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Gianfranco Murtas

Il Vaticano II nell’intelligenza della storia e nello specchio delle fonti: così nel sentimento e nelle riflessioni di Tonino Cabizzosu

di Gianfranco Murtas

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Guarda a sé e alla sua generazione, e alla precedente mezza generazione anch’essa agli studi di teologia negli anni ’60 del Novecento, e guarda alla variegata schiera dei suoi professori nel seminario di Cuglieri e poi, dal 1971, nella facoltà (sciolta dal seminario) trasferita a Cagliari (dove pure è arrivato, segmentato in molte precarie sedi, il seminario). Guarda ai professori – gesuiti per il più – in cattedra al Regionale ormai da lunghi anni e di prevalente e passiva obbedienza pacelliana – essi interrogati circa gli “studia et vota” nel 1959 –, e guarda al clero già formato e già all’opera negli anni del pontificato giovanneo e nei primi tempi di quello paolino… E guarda ancora, con preoccupazioni evidenti – dovrei dire con allarme giustificato – a fasce rilevanti di chierici delle generazioni successive, alle presenti nuove leve del presbiterato nazionale e sardo, a proposito della ricezione o non ricezione della grande lezione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Lo fa, Tonino Cabizzosu – professore ordinario di storia della Chiesa nella Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, oltreché parroco di vivace esperienza fra Bottida (e già Berchidda), Ardara e Ittireddu, ed oggi anche direttore dei Beni culturali diocesani ozieresi (Archivio storico, Museo e Biblioteca) – nella densa, densissima introduzione al suo recente Concilio Vaticano II. “Colligite fragmenta”. Saggi recenti sul Concilio, di cui mi sono occupato, apprezzandolo molto, nell’articolo “Omaggio al Concilio Vaticano II. Cento volte firmato da Tonino Cabizzosu su ‘Voce del Logudoro’”, postato in Giornalia il 31 maggio scorso. 

Sono scene, anzi quadri storici diversi quelli delle ventisei pagine che, dopo una rapida premessa, aprono il libro e da subito conducono il lettore nel cuore della vicenda conciliare che fu insieme, fra loro inestricabilmente fusi, un fatto di intelligenza storica e un fatto di riscoperta delle fonti e rilancio della missione: così la legge Cabizzosu e così mi sento di leggerla, modestamente (e dai bordi del recinto), anch’io, oltre la divaricazione che molti protagonisti anche fra i più autorevoli (si consideri fra essi papa Benedetto XVI) e studiosi accreditati e di varia scuola, per apprezzare o per distanziarsene, hanno definito in quanto alla sua ermeneutica: discontinuità/rottura da una parte, riforma nella continuità dall’altra. (Converrà tornare sul punto anche perché l’autore vi dedica una speciale attenzione, come un capitolo previo finalizzato a dar conto dei perché e anche dei modi dell’adesione, del rigetto, dell’accettazione cauta o riservata e, di contro, dell’accettazione convinta e magari entusiasta e da subito tradotta in opera/opere).

L’ho ridotto, l’evento conciliare come anche io, laico liberale di formazione cristiana, l’ho vissuto, avvertito da subito – pur allora nella minore età – ed elaborato nelle riflessioni degli anni che sempre impastano “cercando armonia” il civile al religioso (senza improprie e scambievoli catture di spazio o strumentali sovrapposizioni), alla formula del maggior evento storico del XX secolo con la Chiesa protagonista. Speculare al giudizio del Gregorovius dei Diari romani che aveva scritto della caduta del potere temporale come del momento più alto dell’intero Ottocento.

Si pensi a questo: a come il laico 20 Settembre 1870, contrappunto al concilio piino apertosi l’8 dicembre precedente e chiuso in velocità dopo l’approvazione, il 18 luglio, del dogma infallibilista, la Chiesa pareva fosse divenuta oggetto e non soggetto della storia, a come l’Italia regnicola e di Cadorna fosse stata lei a donare allora al mondo il tesoro di una Chiesa impoverita delle convenienze e potenzialmente arricchita, invece, delle sue originarie ispirazioni evangeliche e dell’esempio dei suoi santi; e come, per opposto, quelle quattrocento tornate di lavoro conciliare – lavoro di vescovi non di laici dunque –, quasi un secolo dopo, avessero restituito al cattolicesimo, strutturatosi sì con le sue istituzioni ma più ancora mobile con le sue “ali” sociali, il proprio protagonismo storico, facendo esso di se stesso dono al mondo – oltre l’Italia ed oltre l’Europa – nelle logiche dell’ecumenismo e del comunitarismo, di una orizzontalità dialogica insomma, per la pace e la giustizia. Ché al magistero conciliare – ancorché apparentemente classificabile nel più limitato ed ordinario rango del munus pontificio – appartiene anche la Populorum progressio (della Pasqua 1967) di papa Montini non meno di quella Ecclesiam Suam con la quale lo stesso moderno successore di Pietro aveva presentato, appena mille giorni prima, e con toni del tutto inediti, il suo ministero e la Chiesa tutta tesa nella riscoperta delle proprie vocazioni native. 

Si pensi un attimo proprio alla Ecclesiam Suam, non a caso richiamata dal documento successivo: «… né la custodia, né la difesa esauriscono il dovere della Chiesa rispetto ai doni che essa possiede. Il dovere congeniale al patrimonio ricevuto da Cristo è la diffusione, è l'offerta, è l'annuncio, ben lo sappiamo: Andate, dunque, istruite tutte le genti, è l'estremo mandato di Cristo ai suoi Apostoli… Noi daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo. La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». Da qui verrà la Gaudium et Spes (ma preparata, direi così, dalla Lumen Gentium, che pareva aver voluto abbattere il fortilizio clericale per affermare, in più modi, il principio ecclesiale!).

Il Concilio Ecumenico ed il papato che con raffinata discrezione lo guida e sostiene hanno cambiato i paradigmi dell’ecclesiologia. Per arrivare lontano ed ai lontani, agli avversari perfino, bisogna ripensare se stessi, purificare se stessi dalle ingessature della storia, dalla muffa della autoreferenzialità. Nello stesso programma per l’unità dei cristiani – nato da suggerimenti inglesi nell’anno scombinato della condanna del modernismo – si è progressivamente riorientata l’ “intenzione”: dall’esigente auspicio del ritorno dei “separati” all’ “ovile” romano, supposto sede esclusiva della pienezza di verità, alla mutua fraternità dei diversi per la comune, solidale conversione a Chi la Scrittura chiama “la Parola”.

Gli stessi documenti conciliari, così come il magistero papale successivo al Concilio (si pensi anche alla Redemptoris missio di Giovanni Paolo II, del 1990) e naturalmente la ricerca teologica attiva in tutti i continenti, hanno valorizzato sempre più quella “partecipazione” di tutte le religioni e di tutte le chiese e/o comunità – si ricordi qui il distinguo presente nella Dominus Iesus del 2000 anno giubilare (al netto di qualche ruvidità che ha fatto credere a qualche contraddizione e retrocessione rispetto alle acquisizioni conciliari) – alle dinamiche dello Spirito «nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni».

Nel decennio che certamente si presentò all’umanità nelle tribolate fragilità della guerra fredda e negli armamenti crescenti, nelle radicalizzazioni degli scontri ideologici – la guerra nel Vietnam ne era la più alta e tragica rappresentazione – e nella impotenza delle organizzazioni internazionali (l’ONU in testa a tutte), dall’assemblea degli oltre duemilatrecento vescovi espressione di tutti i cinque continenti, di tutte le etnie e culture, venne – già soltanto dal loro discutere (e direi dal loro quotidiano pregare insieme) – un segno “altro”, alternativo ad ogni rassegnazione, ad ogni paura, ad ogni chiusura. 

Ancora non s’era concluso il processo di decolonizzazione delle nazioni povere, quelle che la Chiesa cattolica aveva presidiato e, direi, legato in comunione con il mondo sviluppato attraverso le sue secolari missioni evangelizzatrici (e in uno sforzo coraggioso di inculturazione), e già però erano percepibili i nuovi dinamismi della storia, le sensibilità fattesi politiche per la pace, nei movimenti giovanili degli States… Così nella musica, nell’arte, nelle categorie dei sociologi. Tutto il decennio – e anche il dopo, ché dopo il Vietnam sarebbe toccato alla Cambogia e ai suoi massacri di massa, con numeri rassomiglianti a quelli dei campi di Hitler o dei gulag di Stalin – avrebbe certo vissuto e patito le sue contraddizioni fra i meridiani e i paralleli, le dualità terribili fra il Biafra nigeriano alla fame e la luna conquistata per gli orgogli (anche scientifici) dell’America…

La Chiesa, mai estranea agli eventi della storia dei popoli, riscopriva una sua nuova e più riconoscibile soggettività. Lo faceva – per l’intuizione o l’illuminazione di un “pastor greges” dalle esperienze capitali maturate, a lungo e nel quotidiano, a ridosso delle frontiere dell’inconsistenza bulgara e dell’impotenza greca o turca così come nel centro del centro delle diplomazie e delle accademie, in Francia cioè – al termine di un periodo, quello dei tre lustri che separavano dalla fine della seconda guerra fra i continenti e dell’esplosione delle prime atomiche, in cui il mondo ricuciva le materialità disperse e avanzava nuovi progetti di civiltà e coesione. L’unità europea fra essi. 

