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Redazione Giornalia

EMERGENZA COVID-19. TRA USO E ABUSO DELLA DECRETAZIONE D’URGENZA, DEI DPCM E SOVRAPPOSIZIONE DI COMPETENZE PREVALE IL CAOS

Intervista al Prof. Antonmichele de Tura, dottore di ricerca in diritto costituzionale e diritto pubblico generale.

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Di Antonella Soddu


Le frequenti conferenze stampa del Presidente del Consiglio dei Ministri convocate per annunciare i DPCM hanno inizialmente suscitato interesse anche per capire meglio come comportarsi. Oggi, a distanza di due mesi qualcuno comincia a lamentare l’abuso nell’uso ai DPCM. 

 Al di là delle polemiche politiche e non, dal punto di vista tecnico nei giorni scorsi si sono espressi - con opinioni peraltro discordanti - noti giuristi e costituzionalisti nazionali tra i quali la stessa Presidente della Corte costituzionale la quale ha precisato: “La Costituzione è la bussola necessaria per navigare nell’alto mare aperto dell’emergenza e del dopo-emergenza e non contempla diritti speciali per i tempi eccezionali”. Non è mancato nemmeno il monito dell’illustre giurista e giudice costituzionale emerito Sabino Cassese, secondo cui il Governo con i DPCM ha compiuto “un’ingenuità e un’illegittimità” perché è indiscutibile che “nelle materie che riguardano le libertà delle persone, la Costituzione prevede che a intervenire sia la legge.

Sull’uso e abuso della decretazione d’urgenza e dei DPCM in un’intervista rilasciata all’emittente radiofonica locale sarda – “Radio Luna Carbonia” – si è espresso anche il Prof. Antonmichele de Tura, dottore di ricerca in diritto costituzionale e diritto pubblico generale.


Professore, in questi giorni abbiamo letto e sentito da varie parti qualcosa in merito all’uso e abuso della decretazione d’urgenza e dei DPCM nell’attuale situazione sanitaria emergenziale; autorevoli giuristi si sono espressi in tal senso, lei che ne pensa a proposito?

Occorre fare un po’ di chiarezza: negli ordinamenti democratici sussiste il principio secondo il quale la sovranità appartiene al popolo, per cui le leggi le fa il popolo medesimo attraverso i propri rappresentanti eletti in Parlamento. Quindi, lo strumento normale attraverso il quale si forma il diritto di un determinato ordinamento sono le leggi del Parlamento. Possono sussistere situazioni (particolare complessità della materia trattata ovvero condizioni di fatto che richiedano soluzioni immediate) che non consiglino (o non consentano) la complessità del procedimento legislativo ordinario. In tali ipotesi la Costituzione attribuisce al Governo la possibilità di adottare norme di efficacia pari a quella della legge ordinaria del Parlamento, nel primo caso attraverso l’uso del decreto legislativo (che fa riferimento alla prima delle situazioni indicate, ossia la necessità di regolare materie particolarmente complesse, che nella presente sede non è di interesse) e, nel secondo caso – la regolazione di situazioni che richiedano disposizioni necessarie ed urgenti – attraverso l’adozione di decreti-legge. Il decreto legge è un provvedimento provvisorio con forza di legge – ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione – che è deliberato dal Consiglio dei Ministri, emanato dal Presidente della Repubblica e convertito in legge da parte del Parlamento entro sessanta giorni. Il provvedimento entra in vigore immediatamente e costituisce pertanto uno strumento rapidissimo. Nonostante la rapidità che lo caratterizza, il decreto-legge è comunque uno strumento che attraversa diverse fasi di garanzia democratica e di controllo: anzitutto, al momento della sua deliberazione c’è un momento di condivisione collettiva in Consiglio dei Ministri, all’interno del quale si confrontano le opinioni dei diversi Ministri; successivamente, il vaglio del Presidente della Repubblica in fase di emanazione; ancora, nella fase di conversione vera e propria è previsto il pieno coinvolgimento del Parlamento; infine, è possibile – attraverso le ordinarie modalità di accesso – l’esame da parte della Corte costituzionale, che ne può dichiarare la illegittimità. Dunque, il decreto legge è sì uno strumento straordinario, ma è anche uno strumento che la Costituzione ha molto ben disciplinato dal punto di vista delle garanzie e dei controlli.

