direi che così è ancora, lo è stato dopo il ’70, ancora in questi cinquant’anni, anche i due Daniele – Conti e Dessena – ce lo hanno spiegato perché così l’hanno vissuto ancora in questi ultimi anni. Nella memoria morale anche della mia generazione, che quei trionfi non ha conosciuto direttamente, lo scudetto del cuore della squadra, quello che ha preparato lo spazio al tricolore e con esso si è combinato, è lo scudetto dei quattro mori, ma non per un orgoglio autoreferenziale e presuntuoso, e perciò asfittico, no, invece per un orgoglio dialogico, relazionale, di amicizia da stabilire con tutti, intanto presentandosi per quel che si è… I nostri emigrati in Belgio, o in Francia o in Germania, o magari a Milano e Torino si esaltavano quando arrivavano i rossoblù con lo scudetto sardo. Adesso siamo alla vigilia del centenario della fondazione del Cagliari Football club, diventato poi Unione Sportiva, oggi società per azioni, sempre (o quasi sempre) rossoblù… Quanta storia di coralità regionale, di passione condivisa attorno al gioco del calcio, alle partite ascoltate in radiocronaca dai transistor dei pastori anche della Barbagia, un po’ come è stato un tempo anche per il Brill Cagliari, un po’ come capita adesso e già da qualche anno anche con la Dinamo dei nostri fratelli sassaresi… 

«Mi riferisco, dicendo del Cagliari, allo sport che tutti quanti amiamo – e in parallelo, per l’attualità, tengo sempre anche la Dinamo! –, ma credo che questo discorso valga anche se pensiamo alle altre discipline semiprofessionistiche o soprattutto dilettantistiche che pur sono diffuse nel territorio, dal basket appunto al volley al tennis da tavolo, dall’hockey alla pallanuoto, e ne puoi elencare altre dieci o venti di discipline… quasi sempre con i colori della maglia o della calotta c’è un richiamo alla Sardegna, ai quattro mori che sono di tutti noi, mica di un partito! Abbiamo in Sardegna un universo intero di atleti che ogni settimana giocano e si sfidano, raccolgono simpatia, applausi… E in tutti c’è il sentimento della rappresentanza di un territorio più grande di quello locale, di paese o città, e tanto più questo vale quando, appunto, la competizione impegna fuori dell’Isola: per quanto abbastanza individualisti, noi isolani siamo spontaneamente portati a sentire la bellezza e il dovere della rappresentanza della Sardegna ovunque ci presentiamo, la Sardegna conta più del territorio particolare da cui si proviene… Ecco qui, un discorso lungo per dire che anche quando l’esibizione, la prova pubblica, metti la gara atletica, è del massimo livello, sempre tendiamo a calarci nella responsabilità affettiva e morale della rappresentanza. Cagliari io la vivo così: come città-regione, tanto più ora che, con l’area vasta, con la cosiddetta città metropolitana, si sono approntati gli strumenti anche istituzionali per dare corpo solido, un corpo partecipativo, a questa realtà urbana intercomunale». 

Mi hai offerto una suggestione e mi ci calo dentro anch’io. Ma sai che da un certo punto di vista quella “responsabilità affettiva e morale della rappresentanza”, come l’hai chiamata tu, io la avverto anche nella grande adunata in onore di Sant’Efisio, in cui i costumi rappresentativi delle diverse comunità si incasellano in un tutto che è insieme il voto religioso da adempiere e la grande figurazione regionale isolana che vale per sé come “cor unum”.

«Bellissimo e verissimo. I costumi del lavoro e della festa, e i cagliaritani… quelli del Dittamondo che partecipano anch’essi, anche i miei villanovesi, i miliziani con le giubbe storiche, berritta in testa e gonnellino, e sa kannetta, il fucile sardo cioè… in protezione del Protettore… e lo stendardo di quartiere. Ecco qui, una moltitudine di diversità, ma uno stesso spirito. E gli americani o i tedeschi e gli altri ai bordi delle strade che osservano, non entrano subito a distinguere i costumi di Sanluri da quelli di Arbus o di Ovodda e Bosa, i miliziani di questo o quel quartiere cittadino… vedono la Sardegna, e tutti i partecipanti sanno di rappresentare la Sardegna. Ecco il gran risultato. E’ la rappresentazione generale in cui tutti si riconoscono, nella scenografia ordinata e colorata, dopo che nella consapevolezza spirituale e civile. Quest’anno il sindaco Zedda ha voluto che fosse una nostra bravissima funzionaria comunale a ricoprire il ruolo di Alternos – una scelta giustissima… Sette od otto anni fa era toccato a un collega ed amico consigliere comunale, Matteo Lecis Cocco Ortu, allora giovane giovane davvero, cavalcare poco discosto dal carro del santo, con il Toson d’oro della Municipalità. E, dovendo citare… direi di un altro collega e amico, Paolo Matta, anche lui in lista quest’anno con noi Democratici, che ha dato da sempre il suo nome di stampacino alla kermesse religiosa e popolare, ma anche turistica di Sant’Efisio cui ha dedicato tanti studi! Torna, anche in questo, il concetto che volevo sottolineare: la compartecipazione. La dico così: ognuno con la propria specificità e provenienza territoriale o professionale, ma in un consapevole “forza paris” di rappresentanza regionale unitaria. Cagliari come riassunto della Sardegna, Cagliari non dominatrice, ma prima voce e braccia larghe, espressione di un tutto assolutamente irriducibile, città-regione che non soffoca ma anzi valorizza ogni partecipante, lo segnala non come in una gara, ma per un merito speciale».

Raccolgo uno spunto da questa lunga (e anche commossa, mi pare) riflessione che condivido molto: vorrei accennare ad un tema che m’interessa particolarmente, ma poi nuovamente cedo volentieri la battuta. Quel riferimento al centenario della fondazione del Cagliari lo associo idealmente, e temporalmente – lo stacco fu di un anno soltanto – al centenario della morte di Ottone Bacaredda… Doveva essere un impegno per l’Amministrazione il ricordarlo e onorarlo, il sindaco-mito, se la consiliatura avesse proseguito il suo corso, fino al 2021!

Frugando nei libri sulla storia cittadina, Cagliari ingenerosa una volta… 

«Sì, Bacaredda, ci arrivo. Mi ero riferito alla squadra del Cagliari come simbolo, come motivo sentimentale condiviso dai sardi tutti, avevo detto di Cagliari come città-regione, dalle braccia larghe, accogliente, non signora feudale dei territori più interni… Mi ha sempre colpito una pagina, o più di una pagina, della letteratura su Cagliari che dipinge la città, i suoi spazi e anche e soprattutto i suoi umori come erano in un tempo lontano, dico lontano anche se non antico. Erano gli umori piuttosto malvagi di una… sanguisuga, di una specie di vampiro delle energie e degli interessi dei territori dell’interno. La vorrei evocare questa pagina, in questa nostra conversazione, perché mi piacerebbe dimostrare come, passo dopo passo, tanto più dopo le esperienze epocali della lunga sindacatura di Bacaredda e ancor più dopo quelle novecentesche, postbelliche, della stagione autonomistica cioè, la trasformazione sia stata radicale, dato che certi valori si sono addirittura rovesciati in positivo…». 

Fino ad arrivare a dare concretezza alla città metropolitana!

«Perfetto. Dunque mi era capitato questo: da buon lettore dei romanzi di Giorgio Todde su Efisio Marini – il famoso medico pietrificatore dei cadaveri, il dottor Efisio di via Sant’Eulalia che amoreggiava con Carmina sotto le piante di capperi o al promontorio di Sant’Elia, come appunto ci racconta Todde – mi incuriosii una volta a scoprire com’era davvero la città del suo tempo, intorno alla metà dell’Ottocento e anche prima, così da poterla confrontare, sia pure nelle linee generali e con qualche gioco mentale, con l’attuale. Cagliari contava allora 25mila abitanti, con i preti e religiosi e i militari che non entravano nel conteggio arrivava ai 30mila. “La città viveva sulla campagna circostante e, per la presenza degli uffici del viceré, su una classe impiegatizia e, infine, su una limitata categoria di commercianti, quasi tutti forestieri e, per lo più, genovesi” – così scrive Oliviero Maccioni richiamandosi a Vittorio Angius, il padre scolopio che aveva collaborato con il Casalis per il notissimo Dizionario geografico-storico-statistico… “Vi era ancora una forte presenza di artigiani, aggruppati in corporazioni sindacali e religiose, i gremi… La nobiltà, quasi tutta feudataria, i cortigiani e le persone di rango risiedevano in Castello, mentre, nel quartiere della Marina, ancora cinto dalle mura e con sei porte di accesso, dimoravano, con i pescatori ed i marinai, i commercianti e, per antica consuetudine, i consoli stranieri. I quartieri di Stampace, Villanova e il sobborgo di Sant’Avendrace erano rispettivamente abitati da artigiani, contadini e pescatori della laguna di Santa Gilla”. I caffè e le farmacie erano luoghi d’incontro e di ozio, dove si chiacchierava senza impegno dei diversi fatti del giorno, si pettegolava, si andava per luoghi comuni… La città era ancora spagnolesca, non viveva certamente di ideali…

«Avevo recuperato questa pagina per una conversazione che era in programma presso un’associazione cittadina – quella degli ex-allievi salesiani –, ormai rimandata a dopo l’estate. Tu stesso mi hai fornito una bella bibliografia, e mi ci sono appassionato. Gli autori sono diversi.

«Dunque, fra essi, Emilio Bonfils, che poi era Efisio Bacaredda, il padre del futuro sindaco, ci ha lasciato anche lui pagine importanti che descrivono gli obblighi di vita cui erano tenuti gli impiegati pubblici, descrivono com’erano gli arredi domestici, i passatempi e le devozioni religiose della popolazione, del cosiddetto “popolino”. E anche Carlo Brundo, un avvocato cagliaritano che amava scrivere e descrivere, ci ha lasciato belle istantanee di una città piuttosto sudicia e malinconica in quel tempo lì, “chiusa per ogni dove da cinte, muraglie, forti, contrafforti, divisa materialmente – così scrive – da porte che si chiudevano di notte con tanto di catenaccio”, con gli acciottolati piuttosto grossolani nelle strade e, appunto un popolino “rissoso, pettegolo e, in buon dato, anche crapulone» – testuale – che si sciupava «in pranzi, in merende, gozzoviglie”… Chissà. Il suo flash riassuntivo del tutto era questo: la città “assomigliava ad un castellaccio del medio evo trapiantato nel bel mezzo del secolo XIX”.

«Ma perché questa citazione, o perché insistere su questo argomento? Per arrivare a focalizzare il rapporto fra una città di fatto materialista, piuttosto rozza e parassitaria, ed il suo hinterland, e per vedere appunto, come dicevo, quanto si sia rovesciato il senso sociale ed anche economico di quel rapporto territoriale, oggi che siamo entrati finalmente in una logica di città metropolitana. Ecco infatti un altro autore, Carlo Baudi di Vesme, un piemontese che sarebbe stato per qualche tempo alla testa della società di Monteponi, descrivere così la nostra città capoluogo: “Laddove fuori di Cagliari si desidera di vendere le derrate al maggior prezzo possibile, in Cagliari non si cerca… che il buon mercato; laddove nell’interno si cercano escite ai prodotti del suolo sì nell’isola come all’estero, in Cagliari si desidera che sia proibita o gravata da dazii ogni esportazione, affinché nella Città esista ogni cosa ed al miglior prezzo maggior dovizia; laddove nell’interno sarebbe a desiderare che fiorissero le manifatture e l’industria, in Cagliari si procura di avere e si mantenne fin ora la privativa di queste, principalmente per mezzo dell’importazione dall’estero; … essa è il magazzino universale della Sardegna, perfino per gli oggetti che si producono anche nei luoghi più lontani dell’isola stessa”. Ecco i due mondi in una reciproca opposizione, una opposizione assolutamente sgradevole e ingiusta all’interno della stessa isola. Inimicizia tra fratelli!

Magazzino universale e… vampiro

«Aggiungo soltanto poche altre righe (e scusa se lessico e sintassi hanno la muffa): “nei villaggi non esiste altro mezzo di far denari fuorché la vendita dei prodotti del suolo fatta appunto nel solo emporio di tutta la parte meridionale, voglio dire in Cagliari; ed oltreché in questa Città cola già per mille modi il denaro di gran parte dell’Isola, in essa parimente si spende la maggior parte del denaro pubblico, del quale poco o nulla va nei villaggi, dove… non sono pubblici impiegati, né si fa spesa pubblica di sorta”. Ecco qui l’agiatezza parassitaria di alcuni e la povertà sfruttata di altri: “la Sardegna è paese principalmente agricoltore od altrimenti produttivo; Cagliari all’incontro è principalmente consumatore, essendo quasi esclusivamente composto di impiegati, e più di negozianti”. 

«In città impiantavano i loro redditizi commerci diversi operatori del continente, chi per la pasta, chi per il sapone, ecc. e invece non si riusciva a verticalizzare certe produzioni per le quali eppure abbondavamo di materia prima. Perché? Secondo Baudi la causa principale degli ostacoli frapposti dai negozianti cagliaritani era – testuale – “il guadagno che traggono dal commercio d’importazione degli oggetti manifatturati e dall’esportazione delle materie prime”. Veramente si trattava di egoismo allo stato puro del ceto borghese, commerciale, nostro cagliaritano.

«Fine del discorso: la città metropolitana cui siamo pervenuti ormai da alcuni anni ha assorbito interamente questo differenziale che era anche morale, non soltanto sociale ed economico, fra il centro urbano e i centri rurali».

Sovvengono a me, ascoltando Portoghese e le sue letture, le immagini direi cinematografiche di Sea and Sardinia di Lawrence, del mercato-Partenone del Largo, quello dei famosi piccioccus de crobi e anche dei marianelli di suor Giuseppina Nicola e dopo di suor Teresa Tambelli, presso l’asilo della Marina… Quel mercato affollato di uomini e donne in costume, nei costumi dei rispettivi paesi, che arrivavano con i loro carri quand’era ancora buio, per portare formaggi ed uova, frutta, ortaggi e carne, polli e cacciagione, ai consumatori della città… Cagliari consumava, era ancora il tempo de is osterieddas di cui Alziator ci ha lasciato pagine memorabili. 