Una premessa, forse, nel papato di Mastai Ferretti

Non mancano gli storici che attribuiscono addirittura al discusso Pio IX – al Pio IX dell’indomani della pubblicazione del famoso Sillabo, allegato alla non meno famosa enciclica Quanta cura (era il 1864, un lustro prima del Concilio infallibilista, un sessennio prima della breccia di Porta Pia e delle conseguenze nella città leonina) – il riposizionamento, mentale prima ancora che materiale, della Chiesa nel corpo sociale dell’Italia e delle nazioni. Come conseguenza dell’inevitabile, e tanto più inevitabile, allora, dopo il tentativo garibaldino fermato (soltanto per galateo diplomatico) a Mentana e dopo gli scontri che avrebbero opposto l’esercito francese a quello prussiano e rovesciato gli equilibri continentali. La storia andava lì, verso il papato dolorosamente (ma provvidenzialmente!) isolato fra i circuiti politici costituiti da case reali e imperiali, da governi e cancellerie un tempo alleati e fedeli ed ora nello sconcerto per le condanne dei pretesi errori liberali (e socialisti) e del tempo moderno tout court, così come andava verso l’unità territoriale italiana (tanto più dopo la terza guerra d’indipendenza che aveva associato Venezia e il Veneto al regno di Vittorio Emanuele). L’anno della smobilitazione francese dalle protezioni militari dello Stato Pontificio, l’anno della sostituzione quasi caricaturale, da parte dei «soldatini di piombo» (gli zuavi internazionali), dei «guerrieri francesi» che avevano custodito il Tevere e i colli per lunghi diciassette anni, dal tempo della gloriosa repubblica di Mazzini e Garibaldi, e di Goffredo Mameli, vide abbattersi ogni illusione di permanenza del fantoccio guelfo nei quadri storici in divenire. Bisognava prenderne atto, entrare in un altro ordine di idee. 

Pio IX tornato prete capace di misericordia e candidato, per spirito religioso, alle patenti infallibiliste – non per sé, ma per il papato! – avrebbe benedetto, sì, la montagna di doni per il suo giubileo sacerdotale (1819-1869) che presto avrebbero fatto bella mostra nella città eterna, rafforzando in lui la coscienza che il papato fosse ancora una riconoscibile «idea morale» e Roma il «grande altare dei sacrifici per l’umanità» (parole di Gregorovius), ma avrebbe non di meno compreso che ciò sarebbe avvenuto con modalità diverse, molto diverse, che nel passato. Non erano trascorsi che cinque mesi dall’ultima sciagurata prova di rigore della mannaia, della lama che spezzava il collo dei rei condannati in nome «della Santità di Nostro Signore Pio PP. IX». Troppo sangue aveva sparso il pontificato romano, ora con guerre del duca Valentino e di prima e di dopo, con i roghi degli autodafé dell’Inquisizione romana, ora con il patibolo nel cuore di Roma e le fucilazioni dei rivoltosi veri o presunti nelle legazioni emiliane e marchigiane, o umbre... E finalmente il papa avrebbe detto “basta!”: «In quanto alla durata della difesa – aveva ammonito rivolgendosi al generale Kanzler –, sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta… cioè di aprire le trattative per la resa ai primi colpi di cannone. In un momento in cui l’Europa intiera deplora le vittime numerosissime, conseguenza di una guerra fra due grandi nazioni [Francia e Prussia, ndr], non si dica mai che il Vicario di Cristo… abbia ad accondiscendere a qualunque spargimento di sangue». Giunto tardi, ma il ripensamento fu sincero. Anche se forse nella mente e nella memoria di papa Mastai Ferretti non ebbe parte, allora, il fuoco morale dell’invocazione giunta alla Sede Apostolica da un umile vicario capitolare tempiese, don Tommaso Muzzetto, che nel marzo 1862 aveva prospettato, con l’intero presbiterio gallurese, la rinuncia, gratuita ed unilaterale, al potere temporale nel nome del Vangelo predicato ai miti. 

«La Chiesa, abbandonati ormai i troni alla loro sorte, si riavvicinava ai popoli: a quei popoli che ne avevano rappresentato la vera grandezza nei secoli del Medioevo», ha scritto Giovanni Spadolini in Le due Rome. Chiesa e Stato fra ’800 e ’900. Non diverso il giudizio di Arturo Carlo Jemolo in Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni.



E poi Roncalli

Giusto novant’anni dopo la celebrazione del Concilio dell’infallibilità e l’esplodere di tante vicende, insieme politiche e militari, sul teatro del vecchio continente, novant’anni dopo il cambio di scena, o di segno della storia, per l’abbattimento dell’impaccio temporalista, e in attesa e preparazione dei nuovi, più stabili e fecondi assetti mondiali in ripartenza dalle devastazioni morali e materiali delle dittature guerrafondaie, Giovanni XXIII prometteva un nuovo Concilio. Lo faceva muovendo dalle nuove consapevolezze sociali: un Concilio non dottrinale in senso stretto, anche se dalla dottrina nessun Concilio avrebbe potuto mai prescindere, ma aperto alla riforma della pastoralità, alla revisione della ecclesiologia, alla armonizzazione della ecclesiologia con la storia nuova. Nella logica dei “segni dei tempi”. Perché la dottrina non è un cielo di stelle fisse, algido e lontano, ma nutrimento della vita, pane caldo per gli umani. Essa marca la relazione fra l’infinito e il finito, fra il Dio creatore-liberatore-padre svelato nelle Scritture e la sua creatura chiamata ad onorare Chi l’ha pensata e voluta nella responsabilità della storia, attraverso la consapevole e responsabile partecipazione al Regno: il regno della fraternità, così nella microsocietà abitata come fra i meridiani e paralleli dell’intero pianeta.

Sotto questo profilo il Concilio, almeno nelle intenzioni – o meglio sarebbe dire nelle intuizioni – di chi lo convoca, sembra voler restaurare il primato della fede sulla pratica di religione e di culto, che pur s’è affermata nel tempo, affermata in una certa autonomia dalla sua fonte che, sarebbe, invero, la sola sua legittimazione, insomma in una subdola (e talvolta stridente) estraneazione di fatto dalle logiche dello spirito. Perché è proprio nel recupero dei valori ispirativi che il cristianesimo o la comunità cristiana può conseguire quell’obiettivo finalistico del Regno.

A me sembra che Cabizzosu, nelle sue riflessioni sull’evento Concilio, nel suo lavoro di inquadramento storico e propriamente teologico di quel “dono di Provvidenza”, nello studio dei documenti prodotti dalla assemblea episcopale, nella lettura critica di centinaia di opere che, negli anni, sono venute fuori ora come testimonianze di “parte presa”, ora come esplorazione esegetica di costituzioni, decreti e dichiarazioni, sia consapevolmente, e volutamente, e orgogliosamente, tutto interno alle coerenze conciliari: lo sia per formazione spirituale ed intellettuale, lo sia per propensione personale di afflato e temperamento, lo sia per mestiere. Perché il mestiere difficile di professore reca in sé una responsabilità educativa che – per i tempi in cui egli è stato chiamato a realizzarla nel concreto delle aule della facoltà Teologica della Sardegna, vale a dire per trentacinque anni nel passaggio di secolo e di millennio – implica, o ha implicato, una metodologia di inquadramento e approfondimento che costringe a fare quel che i Padri conciliari fecero nelle quattro sessioni fra il 1962 ed il 1965.

E’ un punto importante questo. Nell’aula divenuta laboratorio, luogo di interazione fra docente e discenti, non può darsi più la replica passiva e puramente manualistica delle passate produzioni degli storici della Chiesa, né il ripasso della storia della Chiesa come storia “a sé stante”, come storia della salvezza incanalata in coordinate di stretta dottrina ed alla ricerca (o alla collezione) delle conferme del Cielo agli atti di papi e vescovi, ma entra altro, ben altro… La storia della Chiesa – comunità ed ordinamento – deve essere esplorata in relazione alle dinamiche sociali, culturali, economiche, scientifiche, alle produzioni morali delle classi e dei territori: la storia della Chiesa va vista nei recuperi possibili, incerti e contraddittori del senso presente nella metafora del lievito e della pasta: il senso della Chiesa, del suo essere e della sua missione, in esposizione critica alla sua umanità, anzi alla fragilità della sua umanità… E’, quella che si studia e indaga, una storia della Chiesa che si spende tutta nella tensione fra le promesse, e le vocazioni, originarie e lo svolgimento, per pulsioni autonome, delle complessità, nel processo evolutivo dei movimenti popolari e dello spirito pubblico, delle regolamentazioni giuridiche, delle formulazioni culturali ad ampio spettro, degli assetti politici ed economici che vanno via via imponendosi nel grande teatro sociale sì dei vasti continenti come della Sardegna, della nostra Sardegna nel cuore del Mediterraneo.

Far lezione di storia della Chiesa

Nella multipolarità dei riferimenti, delle chiamate a confronto o a relazione, le lezioni dalla cattedra del professor Cabizzosu, in logica compartecipativa con i suoi studenti, mi pare di poterle ricondurre, dunque, - azzardo questo parallelo – alle regole orientative che mossero nelle loro discussioni i Padri del Concilio: la riscoperta, forse la scoperta (!) della fonti, il censimento delle dinamiche di fermento etico e culturale, valoriale o ideale della società nella sequenza dei secoli, l’effettività della fede insegnata e testimoniata dagli uomini di religione nel concreto della vita delle persone e delle comunità. Senza erigersi a giudici e giustizieri ex post, semmai interessati a cogliere, dalle esperienze di persone e comunità, quel tanto che avrebbe potuto e potrebbe, pur in forme anomale o singolari, dirsi compatibile con le fondamentali tavole cristiane, ed anche di quel tanto che avrebbe potuto e potrebbe, innestandosi nella dottrina e nella prassi riflessiva ed orante, arricchire la Chiesa. (E’ ancora di pochi anni fa una bella riflessione del vescovo di Iglesias monsignor Zedda sulle anticipazioni socialiste rispetto alle troppo prudenti e paternalistiche letture ecclesiali della questione operaia anche nello stesso bacino minerario isolano).     

