L’autobiografia di un Gran Maestro Massone (e altre cento cose…). A seguire il contributo di Gianfranco Murtas
Giuliano Di Bernardo protagonista (in Loggia) e testimone (in Procura) di un pezzo sconosciuto della storia dell’Italia contemporanea. Il G.O.I., quelle riserve su Armando Corona, l’Est Europa e gli insistenti rimandi alla Massoneria anglosassone
Negli ultimi due anni e mezzo Giornalia.com ha avuto modo di seguire, soprattutto attraverso il qualificato contributo di diversi partecipanti alla sua community, le vicissitudini più recenti del Grande Oriente d’Italia, la più numerosa Obbedienza massonica italiana, il cui nome resta legato al mito di Garibaldi ed Ernesto Nathan.
Eravamo partiti con la denuncia dei misfatti di un cosiddetto “Venerabile” e del suo braccio destro, compiuti direttamente dalle Sale di Palazzo Sanjust a Cagliari (che oggi si tiene a ribattezzare Palazzo Racugno), sede regionale del G.O.I. sardo, per arrivare ad ospitare, il 22 novembre scorso, una lunga intervista al Gran Maestro aggiunto dimissionario Professor Claudio Bonvecchio. Una interlocuzione approfondita nella quale i fatti cagliaritani (gravissimi e sconvenienti) si sono inseriti all’interno della trama di un malessere più generale, che attraversa per intero il tessuto liberomuratorio nazionale. Tanto da poterne ricavare un quadro complessivo piuttosto tetro: dal Presidente del Collegio del Trentino Alto-Adige Antonio Virdia – recentemente rieletto – costretto all’“assonnamento” in seguito alle minacce di provvedimenti contro di lui e la sua Circoscrizione (la colpa: aver osato elevare una proposta finalizzata ad una maggiore trasparenza nei rapporti associativi interni), al Presidente del Collegio della Lombardia (Circoscrizione attualmente commissariata) Antonino Salsone, colpito e (almeno per ora) affondato per aver esternato un pensiero – lui giureconsulto – sulla necessità del rispetto, sia nella forma sia nella sostanza, del dettato costituzionale (ma c’è chi sostiene che il vero torto sarebbe stato quello di aver ventilato la propria candidatura, in opposizione a quella del Gran Maestro in carica o di un suo “delfino”, alle prossime elezioni per il rinnovo del Vertice dell’Obbedienza); fino alla lite, finita in Tribunale (quello civile), sull’organizzazione di un incontro virtuale a tema “l’esoterismo dei Led Zeppelin” (gruppo musicale devoto al “mago nero” Aleister Crowley, sic!) con protagonista (vittorioso) il Presidente del Collegio dell’Emilia-Romagna Mario Martelli.
Numerose altre sono state le ragioni del malessere da cui sembra non riuscire a guarire il Grande Oriente d’Italia, né appaiono le ultime l’abbattimento di Logge storiche come la “Losanna” di Napoli (un cursus lungo oltre 140 anni e un piedilista che ha incluso, fin quasi dall’origine, l’autorevole Grande Oratore Giovanni Bovio), le epurazioni sommarie in ogni parte d’Italia e – non ultimo – un certo inquietante asservimento dei Probiviri (leggasi “Corte Centrale”) al potere esecutivo… Il tutto “condito” da Circolari interne che lo stesso Professor Bonvecchio, nelle sue dichiarazioni, ha definito «atti pericolosi», per il loro folgorante contrasto con la Costituzione repubblicana. Insomma, la sensazione è quella che vi sia oggi, nella Massoneria italiana, più di un ingranaggio da registrare, ed in particolare nel G.O.I. un vertice drammaticamente non all’altezza delle sue prerogative.
Con questo spirito, cioè lo spirito di chi pensa che la ricerca storica – e la ricerca storico-biografica in particolare – possa aiutare a capir meglio il presente che si ha di fronte, abbiamo letto con grande interesse “La mia vita in Massoneria” del Professor Giuliano Di Bernardo, edito a maggio del 2021 e disponibile su Amazon anche in lingua inglese.
In questa sua autobiografia Di Bernardo rivela non solo fatti, eventi e personaggi che hanno caratterizzato la Massoneria italiana dagli anni ’60 in poi, ma anche le ragioni che lo indussero ad assumere le prese di distanza e le decisioni ultimative che sono poi entrate nelle cronache della stampa nazionale. Scelte che condizionano ancor oggi le vicissitudini della Libera Muratoria, non solo nel nostro paese.
Nei giorni scorsi abbiamo ricevuto il contributo che qui sotto riproduciamo a firma di Michele Campostella. Non abbiamo il piacere di conoscere personalmente l’autore, ma abbiamo molto gradito, per la ricchezza espositiva in quanto alle tematiche affacciate e alla gradevolezza della scrittura, quel che egli ci ha mandato.
Abbiamo, da parte nostra, girato ad un collaudato collaboratore di Giornalia.com, vale a dire Gianfranco Murtas, autore di numerose monografie e di saggi ed articoli sulla storia massonica nazionale e isolana, lo scritto di Campostella per chiedere a lui un commento. Che, pur in forma molto succinta (date le sue cattive condizioni di salute), ci ha regalato e che appresso riportiamo.
Tutto offriamo alla lettura, intelligente ed onesta, della nostra community. Si tratta, crediamo, di un apporto, seppure per qualche aspetto soltanto “di nicchia”, alla conoscenza di passaggi importanti della nostra vita pubblica contemporanea e auspichiamo che altri contributi possano pervenire per sempre maggiori approfondimenti critici.