«Sì, se posso vorrei restare ancora sulla storia di ieri, o avant’ieri… E’ come una sfida, adesso che giustamente tutti, nella campagna elettorale, chiediamo l’impegno non certo per il passato ma per il futuro! Ma mi serve questo per proporre una riflessione sulla curva storica nella quale ci collochiamo oggi: veniamo da un certo passato, step by step abbiamo raggiunto traguardi, altri ce li diamo cammin facendo. Dunque non mi voglio assolutamente sottrarre a dire del futuro, ci mancherebbe… Però, ripeto, credo aiuti a vedere più chiaramente il futuro se ci poniamo su una linea evolutiva, avendo la consapevolezza da dove si è partiti…

«Io Guido Portoghese sono un cagliaritano originario di Villanova, la mia famiglia ormai da generazioni è impiantata in quel quartiere al quale Francesco Alziator ha dedicato alcune delle pagine più belle, direi poetiche, liriche, dei suoi libri e dei suoi articoli, riferendo della grazia che lui diceva “semitica” delle nostre ragazze… Ricordava l’impianto altomedievale della sinagoga dove oggi è San Giacomo, ricordava l’originalità della nostra striscia di case, certo rifatte nell’Ottocento ma su un impianto perfino trecentesco, sotto il Terrapieno e a scendere verso l’area allora tutta campagna di San Benedetto, quell’enorme campagna in cui sarebbe sorto, isolatissimo, il convento francescano che nel Settecento avrebbe ospitato il nostro Sant’Ignazio… Era il quartiere contadino, di confine, Villanova, citato come una città autonoma perfino nel famoso Dittamondo di Fazio degli Uberti, press’a poco nel tempo di Dante. L’abbiamo studiato a scuola, almeno per cenni, e l’ho citato prima non a caso. Comunque la ricordò Alziator stesso, questa finestra sarda e cagliaritana del Dittamondo, presentando quasi mezzo secolo fa il libro che il Comune aveva realizzato, con i contributi di Paolo De Magistris, Giuseppe Della Maria, Nicola Valle e Lino Salis, per celebrare i cinquant’anni dalla morte di Ottone Bacaredda.

La città en marche di Bacaredda e quella metropolitana d’oggi

«Questo riferimento, non allontanandomi troppo da quel che dicevo di Villanova – uno dei quattro polmoni urbani della Cagliari storica – mi suggerisce una considerazione: la consiliatura scorsa, finita anzitempo per la rinuncia del sindaco Zedda, avrebbe dovuto concludersi nel 2021, giusto in coincidenza con il centenario dalla scomparsa di quel grande sindaco rimasto nella storia di Cagliari. Dico nella “storia” perché quel che egli ha fatto per la città è tangibile e prezioso ancora oggi, ma direi presente nella “mitologia”, nel sentimento civico, anche delle generazioni come la mia che ovviamente non lo ha conosciuto, perché quel che ci è stato tramandato di lui è stato, al netto dei limiti umani, virtuoso: la continuità del servizio amministrativo, il pensare in grande, per strategie urbanistiche e sociali. Ripeto: al netto di alcune cadute, come le incomprensioni di alcuni bisogni popolari che portarono ai moti del 1906. Che furono disordini provocati però, si badi bene, non soltanto da elementi dei ceti più poveri, dalle operaie della Manifattura, ma da altri scontenti, diremmo oggi dai padroncini che si lanciarono in una impossibile sfida alla modernità, prigionieri del loro luddismo si mossero per un’avversione antistorica alla modernizzazione della città. Perché il progresso tecnico o tecnologico porta sempre conseguenze anche negative, che bisogna però saper assorbire. Allora erano i vagoni della Tramvia del Campidano che toglievano lavoro ai carrolanti che da sempre erano andati su e giù fra le aziende vinicole di Pirri o Monserrato e il porto (per l’export di uve e vini). Nella modernizzazione della città entravano anche le celle frigorifere dei mercati, che consentivano ai macellai o ai fruttivendoli di non svendere la sera quel che restava sul banco… e dunque di mantenere i prezzi anche l’indomani, per merce sempre in ottimo stato.

«È una storia che si ripete, sì in forme diverse ma si ripete ancora oggi, con i progressi tecnologici e informatici per cui le aziende risparmiano sul lavoro, anche quello dei colletti bianchi, con soltanto quello operaio… Le banche del largo Carlo Felice negli ultimi quindici/venti anni hanno dimezzato il loro personale, da 600 unità si è scesi a meno di trecento, ma registriamo lo stesso fenomeno ovunque, dalla Biblioteca universitaria ad certa ospedalità, quante case di cura hanno chiuso!… E tocca alla politica mostrare la capacità, d’intesa con le categorie, di favorire o generare opportunità nuove e alternative per non restare imprigionati, e sconfitti, nella evaporazione dei posti di lavoro…

«Dicevo prima, cercando di saldare l’oggi ad un ieri quasi remoto, quello di Ottone Bacaredda, di un prossimo centenario che avrebbe dovuto, o che ci dovrà costringere a una riflessione… se posso dire così… di consuntivo, o di retrospettiva circa quel che le nostre generazioni, tanto più in questi anni o decenni di passaggio di secolo e di millennio, hanno saputo realizzare, chi nelle professioni e in generale nelle attività lavorative e sociali, chi nella gestione del pubblico interesse, per fare di Cagliari una città inclusiva, generosa e bella, ospitale e creativa. Non una città che assorbe, ingorda, i finanziamenti regionali o statali o europei destinati ad altri, no, questo no: il problema dello spopolamento delle zone interne mi è presente e non vorrei che il capoluogo fosse, anche se indirettamente, causa di questo fenomeno per una certa eccessiva polarizzazione demografica: anche perché questo non è nella realtà, i dati dei censimenti e degli uffici anagrafe parlano chiaro. Dunque, non una città che cattura i finanziamenti con un insopportabile vampirismo, ma una città che sa cogliere ogni opportunità per spendere sollecitamente, e bene, nell’interesse generale. E che oggi, con lo strumento istituzionale proprio della città metropolitana sa anche spalmare, in funzione di riequilibrio territoriale, i benefici di un urbanesimo moderno».

Ottimo così. La mente vaga un’altra volta ancora sul ponte “oggi-ieri-oggi”, fra la Cagliari bacareddiana che, ancor più grazie al piano dell’ingegner Costa (dopo le elaborazioni del Cima), risultò dalla effettiva unificazione dei quartieri che erano stati per sei secoli cittadelle semiautonome anche amministrativamente – conosci gli studi del professor Sorgia? –, e la Cagliari 2019 che accorpa orizzontalmente mezza provincia. Vale questo parallelo?

«La recente esperienza di presidente del Consiglio comunale mi ha costretto, piacevolmente, alla presenza con la testa attenta e tutti e due i piedi nella realtà d’oggi e di domani, quella in costruzione, e però anche allo studio più mirato, torno a dirlo, della città del passato. Ecco ancora Bacaredda: la sua virtù amministrativa fu premiata anche dalla fortuna, perché si sa che, giusto cinque-sei anni dacché era iniziata la sua avventura comunale con il partito della cosiddetta Casa Nuova, all’indomani del crac bancario che tanti guai aveva prodotto anche nelle casse pubbliche, oltreché di centinaia e centinaia di risparmiatori, poté contare su risorse impensate. Furono oltre tre milioni e mezzo di lire che pervennero al bilancio comunale come risultato, per sentenza giudiziaria, di una annosa vertenza che aveva opposto il Comune al ministero delle Finanze. Ebbe quelle risorse, si trattava di decidere come spenderle. Cagliari aveva allora diecimila suoi residenti costretti nei sottani dei quattro quartieri, con tutto quel che ne conseguiva in termini di malattie da povertà… ma soffriva anche per la diffusa disoccupazione, ed erano anzi frequenti le proteste per la concorrenza esercitata dai forzati di San Bartolomeo assunti nei cantieri delle opere pubbliche, dato che costavano di meno… 


Il miracolo del Bastione

«In quanto città capoluogo, Cagliari pativa un deficit di infrastrutture civili, come le scuole, la distribuzione idrica e l’illuminazione non ancora elettrica delle strade, era ferma l’edilizia popolare… I partiti popolari, soprattutto i socialisti, insistettero allora per la priorità da riconoscere alle case operaie – ciò che sarebbe avvenuto più tardi, con i piani di Campo Carreras degli anni ‘8-10 –, mentre Bacaredda e i suoi ragionarono diversamente, ovviamente senza mancare negli interventi d’assistenza spiccioli. Pensarono occorresse puntare sulle grandi opere pubbliche che mentre ammodernavano la città, davano lavoro agli operai, o, a vederla specularmente, mentre assicuravano un salario agli operai dei cantieri, facevano avanzare Cagliari negli standard della modernità italiana. Ecco così le elementari di piazza del Carmine – necessarie alla scolarizzazione dei bambini di Stampace e della Marina (poi sarebbe venuta Santa Caterina a Castello e dopo ancora il Riva di piazza Garibaldi a Villanova) –, ecco il municipio in via Roma, di fronte al porto che era il vero polmone economico di Cagliari, e quel palazzo municipale simbolicamente affiancava il governo cittadino ai luoghi di produzione del reddito e della ricchezza… Ma soprattutto ecco il bastione, o i bastioni, la trasformazione dei bastioni della Leona e della Zecca che significò non soltanto la terrazza panoramica Umberto I, o la Passeggiata coperta, ma significò soprattutto la monumentale scalinata. 

«Perché? Perché quella scalinata significò la nuova relazione fra il Castello, ancora sede della prefettura e del Consiglio provinciale, dell’Intendenza, dell’Università, dei comandi militari e anche dei comandi della Chiesa, e i quartieri “de basciu”. Ecco come la federazione di quartieri, di cittadelle semiautonome, quelle elencate nel Dittamondo e arrivate alle soglie del Novecento, diventava una città sì sempre articolata, ma anche unitaria. Perché Villanova e la Marina, e anche Stampace attraverso la via Manno – le appendici storiche cioè – si collegavano direttamente con Castello, e Castello con i quartieri del lavoro agricolo o artigianale o marinaro specializzatosi nei territori a valle… Ecco, senza smettere quel che per sei-sette secoli erano stati, quei quartieri confluivano veramente, plasticamente, ma direi anche ed essenzialmente moralmente, psicologicamente, in una realtà più vasta, la città che portava su di sé la dignità di capoluogo della provincia e idealmente, perché la più popolata e porta d’entrata ed uscita sul mare, dell’Isola intera».

Come i quartieri di Cagliari un tempo, così oggi i comuni dell’hinterland e del basso Campidano: è questo il parallelo che stai proponendo? Tu stai facendo questo discorso, certamente corretto e anche suggestivo, ovviamente considerando lo scarto fra l’autonomia, ampliata o ristretta, di un quartiere e quella di un comune. Direi però anche, guardando a una fase intermedia di questa ideale curva storica: una aggregazione diversa da quella realizzata d’imperio, con opera puramente centripeta, dal fascismo nel 1928, accorpando al capoluogo i comuni allora autonomi di Elmas e Pirri e Monserrato, Selargius e Quartucciu.

«Ah, questo è certo. Oggi con la città vasta, con la città metropolitana, noi ci troviamo in una situazione che se per molti versi possa essere rassomigliata a quella entrata nelle dinamiche di un secolo fa, certo anche se ne distingue. Non si tratta di omologare fra loro, oppure con Cagliari, Sestu e Decimo o Capoterra, Quartu Sant’Elena e Pula o Sarroch: no, ciascun comune resta quello che è, tanto più come comunità civica con la sua storia, i suoi legittimi orgogli del passato e del presente, né Cagliari si ruralizza concertandosi amministrativamente con il suo ampio entroterra: qui si fa un discorso piuttosto impegnativo sia sotto il profilo dello spirito pubblico che ci unifica o si armonizza e ci valorizza proprio nell’atto di associarci gli uni agli altri, sia sotto il profilo propriamente materiale, dell’integrazione dei servizi e della pianificazione territoriale. Significa andare più decisamente verso la modernità, la razionalizzazione e l’efficientamento dei servizi, e significa spingere tutti verso un sentimento che supera anche quanto residuava dell’antica dicotomia campagna-città: siamo tutti inseriti nella modernità, si tratta di adottare quegli strumenti di governo pubblico concertato perché tutti quanti possiamo godere delle sue ricadute. E la parola chiave è “concertazione”, non “imperio”.

«Credo proprio di non sbagliare se affermo che il dato morale/sentimentale sia già acquisito, né soltanto da oggi. E non solo perché i quartesi o i monserratini, i selargini o i sampietresi, ecc. tifano per il Cagliari, ma perché nel capoluogo hanno studiato o studiano alle superiori o all’università, qui hanno le loro amicizie e anche il gusto del passeggio, la spiaggia, il cinema o il teatro, i giovani hanno i locali, i pub, un tempo (ma anche oggi) le discoteche, tutti quanti alcuni luoghi di incontro religioso, purtroppo tante volte anche l’ospedale… Tutti conoscono la toponomastica cittadina, anche i non residenti. Cagliari è ormai l’area vasta, la città metropolitana. Abbiamo tutti quanti, quelli che qui sono nati e cresciuti e quelli che qui vengono ogni giorno per lavoro o per le ragioni più diverse, abbiamo tutti quanti sviluppato un sentimento nuovo e più maturo, più ampio, della nostra cittadinanza: è nella partecipazione, negli incontri, anche nell’essere utenti di questo o quel servizio pubblico intercomunale – pensiamo ai trasporti –, anche nell’essere clienti di questo o quell’ipermercato, ecc. che noi traduciamo nel concreto una cittadinanza attiva, presente e corrente, responsabile… Lo vedo la domenica mattina girando per i mercatini di Sant’Avendrace, lo vedo nei passeggi di Marina Piccola o del Poetto, anche d’inverno, lo vedo nelle situazioni più diverse…Se vai a messa, trovi a Bonaria o al santuario di Sant’Ignazio, la domenica, centinaia di fedelissimi che vengono da Quartu e Decimo e Sinnai…».