Mi viene qui abbastanza facile seguire le pagine che, giusto come personale testimonianza di una fruttifera adesione all’evento Concilio, Tonino Cabizzosu ha dedicato, con la sua scrittura sempre sicura e piana, spesse volte (e felicemente) volta a richiami e sintesi tematiche – uno, due, tre… -, al sé studente delle medie negli stessi anni delle fatiche dei Padri riuniti in San Pietro, al sé liceale e poi seminarista a Cuglieri e finalmente chierico a Cagliari, al sé prete ordinato dalle mani di un Padre di speciale sensibilità – l’arcivescovo (e amministratore apostolico) Paolo Carta –, al sé caricato delle prime responsabilità parrocchiali e associative e poi “concesso” alla specializzazione romana, direi ancora al sé proiettato o calato nei nuovi incarichi ora di parrocchia, ora di docenza, ora di direzione archivistica… fino all’oggi, fino ai suoi settant’anni dell’anagrafe ed ai 45 di sacerdozio ministeriale.

E’ come un sogno di suggestioni quello che egli affaccia nelle prime righe: rivede se stesso adolescente, preadolescente dodicenne appena, iscritto alla media del Collegio Vescovile di Brugnato, presso La Spezia. Spedito lì dalla sua parrocchia illoraese, o meglio su insistente consiglio di don Giovanni Carta di ritorno da una certa missione brasiliana. Lo aveva raccontato nel suo bellissimo profilo autobiografico (lo chiamerei “racconto di se stesso”) Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo, 2008: il ragazzo aveva compiuto il suo (doloroso ma necessario) “svezzamento” affettivo, lontano da casa e nel novero di un’ottantina di coetanei di varia provenienza. Un primo bagno di… universalità, foss’anche soltanto di raggio interregionale, un primo affaccio di qualità negli studi formativi. Un anno, un anno soltanto, ma un anno che per virtù di calendario ha la ventura di iniziare coincidendo con l’apertura solenne del Concilio. E già conta qui, pur nella evidente immaturità dell’anagrafe, l’impatto, diciamolo emotivo o di sorpresa, con le forme coreografiche che le telecamere della RAI rimbalzano dalla piazza e poi dalla basilica di San Pietro alle case degli italiani munite di apparecchio televisivo, e anche a Brugnato. Nel gran scorrere ordinato di vescovi mitrati, sotto i loro piviali chiari, anche monsignor Francesco Cogoni, presule ad Ozieri, ed anche monsignor Giuseppe Stella, allora già da quasi vent’anni pastore delle diocesi unite di Luni (La Spezia), Sarzana e Brugnato: un vescovo, quest’ultimo, che di ritorno dalla prima sessione conciliare avrebbe avuto occasione di far visita allo stabilimento seminaristico nel quale, intercettato quel ragazzo sardo forse ancora in cerca di costruirsi il suo giro amicale, con lui avrebbe intavolato una chiacchiera cordiale, richiamando i nomi di alcuni propri colleghi isolani conosciuti giusto nelle tornate del Concilio. E forse fu, anche quella, una utile occasione perché nel giovanissimo studente entrasse l’idea che nel Concilio… come nella sua classe, dove due sardi – lui ed il compaesano Filippo Cocco – potevano fare amicizia con i liguri o altri continentali, uomini anziani e colti si trovassero a discutere di questioni importanti e nel mezzo, però, scorgessero la possibilità di allacciare relazioni umane, l’uno rivelando all’altro il proprio mondo, sì le angustie pastorali, ma anche il conforto delle risposte positive delle anime. Nella Sardegna e nell’Italia del 1962-63, tempo ancora di grandi migrazioni operaie dal sud e dalle isole verso le regioni del settentrione industrializzato.



La formazione d’un prete: fra i salesiani e Cuglieri, poi arrivò Cagliari

«Sebbene in maniera embrionale, noi studenti capivamo che stava accadendo sotto i nostri occhi qualcosa di nuovo e di affascinante», scrive Cabizzosu evocando quei giorni d’esordio del Concilio, forse assemblando echi di memoria di discussioni, di accenni che all’evento potevano aver fatto allora i suoi professori e superiori. E già anticipando che presto, molto presto, trasferitosi lui a proseguire le medie a Lanusei, dai salesiani dell’Istituto Sant’Eusebio (con oratorio annesso), e l’anno della licenza ginnasiale al romano Mandrione (pure salesiano), avrebbe visto i risultati – i primi risultati s’intende – della svolta conciliare, tanto più nella liturgia.

Esperienze coincidenti, sul piano temporale, con la conclusione dei lavori in basilica e con i primi tentativi, ora incerti ora gustosamente entusiasti per il tanto di creatività presente nella riforma, di attuazione delle delibere che se definirle prudenti oppure avanzate – e qui affaccio timidamente la mia impressione, e le mie emozioni di “quasi coetaneo” di don Cabizzosu – oserei dire, e avrei osato dire anche allora, avanzate.

Riformato il messale romano nel 1962 da Giovanni XXIII, fu poi il Concilio e di seguito fu Paolo VI ad intervenire con importanti atti nel processo di revisione dei testi: un processo finalizzato essenzialmente a promuovere una più significativa partecipazione dell’assemblea credente alle azioni liturgiche e sacramentali, in specie alla messa. E fu – se ben ricordo – nella primavera del 1965, vigilia dell’ultima sessione conciliare – che anche in Italia ebbero pratica applicazione le nuove regole liturgiche, così nelle forme “comunicative” come anche negli abiti. Forse furono anche i lezionari nuovi, profumati di nuova stampa, sugli amboni e sugli altari, furono le albe nuove dei ministranti, furono quegli allargamenti (fino… alle ultime bancate) delle funzioni di lettore delle pagine perfino dell’Antico Testamento (grande sconosciuto), a dare un senso davvero di rivoluzione, di “chiamata dentro”, dalla platea al palco, in un coprotagonismo che implicava anche una più stretta connessione, così pure nell’offerta del segno della pace, della propria realtà emotiva, tutta sincerità e tutta purezza, al celebrante presidente, ai vicini di banco…

Certamente lo spirito del Concilio nel giovane – ora 17-18enne, poi 20enne – Tonino Cabizzosu, ormai allenato alle gioiosità salesiane parve tiepido, se non freddo, in certe aree del seminario di Cuglieri dove aveva chiesto d’essere ammesso e dove il vescovo Cogoni lo aveva poi presentato, convinto e fiducioso del buon cammino futuro. Qualche disturbo di troppo fra i discenti meno intenzionati ad andare avanti, la «ferrea disciplina gesuitica» e la «chiusa e devozionistica» formazione di base del Regionale – queste le osservazioni o le impressioni dello studente intenzionato a farsi prete confidate nel già citato Percorsi di fede – segnarono, ad essere rilette negli anni della maturità e dei consuntivi, come un fermo degli entusiasmi. 

Fra le provocazioni riformatrici, giovani di loro natura, e le preoccupate cautele per le tensioni all’orizzonte (e infine esplose), quelle della contestazione studentesca che avrebbe attraversato anche la Chiesa, si compirono il triennio liceale, il quarto corso e il primo anno di teologia di Tonino Cabizzosu a Cuglieri. Luci e ombre, limiti pedagogici e ricchezze di cultura e spiritualità, il tanto di esperienze a latere fra scout e OFTAL lourdesiana propizio a più approfonditi intimi inoltri nella missione di vita… 

«Ogni aspetto del vivere civile fu gradualmente posto in discussione: non sempre si agì con prudenza e discernimento. Grazie all’ecclesiologia del Vaticano II, che aveva impresso un’inaspettata giovinezza alla Chiesa, anche l’istituzione dei seminari fu sottoposta al vaglio critico del rinnovamento, nella volontà di renderla sempre più giovane. Il vento della contestazione ecclesiale arrivato in ritardo, a causa dell’insularità, si fece sentire all’interno delle mura del seminario in maniera irruenta. Il concetto autorità-autoritarismo veniva messo in discussione, benché fosse difficile da debellare. La contestazione studentesca piombò all’improvviso, mettendo in discussione metodi e contenuti del progetto educativo sviluppato dai Padri Gesuiti, responsabili della direzione del seminario regionale e della facoltà di teologia. Essi si trinceravano nel concetto di autorità, e scaricavano ogni responsabilità sugli orientamenti della Santa Sede e dell’episcopato sardo. Quest’ultimo, a sua volta, faceva altrettanto, con un penoso spettacolo da scaricabarile…». Così, ancora in Percorsi di fede, Cabizzosu rappresenta la crisi vissuta al Regionale all’indomani del Concilio e più oltre. Perché poi sono qui – in questo largo “indomani” – la sede e il momento della crisi. Non c’è crisi, o non c’è crisi consapevole, nel prima, quando il cardinale Tardini chiede anche ai superiori delle istituzioni formative, non soltanto ai vescovi diocesani, quali “domande” (“consilia et vota”) essi vorrebbero indirizzare al Concilio prossimo venturo; non c’è crisi, o crisi consapevole, nel durante, nell’atto di svolgimento del Concilio, perché tutto è ancora fluido, tutto è in discussione, seppure le linee riformatrici d’indirizzo generale paiano evidenti fin da subito. E’ nell’ “indomani” che esplode la crisi, perché l’ “indomani” significa partecipare attivamente, e con risultati tangibili, con risultati che si possano pesare e misurare, ai processi revisori: così nella pedagogia formativa (la vita associata della comunità studentesca), così anche nei corsi di studio, nei programmi e nei testi adottati. Potranno essere i padri della Compagnia di Gesù – che pure la storia ha qualificato in una ammirevole eterogeneità di espressioni, in una duttilità pragmatica senza pari (così nelle missioni!) – e potranno i vescovi a capo delle undici diocesi sarde, vescovi per il più di età avanzata, più verso i… settanta che verso i sessanta, sostenere il carico riformatore del Vaticano II? Perché non è poi soltanto questione di modalità o di strutture, è in primo luogo questione di mentalità… e cambiare e perfino rovesciare la propria mentalità, cioè il set delle categorie interpretative e assecondative del giusto e dell’opportuno, a sessanta o settant’anni non è cosa semplice. E’ accaduto a dom Helder Camara, che ne ha reso abbondante testimonianza (cf. Le conversioni di un vescovo, 1977), può o poteva accadere ai nostri, certo, con qualche probabilità, o con qualche improbabilità.   