Giuliano Di Bernardo: complessità e umanità di un Libero Muratore
di Michele Campostella
Parlare di Giuliano Di Bernardo non è facile, e forse non lo è tanto più dopo la lettura attenta e meditata della sua autobiografia, che si rivela ricchissima di tematiche. L’uomo, innanzitutto, poi il Filosofo massone e docente universitario, infine il Gran Maestro dalle innumerevoli relazioni internazionali, si tratta di una personalità che ha attraversato da protagonista il suo tempo. Un tempo tutt’altro che facile, sia sulla scena mondiale sia su quella italiana (ed anche su quella strettamente massonica): dalla caduta del “Muro di Berlino” alla “seconda notte della Repubblica”, con i ferali attentati mafiosi di Capaci e via d’Amelio ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nonché ai tanti loro valorosi colleghi e ad innumerevoli uomini delle forze dell’ordine; dalla prima inchiesta del giudice di Palmi Agostino Cordova sulle infiltrazioni malavitose nella Massoneria del Sud Italia fino a “Tangentopoli”, passando per l’“epilogo” al G.O.I., i “riconoscimenti” inglesi tolti e concessi, la fondazione della Gran Loggia Regolare d’Italia e la ricostituzione dei circuiti massonici nell’Europa dell’Est, appena uscita dalla cappa del socialismo realizzato di stampo sovietico. Insomma, un “princeps”, Giuliano Di Bernardo, non tanto per blasone o finte patenti d’eccellenza, quanto per dignità e destrezza intellettuale, che traggono la loro origine da un solido impianto filosofico e morale, cui egli dichiara di ispirare la propria condotta: la Massoneria, afferma Di Bernardo, è l’«anello di congiunzione tra l’astrattezza della speculazione filosofica e la realtà storica e contingente della vita». Un’immagine che lascerà spazio, nei lunghi anni di militanza e poi di governo dell’Istituzione, ad una ricognizione più veritiera, non corrispondente – nella sua dimensione reale e concreta – a quella dal maggior contenuto ideale e romantico.
Questa ambivalenza, nella lettura delle sue pagine, ci ha più volte spiazzati. La Massoneria di Di Bernardo è Opera grande e complessa, ed il proprio incedere in essa – al massimo livello della scala gerarchica – ha sovente i tratti di un racconto fantastico, quasi onirico. In cui il famoso acrostico V.I.T.R.I.O.L. si gioca tanto nel “Gabinetto di riflessione”, luogo simbolico di sosta e meditazione che precede l’ingresso in Loggia del “profano” prima dell’affiliazione, quanto nelle incredibili gallerie sotterranee della cantina “Cricova”, in Moldova, dove vengono conservati e si possono gustare i migliori vini del mondo, custoditi come tesori “occulti” a novanta metri di profondità… Perché, dicevamo, anche la Massoneria più “nobile” e riservata agli “ottimi”, ad ogni pagina s’infrange sulle scogliose brame dell’ego individuale, così da riproporre, ciclicamente quanto inesorabilmente, l’efferato omicidio del mitico Architetto-capo Hiram Abif ad opera dei tre scellerati Compagni d’Arte, simboleggianti le più abbiette passioni umane.
Eppure, se nemmeno le pietre “cubiche” sembrano fornir garanzia di successo ed anche le Colonne cadono… dal trambusto scorgiamo uscire un Di Bernardo sempre intonso! Come se sull’orizzontale della propria vita, in ogni punto, egli sia stato beneficiato – per riferirci ad una metafora prettamente massonica – dall’intersezione con la perpendicolare. Quasi che questo costante incontro costituisca per lui una sorta di stella polare o… “fondamento”, verrebbe da dire! Magari quel fondamento esoterico-iniziatico specifico della tradizione libero muratoria…
Ci interrogheremo su questo argomento più avanti. Intanto, continuiamo ad osservare come il suo sia un percorso palesemente faticoso, né questo ripasso critico della sua esperienza di vita pubblica, così come egli l’ha voluta render nota riordinando memorie di episodi e di uomini, ha l’intento di “agiografare” il personaggio o di non coglierne, volutamente, il chiaroscuro che è proprio di ogni uomo, anche degli uomini migliori. Giuliano Di Bernardo rappresenta indubitabilmente una personalità d’eccellenza e noi, stendendo queste note ricapitolative della sua complessa vicenda morale, intellettuale ed operativa, ci siamo accostati a lui con il giusto rispetto, con il giusto distacco e con la giusta misura dell’osservazione utile ad acquisire la conoscenza dei fatti.
Riteniamo, immodestamente, di non aver compiuto un lavoro inutile.
Spunti per una ricostruzione storica
La narrazione dell’autore prende le mosse dalla sua iniziazione, avvenuta nel 1961 nella Loggia “Risorgimento - 8 Agosto” di Bologna, frutto di un’aspirazione che seppe instillare in lui un vecchio massone toscano, rispondente al nome di Arnaldo Nannetti. Il passo da questa alla famosa Loggia “Zamboni - De Rolandis”, una tra le più note ed importanti d’Italia per l’alta caratura accademica dei partecipanti, seguì gli sviluppi della sua carriera universitaria. Ma subito il piano individuale e quello collettivo confluiscono, nella riflessione e nel racconto di Di Bernardo, in un discorso storico sulla nascita della Massoneria, avvenuta a Londra il 24 giugno del 1717; ed è egli stesso a precisarne i contorni: «esistevano già delle Logge precedenti a quella data operanti in Scozia, ma è solo da quel giorno che si può parlare di una “Gran Loggia”, ed è questo l’elemento nuovo». Quattro Logge che si uniscono insieme per creare un organismo che si eleva al di sopra di loro stesse, allo scopo di regolamentarle. È questa la nascita della Massoneria moderna, come la conosciamo anche oggi. In Italia invece – secondo Di Bernardo – la cesura più rilevante avviene nel secondo dopoguerra. Questo perché con il dilagare delle dittature di inizio Novecento la Massoneria viene praticamente cancellata dal tessuto europeo continentale. Saranno gli americani a riportarcela, ed in Italia – soprattutto – essa viene ricostituita sotto il patrocinio di quella statunitense. Questa “rinascita”, tuttavia, la porta ad assumere caratteristiche completamente diverse e nuove rispetto a quelle precedenti.