Profilo di un ingegnere prestato all’Amministrazione civica

Incontro Guido Portoghese alla vigilia del nuovo turno elettorale amministrativo, tre anni dopo quello che per lui s’era risolto in (ben graditi) 1.002 voti di preferenza – primo in lista per gli apprezzamenti delle urne – e nel riconoscimento di una presidenza dell’assemblea civica avvenuto ad unanimità di consensi, maggioranza e minoranza. In ufficio tutti i giorni, combinando gli orari del municipio con quelli della professione che gli assicura l’indipendenza economica, il non dover vivere di politica cioè. E’ di temperamento mite Guido Portoghese, ingegnere cagliaritano di una leva anagrafica ancora giovane: forse non ha mai gridato in vita sua; ha un approccio cortese spontaneo, non per convenienza, con chiunque le circostanze portino ad un incontro. Ed ha la grande virtù di ascoltare, di assimilare (certo per valutare criticamente, non per digerire tutto comunque!), di darsi al confronto di idee e di esperienze. Se lo può permettere – questa è la mia personale opinione – perché nel suo book le esperienze sono ormai davvero molte e varie, e perché lo studio diligente degli anni scolastici e universitari è stato un esercizio che non si è mai interrotto, neppure ora che ha una professione certa e affermata.

Lo dico per quel che possa valere, entrando con qualche prepotenza di metodo in questo impasto conversativo: ne ho stima, coltivo la sua amicizia da un decennio circa, perché abbiamo lavorato insieme – e un domani, chissà, daremo alle stampe l’esito di tanti lavori compartecipati – attorno ai profili pubblici, tutti cagliaritani, di alcuni dei nostri “maggiori”: lui per i rapporti diretti che l’Amministrazione comunale ha intrattenuto con essi (e anche, doverosamente, con la loro memoria), io per aspetti di impronta più esterna, chi nella letteratura o nella docenza, chi nella professione o anche nella testimonianza democratica in tempi difficili.

E d’altra parte, quando lavoravo intensamente alle collane del sardoAzionismo, all’interno o attorno all’associazione Cesare Pintus che aveva presentato quei titoli in una sequenza impressionante di convegni e tavole rotonde – relatori o testimoni Paolo De Magistris e Manlio Brigaglia, Antonio Romagnino e Vindice Ribichesu, Simonetta Giacobbe e Ottavio Cauli, Mario Melis e Michele Columbu, Fernando Pilia e Tito Orrù, Gianfranco Contu e Lorenzo Del Piano, Giuseppe Serri e Bachisio Zizi, Achille Sirchia e Walter Angioi e Fausto Cara… quante care personalità oggi scomparse!, di fianco ad amici come Marcello Tuveri e Gianni Filippini, Salvatore Cubeddu e Giancarlo Ghirra, Vito Biolchini e Romano Cannas, Filippo Peretti e Armando Serri, e altri ancora come Giorgio Macciotta, Gian Giacomo Ortu, Annalia Cao Diaz… - tanto più allora egli si affacciava, giovanissimo studente di Ingegneria e poi giovane professionista interessato alla storia democratica della sua città, agli incontri via via proposti: anche nella sua facoltà universitaria che utilizzammo per trattare di un possibile miglior utilizzo delle acque pubbliche (l’ingegner Roberto Binaghi era assessore tecnico dei repubblicani nella giunta regionale), anche e più volte nell’aula civica dove un giorno egli avrebbe presieduto non sedute accademiche ma il dibattito sulle sorti immediate e mediate del capoluogo.  

Questa conversazione nasce dunque da lunga consuetudine, dai “fuochi” condivisi anche con Enrico Lobina e altri al tempo della sconveniente dittatura dell’arcivescovo Mani e delle sue pretese padronali sulla antica (e a me particolarmente cara) collegiata di Sant’Eulalia, sulla sorte del ministero religioso, culturale e sociale di don Mario Cugusi nel quartiere della Marina… Fu Portoghese con Lobina a coinvolgere i colleghi consiglieri, contro l’agnosticismo (per non dire l’ignavia quella volta) del sindaco Zedda, in una premiazione speciale al parroco dimissionato di Sant’Eulalia. Una gran giornata. 

La mia distanza dal Partito Democratico, invece di far velo all’intesa personale, e anche alla programmazione di questo libero e disteso colloquio di vigilia elettorale, credo possa marcare oggi, con tutta onestà – com’è giusto e doveroso – la limpidezza dello scambio, della dialettica che muove una riflessione, evidentemente valida soltanto se priva di riserve o secondi fini.    

A lui nuovamente la parola. 

Partendo dall’ultima esperienza: la presidenza consiliare

«Io sono stato impegnato, con ruoli diversi, nell’Amministrazione comunale ormai da una dozzina d’anni. Ho cominciato che ero poco più che trentenne, ora sono ai 45. Quando iniziavo ero laureato da pochi anni, avevo avviato la mia attività di libero professionista, con tutte le difficoltà di inserimento che sono immaginabili e che sono di pressoché tutti i giovani al loro esordio. Master in informatica e direzione aziendale, collaboratori pochi ma bravissimi nello studio professionale per progettazioni urbanistiche e architettoniche… In occasione di un altro incontro ti avevo confidato il gusto che provo per la mia professione. Se posso autocitarmi – posso? – ripeterei cinque o sei righe in cui ancora pienamente mi ritrovo: “Il mio è un lavoro che direi creativo e che appassiona perché ti obbliga alla concretezza, alle scelte realistiche, a tener conto anche del contesto che è come è e non come vorresti che fosse (penso anche alla burocrazia e a certe normative non tutte chiare e coerenti): così vai dalla ricerca del finanziamento alla stesura e alla messa in atto del progetto, al calcolo delle strutture in cemento armato, alla direzione dei lavori, agli adempimenti in materia di sicurezza, all’assistenza dopo la fine dei lavori e al collaudo”. 

«Nelle istituzioni rappresentative, in specie al Comune, ho fatto un apprendistato come consigliere di circoscrizione, impegnandomi in particolare nella commissione Lavori Pubblici, di cui ebbi la presidenza. La mia missione, come quella dei colleghi commissari, sia di maggioranza che di minoranza, era per una maggiore valorizzazione del centro storico. D’altra parte, l’ho detto, sono di Villanova, vi ho vissuto da bambino, ho famiglia e casa lì. Il quartiere di San Giacomo e San Giovanni, delle grandi arciconfraternite del Venerdì santo, il quartiere dei domenicani che arrivarono addirittura nel ‘200 e anche di San Mauro, che ebbe un teatrino ancora nel Novecento, e vi si esibirono i fratelli Medas dell’altra generazione… San Mauro che nel 1980 accolse padre Morittu che vi impiantò la sua prima comunità di recupero… Il quartiere che in ultimo era stato di Bacaredda… per tornare al discorso di prima. Egli, stampacino di nascita, aveva vissuto e lavorato anche in via Manno, nel viale Regina Margherita – alla Marina cioè –, poi da anziano s’era trasferito in via San Giovanni, dove morì». 

Torniamo sempre lì, al nostro Bacaredda.

«Torniamo a Bacaredda per ripartire da Bacaredda e ripensare la città come si è sviluppata nel corso di un secolo intero, da fase storica a fase storica, da Amministrazione ad Amministrazione. Nel conto io metto anche la gestione dei podestà fascisti, come quella di Vittorio Tredici e dell’avvocato Enrico Endrich, che fu senz’altro una buona amministrazione, anche se i loro meriti si spengono purtroppo nella dimensione politica della dittatura e all’alleanza con i nazisti che ci portò alla guerra, ai lutti tremendi, alla distruzione di gran parte dell’abitato. Si è sempre ricordato – e tanto più da quando la tua associazione Cesare Pintus ha riportato nella conoscenza dei cagliaritani la memoria democratica di quel grande sindaco della ricostruzione – che, sul totale di circa 7mila edifici che costituivano l’abitato di Cagliari nel 1943, nell’anno dei bombardamenti, ben 882 furono completamente distrutti e 1.647 più o meno danneggiati, per un totale di circa 4mila appartamenti. Sono questi i numeri del censimento che effettuò allora l’Ufficio tecnico del Comune e che Pintus, sindaco dalla fine del 1944 e fino alle elezioni del marzo 1946, riferì in una famosa intervista a L’Unione Sarda, il giornale che era anch’esso tornato a vita nuova dopo la sospensione dei bombardamenti di maggio.

«Ci fu allora la febbre della ricostruzione. Forse la metà degli edifici lesionati – questo fu un calcolo orientativo dello stesso sindaco Pintus – furono rimessi in pristino, almeno per il tanto che occorreva per viverci, nell’arco di uno-due anni; naturalmente per grosso restava da fare. Ricordo di aver letto un bellissimo articolo di Fabio Maria Crivelli, indimenticato direttore de L’Unione Sarda – che so esserti caro –, che ricordando com’era la città quando egli vi arrivò per dirigere il giornale, segnalava l’alternanza – ancora nella metà degli anni ’50 – delle moderne vetrine illuminate che chiamavano alla vita e alla modernità, al consumo, e delle macerie ancora in cumulo lungo le strade tutte… sdentate.

Da Pintus a Mandolesi

«Negli anni ’50 e ’60 si susseguirono a Cagliari Amministrazioni tutte di segno moderato, centrista, a larga prevalenza democristiana, cui si opponevano con franchezza spesse volte rude, le sinistre. Poi i socialisti entrarono nelle maggioranze, così dalla metà degli anni ’60, quando anche fu approvato il piano regolatore, finalmente. Era il 1965, e il piano prese il nome dall’ingegner Enrico Mandolesi, mitico docente della mia facoltà. Egli disegnò la città espansiva, quella dell’asse mediano di scorrimento, dei quartieri di cintura, da Genneruxi a Mulinu Becciu ecc. Un grande urbanista. Naturalmente la normativa, con tutti i piani particolareggiati, ecc. per andare a regime, per lasciare la sua impronta per davvero nel concreto materiale cittadino, dovette scontare i suoi tempi, dovettero passare diversi anni ancora. Ma quel che mi premeva dire, oggi che siamo lontani da quel tempo e possiamo tutti quanti permetterci uno sguardo retrospettivo piuttosto oggettivo e sereno, che quelle Amministrazioni comunali furono comunque tutte quante, complessivamente, positive. Cagliari ha avuto dei signori amministratori davvero, e dei tecnici nel suo organico di gran livello, e abilissimi segretari generali… ricorderei adesso almeno Aurelio Espis, che fu una istituzione anche del movimento cattolico organizzato a Cagliari già da prima del fascismo, amico del papa Paolo VI. 

«Da presidente del Consiglio comunale mi è capitato di onorare pubblicamente diversi di questi esponenti della politica cittadina il cui nome oggi giustamente onoriamo nella nostra toponomastica. Mi riferisco al sindaco avvocato Luigi Crespellani – che poi fu anche il primo presidente della Regione sarda, instauratasi nel 1949 – e al sindaco Pietro Leo, che era anche segretario generale dell’Università e uno storico apprezzato; mi riferisco a Mario Palomba, che era il capo dell’Avvocatura di Stato a Cagliari, mi riferisco a Giuseppe Peretti, indimenticato rettore dell’Università e prossimo sponsor della cittadella dei Musei: personalità autorevole e indipendente, a lui la sindacatura venne offerta dai democristiani su proposta convergente dei sardisti di Titino Melis e dai liberali di Ciccio Cocco Ortu… Nel 1967 venne Paolo De Magistris, alla cui memoria abbiamo dedicato una tornata recente del Consiglio comunale, nel ventennale della scomparsa. Egli poi tornò alla guida del Comune dal 1984 e fino al 1990.

«Cosa avvenne nella città in quei primi venti-venticinque anni dopo la fine della guerra e la caduta della dittatura? Cagliari fu un cantiere, un enorme cantiere con centinaia e centinaia di operai assunti da impresari più o meno grandi ed esperti… Della ricostruzione pagò qualche prezzo anche la nostra spiaggia, purtroppo».

Ecco. L’urgenza di ricostruire indusse ad abusi, la politica non fu sempre virtuosa nonostante la santità personale degli amministratori e dei sindaci soprattutto, però. Forse era carente anche la disciplina normativa in materia.

«E’ vero. E’ nella storia. I condizionamenti di certe lobbies del cemento furono indubbiamente forti, fortissime – in questo senso fu particolarmente sotto accusa il governo amministrativo del professor Giuseppe Brotzu, che pure fu un uomo di specchiata moralità –, ma va detto che la stessa cultura urbanistica, quella dei tecnici, includeva l’innamoramento delle verticalità modello Milano o modello New York addirittura. Le torri moderne, neppure tutte rifinite cambiarono il volto di alcune parti perfino centrali della città: si pensi alla piazza Yenne, ma anche alla via Grazia Deledda… venne il palazzo cosiddetto Belvedere, a Buoncammino, salirono le torri presso l’area portuale, le torri dette delle società d’assicurazione, della Società Elettrica che stava diventando ENEL… Quel che voglio dire è che Cagliari dovette fare molto e in fretta, dopo gli sfracelli della guerra, rinascere e rinascere moderna. Non dobbiamo dimenticare che nel dibattito che si aprì subito dopo la devastazione dei bombardamenti c’era chi proponeva di lasciar perdere le macerie, di spostare il capoluogo d’altra parte, magari ad Abbasanta… Certamente il ceto politico-amministrativo sardo e cagliaritano in particolare non fu d’eccellenza, ma fu sostanzialmente corretto e adempiente. 

«In pochi lustri furono migliaia le case – anche le case popolari – costruite fra Is Mirrionis e La Palma, si completò il sistema delle case minime di Sant’Elia (che venivano dal piano Fanfani), sorsero numerosi stabilimenti scolastici di diverso ordine e distribuiti nei diversi quartieri e anche nelle frazioni (in vent’anni si trattò di quasi cinquanta plessi fra primarie, medie e superiori come il nuovo Dettori, o il nuovo Siotto, o il Pacinotti, o il Leonardo, o l’Eleonora d’Arborea…), sorsero i servizi sportivi collettivi, tanto più quelli adiacenti al recinto fieristico e andando oltre il CONI, oltre la piscina coperta e verso lo stadio Amsicora risistemato dopo il passaggio in A del Cagliari, e così venne anche il palazzetto del basket… Nel viale Colombo presero la loro sede alcune società di nuoto e pallanuoto. Fu quella la lunga stagione delle aperture dei nuovi cinematografi magari cominciando dal 4 Fontane, per una fruizione certamente non soltanto dei cagliaritani. Furono adeguate le stazioni ferroviarie ed autobus, l’Amministrazione accompagnò positivamente le decisioni della diocesi – era arcivescovo allora monsignor Botto – circa l’insediamento di chiese parrocchiali nelle aree di espansione, fra Monte Urpinu e Fonsarda, Genneruxi e Is Mirrionis-San Michele, via della Pineta verso l’Amsicora fino a La Palma e al Poetto… Sarebbe venuto nel tempo, dal 1968, il CEP, che significava un alloggio decente a centinaia di famiglie provenienti dalla precarietà di Is Mirrionis soprattutto… Il piano originario mi pare bilanciò 2 miliardi di lire, era forse il 1960. Bisogna considerare che i quartieri non sono soltanto le case, ma sono anche le infrastrutture, i servizi idrici e l’illuminazione, il sistema viario. I tempi della realizzazione di qualsiasi piano sono lunghi, lunghissimi anzi, per ragioni burocratiche peraltro per molti aspetti sacrosante. Dell’ospedale Brotzu, inaugurato nel 1982, si cominciò a discutere in Consiglio comunale mi sembra dal 1958, così dello stadio Sant’Elia: il Cagliari era allora ancora in B!, e fu inaugurato nel 1970».