Trasferito a Cagliari, di seguito alla facoltà, anche il seminario, il processo riformatore deve avanzare. E avanza, sì ancora nel chiaroscuro inevitabile, ma con luci che gradualmente prevalgono e si fanno più nette e sicure, e santamente orientative. Così le ricorda, il nostro autore, quelle luci alimentate dall’energia conciliare: Silverio Zedda ed Umberto Wernst, Giuseppe Ferraro e Ugo Rocco e Umberto Burroni, Alfredo Marranzini e Luigi Oitana e Salvatore Loi, Sergio Pintor e Mario Simula… Ancora sparsi a gruppi per matrice diocesana, gli studenti sono raggiunti periodicamente dai loro vescovi. Gli ozieresi, insieme con i sassaresi, hanno la visita sempre traboccante di monsignor Paolo Carta al villino salesiano di Santa Lucia in Selargius. Ogni volta l’arcivescovo si porta dietro uno dei documenti più importanti approvati dal Concilio e lo racconta, lo spiega, lo commenta… Commovente – confida con tutta discrezione Cabizzosu – lo sforzo dell’anziano monsignor Francesco Cogoni, che nel 1970 viaggia per gli 80 o giù di lì (e morrà 86enne nel 1980), per trasferire ai suoi, in diocesi, lo spirito del Concilio, la sinodalità proposta come forma ordinaria di fare Chiesa, i fermenti nuovi nella pedagogia catechetica.

In retrospettiva, fra professori e studenti

E’ presente nella memoria di Tonino Cabizzosu questo critico passaggio da Cuglieri a Cagliari e da storico professionale vi insiste anche per scavare quei travagli d’origine, gli approdi del dopo. Intanto i travagli di Cuglieri, di Cuglieri nel prima del suo arrivo, di Cuglieri nel 1959-60, quando avviene lo scambio epistolare con la Segreteria di Stato: il documento cuglieritano reca la data del 27 aprile 1960 ed è indirizzato al cardinale Domenico Tardini che il 18 luglio dell’anno precedente aveva chiesto i “vota” degli accademici. Articolata in dieci punti, la risposta partita a firma del preside Arnaldo M. Lanz colpiva tante materie, ma forse rivelava una debolezza di fondo: mancava il quadro generale di cui le riforme, o microriforme, dovevano essere come i tasselli in un mosaico. Per quale ragione storica, per quale straordinario e necessario sposalizio, nella logica dei “segni dei tempi”, fra la storia dell’umanità e la teologia? 

Entravano gli auspici di una “congrua vigilantia” sulle pubblicazioni neomoderniste, entravano le ravvisate urgenze di condanna del relativismo dogmatico, del “falso concetto di libertà”, del marxismo, del liberalismo, del laicismo, insomma dei sistemi filosofici e delle prassi “fuori recinto”; entravano anche in una lunga serie le proposte di revisione del codex, della normativa sul celibato e gli ordini minori e maggiori, sull’autorità dei vicari foranei e sui limiti d’età (da accrescere nel basso) dei preti confessori delle donne, sulle funzioni dei visitatori apostolici, ecc. Entravano suggerimenti di varia natura ed importanza sulla formazione e la vita del clero regolare e la sua collaborazione con quello secolare, sulla competenza del laicato operativo, sull’amministrazione dei sacramenti e le binazioni o trinazioni, sui casi riservati nelle confessioni, sulle concessioni delle indulgenze, sull’istituzione di seminari interdiocesani, sulla presenza religiosa nelle scuole pubbliche, e altro, molto altro ancora in materia di matrimonio, di beatificazioni, di disciplina dell’Azione Cattolica, ecc. 

«La formazione tridentina di base aveva educato docenti e vescovi alla fedeltà assoluta al pontefice e alla subordinazione alle direttive della Santa Sede. Le risposte […] sono uniformi e prive di originalità. Dall’insieme si ha l’impressione che l’evento Concilio non sia stato percepito fin dall’inizio»: di qui la parzialità («quasi territoriale») del riformismo delineato dai padri della Compagnia. 

E ancora: «Vescovi e docenti sardi avevano un’idea generica del Concilio: questo avrebbe dovuto rimarcare la dottrina tradizionale, offrire provvedimenti di natura pastorale e disciplinare, definire argomenti controversi, condannare errori antichi e moderni, arginale la “confusione” dei tempi moderni, più che proporre un aggiornamento in profondità sull’essere ed operare della Chiesa».

Marciando il Concilio, sessione dopo sessione, pur se ancora prevaleva la prudenza ed era esclusa dalla fruizione degli studenti la stampa laica e perfino L’Avvenire d’Italia a direzione La Valle trovava difficoltà di circolazione – invero supplendo ad essi i servizi di periodici come Il Regno ed i resoconti di padre Caprile in La Civiltà Cattolica –, si realizzò nel corpo docente cuglieritano una qualche dinamica, una certa articolazione fondata più sulle sensibilità che sulla dottrina professata: aperturisti da una parte, circospetti dall’altra. All’esterno nessun contrasto doveva però apparire.

E’ mossa indovinata ed è proposta qui, da parte di Cabizzosu, la registrazione – attraverso soprattutto quanto ne hanno riferito gli studenti del tempo – della novità in progress appunto fra i giovani liceisti e soprattutto i teologi: il Concilio, o quel che di esso si sapeva, produsse fra loro una ricaduta positiva assai più diffusa che non fra i professori. «Sembrava che ci si fosse aperto il cielo. Cadevano molte nostre certezze, schemi mentali e intere impostazioni ideologiche; lo stesso modo di concepire il cristianesimo subiva forti contraccolpi, eppure la fede non ne soffriva… veniva ad essere progressivamente illuminata, si irrobustiva, riceveva linfe copiose e ricchi stimoli a fare con appagante convinzione scelte forti e radicali», confida un chierico gallurese ordinato nel fatidico 1965, la cui testimonianza è compresa con quella di numerosi altri colleghi nell’atteso terzo volume di Per una storia del seminario regionale di Cuglieri (1927-1971), la trilogia che Cabizzosu stesso ha dato alle stampe non soltanto, credo, per un adempimento d’accademia, ma come per saldare un debito morale all’istituzione che è stata centrale nella sua formazione così come in quella di altri mille preti sardi delle generazioni novecentesche. 

Con le libere conversazioni inter pares, si pongono le letture che pian piano vengono meglio tollerate e poi apertamente consentite e forse incoraggiate: le opere degli autori della Nouvelle Théologie – francesi e tedeschi in primo luogo –, un tempo condannati anch’essi (ed i cui lavori erano stati imprigionati nell’ “Inferno” della biblioteca del Regionale), i libri recanti la firma degli italiani don Mazzolari, don Milani, padre Balducci, padre Turoldo… Aria fresca per polmoni bisognosi di aria fresca: «L’ecclesiologia pacelliana lasciava il posto a quella del Vaticano II volta non alla condanna ma alla comprensione e al dialogo, grazie anche alle intuizioni di figure scomode». Storia d’un lustro, poco più, nel capitale decennio di pace d’un secolo invece ferito due volte da guerre mondiali e insistentemente ferito anche dall’odio ideologico reciprocamente e continuamente sputato da schieramenti ingessati.

Liceista e teologo, fra il corso propedeutico ed il primo anno curricolare, Cabizzosu vive dunque queste atmosfere accese dai compagni che lo precedono di poco nell’anzianità, e da quelli che, ormai ordinati, le polveri luminose hanno appena trasferito nelle sedi del loro esordiente presbiterato parrocchiale, ciascuno nella sua diocesi.



La dimensione cagliaritana

Ho qui io stesso – se mi è lecito affacciarmi al recinto – da portare ricordi, quasi una testimonianza, che non è e non può essere ovviamente quella dei protagonisti, ma semmai quella di un loro vicino, giovane e più giovane di loro, ma attento osservatore, da battitore già libero, delle dinamiche parrocchiali dei tardi anni ’60. Con un altro limite: che l’area di osservazione è soltanto quella urbana, quella del capoluogo, dove la missione episcopale di monsignor Paolo Botto va lentamente esaurendosi per far posto a quella del cardinale Sebastiano Baggio, con quanto essa porterà in dote: compresa la conferma della promessa (già fatta al suo predecessore) visita papale a Cagliari.

Nei mediani e finali anni ’60, quelli della conclusione del Concilio e della prima attuazione delle sue delibere, la Chiesa cagliaritana è tutta in effervescenza. L’aggettivo che sembra dover connotare ogni iniziativa, ogni sede operativa, ogni équipe di lavoro, è… “nuovo”, ed è un attributo che qualifica il dato materiale ma racconta anche del progetto e dell’obiettivo. Il centro del grande insieme è nel “nuovo” seminario arcivescovile – duecento circa gli iscritti fra medie e ginnasio, liceo e corso filosofico (questi ultimi appena rientrati, in anticipo, da Cuglieri) negli anni 1967-68 –, seminario grande e moderno, aperto sempre alle relazioni (non soltanto assembleari) del clero in servizio qua e là. Ma è nei quartieri “nuovi” della città – quelli di “nuova” residenza e sviluppo demografico, nel ridisegno urbano, in preparazione e accompagno, poi in attuazione, del primo piano urbanistico (quello Mandolesi) – che zampillano nuclearmente le novità: i gruppi di recente insediamento sono diventati nuclei di “nuove” parrocchie, raggiunti celermente dai decreti vescovili di erezioni canoniche. E dove non è stato ancora seminato si semina, e saranno le stagioni immediatamente successive – quelle riassunte nei nomi degli arcivescovi Baggio e Bonfiglioli – a dirne lo spessore di effettività… 

Nel 1964 sono erette le parrocchie dei Santi Giorgio e Caterina (sulle pendici di Monte Urpinu) e del SS. Nome di Maria (a La Palma), nel 1966 è toccato a quella di Nostra Signora di Fatima (al Villaggio dei Pescatori di Giorgino), nel 1967 a quelle della Vergine del Suffragio (al CEP) e dei Santi Pietro e Paolo (a Is Mirrionis) ed è consacrata la parrocchiale di San Carlo Borromeo (alla Fonsarda), nel 1968 è eretta la parrocchia di Nostra Signora del Carmine (ritagliata dall’antica giurisdizione stampacina di Sant’Anna) e consacrata la parrocchiale di Sant’Elia. Ma intanto sono cantieri alla vigilia della loro conclusione oppure godono ancora degli entusiasmi d’una impresa appena avviata numerose altre realtà di quartiere: a San Michele/Is Mirrionis è questa la storia della Medaglia Miracolosa (affidata ai vincenziani) e di Sant’Eusebio, della Madonna della Salute (all’Ausonia del Poetto, con clero immacolatino) e di San Giuseppe (in Pirri), di San Francesco d’Assisi (a La Vega, con i minori conventuali) e San Paolo (in piazza Dante divenuta Giovanni XXIII, con i salesiani). E’ di recente impianto anche la parrocchia di San Pio X (nella via della Pineta) che sta per inaugurare la nuova chiesa di lato al gran magazzino che finora ne ha ospitato liturgie e attività promosse dal saggio don Ottavio Cauli, e anche San Benedetto, o Santa Lucia affidata nel 1964 alle cure di don Antonino Orrù sta completando le sue strutture ed organizzando il tanto che la imporrà modello di partecipazione comunitaria e solidarietà ai deboli.