Da Ordine esoterico-iniziatico, con peculiarità originali tratte dalle varie correnti latomistiche di stampo scozzese, rosacrociano, egizio-mediterraneo (che tuttora si sforzano di sopravvivere qua e là nei Riti cosiddetti di “perfezionamento” del grado di “Maestro”, che è il Terzo ed ultimo grado della Massoneria “Azzurra” o “Simbolica”), essa diventa a vario titolo un’Istituzione improntata alla charity democratica d’oltre atlantico, ancora differente da quella tradizionale inglese.
Per Di Bernardo è proprio in questo snodo storico che si anniderebbe quel male palesatosi più volte con tutta la sua forza distruttiva, e che ancora oggi continua ad affliggere le Obbedienze italiane (dunque non soltanto il G.O.I.): la “contro-iniziazione”.
È con il Gran Maestro Giordano Gamberini che il Grande Oriente d’Italia cerca di venir fuori dal caos organizzativo e dal declino degli anni ’50, in cui sempre più marcato era stato l’abbandono della Tradizione prefascista, fatta di simbolismo, attenzione alla ritualità e impegno civile. Dignitario della Chiesa gnostica, saggista e studioso di filosofia, nonché antifascista di radici socialiste e membro della resistenza, Gamberini rimarrà in carica nove anni, per tre mandati consecutivi, fino al 1970. Egli, secondo Di Bernardo, fu importante per tre ragioni: la prima il ristabilimento di un contatto con la Chiesa cattolica, pesando ancora sui massoni la scomunica del 1738, la seconda la trattativa con la Gran Loggia Unita d’Inghilterra al fine di ottenere il riconoscimento inglese (cosa che sarebbe avvenuta nel 1972), la terza il tentativo di una riunificazione della Massoneria italiana con la costituzione di un unico Grande Oriente nazionale (obiettivo mancato da lui e da chi venne dopo di lui).
Con il successore di Gamberini, il Gran Maestro Lino Salvini, secondo Di Bernardo si profila nuovamente, per il Grande Oriente d’Italia, una situazione di declino. L’asse degli interessi, infatti, provenendo Salvini dal campo della politica (sempre dell’area socialista), si sposta inesorabilmente dalla parte della gestione del potere e degli affari. Per Di Bernardo è proprio questo il momento storico in cui si gettano le basi per quel che poi sarà l’operato di Licio Gelli all’interno del G.O.I.
Da Licio Gelli al rapporto con Armando Corona
Nello scorrere le pagine dell’autobiografia si ha come la sensazione che gli eventi, così come i personaggi che l’autore descrive e che li caratterizzano, non capitino mai per caso. Non fa eccezione il “Venerabile” Licio Gelli, che egli colloca in un momento politico assai preciso dell’Italia: quello che vedeva, intorno alla metà degli anni ’70, il progressivo indebolimento della Democrazia Cristiana, e il tentativo di quest’ultima – a trazione della corrente “morotea” – di concludere un’intesa con il Partito Comunista, da questo stesso reclamata, che avrebbe portato al cosiddetto “compromesso storico”.
La proposta dell’allora Segretario del P.C.I. Enrico Berlinguer alla Democrazia Cristiana, volta ad una collaborazione di governo, avrebbe dovuto interrompere la cosiddetta “conventio ad excludendum” del secondo partito italiano per numero di voti dalla guida del paese, determinata dalla sua storica vicinanza ideologica all’Unione Sovietica.
Gli Stati Uniti, alla luce dei loro numerosissimi interessi in Italia, ribadisce Di Bernardo, vedevano questa possibilità come molto pericolosa, ed avendo irrimediabilmente perduto la fiducia in Aldo Moro e Giulio Andreotti, andavano cercando l’“uomo forte” in grado di contrastare questo ed altri disegni politici concernenti il possibile spostamento a sinistra dell’asse di governo del paese. In tale contesto venne fuori la figura di Licio Gelli come capo della P2, ed emerse la sua proposta di “rinnovamento” da attuarsi tramite una sorta di autoritarismo legale, conosciuta come “Piano di rinascita democratica”.
Gelli viene definito da Di Bernardo come un uomo del tutto mediocre, purtuttavia capace di gestire un potere enorme, ritrovandosi alla propria obbedienza numerosi dei vertici non solo istituzionali, politici ed economici, ma anche militari e culturali della nazione. In ciò aiutato dalle rilevantissime quantità di denaro che gli affluivano, tramite canali occulti, dal governo americano.
Avvenuta la sua espulsione dal G.O.I. (ad opera del Tribunale interno alla Corte Centrale che – presieduto dal sardo Paolo Carleo – si pronunciò il 31 ottobre 1981), ebbe inizio l’avventura del medico sardo Armando Corona. Questi era stato iniziato nel 1969 nella Loggia “Giovanni Mori” di Carbonia, era poi divenuto Maestro Venerabile della cagliaritana Loggia “Hiram” e per tre anni aveva ricoperto anche la carica di Presidente del Collegio Circoscrizionale della Sardegna. Era stato proprio lui che da Presidente della Corte Centrale – fortemente voluto in quell’incarico nel 1978 dal nuovo Gran Maestro – aveva operato per decretare l’allontanamento di Gelli e così lo smantellamento della P2. Per questi meriti fu eletto Gran Maestro al rinnovo delle cariche apicali della Comunione nel marzo 1982, con l’impegno di traghettare il Grande Oriente d’Italia al di fuori delle acque paludose in cui era finito allo scadere quasi degli anni ’70 (un pantano da cui non aveva saputo districarsi il debole Gran Maestro Battelli). Non a caso fu sotto la sua Gran Maestranza, e quasi in avvio d’essa, che il capitolo Gelli si chiuse definitivamente, perché il 5 settembre 1982 la rinnovata Corte Centrale emise una sentenza che confermava la pronuncia dell’anno precedente.
Corona Sarebbe rimasto in carica per due mandati consecutivi (il primo di tre anni, il secondo – in seguito alla riforma costituzionale da lui stesso progettata – di cinque anni), fino al 1990.