Le trasformazioni della città

Io ho memoria di quel tempo lì, ero ragazzo, di Villanova pure io, e le scuole medie erano nel nuovo caseggiato di via Venezia. Facevamo la corsa campestre nella collinetta tutta calcarea alle spalle di San Pio X e sopra la via Generale Cagna, ci godevamo gli allenamenti di Nené, Gallardo e Riva… Sia la via Milano che la via della Pineta erano bei cantieri! Era un tempo di sviluppo, la motorizzazione diventava di massa, aprivano i primi supermercati, che erano una novità assoluta per la città abituata alle botteghe sotto casa, cambiavano i consumi ed entravano gli elettrodomestici in casa, la pubblicità entrava nel costume quotidiano, avevamo ancora i casotti al Poetto. Era anche un tempo, non bisognerebbe dimenticarlo, di un alto indice di natalità per la città, il tempo anche di certi abbellimenti, di grandi opere pubbliche come la scalinata di Bonaria, per non dire del completamento e sviluppo della via Dante fino a piazza Giovanni. Mentre parlavi della realtà che avanza oggi con la città metropolitana, pensavo a questi anelli concentrici, espansivi, dai quattro quartieri storici riuniti dalla scalinata del Bastione ai nuovi quartieri allestiti per il grosso negli anni della dittatura come San Benedetto e Bonaria, ai nuovi del dopoguerra, alla cintura finale degli anni ’60-70 nelle periferie – o allora periferie – come CEP e Fonsarda, San Michele e Mulinu Becciu, S’Arrulloni… Più in qua nel tempo anche San Bartolomeo.

«E nel mezzo Sant’Elia. Il Favero, eravamo negli anni ’70, press’a poco quelli della mia infanzia. C’era un ribollire positivo in città. Sono documentatissimo, fra i miei amici più cari sono numerosi quelli, di una generazione più grande della mia, che hanno partecipato alle lotte per la casa. E fra esse si poneva, con la sua singolarità, la questione di Sant’Elia. Sono state numerose le tesi di laurea nella mia facoltà dedicate a Sant’Elia, cito soltanto quella di Luca Caschili, sono usciti di recente anche dei bei libri sull’argomento, ricorderei soltanto, perché proprio recentissimo e perché esito di una ricerca multidisciplinare e scritto a molte mani, L’emozione di uno spazio quotidiano: parole, racconti, immagini di Sant’Elia. Direi che il dibattito che si sviluppò allora aveva un vizio di fondo e anche un dato di nobiltà di fondo anch’esso: la nobiltà era data dalla consapevolezza della urgenza di soddisfare il bisogno alloggiativo di centinaia di famiglie residenti soprattutto a Is Mirrionis, ma anche in altre zone.

«Il vizio che accompagnò la decisione amministrativa del raddoppio dell’insediamento a valle di Sant’Elia storico, fra il nuovo grande stadio e il colle abitato già da vent’anni dai pescatori delle case minime, attorno alla chiesetta poi diventata una gran bella chiesa in cui passarono fior di preti sociali, fu la soluzione ammassiva del Favero, che rimandava alle Vele di Scampia, allo Zen di Palermo ecc. Fu l’urgenza forse a spingere verso quella soluzione, e la relativa limitatezza dei fondi di edilizia popolare disponibili allora. Il dibattito che aveva preceduto quell’insediamento-mostro – così lo possiamo definire, e ancor più abbruttito dalla assoluta insufficienza delle manutenzioni registrata per lunghi anni, oltre che da altre situazioni di degrado o fragilità sociale di molti residenti – era consistito nella scelta dirimente fra un insediamento popolare e una valorizzazione turistica, con belle case borghesi, in faccia al mare… Fu questo mix di ideologismo e di condizionamento culturale anche dei tecnici, consulenti prima e operativi dopo, – noi tecnici, parlo da ingegnere adesso, abbiamo sempre parte in queste decisioni, e non sempre abbiamo visto più chiaro dei politici –, fu questo mix associato all’urgenza assolutamente bruciante di dare risposta a un bisogno sociale di vastissime proporzioni a dar la licenza a costruzioni di quella tipologia lì. Erano centinaia gli attendati davanti al municipio… Ma ormai è storia».

Li ho vissuti pure io quei tempi e ho conosciuto quelle tensioni, e anch’io, pur giovanissimo e certamente senza voce in capitolo, spingevo per una soluzione d’urgenza. La stessa Chiesa cagliaritana si mobilitò, gli studenti della facoltà teologica appena trasferitasi da Cuglieri in città volantinarono nelle parrocchie… pensa che nel giro c’era, allora giovane poco più che ventenne, il cardinale Angelino Becciu… In quel tempo il solo nome di Sant’Elia – che poi è stato rubato, come marchio sociale e nella notorietà nazionale, dallo stadio dei campioni scudettati e di Cagliari 90 – era simbolico, rappresentativo di una emarginazione sociale che costituiva colpa per i cagliaritani. Grandi cagliaritani di spiccata sensibilità sociale, soprattutto provenienti dai ceti benestanti e colti, allora giovanissimi, avevano fatto volontariato in specie medico: ricorderei Franco Oliverio, allora ancora studente universitario, ricorderei il gruppo che pubblicava Gulp…».

Di Sant’Elia e del Poetto

«Sant’Elia costituisce un capitolo importante da affrontare in tempi ravvicinati. L’abbattimento o la trasformazione radicale del Favero imporrà soluzioni alternative, per i tempi dei lavori – provvisorie dunque – e una nuova dimensione o un nuovo rapporto quantità-qualità dell’insediamento. Un tempo da Sant’Elia si diceva, alludendo alla città, “andiamo a Cagliari”; i suoi abitanti non si sentivano inglobati, socialmente e sentimentalmente, in Cagliari. 

«Il complesso del Favero e gli altri palazzoni del quartiere Sant'Elia non sono di competenza comunale, ma regionale (AREA). E' evidente la differenza con il borgo vecchio di competenza comunale, nel quale sono stati riqualificati gli spazi pubblici e i complessi abitativi. Noi abbiamo puntato sulla qualità degli spazi urbani e sulla sostenibilità degli interventi atti a conseguire una nuova residenzialità, rimodulando le scelte sull'offerta abitativa. E' auspicabile che la Regione faccia altrettanto sulle parti di sua competenza».

Credo sarebbe auspicabile una soluzione che, data anche l’importanza della materia, sia prossimamente condivisa dalla maggioranza – quale che essa sia – e dall’opposizione. Bisognerà volare alto nel trovare i rimedi finali ma anche nell’individuare le fasi transitorie delle incisive ristrutturazioni, se di questo alla fine si tratterà. Si tratta di diverse centinaia di famiglie e di una quota di popolazione che porta una sensibilità speciale alla integrazione… Come potrebbe pensarsi a una città metropolitana che si spinge fino a Pula o Sinnai e non integra Sant’Elia?

«Confido anch’io, naturalmente, in questo accordo civico: la causa è troppo importante per poter divenire essa stessa elemento di divisione e contrasto fra le forze politiche. E confido in una soluzione positiva perché Cagliari, in modi diversi, ha comunque dimostrato più volte uno spirito conciliativo e pragmatico. Io stesso, esponente di una formazione che ha una sua precisa collocazione nello schieramento politico, riconosco che, quando bene quando meno bene, le Amministrazioni ce l’hanno messa tutta, con il sostegno consiliare, ad affrontare le grandi questioni d’interesse generale. Al di là del colore politico dei sindaci e, con loro, degli assessori: da De Magistris a Scarpa, da De Sotgiu a Di Martino, da Fanti a Murtas a Salvatore Ferrara – sindaco socialista dalla fortissima personalità – ed a Roberto Dal Cortivo pure socialista che gli succedette anni dopo, da Angelo Lai – sindaco democristiano che subentrò a De Magistris nello stesso anno dello scudetto e della visita a Cagliari, proprio a Sant’Elia, di Paolo VI – a Giua Marassi, a quelli venuti dopo la riforma – mi riferisco a Delogu, Floris e Zedda – da parte di tutti è venuta una partecipazione, direi una dedizione all’interesse generale che impegna i successori a non essere da meno.

«Intendiamoci non voglio dire che nel mio giudizio essi siano stati tutti uguali, o che dal mio punto di vista l’uno valeva l’altro: ciascuno ha vissuto un momento particolare della storia cittadina, c’è poi la fallibilità della nostra natura umana da mettere in conto, ci sono i condizionamenti da parte dei vicini, dei collaboratori, della propria parte politica, e i condizionamenti legittimi degli avversari che possono essere una volta più illuminati e lungimiranti e un’altra no… Io non devo dare pagelle. La esperienza di presidente del Consiglio comunale uscente, al di là di un certo temperamento conciliativo mio personale, mi ha portato a considerare il Comune come una istituzione unitaria, nella dialettica necessaria fra le parti opposte della rappresentanza, mi ha portato a comprendere bene come quello che sembra il merito di uno – il sindaco che taglia il nastro di un’opera pubblica – è spesse volte merito da condividere con chi ha impostato la pratica amministrativa di quella certa opera pubblica e per questo non ha ricevuto applausi, e al contrario, quando degenera una certa situazione non si va spesso a ricercarne le cause e responsabilità remote e vere e si crocifigge l’amministratore di turno… 

«Certo vien da pensare a grandi realtà sociali che sono state risolte – anche nei termini drastici degli abbattimenti – con un decreto che ha riassunto in poche righe storie e ragioni che avrebbero meritato forse approcci “riformisti”, gradualisti, e non chirurgici: mi riferisco al Poetto, o ai casotti, e pongo la questione in termini problematici, come spunto di riflessione. Premetto che, per ragioni anagrafiche, io non ho potuto vivere l’epopea del Poetto come è nella memoria degli anziani ed è raccontata in molti bellissimi libri, di testimonianza e fotografici, di Giancarlo Cao, Giuseppe Podda, Attilio Della Maria, ecc. Il Poetto delle dune di sabbia finissima, il Poetto dei casotti che montavano e rimontavano sull’arenile is bixinaus della città, eccoli a confronto is bixinaus della città dei quartieri e is bixinaus della città del mare e dell’estate. Un’umanità unica e irripetibile. Ma certo in un contesto materiale non oltre accettabile, per la carenza di servizi igienici spaventosa, direi assoluta. Ecco qui. Il deficit sanitario combinato all’altro, strutturale, dell’arenile mangiato progressivamente dal mare in conseguenza delle modificazioni nel passaggio delle correnti marine registratesi fin dal tempo della costruzione dei moli SARaS, cinquant’anni fa, aveva posto il problema al Comune, alla Provincia, al Demanio. Anziché riallineare, razionalizzando, i casotti – autentico monumento di architettura popolare che rimontavano, più vecchi, agli anni ‘20 – e anziché potenziare la rete dei servizi, disciplinandone la fruizione, si andò all’abbattimento per decreto ministeriale. Poi venne il ripascimento mal fatto, anzi molto mal fatto anche per cattivo consiglio dei tecnici, almeno così si è capito, anche in occasione dei processi.

«Certo oggi, a parte le dune ormai perdute, il Poetto ha recuperato vivibilità, una nuova vivibilità per quanto è stato introdotto nel lungomare, nelle passeggiate… Aggiungerei che forse le nuove generazioni, che vivono altre dinamiche, non si sarebbero affezionate alla “sagra” estiva della vita in casotto, che era anche il riflesso sentimentale di una società più povera e più bisognosa o desiderosa di spirito comunitario, di vicinato… Chissà, ci manca la prova contraria». 

Andando alle elezioni: uno sguardo tutt’attorno

Quel che ti proporrei, a questo punto, è di entrare nel tuo programma amministrativo, un programma certamente condiviso con il tuo partito, elaborato dai tuoi amici e compagni del PD. So che hai estrapolato anche uno schema insieme di riflessioni critiche e di proposte operative per lo sviluppo cittadino nei suoi diversi comparti. Possiamo farlo questo viaggio dentro la città che dall’oggi va verso il futuro e coinvolge se stessa nella grande strategia dell’area metropolitana?

«Sono pronto. Per una rapida consultazione da parte dell’elettorato, ho anche preparato una piccola brochure ma quei temi che ho affrontato li possiamo ripassare senz’altro. Consentimi però di dire prima di tutto di esser felice di aver potuto compiere questa recente esperienza di governo del centro-sinistra cittadino. Ne ho già accennato, ma vorrei tornarci. Ho ricordato di essere in Consiglio del 2011, dopo il primo mandato circoscrizionale arrivato grazie a 154 preferenze. 

«In quel primissimo mandato mi fu affidata la presidenza della commissione Lavori Pubblici e mi battei, con qualche risultato positivo, per la pedonalizzazione di diverse aree cittadine, compresa la piazza Palazzo a Castello in cui si affacciavano, e ancora si affacciano, il Viceregio e l’Episcopio, e comprese anche alcune zone di Villanova, certe strade commerciali dei diversi quartieri. Fra le altre proposte che avanzai e vennero approvate dal Consiglio c’era anche l’introduzione di un pulmino verde, elettrico, un disegno migliorativo puntato specificamente sulla piazza Matteotti ed una certa logistica dei trasporti, così come un piano riqualificativo della piazza Garibaldi, il riutilizzo delle cessioni per standard dell’area ex Mobilificio Marino Cao… C’era anche la mappatura completa degli edifici pericolanti e dei cantieri abbandonati all’interno appunto del centro storico, un focus sulla via San Saturnino…».

Una buona scuola, giusto?

