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Andrea Giulio Pirastu

Don Bosco e la Chiesa diocesana. Un’intervista con don Tonino Cabizzosu, professore emerito di storia della Chiesa alla facoltà Teologica della Sardegna

di Andrea Giulio Pirastu

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È appena uscito il quinto volume delle Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ‘800 e ’900, che raccoglie ben 54 testi (elaborati originali, articoli, interviste, presentazioni o introduzioni a libri di vario soggetto, interventi a seminari di studio e convegni, ecc.) di don Tonino Cabizzosu, per ben 35 anni docente della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. Edito da Carlo Delfino, il volume meriterà di essere presentato nella ricchezza delle sue cinque sezioni tematiche e delle sue ben... 589 pagine.

A chiudere questa bella raccolta è l’intervista che con don Cabizzosu realizzai nel maggio 2015 per il periodico nazionale degli exallievi salesiani Voci Fraterne.

Come speciale omaggio allo stesso amico don Tonino oltre che, ovviamente, al “mio” don Giovanni Bosco, e memore anche di quanto l’esperienza salesiana abbia inciso, nell’arco di ben oltre un secolo, a Cagliari e nella Sardegna intera (da Lanusei a Santulussurgiu, al Sassarese) nella formazione di migliaia e migliaia di giovani, ripropongo qui di seguito quel testo.



“Noi non educhiamo a Don Bosco, ma alla Chiesa. Se la tua vocazione ti porta alla vita diocesana, seguila con libertà e gratitudine” 

1)    Ragazzino di dodici anni, nel 1963, si iscrive presso l’Istituto salesiano di Lanusei: ci racconta – in breve – quali furono le motivazioni che spinsero la sua famiglia a questa decisione?

Io sono l’undicesimo figlio di una famiglia patriarcale: unita, solidale, cristiana praticante. Il desiderio dei miei genitori era quello di avere un figlio sacerdote. Il parroco del mio paese natale, Illorai (SS) – mons. Antonino Ledda, mio futuro padrino di cresima – era molto sensibile alla promozione delle vocazioni sacerdotali. Inviò numerosi ragazzi nel seminario di Ozieri, nell’Istituto dei Padri Saveriani a Macomer, dei Vincenziani a Sassari e cinque dai Salesiani a Lanusei. Di questo stuolo di studentelli uno solo raggiunse il sacerdozio, il sottoscritto, non certo per suo merito. Genitori cristiani e parroco illuminato sono alla base della mia vocazione sacerdotale. 


2)    Ci racconta un episodio particolare accaduto durante quegli anni di aspirantato?

Sarebbero tanti gli episodi da ricordare. Ne privilegio uno su tanti. L’Istituto di Lanusei era un Aspirantato che preparava gli studenti alla vita religiosa salesiana. Io mi trovavo a mio agio; quando, grazie alla gioiosa testimonianza dei superiori, capì progressivamente che nel mio animo erano presenti germi vocazionali, vissi un travaglio interiore circa la scelta da fare: salesiano o sacerdote diocesano. Quando mi confidai con il catechista, don Mario Prina, educatore carismatico, mi rispose con grande apertura d’animo: “Noi non educhiamo esclusivamente a don Bosco, ma alla Chiesa. Se la tua vocazione ti porta alla vita diocesana, seguila con libertà e gratitudine. Noi saremo sempre a tuo fianco”. Negli anni di liceo nel seminario Regionale di Cuglieri sviluppai con don Mario Prina e don Giuseppe Federici un intenso epistolario. Ricorderò sempre con gratitudine questi educatori sensibili e aperti.


3)    Era dura la vita da studente in un istituto salesiano? Lo studio era molto pesante?

Nell’ottobre 1963 ero reduce da un anno trascorso in un collegio vescovile a Brugnato (La Spezia) tenuto dai sacerdoti diocesani: il clima era decisamente negativo; oltrettutto era la prima esperienza fuori casa per cui piangevo continuamente. A Lanusei, invece, mi sentìi subito a mio agio per il clima di famiglia, per il dialogo con gli educatori, per la vivacità della vita oratoriana, per l’apertura missionaria ed ecclesiale. Abituato alle privazioni e a conquistare tutto con sacrificio, il tenore di vita comunitario non mi risultava difficile, anche se controllato in maniera costante dal Consigliere e dagli Assistenti (tra i quali ricordo con simpatia don Clemente Procenesi). Ricordo con simpatia la vita regolata dal fischietto di don Pilloni, che tutto sommata era equilibrata tra esigenze dello studio e della disciplina e momenti ricreativi e di sereno svago. 


4)    Come trascorreva le ore libere dallo studio? C’erano attività particolari che la coinvolgevano maggiormente? (sport, cinema…)

Non nutrivo grandi passioni per lo sport, nel tempo libero dallo studio io ero più interessato alle iniziative culturali e formative. Ne ricordo distintamente due: il ciclo di films domenicali che seguivamo nell’attiguo oratorio, allora frequentatissimo. Erano films in bianco nero, scelti con criteri intelligenti per stimolare la riflessione e la maturazione degli utenti; spesso seguiva il cineforum. Il secondo aspetto era la partecipazione alla “Compagnia dell’Immacolata”, di cui fui per due anni segretario (conservo tuttora la bozza della cronaca di ogni singola riunione). In esse si dibattevano argomenti formativi e si collaborava per la buona riuscita delle attività interne all’aspirantato ed avevano una forte connotazione missionaria. Al riguardo ricordo due formidabili educatori don Riccardo Macchioni di Napoli e don Mario Prina di Fonni. 


5)    L’Ogliastra di quegli anni era “un’isola nell’isola”, per via soprattutto dei collegamenti. Lei viveva questa separazione, o l’istituto era inserito in una rete di relazioni con parrocchie o altre realtà religiose, scolastiche o sociali della Sardegna?