Insomma il cantiere religioso si accompagna al cantiere civile nella Cagliari in espansione e in riordino, finalmente, a vent’anni dalla fine della guerra con il suo carico di distruzioni e di macerie, oltreché di lutti dolorosi. Ma è tempo anche di altre chiese, e i gesuiti che torneranno a Cagliari per governare ancora, nei nuovi locali di via Sanjust, la loro facoltà di Teologia potranno contare sulla nuovissima e bellissima chiesa di Cristo Re, accudita dalle suore dette figlie eucaristiche. E sono generalmente in ottima efficienza anche le scuole religiose, dal Sacro Cuore all’Assunzione, all’Asilo della Marina, per il più affidate ai rami femminili delle congregazioni regolari (assommano a più di mille le suore in diocesi)… Presenze religiose sono assicurate negli ospedali e nelle case di cura private, nei corpi delle forze armate, capillarmente nelle scuole pubbliche. Attive sono anche quelle sezioni formative e di accoglienza della diocesi, dalla scuola per le assistenti sociali (l’ONARMO) ai canali di ospitalità dei figli degli emigrati, e con essi la POA o l’ODA, l’associazionismo diffuso, quello radicato dell’Azione Cattolica, quello dei movimenti che hanno preso forma e peso già da qualche tempo e vanno ad irrobustirsi: dai laureati cattolici, ai maestri cattolici, ai medici cattolici, al CIF, alle ACLI, alla Congregazione Mariana… E naturalmente le conferenze vincenziane almeno nelle parrocchie storiche, la Legio Mariae, la Domus christiana, le zitine e il Centro turistico giovanile… 

Certo, a leggerne trasversalmente, o sotterraneamente, gli input… ideologici, potrebbe dirsi che ancora si tratti, da parte della Chiesa, di un ritaglio di spazi autonomi in previsione di un duumvirato da proseguire, proseguire ancora, con le realtà pubbliche laiche, quelle istituzionali del Comune o quelle dello Stato… E di tanto il presenzialismo di monsignor Paolo Botto è come il sigillo, l’avviso e la convalida. Ma resta indubbio che l’aria del Concilio ha immesso nel gran daffare elementi nuovi e positivi anche dal punto di vista laico, elementi modernamente sociali e solidali nella traduzione della Chiesa di “pietre vive”, di popolo cioè, e gradevolmente apprezzabili anche sul piano estetico (almeno in linea generale) in quella della Chiesa “monumento”, architettura cioè, e luogo comunitario.

Nel clero e nel laicato

In gran spolvero – ove l’espressione non appaia irriverente – sono i santuari, quello mercedario di Bonaria come quello cappuccino di Sant’Antonio e Sant’Ignazio, o quello dei minori osservanti di Santa Rosalia e San Salvatore da Horta, richiamo di devoti anche da fuori città. Un calcolo orientativo quantifica in 190 le unità del clero regolare ed in altrettante quelle del clero diocesano, di cui la metà circa operative in città. Ogni anno vengono ordinati, in media, una decina di nuovi sacerdoti, e l’età media complessiva del clero secolare, a voler prendere, per la statistica, l’anno mediano del quinquennio postconciliare (ed al netto della quindicina che ha superato i 75, al tempo età veneranda, ed arriva ai cento quasi) è di circa 45 anni: un terzo addirittura è sotto i 35, ed altrettanti sono nella fascia fra i 35 ed i 50. E’ una statistica che dice molto, quando anche volesse precisarsi che i preti ordinati dopo l’annuncio del Concilio, e che dunque in un modo o nell’altro hanno più direttamente risentito, a fine formazione o ad inizio di ministero, del soffio giovanneo (e poi paolino), sfiorano la cinquantina. Dice molto perché offre la dimensione reale del catino ministeriale che in diocesi, e in città, è in grado di recepire, non soltanto ad esse adattarsi, le delibere conciliari. Di più ancora al suo spirito.

E’ però anche nella mia memoria come in larghissima prevalenza anche i preti al tempo sulla cinquantina e sulla sessantina, non soltanto dunque quelli più giovani (e più prossimi ai libri che non alle fatiche di parrocchia), abbiano accolto il Concilio, ne abbiano fatto una guida collaterale alle fonti del loro esercizio pastorale: abbiano curato gli aggiornamenti catechistici e migliorato, con i nuovi sussidi, la pratica omiletica, abbiano aperto ai laici (forse ancora sperimentalmente e con gradualità) gli spazi di servizio nella corresponsabilità, oltre lo scontato disbrigo ancillare. Abbiano messo – non sembri particolare marginale – il clergyman e perfino la maglietta.

Un campo che meriterebbe di essere esplorato a parte – e non ne mancherà l’occasione – è quello della galassia associazionistica e del confraternismo. Qui, gli indirizzi nuovi volti a far meglio corrispondere le esperienze della tradizione devozionale alla purezza e semplicità ispirativa (mai prescindibile delle fonti essenzialmente evangeliche) pagano, in linea generale, il prezzo che il ricambio generazionale nei quadri impone, dove più dove meno, a questi soggetti collettivi attori della pietà popolare: sicché tutto pare progressivamente indebolirsi e paradossalmente è forse più una sollecitazione di amore civico, di patriottismo cittadino, che non di amore religioso a sostenere, nei nuovi tempi, questa o quella compagnia con i suoi costumi e le sue pratiche.

A dirla in altri termini: è stata l’evoluzione dello spirito pubblico – invero più nei tempi più vicini a noi che non in quelli immediatamente a ridosso del Vaticano II – ad aver mutato le pratiche antiche e la partecipazione ad esse, non consentendo allo spirito conciliare di “rieducare” cristianamente, in linea con la missione generale, e pratiche e partecipazione. Mentre però si è indebolita la parte ecclesiale – lo dimostra il sempre più basso indice di presenza alle funzioni liturgiche anche soltanto festive – sembra sia dalla città, dalla dimensione civica cioè, che monti un effetto sostitutivo, per amore… di quartiere e di strada, di socialità mista fra sentimento e gusto della storia perduta, la fede soltanto per complemento.    

Scoperta della mondialità

E’ indubbio che il Concilio abbia raccontato il mondo, non foss’altro che per quella rappresentanza così larga (e fascinosa) di entrambi gli emisferi, dei cinque continenti, di tutte le culture etniche e lingue nazionali, del cristianesimo antico e di quello di nuova semina nelle terre di missione. Non solo per questo però: la mondialità è la sostanza stessa del cattolicesimo, il senso della sua missione.

Cabizzosu dedica un paragrafo breve ma importante, e secondo me centrale, nella sua esposizione confidente, direi confessoria (per quanto lo abbia visto coprotagonista e per quanto lo abbia visto, dopo il 1967, ricettore delle altrui esperienze). Perché dice di quanto arrivava dal mondo nel cuore del sardo Montiferru, nell’altura boscosa di Cuglieri, nelle stanze del fortilizio chiamato seminario. E come quel che arrivava impattava nelle consapevolezze personali, nelle discussioni, nelle elaborazioni di sintesi, nei reimpasti con la missione a cui ci si preparava. I vescovi riuniti in San Pietro, gli africani vicino ai tedeschi, gli americani vicini ai polacchi, gli italiani vicini ai cileni e ai brasiliani, gli australiani vicini agli indiani e agli inglesi e ai portoghesi… il mondo mischiato, insomma, gli uni a dialogare con gli altri nel latino lingua universale, talvolta (nel privato) in inglese o spagnolo o italiano o francese, in tensione di comunione ma nel rispetto di ogni originalità, questo colpiva e alimentava la sensazione di partecipare ad un’avventura davvero universale. Questo mondo mischiato era poi presente, nel concreto vicino, anche negli scaffali finalmente aperti della biblioteca un tempo censurata, i teologi di scuola tedesca o francese o olandese, i più avanzati e i più profetici, finalmente a disposizione di lettori interessati, ed erano ali per volare...

Ne ho accennato: la guerra del Vietnam in corso, gli americani dopo i francesi nelle indecifrabili foreste indocinesi, e i campus universitari degli USA a protestare, con Joan Baez e Bob Dylan, contro il governo Johnson… All’inizio la crisi cubana per i missili sovietici puntati sul territorio degli Stati Uniti e il blocco navale disposto da questi ultimi nei Caraibi… all’inizio anche, nel novembre 1963, l’assassinio del presidente Kennedy… E gli altri assassini nel 1968 – di Martin Luther King e Robert Kennedy –, e la fine della “primavera” di Praga nell’estate successiva. E intanto la rivoluzione “culturale” cinese in edizione “guardie rosse”, la rottura cino-sovietica del 1967, e il maggio parigino, la contestazione giovanile nel mondo occidentale… Liberalizzando gradualmente l’informazione, gli studenti del Regionale affrontavano quotidianamente la mondialità. Un prete cattolico non mondialista non sarebbe possibile, sarebbe una contraddizione in termini.