«E’ stata una ottima scuola! Ottima in quanto ad esperienza per quel che ho fatto dopo, sempre nella rappresentanza ed in ambito amministrativo. Ho detto tante volte che fare amministrazione vuol dire fare esercizio di pazienza. Se non si ha pazienza i risultati non vengono. Ed è stato sempre gratificante per me, quando ho portato idee e bozze di progetti, incontrare l’attenzione degli uffici, un’interlocuzione sempre all’altezza da parte dei responsabili degli assessorati. Appunto anche negli anni del primo mandato in Consiglio comunale, iniziato con un… bottino di responsabilità speciale verso i 540 concittadini che mi avevano dato fiducia. 

«Ho offerto un contributo, che è stato apprezzato, tanto alla definizione del piano di utilizzo della spiaggia del Poetto quanto del piano particolareggiato relativo al centro storico. E’ in questo quadro che, anche per competenza particolare, ho lavorato sulle carte relative al trasporto pubblico, sia quello gestito dal CTM sia quello che fa capo a MetroCagliari, e così anche all’avvio della sperimentazione del car sharing… Naturalmente il discorso sulle infrastrutture di trasporto resta al centro di molti dossier: si tratta di combinare fra loro vettori diversi, bisogna affinare i collegamenti. Crescerà la metropolitana di superficie, dall’hinterland fino al porto o all’aeroporto, passando da una parte, come già è, a pochi metri dal Policlinico universitario di Monserrato, dall’altra presso le linee ferroviarie che vanno verso Oristano e Macomer, Sassari e Olbia. Ma credo che ne potremo parlare più approfonditamente dopo, seguendo l’impostazione tematica del programma.

«L’incarico ricoperto negli anni della prima consiliatura comunale – cioè di presidente della commissione Trasporti –, come accennavo poc’anzi, ho speso ogni energia ma per risultati che si sono visti in termini di qualità dello spazio pubblico, sicurezza stradale, efficienza del trasporto, mobilità sostenibile e, appunto, sharing mobility. Ho promosso l'approntamento dei parcheggi rosa per le donne incinte e i neogenitori, il progetto pedibus per l'accompagnamento dei bambini a scuola, l'istituzione di linee di bus notturni, la realizzazione di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici, l'istituzione di un centro di distribuzione delle merci, l’impianto del centro intermodale di piazza Matteotti e l'ampliamento del percorso della metropolitana, ecc. Proprio nella veste di presidente della commissione ho presentato e portato in approvazione dal Consiglio comunale 14 mozioni, 9 ordini del giorno ed una proposta di deliberazione».

Ora cominciamo per davvero questo viaggio, ma mi sembra sempre interessante accompagnare la promessa del futuro alla riflessione sul passato, ancorché sia passato recente, quello della esperienza personale.

«Di fatto questa riflessione l’ho già svolta. La prima consiliatura si è caratterizzata, se posso dire così, sull’azione e sul coraggio. Dopo sedici anni di amministrazione da parte di Forza Italia e dei suoi alleati – iniziata appunto nel 1994 con il sindaco Delogu e proseguita con il sindaco Floris…».

Anno tremendo il 1994 – scusa se ti interrompo – per l’affacciarsi in un teatro politico già sconvolto da Tangentopoli, di un personaggio drammaticamente diseducativo per il senso civico e la qualità della dialettica politica, quale è stato Berlusconi. Nonostante io non ami i Cinque Stelle e naturalmente i leghisti, credo sia stato Berlusconi con la sua claque di signorsì a precipitare come nessun altro nel fango il buon nome della patria. Scusa questa interruzione…

«Certo, dicevo che dopo sedici anni di governo cittadino da parte del centro-destra, avevo pensato giusto impegnarmi ancor più attivamente per convincere i cagliaritani che si poteva realizzare un concetto nuovo di città, che fosse necessario agire e portare a casa dei risultati, così nei lavori direi soprattutto attenzione al quotidiano: mi riferisco alle manutenzioni… Purtroppo nella sensibilità amministrativa, non soltanto cagliaritana, il manutenere il bene pubblico non è mai stato ai primi posti, si desiderava l’applauso della inaugurazione, piuttosto che la segreta soddisfazione di coscienza di aver tenuto in efficienza strade e marciapiedi, scuole e uffici, palestre e, per quanto di competenza, ospedali… Ho accennato prima alle pedonalizzazioni. Avevo ed ho, da cagliaritano nato e cresciuto nel centro storico, una sensibilità speciale alle pedonalizzazioni, che infine sono un dono a tutti quanti, non soltanto ai residenti nel centro storico. Se posso usare un’espressione importante, direi che annetto alle pedonalizzazioni un senso morale, per la vivibilità e la socializzazione che favorisce. Ne riparleremo.

«L’inizio della seconda consiliatura cui ho partecipato, quella iniziata nel 2016 e terminata anzitempo poche settimane fa, ha visto il completamento delle tante opere programmate e delle azioni amministrative intraprese, come il complessissimo sistema di raccolta dei rifiuti.

«Ma il vero obiettivo che tutti ci ha impegnati a trovare le modalità della sua traduzione operativa, lasciato in eredità dalla trascorsa Amministrazione, è il progetto della città del futuro. Questo è avvenuto di recente con l’approvazione delle linee guida del PUC, cioè del Piano Urbanistico Comunale, lo strumento di pianificazione territoriale che è per definizione la base di tutto lo sviluppo sociale immaginabile per Cagliari.

«La città ha sempre avuto enormi potenzialità, ma ricevendola dalle Amministrazioni passate avemmo la sensazione trattarsi di una città bloccata… Serviva una scintilla per farla illuminare, noi abbiamo cercato di dare una nuova immagine di Cagliari verso l’esterno. Oggi Cagliari viene vista con altri occhi, è una città attrattiva, che è capace di attrarre investimenti, soprattutto nel campo della ricettività turistica, e così è nell’innovazione tecnologica… Huawei, Amazon, etc.

«Naturalmente sappiamo bene che lo sviluppo si gioca non soltanto su un tavolo comunale, ma è il risultato di azioni più complessive, di sistema, di raggio almeno, o principalmente, regionale… Tutte le parti della città che hanno grandi possibilità di sviluppo ma sono ancora bloccate, e soffrono per questo, ricadono nella competenza di altri enti: basti pensare al Porto, su cui ha competenza l’Autorità portuale, o alla piazza Matteotti, di fronte alle stazioni dell’ARST e ferroviaria, e di fronte anche al municipio, a chi appartiene? Alle Ferrovie dello Stato… Ricordiamo lo square d’inizio Novecento, al gioiello con i suoi monumenti a Verdi ed a Bovio, con le sue aiuole e i suoi ficus giganteschi, così come li abbiamo ammirati nelle fotografie… Anche Gramsci, allora studente del Dettori che aveva sede alla Marina, partecipò ai comizi del tempo che inneggiavano a Giordano Bruno, pochi anni dopo celebrato con il busto bronzeo che oggi si trova in facoltà di Lettere. Ma per dire… l’Ospedale Marino e quello Civile, Marina Piccola, le ex caserme, la piazza dei Centomila, l’ex carcere di Buonacammino… quanto è comunale e quanto non lo è? Il Comune deve battagliare, ogni Amministrazione ha le sue ragioni nel fare o non fare, nel prendere tempo, ecc. Non voglio giudicare con semplicismo. Però il Comune deve pensare al bene di Cagliari, tanto più nella logica della condivisione morale e materiale dell’area metropolitana. I sestesi e i quartucciai, i monserratini o gli asseminesi – l’ho detto prima – restano quello che sono, con la loro identità particolare, ma insieme sono essi stessi cagliaritani, in un sovrappiù di sentimento, e anche di responsabilità civica. Piazza Matteotti e il plesso di Buoncammino, o l’Ospedale San Giovanni di Dio appartengono anche a loro…».

Bene come impostazione generale, andremo poi allo specifico. Sono anch’io convinto che un territorio sedimentato dallo storia, anche soltanto dalla storia dello Stato unitario, sia un grande condominio. L’avevamo visto e lo vediamo con la cittadella dei Musei dove coabitano, finalmente in buona armonia, Comune e Regione, Università e Soprintendenze sia alle antichità che ai monumenti…Il limite del Comune, cioè dei suoi amministratori, a mio avviso, è stato quello di non portare in pubblico, nell’informativa da fornire alla cittadinanza, gli ambiti e le responsabilità di ciascuno. E’ questa disinformazione, di cui ha colpa l’Amministrazione, o meglio, hanno colpa gli amministratori e i dirigenti, ad aver depistato i giudizi, ad aver indotto il cittadino a maledire mille volte il Comune per le slogature contratte inciampando in piazza Matteotti, mentre la maledizione il Comune l’avrebbe dovuta condividere con le Ferrovie, e così via di seguito. Credo di essermi spiegato. Quella disinformazione io la chiamo deficit di democrazia e ne faccio speciale colpa personale al sindaco uscente. Che non vuol dire sia convinto che un altro sindaco di colore opposto avrebbe fatto meglio, anzi… E’ deficit di democrazia anche non rispondere al cittadino che interpella e anzi si offre, volontariamente, al servizio di tutti. Pensa un po’: un mio amico, nipote del baritono cagliaritano Antonio Manca Serra, voleva donare al Comune, per il parco della Musica, un busto del grande artista purtroppo scomparso giovanissimo. Nessuna risposta né dal sindaco Zedda né dai suoi collaboratori…

La città a palazzo, il palazzo in città

Tu hai osservato e registrato le azioni della giunta, i lavori delle commissioni consiliari, il confronto stesso fra le forze di maggioranza ed opposizione, anche quello importantissimo sul PUC, dallo scranno del presidente dell’Assemblea. Ecco cosa volevo chiederti: è stato questo un ruolo completamente terzo rispetto alla dialettica politica?

«Sono stato eletto alla unanimità. Questa è stata, sul piano strettamente personale, una soddisfazione pari forse alle 1.002 preferenze che ho ricevuto dall’elettorato nel 2016. E debbo dire che sono preferenze “pulite”, venute dalla fiducia dei miei concittadini che hanno creduto potessi rappresentare degnamente l’interesse generale, con idee piuttosto precise sul miglior futuro possibile di Cagliari. Non avevo, non ho, non avrò clientele, possibilità di compensare in alcun modo venale l’atto di fiducia ricevuto.   

«L’elezione alla presidenza dunque è venuto spontaneo anch’esso, senza contrattazioni di basso livello, all’unanimità, è stato un onore essere il presidente di tutti. Come si dice: un onore e insieme un onere, perché è stato necessario esercitare sempre, in primo luogo, un autocontrollo, una autodisciplina nell’intervenire oppure no, insomma nella pratica effettiva della equanimità. Ma potrei dire anche altro: che nell’esercizio di quella funzione di primus inter pares ho vissuto nel reale quel che avevo sempre, peraltro, intuito, anche in altri campi della vita: quanto sia bello e arricchente l’arma dolce della moderazione, del dar spazio al meglio degli altri… perché le idee migliori per il meglio della città e soprattutto il sentimento di amore alla città non sono oggi, non sono stati ieri, non avrebbero potuto stare mai tutti da una parte, naturalmente quando i valori di base siano comuni. L’imparzialità e l’equanimità forse erano nel mio dna personale, nella mia educazione familiare che è di marca liberale, e quindi questo ho dato. Ma direi che è stato di più quello che l’incarico della presidenza ha dato a me come occasione arricchimento a 360 gradi sul piano intellettuale e morale e anche politico in senso stretto. Poi, se vuoi, parleremo della mia militanza nel Partito Democratico».

Benissimo, l’avevo nei miei appunti.  

«Nei mille giorni della mia presidenza ho avuto un’altra opportunità. Avevo riflettuto molto, quando sono stato designato alla funzione, sui contenuti e sullo stile da imprimere a questo ruolo. Ed ho pensato che avrei potuto essere, e mi sarebbe molto piaciuto essere, il “ponte” fra la città e la istituzione. Stimolare le visite, accogliere le visite in municipio, tanto più quelle delle scuole o delle associazioni, andare io stesso, quando invitato, a dare testimonianza e a dare anche notizie dell’istituzione-Comune, del suo lavoro nell’interesse generale, della sua organizzazione, anche della sua storia e non soltanto del suo presente. Le visite sono state, in effetti, molte e molte decine, più d’una ogni settimana: campioni sportivi, ospiti stranieri, bambini e ragazzi delle nostre scuole, manager importanti e giovani impegnati in certe start up innovative, comitive di turisti perfino… Sono venuti i rotariani, i dirigenti del Cagliari e mister Rastelli con il capitano Dessena – peccato averlo perso, era un campione di generosità oltre che un giocatore talentuoso –, è venuto ed abbiamo premiato Daniele Conti, abbiamo avuto con noi Francisco e Niccolò Porcella, i ragazzi del progetto europeo cosiddetto IM’APPY riferito alla cooperazione internazionale, i delegati dell’associazione nazionale fra Mutilati e Invalidi di guerra – una grande lezione da loro –, i congressisti dell’Intersteno, i podisti del circuito degli 88 comuni e 100 torri costiere, il rettore della basilica-santuario di Bonaria, il sindaco maltese Zammit, i 19 della International Summer School, e potrei ancora continuare…».