L’autobiografia di Di Bernardo fornisce ampio spazio alle vicissitudini che segnarono il proprio avvicendamento a Corona nella guida della Comunione, poiché egli era contrapposto all’avvocato Enzo Paolo Tiberi, che all’inizio sembrava godere i favori del Gran Maestro uscente, venendo da tutti considerato il suo “delfino”. Ma il 18 marzo 1990, al termine di un ballottaggio che lo stesso Di Bernardo definisce come “estenuante”, fu proprio Armando Corona a proclamarlo nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, con 332 voti contro i 265 di Tiberi.
Come divenne possibile tutto questo Di Bernardo lo spiega bene nelle sue pagine, e da esse pare volersi allora restituire alla Massoneria italiana, ormai impostata in chiave di puro pragmatismo (certamente equivoco ed anche inquietante ai tempi di Salvini, pulito o ripulito ai tempi di Corona, almeno secondo la vulgata del tempo), un’impronta finalmente idealistica.
L’ascesa di Di Bernardo al Supremo Maglietto scaturì dalla sua volontà di indagare i documenti emanati dalla Massoneria inglese, da tutti considerata la Gran Loggia Madre del mondo (oggi Gran Loggia Unita d’Inghilterra), allo scopo di verificare filosoficamente, ma anche nel concreto, se e quanto il pensiero massonico fosse coerente ed unitario, anche (sebbene non esclusivamente) in Italia. Un lavoro per il quale non esistevano precedenti né nel paese né tantomeno all’estero.
Il nucleo principale della ricerca si svolgeva intorno a cinque nozioni-chiave: “Libertà”, “Tolleranza”, “Fratellanza”, “Trascendenza” e “Segreto iniziatico”. Secondo Di Bernardo proprio l’intreccio tra questi princìpi va a costituire il patrimonio ideale consolidato della Massoneria, le cui fonti supreme sono da rintracciare nelle “Costituzioni” di Anderson e nelle “Dichiarazioni” della Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Queste rappresentano per Di Bernardo non solo un sicuro e stabile nucleo unitario, ma anche un substrato non confondibile con altri, magari all’apparenza simili, che con l’idealità massonica nulla però hanno a che fare.
Tutto ciò si tradusse in un libro: “Filosofia della Massoneria” (prima edizione 1987), la cui diffusione fu tale che, nel corso dell’ultimo mandato di Corona, il nome del futuro Gran Maestro si fece sempre più strada nella conoscenza e nell’ammirazione del “fratelli” (seppure non mancarono le critiche dagli ambienti più retrivi). Così, tra le presentazioni del libro e gli incontri in tutta Italia, si affermò l’idea che un massone filosofo potesse avere le qualità necessarie per far uscire definitivamente la Massoneria italiana dalle nebbie che, nonostante quello che era considerato il repulisti di Corona, ancora pesavano come macigni sul domani del Grande Oriente d’Italia.
Nonostante, in ultimo, l’appoggio elettorale dello stesso Gran Maestro uscente Corona, i rapporti tra i due si fecero subito tesi. Ciò anche a causa della nuova “legge elettorale”, introdotta da quest'ultimo e preparata dalla speciale Commissione presieduta da Delfo Dal Bino (all’epoca 1° Gran Sorvegliante), che non garantiva più al Gran Maestro l’omogeneità nella composizione della Giunta. Il nuovo Vertice esecutivo, infatti, vedeva una compresenza di elementi della Lista vincente e di altri invece ad essa estranei ed in contrapposizione, quali erano, appunto nel caso concreto, Gustavo Raffi, Pietro Mascagni e l’outsider Eraldo Ghinoi.
La prima avvisaglia dello scontro che si sarebbe profilato all’orizzonte si verificò il giorno stesso delle elezioni, quando Di Bernardo giunto a Villa il Vascello (sede nazionale del G.O.I. ed allora anche dimora del Gran Maestro) si vide assegnare da Corona una angusta camera da letto con bagno separato… L’appartamento del Gran Maestro era infatti occupato, e lo sarebbe stato ancora per lungo tempo (almeno nei piani…) da colui che non accettava il ruolo del “re” detronizzato!
Di Bernardo descrive l’atteggiamento di Corona, in quei primi mesi, come quello di un uomo che, sempre attaccato al potere, tramava contro di lui. Luigi Savina, prima Segretario personale del Gran Maestro sardo e poi dello stesso Di Bernardo, gli riferiva, infatti, giudizi molto negativi espressi dal predecessore sul suo conto; o meglio: di quanto Corona lo apprezzasse come filosofo, ma lo giudicasse un inetto quale suprema guida della Massoneria italiana.
Armando Corona alla fine fu costretto da Di Bernardo a far le valigie da Villa il Vascello, e questo fu un duro colpo inferto (e mai assorbito) alla sua volontà di continuare ad esercitare la sua autorità, restando di fatto – come ispiratore o con ruoli da definire (magari in logica di federalismo fra le Massonerie mediterranee) – in sella al Grande Oriente d’Italia.
Lo scontro tra i due si fa più esacerbato in occasione delle accuse, da più parti mosse a Corona, di aver costituito – sul modello della P2 – una Loggia “coperta” alla sua personale obbedienza. Di Bernardo racconta i fatti con dovizia di particolari: «Luigi Savina mi aveva preannunciato la visita dell’avvocato Virgilio Gaito, Capo del Rito Simbolico Italiano… Gaito mi dice di avere la certezza che Armando Corona abbia costituito una Loggia coperta in violazione della Legge Spadolini-Anselmi sulle società segrete. Avevano cercato di individuarla ma non vi erano riusciti. Mi chiede di fare tutto il possibile per trovarla poiché la sua esistenza potrebbe mettere a rischio il Grande Oriente d’Italia. Ne parlo con il Gran Segretario Diomede e gli conferisco l’incarico di trovare questa Loggia. Gaito è persona della massima serietà mentre la sua fedeltà alla Comunione è al di sopra di ogni sospetto. Il problema esiste e va risolto».
Il tempo passa e di questa Loggia coperta non si riesce a trovare traccia, fino a quando nell’autunno del 1991 sempre Savina informa Di Bernardo che un autorevole personaggio calabrese, ai vertici del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, insiste per volerlo incontrare.