L’ecclesiologia conciliare che è essenzialmente dialogica, e ben corrisponde all’intenzione di papa Montini che, salendo al soglio pontificio, volle chiamarsi Paolo proprio riferendosi all’Apostolo delle genti e dunque alla missione di dialogo con ogni popolo ed ogni cultura, era la risposta naturale alle consapevolezze di una Chiesa non più schierata, foss’anche obtorto collo, con l’occidente contro l’oltrecortina: era un riposizionamento intanto, direi, identitario, proprio nella logica del Vangelo, da cui, pur con tutte le mediazioni necessarie, doveva derivare l’impegno anche diplomatico della Santa Sede nei continenti, nelle aree più calde del pianeta, sempre con un’istanza di pace. E tanto più questo doveva accadere quando ad entrare nelle considerazioni degli episcopati e nei doveri d’intervento della Santa Sede – sede riassuntiva delle responsabilità mondiali della Chiesa – non erano più soltanto i rapporti est-ovest ma non di meno, e tumultuosamente, quelli sud-nord. Sicché, come già accennato, la paolina Populorum progressio e la stessa Ecclesiam Suam ben si ricollegavano alle encicliche giovannee del 1961 e del 1963, e come grandi “virgolette” abbracciavano il Vaticano II.       

Richiama qui, Cabizzosu, con rapide ma efficaci pennellate, anche soltanto evocando il lessico nuovo del Concilio, le sue parole-chiave – la Chiesa come “popolo di Dio” (concetto invero ripreso dalla Scrittura, a dimostrazione che lo sforzo era stato quello dei recuperi pieni dalle fonti, non certo una fuga dalle fonti!)… – i temi delle produzioni conciliari: dalle costituzioni Sacrosanctum Concilium e Lumen Gentium, Dei Verbum e Gaudium et Spes, e dai decreti Unitatis Redintegratio e Orientalium Ecclesiarum, Christus Domini e Ad gentes, Presbyterorum Ordinis e Perfectae caritatis, alle dichiarazioni Nostra aetate e Dignitatis humanae, sulle relazioni con le religioni non cristiane e sulla libertà religiosa, ecc., si tratta di un numero imponente di documenti che marcheranno il futuro della Chiesa. «Tutti i temi di teologia affrontati negli anni 1970-1975 traevano dai suddetti orizzonti conciliari il loro incipit e sviluppati in un contesto di assoluta fedeltà alla Parola di Dio, alla riflessione dei Padri della Chiesa, della Tradizione e del Magistero pontificio. Gli aspetti di natura speculativa trovano il loro complemento nell’esperienza pastorale maturata nelle parrocchie». Così conclude questa parte della sua trattazione, il nostro autore, col pensiero volto, evidentemente, agli anni della sua formazione teologica, in gran parte compiutasi allora, a Cagliari, fino alla sua ordinazione nella parrocchiale di Illorai.

Uno sguardo al dopo Concilio: il caso italiano

E’ da osservatore prima, da studioso e storico specializzato poi, che Cabizzosu delinea diversità di atteggiamenti e, direi, scale d’intensità di convinzione della Chiesa italiana, nella sua gerarchia, nelle sue falangi clericali, nella sua immensa rete associativa, alle leggi e allo spirito – soprattutto allo spirito, alla trama intenzionale direi – del Vaticano II. Al suo non voler più puntare il dito accusatore verso alcuno, ma invece al suo darsi dialogico nelle più ampie ed anche improbabili fraternità. Ricorda, il nostro autore, quel prima, quel durante, ma anche quel dopo il gran lavoro dell’assemblea episcopale mondiale, la resistente pervadenza di Lugi Gedda con i suoi Comitati Civici, un’anti- Azione Cattolica a guida integrista ed a (tentato) motore della politica democristiana, pressante sulle istituzioni in tarda logica temporalista.

Si prende largo spazio ad evidenziare, a questo punto, «tredici cause che considero – così scrive – altrettante radici di quel fenomeno contemporaneo definito “neo clericalismo”» e che contrasta o ritarda il processo riformatore. E’ questa certamente una pagina fra le più interessanti del suo intero saggio perché non pone un limite netto temporale al dispiegarsi del fenomeno: lo vede nell’ordinario fare degli anni pacelliani, ostinato in quelli giovannei e nonostante Giovanni, resistente ancora, seppure formalmente sconfitto e smentito a chiusura dell’ultima sessione di lavori in San Pietro (si pensi anche alle future crociate antidivorziste). Nell’elencazione riferita alla prima stagione – quella di maggior rilascio tradizionale, di radici in prevalenza rurali (dell’Italia rurale) e di quadro paternalista – Cabizzosu mette il sistema concordatario, il collateralismo con la DC, l’ipercristianizzazione pacelliana «di ogni settore della vita sociale», appunto i Comitati geddiani, la spiritualità della Regalità di Cristo come «revanche contro la posizione degli avversari», le coreografie oceaniche degne delle dittature passate, l’accelerata canonizzazione di Pio X (il papa antimodernista), la prepotenza del Sant’Uffizio e il soffocante centralismo curiale del Vaticano, la vera e propria persecuzione di anticipatori e profeti, il frazionamento diocesano (come obiettivo impedimento a qualsiasi programmazione concertata delle Chiese almeno regionali), appunto ancora l’incapacità al lavoro sinodale delle Conferenze Episcopali regionali.

Proprio nel paragrafo intitolato “luci e ombre nel postConcilio italiano” sono collocati come in una grande bacheca – e vi insisto! – un’infinità di atti ostili della governance episcopale nazionale ai portatori di novità. Così da dopo la guerra e fino all’annuncio giovanneo: si pensi, quasi in rappresentanza del tutto o del molto, le censure a fior di riviste d’avanguardia come L’Uomo e Adesso, come L’Ultima, come Il Gallo… che a Milano, a Firenze, a Genova… proponevano temi e modalità di studio innovativi. Ricorda, il nostro Cabizzosu, padre Ernesto Balducci scolopio e padre Davide Maria Turoldo servita, don Lorenzo Milani naturalmente – stroncato da La Civiltà Cattolica ancora in tempi di Concilio – e nell’elenco sono tanti altri con loro e come loro incompresi, per non dire perseguitati. Aggiungerei io Arturo Paoli, e riporterei in Sardegna l’occhio osservatore, magari anche per dire che nella Chiesa come nella vita, ma con specialissima ed eroica vocazione a trasformare il piombo in oro, la persecuzione subita può divenire fonte di nuova e più nobile realtà: tanti Piccoli Fratelli italiani, operai del Vangelo, furono generati dalle meschine incomprensioni dei cosiddetti “principi della Chiesa”.   

Smantellare questo sistema insieme ideologico e di potere effettivo, piramidale e insieme diffuso, doveva essere un’impresa ardua, e sarebbe stato illusorio pensare che, a Concilio finito, ogni abusiva e artificiosa rigidezza sarebbe stata superata. E non lo fu infatti. Ancora oggi, a distanza di più di mezzo secolo dalla conclusiva tornata ecumenica e dalla solenne liturgia di ringraziamento presieduta da Paolo VI, la Chiesa italiana mostra, a macchie di leopardo, ritardi e incomprensioni del messaggio conciliare. E tanto più il pontificato Woytjla e quello di Benedetto XVI, al di là ovviamente del merito e del prestigio personale dei due successori dei papi del Concilio, hanno confermato – quasi fosse un dato di definitività – quei ritardi e quelle impoverenti slitterazioni: si pensi alla presidenza Ruini (e in parte anche a quella Bagnasco) della CEI. Lo scandalo dei funerali religiosi negati a Piergiorgio Welby, dopo trent’anni di sla – e nel silenzio chino di vescovi e preti e responsabili laicali, anche in Sardegna – ne è prova sconfortante. Così è stato per quarant’anni – con poche, o relativamente poche eccezioni (il caso di scuola è quello del cardinale Carlo Maria Martini a Milano) – nelle promozioni episcopali e nelle provvisioni delle diocesi, così è stato per certe straripanti e tollerate invasioni di campo di Comunione e Liberazione ed altri movimenti occhieggianti la politica e anche gli affari, così è stato per la beatificazione di Pio IX (a compensare quella di Giovanni XXIII), così è stato nel conformismo informativo de L’Avvenire, ecc. 

Cabizzosu le chiama “luci e ombre nel postConcilio italiano”, ed ha ragione quando, riferendosi a un sistema incredibilmente complesso, anche per le dimensioni e non soltanto per le sue stratificazioni storiche, che sono essenzialmente stratificazioni mentali e culturali, quale è quello ecclesiale, ha da indagare su vizi e virtù, e più ancora sul grigio vasto – il prevalente grigio, l’area di mezzo della diligenza spenta, amministrativa e senza gioia – dominante nei comportamenti e negli assetti. La fatica della produzione nuova – altro che in certe realtà sociali, di assorbimento della marginalità, in cui il volontariato ha fatto e fa miracoli e impone il proprio merito, cioè l’esempio, alla scena pubblica civile e anche religiosa, o magari nelle valorizzazioni dei tesori d’arte ereditati dai secoli, difese e fatte fruibili –, dico la fatica della produzione nuova da parte del laicato e del clero, o di quei segmenti più sensibili e propositivi, è mortificata, è ancora mortificata dalle burocrazie senz’anima, di cui la stessa stampa diocesana è sovente specchio (anche nell’Isola: e dovrà farsi un giorno la storia di alcuni episcopati tremendi e studiarsi il fenomeno delle grandi corti afone e servili, quelle giornalistiche comprese).