Mi ricordo anch’io Andrea Cossu, poi le commemorazioni dei grandi cagliaritani…

«Infatti. Press’a poco nel periodo della visita di Cossu, campione tutto nostro, del CEP, ricordo anche quella di Anna Gardu, artista e maestra dolciaria Premio Donna Sarda 2018, ricordo anche l’iniziativa consiliare dedicata alle donne vittima di violenza, ricordo l’incontro con le rappresentanti della FIDAPA e la proposta di intitolare uno spazio pubblico alla memoria di Emanuela Loi, caduta nello stesso attentato che uccise il procuratore Borsellino… Sì, sotto il profilo morale e valoriale, l’assemblea, tanto più rappresentata dal suo presidente, è stata attenta interprete del migliore sentimento generale. Ho partecipato alla presentazione del festival delle Radio Universitarie, ho onorato insieme con il sindaco la bella memoria del grande Paolo Racugno, campione di equitazione morto più che centenario… E quanto altro! La partecipazione alla giornata nazionale per la salute e il benessere nelle città, alle diverse giornate della Memoria (il capoluogo della Sardegna non può dimenticare!), l’accoglienza degli studenti dell’istituto Martini vincitori del concorso “classe turistica” promossa da Touring Club Italiano… Ecco dimostrato, con nomi e cognomi, quanto mi è venuto, come arricchimento anche personale, dagli “oneri” – invero onori – della carica… Andrea Mura è stato con noi, ci siamo offerti, noi comunali, alla donazione del sangue quando l’autoemoteca ha fatto sosta al Largo, ho assistito alla presentazione della relazione finale della commissione parlamentare sulla tragedia della Moby Prince…

«E poi, è vero, anche le commemorazioni: Grazia Deledda cagliaritana – visse da noi per alcuni mesi, nel 1899, prima di lasciare definitivamente la Sardegna e trasferirsi a Roma, moglie di Palmiro Madesani: le ultime pagine di Cosima, il romanzo autobiografico postumo, raccontano proprio la permanenza cagliaritana, godeva di Monte Urpinu e del Belvedere di Terrapieno e Buoncammino… In viale Europa gli Amici del libro – pure essi ospiti dell’aula consiliare – posero nel 1972, a conclusione delle celebrazioni del centenario della nascita, due grandi tavole bronzee con i versi deleddiani dedicati a Cagliari… sono ancora lì, poco discosti dalla grande statua di San Francesco… Ne ho riletto le cronache de L’Unione Sarda e ho visto anche il notiziario de Il Convegno, il periodico degli Amici del libro fondato e diretto da Nicola Valle. L’abbiamo ricordata, Grazia Deledda, nel 90° del Nobel e nell’80° della scomparsa, avvenuta a Roma.

«Ho ricordato il grande sindaco Cesare Pintus, democratico antifascista e mazziniano, così anche il sindaco Peretti, che presiedette l’aula comunale nel 1960, così inoltre il nostro Francesco Alziator storico e poeta della città, così ancora i sindaci Crespellani e De Magistris, rispettivamente nel 50° e nel 20° della scomparsa… Entrambi hanno lasciato una traccia sia nell’Amministrazione attiva sia nel più vasto campo delle iniziative culturali di Cagliari. Fin dall’inizio ho voluto interpretare il ruolo in chiave di animazione culturale della città, celebrando le donne e gli uomini che hanno dato lustro a Cagliari e ripercorrendo alcuni momenti significativi della storia della città in parallelo alla loro vita. Ho cercato di saldare quelle biografie all’impegno civico… Ho ed abbiamo ricordato Gramsci, Lussu – i nostri grandi della patria –, abbiamo proposto una nostra riflessione sulla grande guerra e su quanto essa costò alla Sardegna e a Cagliari, con i suoi quasi trecento morti… Ne conosciamo i nomi, sono anche riportati in evidenza in una cappella della basilica di Bonaria.

«Ci siamo aperti, come Consiglio comunale, al progetto di educazione alla cittadinanza, ho preso parte alle conferenze sulla riforma degli enti locali, ecc. Insomma, insieme con il mio ufficio – niente si fa mai da soli – ho cercato di riempire “di città” la istituzione, e di portare la istituzione “nelle pieghe” della città… L’impegno è stato massimo, spero anche la resa». 

Benissimo, era forse doveroso questo consuntivo. Sono state belle iniziative, credo lo abbiano riconosciuto tutti quanti. Ma secondo me un’altra ce ne avrebbe dovuto essere, proprio ad iniziativa della presidenza del Consiglio, e nuova, del tutto nuova nella scena politica locale: che bello sarebbe stato se la presidenza, a metà consiliatura, avesse invitato i capilista e qualcuno dei candidati nelle varie formazioni presentatesi all’ultimo turno elettorale, quello del 2016, senza riuscire però ad eleggere alcuno, nonostante le migliaia di voti raccolti, e avesse avviato con loro e con i consiglieri invece eletti, un confronto di idee sulla città, recuperando proposte valide presenti nel pacchetto di programma metti di Enrico Lobina o di Paolo Matta… In entrambe le liste, ingiustamente emarginate, v’erano idee intelligenti, positive… L’Amministrazione avrebbe potuto arricchirsi anche del loro contributo, e la democrazia formale avrebbe potuto, e dico dovuto, arricchirsi di quella sostanziale, appunto con una tornata speciale del Consiglio aperta agli “sconfitti”. 

«Confesso che questo era stato il mio proposito. L’interruzione anticipata della consiliatura e i turni elettorali che uno dopo l’altro – per il deputato di collegio e poi per le regionali e infine per le europee – sono venuti prima di questo del 16 giugno, hanno cambiato l’agenda, la tempistica. Purtroppo è stato così, e me ne dispiace. Da Matta e da Lobina – amici che stimo entrambi e di grande esperienza, pur se molto differenziata fra di loro, e per fortuna differenziata! per il maggior arricchimento che potremmo averne oggi e anche domani – io avevo pensato di poter ricevere una collaborazione in una sorta di forum magari informale, ma utile per le cose della città. Credo però non mancherà il modo e non mancherà il momento per conseguire l’obiettivo. Matta, grande esperto della storia popolare legata a Sant’Efisio, lo abbiamo in lista come Partito Democratico, l’ho ricordato prima. Né dimentico che fece esperienza consiliare già ai tempi di Paolo De Magistris, e dunque sarà un consigliere-cronista già collaudato e prezioso. Mi sarebbe piaciuto avere in lista anche Lobina, intellettuale di razza e generoso, idealista e mondialista».

La pianificazione territoriale

Torniamo adesso alla città, riprendendo il discorso della pianificazione territoriale, ripartendo dal piano regolatore generale.

«Sì, era il 1965. L’appoggio del mondo accademico fu importante, Mandolesi era un docente della facoltà di Ingegneria. D’altra parte mi fa piacere ricordare che i due sindaci del tempo, Peretti e Brotzu – in carica dal 1960 al 1967 – erano allora, o erano stati, entrambi rettori. Inserirei qui una osservazione direi preliminare: una certa sensibilità ambientalista che oggi è fortunatamente diffusa e matura, anche se molto rimane da fare… allora, cinquant’anni fa, quando il professor Mandolesi con la sua équipe preparava le tavole e le relazioni per la giunta e il Consiglio comunale, non era avvertita. Voglio dire che allora rischiammo di perdere la laguna di Molentargius… Egli ne comprese invece il valore inestimabile, come concentrato di biodiversità, un paradiso in casa… un potenziale enorme e lo salvò. Altri avevano pensato a una bella distesa di cemento fino a Quartu Sant’Elena… poveri fenicotteri, avrebbero scioperato anche quelli a Santa Gilla per protesta solidale forse… Al piano Mandolesi dobbiamo l’asse mediano di scorrimento, che è stato ormai da trent’anni un decisivo aiuto alla viabilità urbana, a lui dobbiamo la cittadella sportiva fra Monte Mixi e Sant’Elia, a lui dobbiamo l’area fieristica che ci è valsa per mezzo secolo, il quartiere di La Palma, il quartiere del Sole che ci collega urbanisticamente al Poetto, a lui dobbiamo la scoperta dei valori ambientali e turistici di Marina Piccola.

«Negli anni delle giunte Delogu e Floris, dico all’inizio del Duemila, si pensò ad un nuovo Piano Urbanistico Comunale. Si tenne conto del nuovo dimensionamento della città, della avvenuta municipalizzazione autonoma delle frazioni, quella intervenuta negli anni fra ’70 ed ’80 ad Elmas, Quartucciu e Monserrato, si considerarono le nuove quantità residenziali sull’orizzonte decennale per circa 33mila residenti (commisurati secondo il parametro standard di 100 mc/ab), con totale del volume programmato residenziale pari a oltre 3 milioni mc. (precisamente 3.141.160).

«La soglia di popolazione totale che si prevedeva di raggiungere nello stesso orizzonte temporale superava i 224mila abitanti, un livello derivante dalla sommatoria degli attuali residenti nella città consolidata compreso il centro storico – quantificati in 178.000 unità –, con i 4.000 abitanti ancora insediabili a Barracca Manna, i circa 9.000 previsti con il consolidamento delle zone residenziali esistenti ed infine i 33.000 abitanti delle aree di nuova trasformazione urbana. Risultato: gli abitanti di Cagliari città sono 154mila, cioè 70mila in meno di quelli previsti».


Oggi però dobbiamo ragionare in termini di città metropolitana.

«Perfetto. Il PUC su cui il Consiglio comunale ha lavorato più di recente, e che ha approvato non più di qualche mese fa, colloca le sue linee guida intanto inquadrandole nella logica dell’area vasta, quella metropolitana appunto e non strettamente urbana; ipotizza il superamento della logica espansiva edilizia, perché considera anche il calo demografico come tendenza che va sempre più consolidandosi per più ragioni, di costume (il modello familiare) e di economia, non soltanto in Sardegna; tiene fermo il concetto del contenimento massimo del consumo del suolo, mentre punta al recupero e riuso dell’esistente, così come punta alla restituzione di aree e spazi strategici all’uso pubblico.

«In questo senso è venuto dalla giunta al Consiglio il disegno della Cagliari o della grande Cagliari, e io mi ci sono ritrovato pienamente, sia dal punto di vista del cittadino che viene dal centro storico ma ha una spontanea tensione verso la città integrata, larga, ricca di diversità, sia dal punto di vista prettamente politico, come militante e dirigente, ed eletto nella rappresentanza civica, del Partito Democratico, sia anche come ingegnere che ama rielaborare tutto quanto è valore potenziale e rimane inerte, soffocato soltanto dalla dimenticanza dei superficiali».

Allora andiamo di più nel dettaglio di questa città metropolitana da costruire tutti quanti insieme.

«Va bene. La città metropolitana vivrà di identità arricchite, come dicevo prima. Noi che siamo chiamati a dar corpo a Cagliari città metropolitana bisogna che assumiamo la consapevolezza di essere protagonisti in prima persona di un passaggio storico. Fra cento e duecento anni i nostri discendenti studieranno il “come” abbiamo compiuto il miracolo, il “come” abbiamo dato vita a una realtà sociale e urbanistica che prima non c’era. Il dibattito politico si è speso, negli anni trascorsi, parlando di accentramento o di decentramento, di federalismo ecc., ognuno aveva la sua lettura e dava la sua soluzione.

«Noi abbiamo puntato sulla qualità degli spazi urbani e sulla sostenibilità degli interventi atti a conseguire una nuova residenzialità, rimodulando le scelte sull'offerta abitativa.

«La linea di trasporti in chiave di “metropolitana integrata” è stata pensata come strumento fondamentale di una mobilità veloce ed efficiente. Gli spostamenti appunto rapidi ed efficienti da qualsiasi punto dell'Area vasta debbono essere la prova provata che si è assicurato al territorio un alto livello qualitativo dell’offerta pubblica. E in tale stesso contesto rientra quella molteplicità dei servizi integrati che garantiscano insieme maggiore efficienza e utili risparmi per il bilancio pubblico, dunque per i cittadini: il servizio di manutenzione e pulizia del sistema viario, la raccolta dei rifiuti domestici e degli esercizi commerciali, ecc.

«Sui rifiuti si potrebbero ottenere enormi risparmi di scala, se pensiamo che oggi ognuno dei 17 comuni ha un servizio autonomo e un contratto diverso».

L’ambiente riconquistato e la città del mare

E sul piano della difesa e promozione dell’ambiente e della cultura in generale?

«Cagliari è stata vista dal nostro PUC come una città di parchi naturali, di storia e di cultura. E’ scritto pressoché testualmente, e a questo io lego anche il mio prossimo impegno di amministratore, se la fiducia degli elettori mi riporterà in Consiglio, che la promozione dell’immagine della città potrà ottenersi facendo leva sull'unicità e sulla qualità del nostro patrimonio storico-culturale e paesaggistico. Dobbiamo saper rafforzare l'attrattività di questo ben di Dio e renderlo spendibile sui mercati nazionale e internazionali.

«Circa l’ambiente ecco immediata la definizione di Cagliari come città d'acqua: abbiamo i tesori marini, della spiaggia – al netto di quanto ho detto prima riguardo al ripascimento realizzato vent’anni fa – e delle due lagune, abbiamo l’area umida delle saline, anch’esse ai poli opposti dell’abitato, abbiamo il canale di Terramaini che dovrà essere valorizzato. Dunque salvaguardia, integrazione e valorizzazione, in chiave di sviluppo economico sostenibile, delle nostre risorse ambientali di pregio, compresi i sistemi montani, tanto in favore della popolazione residente quanto per l'attrazione di flussi di visitatori e turisti».

Insistiamo su questo punto, poi parleremo del centro storico.

«Benissimo. C’è tutto un capitolo, nel PUC, sul “Mare Nostrum”. Direi che qualifica il PUC e la stessa complessiva azione amministrativa svolta negli anni scorsi, che speriamo di poter sviluppare ulteriormente, se la fiducia dell’elettorato ci sarà confermata. Direi che l’obiettivo era ed è di costruire una nuova immagine di Cagliari, e anzi della grande Cagliari, come città di mare e di ambiente, luogo ideale per viverci e lavorare, meta internazionale ambita e ricercata da visitatori e turisti nazionali e stranieri.

«Il PUC disegna la pianificazione dell’intero sistema di Calamosca-Sant’Elia, così fino a venire oltre il polo fieristico ed alla via Roma.

«Abbiamo pensato a Marina Piccola come alla città “della Vela”. L’idea è stata quella di un distretto nautico, cioè tutto dedicato alla nautica da diporto, abbiamo progettato la trasformazione del porto storico in porto turistico per il diportismo e il crocierismo, e così abbiamo pensato alla valorizzazione della filiera della pesca come punti di forza da promuovere in questo ambito. Dobbiamo ancora mettere a fuoco gli orientamenti dell’Autorità portuale, ma confidiamo nello spirito positivo e propositivo di tutti.   

«In questo stesso contesto abbiamo immaginato una grande piazza sul mare. Dobbiamo riqualificare il fronte del mare, coniugando e integrando la città con il suo porto storico e il lungo-mare: ciò sarà possibile creando una grande e unica piazza di affaccio che costituisca la principale vetrina della città di Cagliari e che sia caratterizzata da una fitta rete di relazioni e scambi culturali, sociali ed economici.

«Riassumo in poche parole: abbiamo realizzato alcune parti del percorso ciclopedonale di collegamento del porto con la spiaggia del Poetto (il nuovo Lungomare Poetto, il Lungomare Sant'Elia e la grande piazza davanti all'ex Lazzareto, la passeggiata dell'Ammiragliato e di Su Siccu); sono già stati appaltati alcuni interventi come il ponticello per scavalcare il canale San Bartolomeo e che permetterà di collegare Su Siccu e la Marina di Sant'Elmo con la nuova passeggiata di Sant'Elia, il porticciolo della piccola pesca. In tale contesto rientrano il completamento del parco degli Anelli, i percorsi naturalistici del colle Sant'Elia e della Sella del Diavolo, ecc.».