Accordato l’incontro, Di Bernardo – questo è quanto egli riferisce – si trova di fronte a un gentiluomo dai modi cortesi, che senza convenevoli lo informa di essere attivo nella Loggia coperta di Corona, e poiché a lui piace stare accanto al Gran Maestro, gli chiede di poter entrare nella sua nuova (e presunta) Loggia segreta. Questa persona risponde al nome di Mariano Cudia.
Di Bernardo finge di accettare la richiesta, al fine di acquisire una prova decisiva in merito all’esistenza della Loggia coperta del predecessore. Segue l’invio di un curriculum vitae in cui Cudia dichiara la propria appartenenza a questa Loggia (corredato da una foto che lo ritrae in paramenti massonici insieme a Corona), con la richiesta di entrare nella nuova ma… inesistente Loggia coperta.
Questa lettera tempo dopo sarebbe stata consegnata – come riferisce lo stesso Di Bernardo – al Procuratore di Palmi Agostino Cordova.
Ma non solo: in seguito all’incontro con Cudia, Di Bernardo riceverà una strana telefonata a Villa il Vascello: «Era il tardo autunno del 1991 quando, di notte, fui svegliato dal telefono che squillava. Lasciai perdere pensando a un errore. Poco dopo ricominciò a squillare. Se suona ancora, andrò a rispondere (il telefono si trovava nello studio, lontano dalla camera da letto), pensai. Dopo una breve pausa, riprese a squillare e, con riluttanza, mi alzai dal letto e andai a rispondere. “Parlo col Gran Maestro”? fu la domanda che mi venne rivolta, con un marcato accento francese. Risposi di sì. Con mio sommo stupore, mi si chiedeva la solita fornitura di armi, leggere e pesanti. Poiché non parlavo, il mio interlocutore s’insospettì e mi chiese se fossi Armando Corona. Al mio diniego, chiuse la comunicazione».
A questo punto, consultatosi con Savina, Di Bernardo decide di ascoltare Giampiero Batoni, uomo molto vicino ad Armando Corona e già Presidente dell’Enfap U.I.L. (Ente di Formazione), il quale – messo al corrente della telefonata – non si sorprende affatto della faccenda, ma anzi fornisce ulteriori elementi, affermando che Corona vendeva armi per conto della Selenia, la divisione di Finmeccanica, Ente di Stato, che a quel tempo controllava (e tuttora controlla, sotto la nuova denominazione di Leonardo) le imprese produttrici di apparecchiature militari. E tutto questo faceva, il Gran Maestro sardo, senza prendere troppe precauzioni (a cominciare dall’uso disinvolto della Carta di Credito di cui aveva la disponibilità in qualità di Gran Maestro, intestata al G.O.I.).
Così Batoni riferisce a Di Bernardo – stando alle pagine dell’autobiografia – che il suo predecessore, usando il canale massonico, aveva fatto da intermediario nelle negoziazioni di armi con alcuni paesi africani, come la Somalia e il Gabon, paese quest’ultimo in cui il Presidente, Albert-Bernard Bongo, era anche Gran Maestro della Massoneria nazionale.
Un quadro confermato anche da Yves Trestournel, Gran Segretario della Gran Loggia Nazionale Francese, che si lamentò tempo dopo con Di Bernardo di come Corona avesse “invaso”, in Africa, i normali canali della “diplomazia” massonica d’oltralpe, che erano appunto dediti a quel particolare commercio.
Tutte queste informazioni rafforzarono nel Gran Maestro la convinzione che Armando Corona fosse un uomo dalle condotte pericolose, capace di mettere a rischio il progetto di rilancio ideale del Grande Oriente d’Italia, quello che Di Bernardo si era appena accinto a mettere in campo, con un’apertura al mondo “profano” fino ad allora sconosciuta ai suoi predecessori.
Corona e l’inchiesta del giudice Palermo
Stimolati dal resoconto del Professor Di Bernardo, riteniamo utile a questo proposito fornire qualche notizia in più sulla parte che ebbe il Gran Maestro (allora in carica) Armando Corona nell’ambito dell’inchiesta sull’ampio traffico internazionale di armi e droga avviata dal sostituto procuratore di Trento Carlo Palermo nel 1980.
Questa aveva preso le mosse dal sequestro di 110 kg di morfina base presso l’albergo gestito da Karl Kofler a Trento, e nella villa di Herbert Oberhofer (legato al terrorismo sudtirolese) a Bolzano; entrambi questi personaggi l’avevano acquistata da trafficanti turchi (i fratelli Cil e Abuzer Ugurlu) per rivenderla alle cosche siciliane operanti nel Nord Italia e facenti capo a Gerlando Alberti e ai fratelli Grado, i quali gestivano i laboratori clandestini a Palermo per la raffinazione dell’eroina destinata poi alla piazza di Milano. Gli accertamenti evidenziarono il ruolo principale avuto dal trafficante siriano Henry Arsan (residente a Milano), il quale riusciva a barattare carichi di armi in Medio Oriente con partite di droga, e coinvolsero anche ufficiali dei servizi segreti affiliati alla Loggia P2 (il Generale Giuseppe Santovito e il Colonnello Massimo Pugliese), il boss turco Bekir Celenk (implicato anche nell’inchiesta romana sull’attentato a Giovanni Paolo II), l’industriale Renato Gamba (titolare di una fabbrica di armi nel Bresciano) e l’attore Rossano Brazzi, i quali erano accusati di aver partecipato a trattative per la vendita di armi da guerra all’estero, soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo.