Negli anni 1962-1965 l’Ogliastra era isolata. Verso il Cagliaritano disponeva di un’arteria stradale modesta, ma funzionale, verso il Nuorese e il Nord Sardegna, invece, la strada era irta di difficoltà in quanto bisognava attraversare il Passo Correboi, presso Fonni. In inverno, durante le frequenti nevicate, era un dramma. Ricordo quei viaggi penosi con l’APA (Azienda Pietro Aresu) che collegava Porto Torres con Lanusei. Dal mio paese occorrevano oltre quattro ore… Allora non si conoscevano vacanze natalizie e si viveva in aspirantato da ottobre a giugno. Nonostante questi disagi, una volta raggiunta la comunità salesiana, la musica cambiava in quanto la nostalgia si attenuava: l’insieme delle attività formative e culturali riempivano i nostri giorni in un clima di fraternità e gioia. Io, ancora oggi a distanza di cinquant’anni, ricordo quegli anni con spensieratezza, simpatia e gratitudine...


6)    Per quale motivo conclude i suoi studi a Roma, prima nell’Istituto salesiano del Mandrione poi al Sacro Cuore?

All’inizio della quinta ginnasio, non ricordo più per quale motivo, venne meno il docente programmato di latino e di greco per quell’anno scolastico. Il direttore don Giuseppe Federici cercò un sostituto tra i sacerdoti diocesani o tra docenti locali, ma invano. Con il permesso dei nostri genitori si decide di trasferire tutta la classe, composta di dodici elementi, all’Istituto del Mandrione a Roma. Fu un anno splendido: oltre la vita interna ci conquistò la bellezza della Città Eterna. L’esame finale lo sostenemmo presso l’Istituto del Sacro Cuore in via Marsala. Era una classe compatta: otto di essi proseguirono nel Noviziato di Lanuvio; il sottoscritto, invece, per i motivi su esposti, si trasferì al seminario regionale di Cuglieri tra i chierici della diocesi di Ozieri.


7)    Cosa le è rimasto di positivo, e magari cosa rimpiange, di quegli anni?

Mi è rimasto di positivo l’equilibrio tipico della spiritualità salesiana tra le esigenze della creaturalità e i bisogni dello spirito. Quegli anni, da me vissuti con trasporto interiore, hanno segnato profondamente la mia umanità e la sensibilità pastorale che poi avrei maturato in fututo. La metodologia del “sistema preventivo” intuito e messo in pratica da don Bosco, libera da visioni rigoriste e gianseniste, ha permesso di sviluppare quelle potenzialità positive con serenità ed equilibrio, con volto sorridente e gioioso, senza estremismi di sorta.  


8)     Cosa significa oggi, per lei sia come cristiano che come prete diocesano, essere un ex allievo di don Bosco?

A sessantacinque anni di età e quaranta di sacerdozio penso sia tempo di fare un bilancio della propria esistenza. Io penso spesso alle radici della mia personalità e vita interiore. Riconosco nei quattro anni trascorsi tra i Salesiani uno dei momenti fondanti la mia futura personalità di uomo e di sacerdote. Per questo motivo sento molto forte il senso della gratitudine per quegli educatori che hanno formato e plasmato il mio animo, con la gioia tipica di don Bosco. In ogni stadio della mia vita, nelle diverse esperienze pastorali e culturali in cui sono passato, ho fatto sempre tesoro della metodologia salesiana, sempre attenta alla formazione dei valori più alti dell’uomo. Oggi e sempre mi ritengo non solo ex allievo ma salesiano nello spirito, pur con le specifiche caratteristiche della spiritualità del sacerdote diocesano,


9)    Ma è vero che un pochino rimpiange di non essere diventato un salesiano? Perché?

Io penso che ognuno di noi abbia sempre qualcosa da rimpiangere del proprio passato. Personalmente sono più che soddisfatto della mia esistenza e delle diverse esperienze ecclesiali portate a compimento per volontà dei miei vescovi, ma certo ogni tanto penso alle possibilità poste dinanzi a noi dal Signore: non “rimpiango” (il che vorrebbe dire che sarei insoddisfatto della scelta fatta e non è vero) di non essere diventato salesiano, ma quello stile di vita mi attrae tuttora e, se dovessi riniziare, lo seguirei con gioia! 


10)    Ultima domanda allo storico della Chiesa sarda: come vede la realtà salesiana sarda di oggi e cosa chiederebbe ad essa per essere più rispondente ai bisogni attuali della società e della Chiesa?

Ho sempre coltivato l’amicizia con numerosi salesiani in Sardegna e nella penisola. Non conosco però dall’interno le attuali problematiche che vive l’Ispettoria. Tutti gli Ordini e Congregazioni religiose, maschili e femminili, vivono oggi una difficile realtà a causa del calo delle vocazioni religiose. La carenza di personale spinge i responsabili a rivedere l’organigramma e ridistribuire la presenza salesiana nel territorio. Piange il cuore vedere case salesiane, come quella di Lanusei, che è stata la culla dell’Opera salesiana in Sardegna, essere costretta ad operare al lumicino o essere chiusa. La crisi delle vocazioni, che è sotto gli occhi di tutti, esprime un progetto di Dio, che ancora non riusciamo a leggere e comprendere in pienezza. Forse una Chiesa meno clericale e più laicale? Comunque sia, una cosa rimane certa: la presenza salesiana nell’isola, anche a ranghi ridotti rispetto al passato, costituisce una delle realtà più belle e promettenti in quanto il carisma di don Bosco è di grande attualità per la società odierna.    


Fonte: Andrea G. Pirastu
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