E circa il porto-canale?

«Sì, c’è poi il grande e complesso capitolo del porto-canale. Conosco le ragioni della crisi attuale. L’obiettivo è di potenziarne la competitività sviluppando un asse nazionale del trasbordo merci centrato sulla integrazione di tre principali porti del Mediterraneo (Cagliari, Taranto e Gioia Tauro). Naturalmente noi faremo la nostra parte, ma grandi responsabilità sono in capo agli operatori privati e anche alla politica governativa».

A fronte della città costiera mettiamo quella interna, quella dei colli, delle oasi verdi, dei giardini. Credo che Cagliari vanti buoni indici in quanto al verde pubblico. C’è qualcosa di specifico nei propositi della tua lista o della tua coalizione? Ho portato di recente amici milanesi ai Giardini pubblici, abbiamo contato le teste mozzate delle statue vicine ai laghetti, quelle che volevano rappresentare le stagioni… Così il “coppione” in cima a Monte Urpinu, a pochi metri dalla riserva comunale: vandalizzato.

«Cagliari è una delle città più verdi d'Italia, abbiamo investito tantissimo su questo settore. Abbiamo restituito alla fruibilità l'Orto dei Cappuccini e abbiamo realizzato tanti piccoli tasselli in tutti i quartieri. La gestione, manutenzione e controllo del verde è onerosissimo, con le risorse comunali non si riesce a fare fronte a queste ingenti spese. A mio avviso si dovranno realizzare delle sinergie con i privati: chi, ad esempio, gestisce i punti di ristoro nei parchi si dovrà occupare della gestione e della guardiania degli spazi a fronte di uno sconto sui canoni di concessione».

Quello che hai delineato, pur in sintesi, attiene alla combinazione fra la valorizzazione ambientale e l’impiego economico delle risorse naturali. Siamo andati forse troppo in velocità a parlare invece degli impegni in campo culturale, utilizzando la parola come coperta per mille cose diverse.

«Allora parliamo di quello che c’è – per esempio la MEM – e di quello che dovrà esserci, sempre più come supporto alle esigenze dell’area vasta, tanto più dei nostri giovani. Direi che a 45 anni ho ancora memoria fresca di quel che serve ai giovani per formarsi, per maturare, per approfondire con lo studio e la esperienza dell’incontro le loro maggiori propensioni… Non dimentico certo che da giovane anch’io ho fatto, ad esempio, laboratorio teatrale: un’esperienza che mi è servita anche in politica così come nella professione.

«Non dispongo adesso di una statistica fatta circa le dimensioni numeriche degli iscritti all’università che provengono da fuori città, prova provata anch’essa di Cagliari città-regione. Sono svariate migliaia, ed a questa popolazione così vasta sono offerte, da una pluralità di enti ed amministrazioni, il supporto di case dello studente, mense, luoghi di studio – eccellente è proprio la MEM da questo punto di vista…

«Certo è che da noi è vivissimo e anche di ottima qualità l’associazionismo, e in esso quello culturale. Il Comune offre le sedi, direi però onestamente che deve potersi fare dieci volte di più e meglio. I ritardi derivano dalla inadeguatezza di molte sedi che, dismesse da altri utilizzi, hanno accolto nel tempo le associazioni e i gruppi. Deve diventare un motivo d’impegno preciso rispondere al bisogno, concertandolo con l’utenza. In questo mi sento impegnato».

A dir del centro storico

Parliamo del centro storico, o anzi i centri storici, se è vero che Cagliari ha quattro storici polmoni?...

«L’impegno è di continuare nell’opera già avviata di rivitalizzazione dei quartieri sia con riferimento alla qualità di vita dei residenti, ovviamente, sia per finalità turistiche, secondo quella che pensiamo essere la vocazione naturale del nostro capoluogo. Si tratta di assicurare ai nostri quartieri centrali una precisa valenza economica e sociale, intendendoli non soltanto come… museo, o la dico meglio, come una pur diffusa e dinamica centrale museale, o monumentale, deposito di storia insomma e testimonianza per i secoli dei secoli, ma anche come territorio da godere passeggiando in libertà, bambini e famiglie, anziani, i meno protetti, e insieme come area commerciale naturale, contenitore di servizi per lo svago e l'intrattenimento. 

«Come dicevo prima, molto ce lo giocheremo con gli accordi mirati da negoziare con gli enti o le amministrazioni nel cui patrimonio rientrano numerosi dei beni pubblici che vorremmo entrassero invece nella fruizione collettiva dei cagliaritani, dico sempre dei cagliaritani della città vasta, quella che comprende anche gli altri sedici comuni che entrano in questa fraternità anche amministrativa, da Pula a Maracalagonis, da Sarroch e Villa San Pietro a Capoterra e Uta, da Elmas ed Assemini, da Decimomannu a Sestu, a Settimo San Pietro, a Sinnai, da Monserrato e Selargius, da Quartucciu a Quartu Sant’Elena… 

«Al vecchio tremendo carcere di Buoncammino, in cui attualmente risiedono alcuni uffici ministeriali, sta pensando già l’Università, pensano le associazioni, pensa il Comune soprattutto per le opportunità che potrebbe presentare, data l’ubicazione, sotto il profilo turistico-ricreativo. Così come al palazzo delle Scienze, tra l’anfiteatro e i vecchi caseggiati della sanità pediatrica: un’idea avanzata con buone possibilità di attuazione pratica sarebbe quella di allogarvi il museo della scienza e della tecnica.

«Nel centro storico abbiamo un altro compendio di vaste dimensioni che deve andare per una variazione d’uso, cioè ad un’altra missione. E’ nel viale Regina Margherita: mi riferisco allo stabilimento che fu della Manifattura tabacchi. Sono coinvolte nel progetto in diversi enti od amministrazioni, in primis la Regione. Vorremmo allogare negli spazi della ex Manifattura un polo culturale mirato allo sviluppo dell’impresa. C’è un orientamento abbastanza definito in tal senso. 

«A Stampace, sul grande stabilimento del San Giovanni di Dio, su cui pure gravano vincoli di Soprintendenza, perché si tratta di un gioiello d’architettura, il Comune interloquisce con l’Università e la Azienda sanitaria regionale: ha insistito perché l’ormai quasi concluso trasferimento dei reparti al Policlinico di Monserrato non privi del tutto il centro storico di Cagliari di un presidio socio-sanitario. Stiamo lavorando su questo, e siamo convinti di averla spuntata. 

«Prima parlavamo di associazionismo. Ebbene, un'altra grande occasione per le associazioni – dico adesso di quelle che si occupano di volontariato sociale – è rappresentata dal progetto per la realizzazione della Città della solidarietà nell'ex Deposito dell'Aeronautica di Monte Urpinu. Il comparto è stato acquisito dalla RAS, che ha previsto di destinarlo alle associazioni di volontariato sociale. Allo stato attuale (con l’eccezione della Caritas) non sono stati presentati concreti progetti di immediata eseguibilità da parte delle associazioni, per cui rimangono aperte tutte le possibilità per l’utilizzo dell’area. Di particolare interesse è la possibilità di integrazione di parti dell’area con il parco urbano di Monte Urpinu».

A dire a di associazionismo mi verrebbe da aggiungere, parallelo ancorché con tipologie molto diverse da quello ad esempio Caritas – chiaramente benemerito per l’impegno ordinario e straordinario di decine e decine di giovani e meno giovani, coordinati in vertice da don Marco Lai, prete di assoluta qualità della diocesi di Cagliari – quello offerto, non soltanto in campo umanitario, da club come il Rotary o i Lions, questi ultimi promotori a suo tempo della Casa di Accoglienza per i malati oncologici ed i loro famigliari provenienti dalla provincia o dalla regione. So anche di un prossimo pubblico impegno socio-sanitario approntato dalle logge massoniche di Palazzo Giustiniani, sul modello della Casa della Fraterna Solidarietà organizzata a Sassari già da un decennio e che tanti risultati, nella assoluta discrezione, ha raccolto.

 «Cagliari vive di queste realtà associative da sempre, Rotary e Lions, le logge massoniche, i cavalieri di Malta, i club femminili variamente strutturati come la FIDAPA, l’Inner Wheel Italia, il Soroptimist… Decenni di storia civica che incrocia la storia degli specifici statuti e delle specifiche missioni, volte comunque al “servire”. Un gran dono per la città… Speriamo continui. Per quanto ho potuto fare, e per quanto ho potuto vedere nel fare altrui, di sindaci e assessori e dirigenti, le collaborazioni con il Comune sono sempre state fruttuose…».

La città dell’innovazione e del terziario avanzato

Area fieristica e iniziative propulsive dello sviluppo dell’impresa in generale. Cosa c’è nel programma elettorale del PD e delle formazioni alleate?

«Abbiamo titolato “Cagliari città della conoscenza, dell'innovazione e del terziario avanzato” una parte del nostro programma che vede il rafforzamento del ruolo-chiave del nostro capoluogo quale volano dello sviluppo economico dell'intera Isola. La città e l'intero territorio dell'Area vasta possiedono i presupposti per uno sviluppo basato sui comparti dell'industria leggera e del terziario avanzato a maggior contenuto di conoscenza e innovazione.

«Si collega a questo il polo fieristico e congressuale che vorremmo lanciare a favore della regione, dico della Sardegna, nella sua interezza. 

«L' idea da cui era nata la Fiera campionaria, poi internazionale, figlia di tempi lontani, è ormai, come è sotto gli occhi di tutti, obsoleta e non risponde più alle esigenze economiche dei nostri giorni. Può però diventare una grande opportunità. La Fiera appartiene al patrimonio regionale ed è gestita dalla Camera di Commercio (Ente Fiera).

«Anche le potenziali manifestazioni fieristiche specializzate, non sono sostenibili all’interno delle attuali strutture e, pertanto, si rende necessaria una profonda ristrutturazione dell’intero compendio e delle sue relazioni con il contesto, in funzione altresì di possibili partenariati con analoghi enti nazionali e internazionali.

«Il Programma elaborato dalla Regione e dal Comune di Cagliari, coerentemente con gli esiti del Concorso internazionale di progettazione del 2009, prevede il rilancio del comparto fieristico orientato verso: la congressualità con relativa offerta ricettiva; l’esposizione secondo modelli adeguati all’attuale sistema fieristico internazionale; i servizi per l’innovazione tecnologica; la connessione con l’area portuale antistante; la connessione con la città e la città metropolitana con la valorizzazione delle realtà contigue.

«A questo scopo è prevista, all’interno del recinto fieristico così come lo conosciamo, l’eliminazione di tutte le strutture obsolete sovrappostesi nel tempo (fatti salvi i Padiglioni Libera e Badas, il palazzo dei Congressi e l’Hangar), e la realizzazione di nuove strutture (espositive e congressuali) adeguate alle nuove necessità poste perimetralmente al fine di ottenere un grande spazio centrale attrezzabile per grandi eventi artistici e sportivi.

«Si tratta dunque anche di agire sempre in partnership sull'organizzazione degli eventi conseguendo insieme molti risultati: sul piano espositivo-commerciale dei prodotti delle piccole e medie imprese, dell'artigianato, dell'agricoltura delle attività terziarie e turistiche, su quello congressuale, su quello – come ho detto – delle manifestazioni artistiche e sportive. 

«Ma vorrei accennare anche al cosiddetto “Campus di conoscenza” e dell'interculturalità. Esso si propone di ricreare a Cagliari l'immagine di moderna città universitaria, dandole una dimensione di campus attraverso la ridefinizione dei confini dell'ateneo cagliaritano intorno ai quartieri del centro storico.

«Puntiamo a dei poli “di attrattività” per il terziario avanzato. Cagliari dovrà rinforzare il suo ruolo di centro d’eccellenza nei servizi e nell'industria ad alto contenuto tecnologico, tramite il potenziamento dei distretti delle tecnologie dell'informazione e comunicazione (ICT) e attraverso una maggiore e più selettiva capacità di attrazione di capitali, professionalità, imprese del terziario avanzato: ciò anche grazie alla presenza in città di dispositivi di rete (hub) tecnologici avanzati e sistemi di computer connessi alla rete telematica (cluster) innovativi. Si pensi a Macchiareddu e Sa Illetta, a Tiscali, e a quanto possano rappresentare, nel concreto della nostra vita civile ed economica, questi nomi».

La città dello sport e dell’intrattenimento

Sarà perché parlare di società tecnologica fa pensare alle nuove leve, ai giovani che sono/saranno artefici della nuova storia, che ti vorrei chiedere che cosa c’è nel pacchetto “giovani”, specificamente circa lo sport e l’intrattenimento. Noi potremmo dire che Cagliari, che pure conta giù su un buon parco di strutture sportive, possa ancor più e meglio offrire opportunità alla pratica sportiva, dico non soltanto al tifo ma all’esercizio vero e proprio. Lo sport poi è fattore rilevante di ogni progetto educativo, almeno io penso questo. Che cosa avete previsto, su cosa vi impegnate in questo settore tu e i tuoi compagni di lista o di alleanza?

«Quella che abbiamo chiamato “città dello sport, del benessere e dell'intrattenimento” è la connotazione di Cagliari secondo una linea di accresciuta qualità di vita. Ciò vale per tutti, per i giovani e per gli anziani, per i bambini in primo luogo, per i tanti che in ragione dell’età possono chiedere sforzo al loro fisico, e per i tanti che dopo una vita di lavoro vogliono poter mantenere integro il proprio organismo. Palestre e campi, ma anche medicina dello sport, strumenti sanitari di supporto…».

Ricordo bene che tu stesso abbia avuto esperienze piuttosto continuative nella pratica sportiva?