In questo contesto “L’Unione Sarda” del 13 maggio 1983 sparava in prima pagina, con l’evidenza delle quattro colonne e corredo di foto, un titolo d’effetto: “Perquisita l’abitazione di Armandino Corona” con occhiello “Traffico d’armi: nuovo clamoroso blitz a Cagliari”. Firma Giorgio Pisano: «L’abitazione cagliaritana del Gran Maestro della Massoneria italiana, Armando Corona, è stata perquisita dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta sul traffico d’armi. Secondo fonti attendibili, pare non sia stato trovato nulla d’importante, almeno per quel che riguarda la sconcertante e clamorosa indagine avviata dal giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo. Il magistrato – ripartito improvvisamente ieri pomeriggio per la penisola dopo la breve trasferta sarda – ha disposto anche altre perquisizioni di cui non si hanno, per ora, notizie precise…». L’operazione si sarebbe svolta la notte di martedì 10. Commento a margine del cronista: «Corona – che ha ristabilito il suo potere all’interno della massoneria dopo la tempesta provocata dal “caso Calvi” e dai retroscena sulla Loggia P2 – stava attraversando un periodo, tutto sommato, tranquillo. Il suo libro bianco su Gelli e la Loggia supersegreta gli aveva consentito di calmare le acque tra i quindicimila liberi muratori d’Italia e di ridimensionare drasticamente l’opposizione interna…».
Anche “La Nuova Sardegna” dava ampio risalto, nella sua edizione del 14 maggio, al blitz della Finanza. Un taglio centrale in prima pagina – “Anche il Gran Maestro nell’inchiesta sulle armi. ‘Pronto a deporre’. Corona si mette a disposizione del giudice Palermo. La casa perquisita per 3 ore” – e articolo di taglio alto su sei colonne a pagina 5: “Hanno rovistato tutta la casa portandosi via alcune agende” con sottotitolo “Il capo riconosciuto della Massoneria italiana ha subito chiesto l’intervento dell’avvocato Frongia, legale di fiducia”.
A queste prime notizie seguirono nell’autunno dello stesso anno (1983) lanci di stampa alquanto drammatizzanti: “La Nuova Sardegna”, in prima pagina, sia mercoledì 12 che giovedì 13: “Il Gran Maestro indiziato dal magistrato di Trento. Corona accusato di traffico d’armi. ‘Questa è intolleranza verso la Massoneria’”; poi una pagina intera all’interno, la 3: “Corona è sotto accusa per il commercio d’armi… indiziato d’associazione a delinquere”; e ancora: “Sua messa a confronto con l’ex capo del Sifar in Sardegna il capitano Massimo Pugliese”, “Confronto a Trento tra il Gran Maestro e Pugliese. Corona insiste ancora: con le armi non c’entro” (con ampia ripresa a pagina 5). Il tutto in linea con il giornalismo-spettacolo che la carta stampata degli anni ’80 preparava, per cederlo presto alle televisioni dell’imminente rivoluzione massmediale.
L’intera inchiesta subì una brusca frenata allorquando l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi presentò un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura contro il giudice Palermo, in quanto si era sentito indebitamente chiamato in causa dopo che il magistrato aveva iscritto il suo nome su alcuni decreti di perquisizione intestati al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein: per queste ragioni il C.S.M. avviò un’inchiesta disciplinare nei confronti di Palermo ed a questi fu tolta l’indagine, che venne trasferita alla Procura di Venezia dove fu divisa in due tronconi (uno riguardante le imputazioni connesse al traffico di droga e l’altro quelle relative al commercio di armi).
Tornando a Corona, il giudice Palermo fece tuttavia in tempo a depositare la sua sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio. Così, un anno e mezzo dopo la clamorosa perquisizione nella casa del Gran Maestro sardo, in data 17 novembre 1984 un trafiletto sarà confinato nelle pagine interne… il titolo recita: “Corona prosciolto da Palermo”. «Il giudice Carlo Palermo ha concluso l’inchiesta iniziata circa quattro anni fa sui traffici internazionali di armi e droga. Nelle 5.998 pagine del documento processuale c’è scritta l’intera storia iniziata il 23 novembre del 1982 con l’arresto a Varese di Henry Arsan. Dagli atti processuali risultano 37 le persone rinviate a giudizio. Tra queste figurano nomi noti come quelli dell’attore Rossano Brazzi…, l’ex Colonnello dei servizi segreti Massimo Pugliese e Belir Celenk il personaggio considerato il punto di unione con la cosiddetta pista bulgara. Risulta invece prosciolto in istruttoria perché il fatto non sussiste Armando Corona il Gran Maestro della Massoneria».
Questa la verità giudiziaria, pur tante volte divergente da quella reale e dalle questioni di opportunità e di morale (né è detto che questa sia una di quelle “tante volte”). Ma ad essa si deve comunque restare.
Gli elenchi della P2
Nel riferire circa i famosi elenchi della P2 Giuliano Di Bernardo parte da lontano, e cioè da quando Licio Gelli gli fece proporre, da amici che avevano in comune, un suo sostanzioso aiuto economico per le spese sostenute durante la campagna elettorale del 1990. Gelli – racconta Di Bernardo – non riteneva dignitoso che un candidato all’alto rango di Gran Maestro viaggiasse per l’Italia da solo e in condizioni disagiate, a differenza del suo principale avversario Tiberi, che era sempre accompagnato da autorevoli personaggi e si spostava con aerei, treni e auto di lusso.
L’offerta di Gelli cadde nel vuoto, ciononostante – questo è quanto riferisce ancora Di Bernardo – altre proposte economiche e lettere furono indirizzate a colui che nel frattempo era divenuto Magister Maximus della Massoneria italiana. Fino all’invio, in qualità di “ambasciatore”, del fiorentino Marco Alessandro Urbini, che era stato uno dei candidati alla Gran Maestranza: Urbini comunicò a Di Bernardo che Gelli era rimasto molto deluso del fatto che egli non avesse risposto alle sue lettere, e che – rifiutate le offerte economiche – era disposto a fornirgli l’elenco completo della P2, insieme con i fascicoli personali. Era evidente a Di Bernardo come in quei plichi fossero conservati i segreti di un’Italia che il terrorismo, di destra e di sinistra, aveva messo in ginocchio; tuttavia, egli rifiutò ancora una volta la proposta di Gelli, dato che a corredo – viene spiegato – vi era nuovamente l’esplicita richiesta di consentire il suo reintegro nell’Ordine.