La proposizione, in rimbalzo dal centro, di tutte le ingessature strutturali – ad esempio circa la riserva ancillare delle donne (il che non significa autorizzarle al sacerdozio, così clericalizzandole non promuovendole!) – e delle elaborazioni teoriche – ad esempio in campo di etica familiare e sessuale, o in materia genericamente definibile di bioetica, come per paura di un’eresia che domani invece sarà… dottrina santa – è prova provata di come la Chiesa italiana (e quella isolana in essa, magari rapsodicamente distratta dai dibattiti sulla lingua sarda nella liturgia) patisca un gregarismo di natura, un gregarismo identitario che non arricchisce ed invece mortifica e penalizza generosità ed azzardi.

Certo, alla vigilia del Concilio poteva capitare che un vescovo a Prato definisse pubblici concubini due sposi civili, ed è capitato che, dieci anni fa, il duomo di Modena abbia accolto, come camera ardente di più giorni, le spoglie d’un artista del valore di Luciano Pavarotti che pur non rientrava per altri schemi di dottrina nella perfezione sacramentale. Non è che manchino le testimonianze di una pedagogia coraggiosa – adesso sempre più nella contrapposizione perfino rischiosa ai condizionamenti malavitosi presenti in certe radicate tradizioni patronali in specie nel sud continentale e in Sicilia – né mancano i sacrifici estremi personali, eroici, di credenti laici e ordinati. Ma è la “comunione” nella sua articolata (cioè mai conformista) integrità che pare assente a darsi come meta, mettendo a rischio tutto. 

Le interpretazioni ermeneutiche, e l’osservatorio da bordocampo 

Mi sembra che relazioni con alcune permanenti aggressività clericali (derivanti sempre dalla paura di confrontarsi con la realtà delle cose) la diffusa trattazione che l’autore ha creduto di dover compiere, a questo punto, del cosiddetto “antiConcilio”: un antiConcilio che ha evidenti matrici teologiche – l’idea di Chiesa e prima ancora l’idea di Dio, l’idea dell’Incarnazione – per passare alla traduzione storica e istituzionale, per radicalizzare la missione separando i settori, disarticolando l’unico corpo per classificare con merito gerarchico ogni membra. Al contrario della visione paolina.



S’intenda: io qui affronto una materia complessa nella consapevolezza di trattarne dai bordi, dalla frontiera scomoda ed eccentrica di una Chiesa che ha i suoi dottori, i suoi maestri, i suoi santi, i suoi funzionari, i suoi esperti specializzati. Non posso intervenire – raccogliendo dalla pagina di Tonino Cabizzosu l’ideale testimone per una corsa a staffetta – con nessuna scienza particolare, semmai con la coscienza di chi ha attraversato, anche nelle immobilità fisiche, tante realtà mondiali e umane, e con i suoi poeti – anche o soprattutto quelli laici e sociali come Bretcht – ha definito un suo metodo: quello che l’uomo, chiamalo meglio l’umano – l’umano vivente –, prevale sempre sulla legge scritta disanimata, insufflata da partigiani della guerra e non da Dio. Ed invero lo stesso nostro autore mi dà spazio quando scrive: «Tale dibattito non è da relegare solo tra specialisti ma tocca aspetti vitali della vita della Chiesa, in quanto implica un importante problema: quale è la qualità della svolta conciliare nel creare una rinnovata visione di Chiesa? Qual è la figura di Chiesa intesa dal Concilio? Come oggi, a cinquant’anni dalla sua chiusura, muoversi per maturare in quella direzione?».

Tutto nasce, spiega Cabizzosu, dalle letture ermeneutiche del Concilio. Richiama in ciò lo stesso Benedetto XVI che in più occasioni, e tanto più quando il calendario ha segnato il cinquantesimo della chiusura assembleare, ha sostenuto: «Due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto ed hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti». Il contrasto è cioè fra l’ermeneutica della «discontinuità e della rottura» e quella della «riforma», cioè del rinnovamento nella continuità.

Non posso entrare – ho già detto – da competente nello specifico, ma una opinione non può essermi negata; sarei portato a dirmi più nella logica della «riforma», ma dai suoi sostenitori mi sentirei distante nelle misurazioni: ché non può dirsi di semplice aggiornamento il passaggio dal deicidio imputato agli ebrei (e quanto antisemitismo è confluito nel cattolicesimo millenario!) alla qualifica che un vescovo del Concilio divenuto papa, in linea con le riscoperte collettive in quell’affollata aula di San Pietro – quelle confluite nella Nostra aetate –, avrebbe formulato e divulgato di «fratelli maggiori». Ciò anche in forza di esperienze personali, le stesse che furono di Angelo Giuseppe Roncalli.

I passaggi riformatori, a dirla brevemente, sono stati numerosi in una infinità di materie, ma soprattutto è stato nel passaggio dall’ “io” clericale al “noi” comunitario (chiamalo ecclesiale) che è avvenuto il cambio di identità (o di percezione della identità) e di prospettiva: di tanto, in coerenza alla nuova ecclesiologia, sono espressione magnifica le liturgie concelebrate: concelebrate non soltanto all’altare (e quale passo significativo è stato anche questo!) ma concelebrate nell’aula integrata all’altare.

Quella certa lezione che un vescovo minuto e buono come monsignor Antonio Tedde impartiva in una parrocchia della periferia sarda circa il passaggio – ecco un sostantivo che ritorna ed ha il suo carico semantico – dall’ “assistere” – quasi si trattasse d’uno spettacolo – al “partecipare” liturgico, è cosa che si inquadra perfettamente in quella ecclesiologia che dalla grande basilica conciliare era chiamata a rimbalzare, per via di pedagogia, nelle consapevolezze dei singoli sempre più “popolo” e sempre meno “massa”. Soggetti comunionali, ecco i cristiani convocati al processo autoeducativo teso alla migliore identificazione di sé nella storia, nel tempo e nel luogo, nella missione.

Torno a Cabizzosu che chiarisce e porta nomi ed opere a sostegno delle distinte linee di pensiero, dai papi a monsignor Agostino Marchetto, che qualche lustro fa pubblicò un libro importante (sulla linea Ratzinger) a rinforzo della tesi riformatrice, o forse soltanto riformista, ed avverso quella della discontinuità. 

Non vorrei forzare la logica… consequentiarum, ma da qui siamo “anche” alle ragioni e posizioni avversative del Concilio: quelle di chi riconduce proprio alla “radicalità” dialogica di coloro prima prigionieri della Chiesa “societas perfecta”, della Chiesa “Extra Ecclesiam nulla salus”, ed oggi fattisi vessilliferi della Chiesa “colloquio”, secondo l’ispirazione della Ecclesiam Suam, la causa fondante della crisi – o presunta crisi – dell’istituzione, della dispersione valoriale ed altro. 

Ho avuto come l’impressione che l’ampiezza della trattazione riservata da Cabizzosu proprio alla “Chiesa dell’anticoncilio: cittadella assediata, detentrice della verità” una motivazione speciale di questo suo ultimo impegno saggistico: nel Colligite fragmenta tornano le voce diverse, seppure la collocazione e le preferenze anche generalmente culturali, non soltanto strettamente ecclesiali, del prete-storico risultino chiarissime.

Perché sostengo questo? In molte conversazioni avute con lui, ho fatto presente all’amico di tanta competenza e insieme di tanta responsabilità soprattutto come docente della facoltà di Teologia, l’importanza di un giudizio netto, suo ma auspicabilmente di tutto il corpo docente accademico – sul crescente fenomeno sardo-lefebvriano, diciamola chiaramente: del risorgente clericalismo, delle fascinazioni che le liturgie (e a monte però è sempre un fatto di ecclesiologia) da essi mai conosciute ma rivisitate in filmati e in racconti, delle messe e funzioni in latino e in ginocchio, di spalle l’uno all’altro, hanno esercitato ed esercitano ancora su numerosi giovani prossimi al sacerdozio o appena ordinati.

Vescovi scriteriati che guardano al numero – al “bisogno” di preti – e si mostrano neghittosi nei doverosi scandagli delle personalità, tanto spesso immature, cui si consegnano insieme altare e confessionale, direzione spirituale e conforto dei moribondi, tutto sacramentalizzando e nulla umanizzando: è un fenomeno che registro da tempo, ne ho fatto anche oggetto di corrispondenza e di colloquio con alcuni vescovi… imputati. Non se ne esce.

Per questo innumerevoli volte ho anche portato nelle fraterne conversazioni con don Tonino Cabizzosu e con il professor Tonino Cabizzosu questa ambascia.

A me pare adesso, quando ormai la sua esperienza accademica si è conclusa, di trovare nelle sue pagine analisi finalmente libere e aperte sul fenomeno che inquieta molti – molti di quelli che sempre più osservano da bordocampo, sentendosi estranei alle dinamiche interne, parrocchiali o associative, o movimentiste che siano – e non sembra inquietare i più, paghi di una partecipazione puramente declamata, che ancora replica il modello dello spettacolo cui assistere.

Il clericalismo di ritorno

Egli sfaccetta correttamente le accezioni storiche del termine “clericalismo”, portandone alcune matrici nella Francia avversa all’enciclopedismo illuminista e al «laicismo, deismo, ateismo promossi dalla rivoluzione», così come nell’Italia temporalista ed ostile a quell’universo dei libertari e dei liberali, democratici e magari massoni e socialisti che aveva compiuto, lottando per essa e contro la teocrazia di Pio IX, l’unità territoriale e giuridica della patria comune. Così ancora a quel mondo che, nella realistica presa d’atto delle nuove realtà politico-istituzionali, nel tardo Risorgimento, nell’era giolittiana e, dopo la dittatura (quando valse il duumvirato) e la seconda guerra mondiale, perfino nelle correnti del collateralismo servito al Biancofiore democristiano, rispondeva ai paventati rischi della soccombenza alzando le bandiere una volta nere (ad evocare il patriziato oscurantista d’un tempo), poi bianche a definire, in Repubblica, l’alterità dal rosso social-comunista, dal verde della democrazia radicale, dal nero – vero nero – dei postfascisti.  