Nulla di tutto questo abbiamo nei DPCM che sono atti “sconosciuti” alla Costituzione (nel senso che non li prevede in alcuna sua parte) e che nella storia repubblicana sono stati usati per tantissimo tempo in maniera assolutamente rara e con funzioni di tipo eminentemente amministrativo. Perché questo? Perché i DPCM non hanno quel contorno di controlli che hanno invece i decreti legge: ed, infatti, il DPCM è adottato senza una deliberazione formale del Consiglio dei Ministri (i DPCM di cui parliamo hanno seguito, in verità, una procedura atipica e, per così dire, ibrida, in quanto – pur se non deliberati formalmente dal Consiglio dei Ministri, è dato conto, nelle premesse, che il Presidente del Consiglio ha “sentito” i Ministri interessati, e sono, inoltre, firmati anche dal Ministro della Salute); il Presidente della Repubblica non è in alcun modo coinvolto (se non in maniera affatto informale); e, soprattutto, il DPCM non è sottoposto al passaggio Parlamentare, né (non rivestendo il DPCM valore di legge) né al sindacato della Corte costituzionale per quanto riguarda la sua conformità o meno alla Carta fondamentale. 

 Da ciò sembra conseguire la considerazione che il DPCM è, in realtà, un atto molto scivoloso dal punto di vista delle garanzie costituzionali poiché trattasi di un atto assolutamente monocratico. L’obiezione secondo la quale un minimo di collegialità sarebbe comunque presente, considerato che, come visto, nei DPCM è dato conto, nelle premesse, che il Presidente del Consiglio ha comunque sentito i vari Ministri competenti e che, inoltre, i decreti stessi risultano firmati anche dal Ministro della Salute appare francamente un po’ fragile se solo si considera che lo stesso tempo in cui il Presidente si dedica a “sentire” i Ministri, sarebbe sufficiente a svolgere un formale Consiglio dei Ministri in grado di licenziare un decreto-legge con tutte le garanzie che la Costituzione prevede al riguardo.


L’emergenza sanitaria in corso ha, per così dire, giustificato le attuali misure restrittive che, in concreto, limitano anche la libertà personale. Autocertificazioni e divieti di spostamenti da una Regione all’altra e finanche lo spostamento da un Comune all’altro, oltre che la necessità di autocertificazione anche per spostarsi dentro il proprio Comune di residenza, e ora, nella cosiddetta fase 2 annunciata dal PdC, addirittura l’introduzione di un’applicazione in grado di tracciare gli spostamenti e segnalare se siamo o no in prossimità di chi potrebbe esser positivo. Sono davvero provvedimenti lesivi della privacy e della libertà personale?


Occorre innanzitutto dire che, per quanto riguarda l’app denominata “Immuni” sembrerebbe che la relativa previsione sia formalizzata in un atto con forza di legge e che, pertanto, siano rispettate le prescrizioni costituzionali. Peraltro, diverse perplessità riemergono dal punto di vista del contenuto – anche se, per il momento, ci sono solo indiscrezioni di stampa e dal punto di vista tecnico non ho nessun titolo per interloquire – e, dunque, dal punto di vista della tracciabilità degli spostamenti, che potrebbe darebbe accesso a dati molto sensibili. In questo caso bisogna fare molta attenzione dinanzi a considerazioni del tipo “tanto ormai siamo tutti tracciati, a me non importa nulla perché non ho nulla da nascondere”. Sono affermazioni rischiose per la libertà di ciascuno di noi: non si può dire “siccome non leggo i giornali non mi interessa se viene abolita la libertà di stampa”; in democrazia non funziona così: in democrazia i diritti di libertà sono garantiti attraverso meccanismi che assicurino la possibilità che la propria sfera di vita venga il più possibile preservata da intromissioni esterne. Tra l’altro, è appena il caso di sottolineare che misure di tal genere rischiano comunque di apparire sproporzionate e fuori tempo massimo una volta che i dati epidemiologici siano costantemente orientati al ribasso. Un domani a contagi zero, a epidemia debellata, ci potrebbe comunque essere chi dice “manteniamo la tracciabilità cosi, l’epidemia non tornerà più”. Ci rendiamo conto di quanto possa essere rischiosa una deriva di questo genere?