Di questo elenco, di lì a poco, Di Bernardo ne sentirà ancora parlare: «Nell’autunno del 1991, Savina mi informa che l’ex Segretario personale del Gran Maestro Ennio Battelli vuole farmi una dichiarazione testimoniale su un fatto che riguarda Gelli. Quando lo incontro, mi dice che sente suo dovere trasmettermi un’informazione sulla P2 che è in suo possesso». Il racconto che ne segue è quello tante volte riferito negli ultimi anni dallo stesso Di Bernardo. Questo testimone afferma: «Una sera Gelli entrò nello studio del Gran Maestro Battelli con un enorme fascicolo rilegato. Lo mise sul tavolo e gli disse che quello era l’elenco della Loggia P2. Il Gran Maestro cominciò a sfogliarlo e, a mano a mano che procedeva, il suo volto diventava paonazzo. All’improvviso, lo chiuse e disse a Gelli che quell’elenco lui non lo aveva mai visto, e lo invitò a portarselo via. Rimasto solo rifiutò ogni commento».
Da ciò l’ex Segretario di Battelli evinse che veramente fosse quello il vero elenco della P2, e non quell’altro con i 962 nomi che la Guardia di Finanza aveva trovato – e poi i magistrati sequestrato – il 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi di Arezzo. Ad ogni modo – continua Di Bernardo – quanto esposto da questo teste venne messo per iscritto, ed il tutto fu consegnato al Gran Segretario Alfredo Diomede.
Di Bernardo riferisce poi di un’altra visita, avvenuta qualche tempo dopo, stavolta del suo Gran Maestro aggiunto Eraldo Ghinoi: «Mi mostrò una medaglia di platino precisando che gli era stata donata da Gelli in occasione di una ricorrenza importante. Spontanea fu la mia domanda: “allora tu sei amico di Gelli?”. Mi disse che non solo era suo amico ma anche un suo fedele collaboratore». Anche stavolta, come già era stato trattando dell’incontro con Urbini, Di Bernardo asserisce che l’argomento “forte” fu la richiesta di Gelli di rientrare nel Grande Oriente d’Italia, cosa alla quale egli era contrario: «Metti la proposta nell’agenda della prossima Gran Loggia e ti garantisco che sarà approvata, sono ancora tanti gli amici di Licio!», queste le parole di Ghinoi nel ricordo di Di Bernardo. La storia ci dice che... sia stato poi per sua esclusiva volontà o per fortunose congiunture, comunque non se ne fece nulla.
Il precipitare degli eventi
Tutte queste vicende non passarono senza effetto. Di Bernardo racconta di come, giorno dopo giorno, venisse a sgretolarsi in lui l’idea stessa del progetto di “trasparenza” capace di far uscire il Grande Oriente d’Italia dalle secche della P2 e dell’affarismo che considerava smodato oltreché improprio. Una Tavola d’Accusa contro Corona venne presentata dietro suo impulso, ma l’ex Gran Maestro sardo venne assolto – come già dall’inchiesta del giudice Palermo – “perché il fatto non sussiste”.
Ma l’attacco finale stava per compiersi. La prima avvisaglia fu un articolo dell’estate 1992 firmato dall’On.le Flaminio Piccoli, doroteo e già Segretario della Democrazia Cristiana, il quale metteva in guardia contro le (supposte) trame della Massoneria… Di lì a poco le conseguenze sarebbero state violente e distruttive.
Ci riferiamo alla già citata inchiesta del Procuratore di Palmi Agostino Cordova. L’accusa riguardava i massoni che risultavano coinvolti in attività criminali.
Tutto era iniziato quando, nell’effettuare alcune perquisizioni nello studio commercialistico di un “fratello” del G.O.I. calabrese, sospettato di avere contatti con la malavita locale, erano stati ritrovati documenti ed elenchi di nomi e Logge che egli custodiva nella qualità di Maestro Venerabile di una Loggia del Reggino. A ciò si aggiunsero – successivamente – le dichiarazioni rilasciate dal notaio Pietro Marrapodi, Oratore della Loggia “Giuseppe Logoteta” di Reggio Calabria e vicino alle cupole della ‘ndrangheta calabrese. Da ciò Cordova dedusse l’esistenza di una associazione a delinquere di vaste proporzioni, estesa in tutta la penisola, dedita a traffici illeciti.
Per quanto attiene al Grande Oriente d’Italia la richiesta fu quella di consegnare gli elenchi delle Logge della Calabria. Trattandosi di un invito formale, il Gran Maestro non poté che aderirvi, e vi si uniformò – come lui stesso chiosa – con la segreta speranza di potersi sbarazzare, in questo modo, delle “mele marce”, ovvero di quei “fratelli” che commettevano reati o erano collusi con il malaffare.
Poco tempo dopo la consegna degli elenchi “calabresi”, Francesco Neri, magistrato della Procura di Palmi e braccio destro di Cordova, si presentò accompagnato dai carabinieri a Villa il Vascello con un mandato di perquisizione e di sequestro: chiedeva l’elenco di tutti i massoni d’Italia, con la motivazione che, essendo i massoni calabresi inquisiti in contatto con massoni di altre regioni, soprattutto del settentrione, si voleva verificare se il Grande Oriente d’Italia non favorisse certe attività criminali facendone anche da copertura. Cordova fu il primo – secondo Di Bernardo – a capire che la ‘ndrangheta stava occupando, ed inquinando “economicamente”, le regioni del Nord Italia.
Nei giorni successivi scattarono, in tutto il paese, le operazioni di perquisizione delle Logge, però non soltanto di quelle all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, bensì anche di quelle interne ad altri circuiti della Libera Muratoria operanti sul territorio nazionale. Ad ogni modo, il G.O.I. risultò ufficialmente indagato dalla Procura di Palmi e Giuliano Di Bernardo, essendone il Gran Maestro, cioè il rappresentante legale, fu più volte interrogato.