Importa qui mettere in chiaro che rispetto ad altre stagioni storiche e senza semplificare troppo – ché in realtà anche il rapporto fra la Democrazia Cristiana e gli ambienti del cattolicesimo organizzato è complesso e variegato – il clericalismo di nuova confezione non punta tanto a concertazioni con i pubblici uffici, con le istituzioni rappresentative, ecc. ma a dar sostanza di mero integrismo a soggettività spogliate di ogni ansia di ricerca, di lavoro morale, di tensione ecumenica e civile. Ripetitività astoriche nella cultura matrimoniale e della procreazione, nella lettura sociale (per la condanna) delle esperienze di famiglia fuori dagli schemi invalsi, nel giudizio di ogni fenomeno non contemplato nelle carte di San Pio V e suoi successori di quattro secoli. Il ritorno al creazionismo, al dispregio (che fu degli antimodernisti) della critica storica nella interpretazione delle Scritture, il rigetto del modello di Chiesa interattivo e non piramidale ed a ruoli fissi.

E’ toccante – lo confesso, e molto lo apprezzo – lo sforzo di analisi che, anche per l’esperienza di molti anni maturata nelle aule della Teologica, Tonino Cabizzosu compie per dar conto concreto del rovesciamento di impostazione su cui tanta parte del clero giovane, compreso quello sardo, radica la propria missione oggi: un rovesciamento pieno dalle illuminate prospettive che negli anni ’70 furono – per dire un nome soltanto – del cardinale Michele Pellegrino, e negli anni ’90 e d’inizio 2000 – ancora per fare soltanto un nome – di don Tonino Bello. 

Il richiamo a Pellegrino arcivescovo di Torino, di Pellegrino autore della pastorale Camminare insieme, serve a Cabizzosu, quasi in conclusione del suo saggio, per portare una testimonianza personale del sé studente, del sé 22enne, in quell’uscita di Sant’Eulalia, alla Marina di Cagliari, a volantinare fra i fedeli presenti alla messa domenicale di don Casu. Con il nuorese don Pietro Borrotzu, anche lui ancora agli studi, e nelle altre parrocchie altri colleghi, fra cui il futuro cardinale Becciu. Tutti, o molti, i più, s’erano caricati la responsabilità di un’azione solidale con i senza tetto di Sant’Elia e intendevano impegnare la loro Chiesa – chiesa di uomini e donne, di bambini e vecchi, non di belle anime disumanate – nelle fatiche delle lotte sociali… Li ricorda, Cabizzosu, quei suoi colleghi ventenni allora, a pochi mesi dal loro arrivo a Cagliari dal seminario di Cuglieri, e ricorda i professori e gli animatori che si erano uniti agli studenti: Salvatore Loi – amico mio come Efisio Spettu –, Giancarlo Atzeni, Pasqualino Ricciu e Luigi Oitana… «Come studenti di teologia non vogliamo che la Parola di Dio costituisca un comodo rifugio intellettuale, ma operi la sua Rivoluzione dentro l’uomo e la società… E’ dovere della Chiesa… denunciare l’abuso del denaro e del potere, così come si denunciano tutti i peccati»…, secondo l’insegnamento del cardinale Michele Pellegrino, in perfetta sintonia con gli insegnamenti del Vaticano II. 



Cosa producono i seminari minori, cosa produce il Regionale oggi? che cosa la facoltà di Teologia a riguardo delle grandi questioni della giustizia sociale sì, del governo onesto anche – abbiamo avuto vent’anni di scandaloso potere pagano con Berlusconi al governo e la Chiesa italiana, imprigionata nelle teoriche dei “principi non negoziabili” arricchiti di ogni sostegno tratto dalle classiche categorie dell’antropologia cristiana, non s’è accorta dello scadimento pedagogico, della pedagogia civile scaricata in quantità ogni giorno nelle scuole e in ogni settore della vita sociale da un cattivo governo –, ma direi anche delle grandi questioni in affaccio sempre più rilevante nella società attuale? Sul cosiddetto accanimento terapeutico sopra i malati gravi, sulla cosiddetta buona morte, sul testamento biologico, sulle questioni della paternità e maternità, dunque della genitorialità in rapporto a disegni di famiglia nuovi, alla fecondazione assistita, alle altre sessualità cancellate dai licet naturali in un quadro di eugenetica cristianamente supponente e tristemente artificiosa…

Lo scrive Cabizzosu: «I trentacinque anni di docenza nella facoltà teologica di Cagliari mi hanno offerta la possibilità di considerare da un osservatorio privilegiato l’incidenza o il rifiuto dell’ecclesiologia conciliare… Il corso di storia della Chiesa contemporanea, per contenuto e metodologia, offre la possibilità allo studente di rivisitare la storia con sereno distacco discernendo nell’istituzione o in chi la rappresentava luci e ombre. Io, seguendo le lezioni di autorevoli caposcuola, privilegiando le fonti, libero da spirito apologetico, senza forzare posizioni di parte, ho sempre sollecitato gli alunni ad una visione serena degli avvenimenti del passato, ad amare la Chiesa, nonostante momenti problematici. Ogni anno… veniva registrata la presenza di qualche frangia che si chiudeva in se stessa, non disponibile ad un dialogo. Tali alunni, nonostante venissero sollecitati ad un confronto sulle questioni esposte, spesso si chiudevano a guscio ripetendo, durante gli esami, quelle poche nozioni utili per conseguire il cosiddetto “diciotto politico”, per poi manifestare più o meno apertamente il proprio dissenso sulle posizioni dei docenti.… 

«La mia esperienza è comune anche ad altri docenti. In questo fenomeno ritornavano alcune costanti: fragilità nella formazione culturale di base; poca propensione al dialogo e al confronto; visione apologetica della Chiesa, predisposizione interiore verso una visione ecclesiologica di marca tridentina in cui la Chiesa viene considerata detentrice della verità, chiusa in una cittadella fortificata… Gli studi teologici avrebbero dovuto costituire un’occasione privilegiata di analisi e confronto, invece, purtroppo, ciò non avveniva, perdendo un’occasione irripetibile… Nel caso nostro [il problema] non trovava radici in seno alla facoltà… Tuttavia esso continuava a ramificare attraverso l’azione di qualche educatore poco illuminato, o di qualche parroco presso cui gli studenti andavano per l’esperienza pastorale di fine settimana e, ancora di più, attraverso la frequentazione di siti informatici di ispirazione conservatrice.

«Durante gli anni della formazione, questa tendenza rimaneva in stato di letargo o in fase incipiente, per poi manifestarsi più distintamente nelle prime esperienze pastorali e coalizzarsi fra amici aventi le stesse idee… potrei azzardare l’ipotesi che siano oltre un centinaio di giovani sacerdoti che, con sfumature differenti, facciano parte di un variegato fenomeno critico verso l’ecclesiologia del Vaticano II, favorevoli ad un ritorno nostalgico delle istanze tridentine. L’amore per la sottana e per un look liturgico folkloristico (con pizzi, merletti, tricorni, saturni ecc.) è soltanto l’aspetto appariscente di una visione di Chiesa separata dal mondo, puritana, detentrice di salvezza e di potenza. Il cuore del problema è di natura ecclesiologica». 

Insomma, nessun desiderio di immergersi in una coscienza critica, di vestirsi di coscienza critica, di essere coscienza critica – vale a dire di portare un’intelligenza libera indagatrice di ogni realtà, analista di ogni ragione di realtà umana per maturare consapevolezze non confezionate a priori e forse anche avverse e scomode rispetto a preferenze e gusti personali…, non fatica di ricerca dunque, ma soddisfatto appagamento di verità fatte. Scrive Cabizzosu: «non una Chiesa “coscienza critica”, “inquieta per Cristo”, ma chiusa in sacristia, indifferente ai bisogni della povera gente, privilegiata, a braccetto con i potenti di turno. Una Chiesa inquisitoriale e da crociata più che pellegrina e missionaria, “in uscita", “ospedale da campo”…».

E’ tutto. Lo stretto tema conciliare come è riproposto dalle centodue recensioni raccolte in Colligite fragmenta, è per sua stessa natura motore espansivo di mille riflessioni perché l’ecclesiologia contiene in sé il patrimonio e la modalità del suo consumo – consumo auspicato virtuoso, naturalmente –, e perciò e soprattutto quel dato identitario che spiegando il sé spiega la missione, il senso del tutto. Che il cristianesimo non è una religione, o una precettistica, ma una Sequela che modula l’esistenza, le dà un orientamento e la motiva nel concreto dell’azione.

Non sia un gioco di parole: il clericalismo moderno pare a me tutto conchiuso nelle pieghe antimoderne di una rappresentazione ideologica e scenica che rimanda, senza neppure averla studiata, ad una storia passata, improponibile nell’attualità e ancor più sterile di ogni futuro.

Esso è, nella mia visione, un disvalore perché non abbraccia nella complessità dei suoi bisogni ma neppure nella ricchezza delle sue esperienze il piano civile e non s’armonizza con esso. Mi viene spontaneo, concludendo adesso, richiamarmi all’orizzonte sognato da Arturo Carlo Jemolo, che pativa in quegli anni d’inizio di vita repubblicana il guelfismo tronfio e trionfale della DC. Io non soffro oggi di un’asfissia, o di un rischio di asfissia clericale nella vita pubblica come un tempo era – pur se il peggio di parte religiosa ancora s’insinua, come lobby, nella fabbrica della legislazione – ma sento nella retroguardia mascherata all’Ottocento, o forse alla don Abbondio, il rinsecchimento di ogni slancio possibile verso uno stato dei diritti e dei doveri, religioso nel sentire, laico nel fare. Valgano le parole di Jemolo, che traggo dall’ultima pagina del suo Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, il libro firmato che egli mi donò e che ora… religiosamente tengo fra le mani, sognando anch’io l’Italia che sognò il professore: «società laica nella sua struttura giuridica, ma dove tutti portassero in sé un alto afflato religioso, dove l’operare di ciascuno fosse di continuo un risolvere in termini di azione un problema morale…».



Fonte: Gianfranco Murtas
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