Il coronavirus, come sappiamo, ha avuto un diverso impatto e diffusione nelle varie Regioni. In considerazione di questo, e tenendo conto delle specificità locali, non sarebbe stato opportuno differenziare le misure di contenimento e soprattutto di ripartenza delle attività economiche, magari coinvolgendo gli Enti territoriali secondo i principi di sussidiarietà e leale collaborazione di cui parla l’articolo 120 della Costituzione?

La possibilità di riaprire determinate aree territoriali è scelta politica sulla scorta di elementi di discrezionalità tecnica. In alcuni Stati per esempio, in Spagna e in Francia, si è decisa un’apertura scaglionata a seconda dei territori. Si è ritenuto, ad esempio, che le isole dovrebbero avere una condizione particolare perché, una volta chiusi gli arrivi dall’esterno, se per tanti giorni non si presentano casi e non essendoci focolai, ragionevolmente si hanno più possibilità di contenimento del virus. Queste però sono scelte che competono al decisore politico sulla scorta dei dati forniti dai consulenti e dagli esperti.

Per quanto concerne la situazione italiana e, quindi, al dipanarsi della filiera ordinamentale Stato-Regioni-Enti locali, possono sussistere competenze che si sovrappongono oltre che affiancarsi. L’articolo 32 della legge 833/78 (legge di riforma sanitaria) che dovrebbe disciplinare, in materia, tali rapporti, è una norma anteriore alla riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001 e, quindi, ci sono dei problemi importanti di coordinamento. Peraltro, ripeto, queste sono scelte che competono al decisore politico e che si esauriscono nella dialettica tra decisori politici e cioè tra Stato e Regioni. Esiste un Ministro per il coordinamento degli affari regionali che dovrebbe essere il Ministro che ha tra le sue attribuzioni fondamentali quella di curare i rapporti con le Regioni al fine di evitare sovrapposizioni che rischiano di essere anche dannose e che generano poi confusione nei cittadini. Nella catena di comando Presidente del Consiglio-Ministro della Salute-Ministro per gli affari regionali-Presidenti di Regione-Sindaci, si rischia una grande confusione.

 

In conclusione, Professore, le chiedo, secondo il suo parere tecnico ovviamente: questo caos generato dalle diverse posizioni assunte dai vari Presidenti di Regione quali effetti produce nella gestione dell’emergenza sanitaria? In particolare, possono le ordinanze dei singoli presidenti aver effetto più restrittivo degli stessi DPCM?

Ripeto, è assolutamente necessario che la funzione di il coordinamento operi al meglio, poiché in caso contrario si crea una giungla nella quale il cittadino rischia di smarrire la bussola. Io mi metto, ad esempio, nei panni dell’esercente di un bar o di un qualsiasi altro esercizio commerciale che si trovi un’ordinanza di un Presidente della propria Regione che gli dice che può riaprire mentre il Sindaco gli dice no, non devi riaprire; poi arriva il Presidente del Consiglio che gli dice, sì, però tutto in una volta o niente, insomma una grande confusione. Dal punto di vista tecnico potrei parlare per ore sui rapporti tra Stato e Regioni e poi tra Regioni ed enti locali ma non risolverebbe il problema del negoziante che si pone la questione se l’indomani mattina andare e tirare su la serranda. Questo è grave, la gente è già abbastanza stanca e ha bisogno soprattutto di chiarezza per potersi comportare in maniera consona. Siamo stati tutti diligenti, siamo stati tutti a casa. Quando è stato tutto chiuso, è stato tutto relativamente più facile perché lì la scelta era o bianco o nero; adesso che si tratta piano piano di ripartire, credo che sorgerà più di un problema, perché qui non si tratta più di non fare qualcosa, si tratta di stabilire che cosa poter fare; e, se non sappiamo cosa poter fare, rischiamo di smarrirci. –



Fonte: Antonella Soddu
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