«Sì, soprattutto il tennis, sui campi di Monte Urpinu, e il calcetto in via Newton. Molto calcetto e molto tennis. In questi ultimi anni ho dovuto, per ragioni diverse, allentare un po’ la presa. Mi è rimasto l’amore al mare, il nuoto, qualche veleggiata con amici, qualche gita forestale, di immersione piena in questo o quel bosco nostro isolano, alla ricerca sempre di qualche insediamento protosardo o qualche traccia archeologica… Camminare, camminare. In città circolo molto a piedi, un po’ in bicicletta, quando necessario sui mezzi pubblici, poche volte prendo la macchina. Tutto nella norma, intendiamoci. Come nella norma sono – se posso fare la battuta – le letture, altro bello sport, questo della mente. Le pile dei libri crescono sul tavolo…Con i libri si va come in atletica, talvolta per i cento metri piani, altre per la corsa ad ostacoli, altre ancora per la maratona, anzi la maratonina… O come in equitazione, ora trotto ora galoppo… Possono andare questi paragoni?».

Vanno senz’altro e fotografano la situazione di tanti: la ginnastica della mente affiancata a quella dei muscoli. Riprendiamo il discorso del programma elettorale.

«Ho detto che dobbiamo poter collegare al meglio le opportunità offerte dall’ambiente naturale cittadino, sia quello interno e collinare che quello marino, alle diverse attività. Contiamo in città di un centinaio, poco meno, di società sportive di varie dimensioni e di tutte le discipline. E contiamo su decine di palestre. Questo è l’obiettivo a cui l’Amministrazione dovrebbe chiamare a concorrere tutti quei soggetti, singoli e collettivi, che credono anch’essi ad una città connotata come area urbana di qualità, fortemente integrata nel suo ambiente naturale, luogo ideale per il benessere generale della persona favorendo tutte quelle attività sostengano insieme salute e gioia di vivere a stretto contatto con la natura.

«Questi presidi, o siti sportivi, o sportivi/naturalistici, noi siamo in condizione di promuoverli in pressoché tutta l’area urbana, in tutti i quartieri del centro e delle periferie, diffusivamente. Perché la città si deve qualificare per questa virtù spalmata, e le stesse scuole, tanto più quelle primarie e medie, con le loro palestre e attrezzature e gli spazi fruibili all’esterno potrebbero costituire oasi speciali di verde e vita sana, studio e movimento. Ma certamente occorre anche specializzare un’area o meglio integrare la zona che parte dalla fiera e finisce verso Sant’Elia, nella parte meridionale della città e poi pensarne un’altra al polo opposto, verso Monserrato o la cintura campidanese. 

«Intanto ricordiamo che il prossimo anno – anno centenario della fondazione del Cagliari come club calcistico – verrà posata la prima pietra del nuovo stadio Sant’Elia. L'iter è stato difficoltoso, ma da tifoso del Cagliari sono felice di aver partecipato alla realizzazione del nuovo impianto, tanto agognato da noi tifosi.

«Sul punto della città sportiva e insieme turistica, vorrei però aggiungere un punto cui annetto una certa rilevanza nel più vasto programma elettorale. Mi riferisco alla Caserma Ederle, un vasto comparto con oltre 60.000 mc di costruito, nel viale Calamosca, che fa parte del patrimonio demaniale in dismissione che verrà acquisito dalla Regione Sardegna a fronte del reperimento e cessione di strutture più idonee agli usi militari. Attualmente ospita ancora pochi uffici militari e l’archivio dell’Ufficio leva del distretto militare, in cui sono raccolti tutti i fascicoli relativi ai coscritti. Documenti per gli storici avvenire…

«La vocazione del complesso, in prossimità del mare, è essenzialmente turistica e di servizio ad attività complementari. Ebbene, in vista della possibile candidatura di Roma ad ospitare le Olimpiadi del 2024, fu effettuato dal Comitato Olimpico un sopralluogo a seguito del quale venne certificata la piena idoneità della Ederle ad ospitare il quartier generale delle competizioni veliche.

«Il complesso è in contiguità con l’area naturale che conduce al faro di Capo Sant’Elia, area anch’essa reclamata da RAS e Comune di Cagliari, per renderla fruibile al pubblico. Ecco che ritorna quanto detto circa la “città del mare” e anche il “polo velico” di Marina Piccola».

Per il pragmatismo amministrativo, ma in una visione politica 

Torniamo alla politica, al profilo politico del tuo impegno passato e di quello presente nel Partito Democratico.

«Sono militante del Partito Democratico fin dalla sua fondazione, ora sono quasi tre lustri. Per un fatto generazionale – io sono del 1974 – non ho vissuto il tempo dei grandi scontri ideologici, il tempo che prima ancora che degli scontri era quello dell’elaborazione e definizione dei piani ideali e politici delle grandi forze che avevano concorso a liberare l’Italia dalla dittatura e a ricostruirla dopo la guerra, a ricostruirla repubblicana. Mi riferisco alle grandi correnti che si misurarono con la storia presente e futura nella Assemblea costituente, alla corrente cattolica ed a quella social-comunista, alla corrente liberale moderata e ancora tendenzialmente monarchica e savoiarda ed a quella più avanzata che rimandava all’azionismo ed ai mazziniani finalmente vincitori, in quanto alla affermazione della repubblicana come ordinamento costituzionale. Avevo quindici anni, ero appena entrato al liceo, al mio Pacinotti di Is Stelladas, quando cadde il muro di Berlino. Interessato alla politica, ancora da adolescente o da giovanissimo, da ventenne, ho visto le trasformazioni del nostro sistema politico, il passaggio dal proporzionale al maggioritario, la crisi dei grandi partiti storici, il loro frazionamento, la loro ricomposizione in forme variabili, l’entrata in scena di nuovi soggetti che non facevano riferimento più a scuole di pensiero, ma magari al carisma, vero o presunto, di questo o quel leader.

«Da liceale prima, da universitario poi, da giovane professionista al suo esordio nel mondo del lavoro e che già maturava qualche esperienza nell’associazionismo, ero portato, per cultura familiare e sensibilità personale ad un’area progressista, sociale, orientata a realizzare nella politica obiettivi di inclusione, perché la città è di tutti, non è mia più che tua… 

«Ecco così che quando si sono costituiti in partito i Democratici di sinistra – era il 1998 – ho guardato con maggior attenzione e interesse al mondo della politica: la grande quercia e la rosa del socialismo alla sua base, era il simbolo del partito. Voleva rappresentare un tentativo di aggregazione di uomini di esperienze partitiche diverse; in un’area contermine si pose la Margherita, che riuniva frazioni sia del cattolicesimo politico di estrazione democristiana che di un certo liberalismo progressista e riformatore. Le due formazioni cercarono intese così da costituire un’area articolata ma sufficientemente coesa di centro-sinistra, quel che serviva, secondo il mio sentire. In quel contesto sorse, con Prodi, l’Ulivo. L’Ulivo simbolo di pace e di dialogo. Il mio primo impegno vero e proprio sul piano politico è stato nell’Ulivo».

Ma poi è venuta l’ora del Partito Democratico al quale ti sei iscritto diventando anche, mi sembra, presidente di Circolo alla Marina. E’ così?

«Esatto. Successivamente l’area politico-ideale dell’Ulivo si è evoluta nel Partito Democratico, che infatti ha nel suo simbolo, fra la parola “Partito” e la parola “Democratico” un riferimento all’Ulivo. Era il 2007». 

Ti fermo un attimo, riprenderemo subito questo excursus della tua militanza politico-amministrativa. A me che sono ormai da lunghissimo tempo senza partito, dopo l’affettuosa e radicata militanza repubblicana, e sempre riconoscendomi in quelle idealità alte e storicamente profetiche, preme mettere una precisazione storica sul punto: a un partito “democratico”, o a un partito “della democrazia” pensò all’indomani della caduta del fascismo Luigi Salvatorelli, il grande, grandissimo storico avversario della dittatura (e per questo marginalizzato nella compagine de La Stampa di Torino, di cui era stato condirettore), impegnato poi nella fondazione del Partito d’Azione e fra i primi presidenti dell’Associazione Mazziniana Italiana. Voglio dire che era l’anima repubblicana-azionista a identificare se stessa nella area politica antifascista denominata “democratica”, distinta dal liberalismo così come dal socialismo. Puntava a collocare il centro delle libertà nell’istituzionale invece che nell’economico, come invece tendevano a fare, per visioni opposte, liberali e marxisti, gli uni per la libertà d’impresa (oltre che per quelle dell’individuo), gli altri per la libertà sindacale, della lotta di classe. Al partito “della democrazia” in cui Salvatorelli inseriva lo spirito riformatore di repubblicani ed azionisti era da ascrivere la primogenitura nella battaglia per la repubblica, per la laicità della repubblica e la distinzione netta dalla Chiesa, per le autonomie territoriali nel quadro della unità politica, la visione europeista – ed eravamo nel 1945! – e così via. I padri e i nonni del partito “della democrazia” salvatorelliana si erano spesi, fin dall’Ottocento, per il suffragio universale e le costituzioni, ed avevano contato i martiri. Anche i nostri Efisio Tola e Goffredo Mameli li puoi mettere nell’elenco. E nel Novecento l’hanno incarnata i vari Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, intellettuali di grandissima razza come i Galante Garrone, i Galasso, i Romeo, i Valiani, ecc. 

Sarebbe interessante, sul piano storico, domandarsi dove fossero i partiti che vivevano la stessa stagione postfascista, impegnati pure essi, nella Assemblea costituente, a dar vita alla nuova Italia: mi riferisco naturalmente a quelli i cui discendenti ideali hanno poi costituito il Partito Democratico. A fronte di quelli che erano sotto la protezione di Pio XII e andavano per sante crociate e poi anche per madonne pellegrine, i nonni e gli zii del Partito Democratico erano allineati a Stalin, lo Stalin dei gulag. Bisognerebbe riflettere su questo.

«Capisco queste osservazioni e puntualizzazioni storiche. Fortunatamente i valori dell’occidente liberale, naturalmente arricchiti dai contributi forniti dalle lotte sociali del movimento operaio in Italia come in Francia, o Germania o Gran Bretagna ecc., hanno vinto la partita storica. Il PCI ha comunque, dalle sponde della opposizione, sostenuto sempre con lealtà la repubblica, ha governato a lungo, e bene, città e regioni. Il comunismo sovietico e dell’est europeo si è dissolto, fortunatamente si è dissolto dopo aver fatto tante vittime – milioni di vittime! –, il muro di Berlino è caduto, ne abbiamo avuto ricadute positive in occidente. La guerra fredda è finita. Anche se oggi, da una parte Trump e dall’altra Putin non è che tranquillizzino più di tanto. Io temo entrambi».

Una conclusiva riflessione: uno per tutti, tutti per Cagliari (metropolitana)

Riprendi le tue riflessioni biografiche, di una biografia pubblica relativamente precoce e anche, te lo hanno riconosciuto tutti ed io pure, non soltanto per amicizia, qualificata.

«Grazie. Intanto però io avevo cominciato il mio impegno pubblico, e mi ero candidato, uscendone eletto, in una lista dell’Ulivo alle circoscrizionali di tutto il centro storico, dei quattro quartieri cioè che si dilatavano verso La Vega da una parte e verso Bonaria dall’altra. Io fondamentalmente, lo ripeto, sono un progressista dell’Ulivo, ritengo che quell’intuizione politica della metà degli anni ’90, per il rinnovamento della politica, conservi una sua attualità.

«La politica cui mi ispiro è una politica laica, la politica non può che essere laica, le istituzioni sono la casa comune, come diceva il presidente Scalfaro, che allora, quando iniziai a fare politica, era al Quirinale… Credo che ormai questo sia l’orientamento di tutti i democratici veri, che non strumentalizzano la religione a fini di parte. Però sono anche convinto che i valori religiosi, almeno per chi ce li ha per sua formazione personale e familiare, possano essere benzina nel motore. Aggiungono motivazioni al servizio, aggiungono energie alla prossimità… Io ho studiato otto anni alla scuola della Missione, elementari e medie, dai padri vincenziani, a Villanova. Una grande tradizione, quella dei padri della Missione vicino a San Domenico. 

«Quella circoscrizionale fu un’esperienza morbida ed estremamente istruttiva; morbida ma anche faticosa, impegnata per davvero – ho detto prima quali attività soprattutto mi coinvolsero –, però anche gioiosa, l’ho vissuta così forse per l’età, forse per l’entusiasmo che metto in tutto quello che faccio impegnandomi al massimo, forse perché ho incontrato dei colleghi di valore, e non faccio differenza di colore, forse anche perché ebbi modo di essere inserito nella commissione in cui, per ragioni di studio e competenza professionale, avrei potuto risultate più utile: i lavori pubblici, un ambito in cui rientravano anche i trasporti. E lì mi sono occupato, direi con spirito missionario davvero, con passione, del centro storico, della sua rivitalizzazione. Lo dico senza retorica e senza autocelebrazioni.

«Intendiamoci, ormai da una decina d’anni, dai tempi delle Amministrazioni Delogu e perfino da quelle precedenti, quelle della cosiddetta prima Repubblica, la questione del rilancio del centro storico era stata posta all’ordine del giorno. Gli uffici avevano approntato piani particolareggiati, erano state impostate pratiche di finanziamento importanti… poi, come si sa, i tempi della politica per le approvazioni e quelli della burocrazia per le verifiche e gli ok definitivi sono sempre lunghi… ma comunque gli ok sono arrivati e hanno consentito un lungo e complesso lavoro direi di rifacimento quartiere per quartiere. La pubblica amministrazione ha pensato ai sottoservizi – fognature e illuminazione, linee telefoniche e così via – i privati sono stati sollecitati e anche incoraggiati finanziariamente al rifacimento o al restauro delle facciate. Tutto sulla linea insieme del decoro estetico e della efficienza di fruizione. Su questa base si sono sviluppate le zone pedonali, sempre più vaste… 

«Naturalmente non tutto è facile, ogni medaglia ha un aspetto virtuoso ed uno meno virtuoso, forse anche sgradevole e sgradito. Certe esigenze dei commercianti non collimano con quelle di altre categorie, e poi c’era il problema dei parcheggi soppressi o allontanati dai siti tradizionali sottocasa, c’era da operare una riconversione anche delle abitudini di comodità…».

In conclusione?

«In conclusione: questo sono io, queste sono le mie idee, queste sono le mie esperienze amministrative passate e le mie proposte per il futuro, al servizio della città, di Cagliari, della città storica e della città metropolitana. Ai cittadini, all’elettorato la più libera delle valutazioni. Il giudizio popolare, disciplinato secondo le regole della democrazia, assegnerà i compiti, a certi la maggioranza e il governo municipale, ad altri l’opposizione politica ed il controllo amministrativo. Mi metto a disposizione, come sempre».




Fonte: Gianfranco Murtas
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