Così il “Professore Filosofo” ricorda il suo primo incontro con Agostino Cordova: «L’incontro avvenne in un luogo segreto, poiché si voleva tenere lontano i giornali e la televisione. Quando ci siamo trovati l’uno di fronte all’altro, dopo avermi soppesato, mi dice: “Professore, lei è un fiore sulla palude”. Mi sarei aspettato un approccio meditato e razionale, ma fu come la deflagrazione di un colpo di cannone. Lo guardai tra l’incuriosito e l’irritato e gli dissi che non permettevo a nessuno di definire la mia Massoneria una palude. Senza battere ciglio, mi indicò un pacco di fogli protocollo che si trovava in terra vicino alla sua scrivania. M’invitò a prenderne alcuni e leggerli. Così feci. A mano a mano che procedevo nella lettura, il mio stato di quiete si trasformava in forte turbamento. Apprendevo che autorevoli massoni calabresi, alcuni dei quali molto vicini a me per la carica che ricoprivano, avevano deciso di risolvere le controversie che avevano con altri massoni denunciandoli alla Procura di Palmi. In aggiunta, Cordova mi aveva detto chiaramente che le Logge calabresi erano infiltrate dalla ‘ndrangheta. Di fronte a Cordova, mi sentivo un Don Chisciotte e nella mia mente si scatenò una tempesta perfetta».
Di Bernardo racconta di aver avvertito l’assoluta necessità di verificare quanto riferitogli da Cordova, ed in tal senso di aver provveduto a convocare la Giunta in via straordinaria (in quanto Organo di governo del G.O.I.), sia per un’analisi della situazione emersa dopo l’incontro con il Procuratore di Palmi sia per decidere le linee di condotta future: «Chiesi al Gran Segretario Diomede di invitare anche i vertici calabresi. Ci ritrovammo tutti intorno al tavolo delle riunioni, in un silenzio che presagiva momenti di alta tensione. Diomede propose che non si tenesse il verbale data l’estrema riservatezza della riunione. La proposta fu accolta all’unanimità. Riferii gli argomenti trattati con Cordova senza omettere nulla e conclusi affermando che il rischio di scioglimento del Grande Oriente d’Italia era altamente probabile. Di conseguenza, sarebbe stato necessario che io venissi informato di tutto, per poter tentare una difesa valida e vincente. Dai Calabresi, in particolare, volevo sapere la verità sull’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle Logge. Forse fu a causa di uno stato emotivo che serpeggiava nei presenti o la paura di un eventuale scioglimento, che vennero a determinarsi le premesse per parlare secondo verità. Fu allora che chiesi a Ettore Loizzo [n.d.r.: ingegnere di Cosenza], mio Gran Maestro Aggiunto e massimo responsabile dell’Ordine in Calabria, di dirmi la verità sulla presenza della ‘ndrangheta nelle Logge. Ettore si concesse una pausa e poi dichiarò: “la ‘ndrangheta non solo infiltra ma controlla 28 delle 32 Logge”. Fu come un fulmine a ciel sereno. Superato il primo momento di smarrimento, gli chiesi perché non lo avesse evitato e che cosa intendesse fare adesso. La sua risposta fu semplice e lapidaria: “nulla, perché metterei a rischio la mia vita e quella dei miei familiari”. Non c’era nient’altro da aggiungere. Tutto era evidente e chiaro. Di Loizzo avevo la più grande stima e fiducia. Non potevo mettere in dubbio una sola parola di quel che aveva affermato. In quel preciso istante, sentii dentro di me l’imperativo categorico che mi ordinava di ritirarmi dal Grande Oriente d’Italia».
Se tutto questo costituisce il resoconto fedele di chi quei giorni li visse, con affanno drammatico, in prima persona, bisogna dar conto, tuttavia, anche di altri aspetti della questione, per arricchire – non certo per svilire – la stessa narrazione del Gran Maestro che presto avrebbe abbandonato il suo posto. Così, ad esempio, Virgilio Gaito, altro testimone diretto di quei fatti e futuro Gran Maestro del G.O.I. (dalla fine del 1993 al 1999), nel suo libro del 2017 intitolato “Massoneria, un amore” (Angelo Pontecorboli Editore), su Agostino Cordova scrive: «Desideroso di acquisire meriti particolari in vista dell’assegnazione del prestigioso incarico di Procuratore nazionale antimafia, al quale egli aspirava al pari del suo collega corregionale Siclari, mobilitò tutti i sostituti procuratori della repubblica presso il Tribunale di Palmi in una vera e propria caccia al massone, inviando le forze dell’ordine in ogni parte d’Italia a sequestrare migliaia di atti e documenti nelle abitazioni, negli studi professionali e persino nelle cassette di sicurezza di tanti fratelli, accumulando vari metri cubi di materiale in un edificio di sei piani messogli a disposizione, su sua richiesta, in Roma dal ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli. Una indagine spettacolare costata miliardi, approdata al nulla, con smacco per quel magistrato il quale, per dedicarsi a simile colossale impresa, lasciò andare in prescrizione presso il Tribunale di Palmi ben 18.000 processi, molti contro la ‘ndrangheta».
Nondimeno, va riferito di come – forse provvidenziale – arrivò ad un certo punto la richiesta di trasferire, per ragioni di competenza, le indagini a Roma, dove l’inchiesta si sarebbe presto arenata, giungendo poi all’archiviazione (in pratica per decorrenza dei termini). I Pubblici Ministeri che ne risultarono delegati furono Lina Cusano e Nello Rossi, GIP Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, che sarebbe poi diventata – di lì a poco – una personalità di spicco a via Arenula – sede del Ministero di Grazia e Giustizia – nei Governi Berlusconi… mentre Agostino Cordova fu trasferito a Napoli (all’epoca si ipotizzò persino che avesse “trattato” la chiusura del dossier con il nuovo incarico, da svolgersi in una “piazza” più blasonata).
Proprio Bruno Vespa nel volume “1989-2000 Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia”, alla voce “1° novembre 1992” (pag. 522), scrive: «In relazione all’inchiesta sulle Logge massoniche deviate, il Procuratore della Repubblica di Palmi Agostino Cordova emette centinaia di avvisi di garanzia contro personaggi di rilievo del mondo politico, giornalistico, sospettati di associazione a delinquere»… Eppure di queste centinaia di atti soltanto sessantaquattro colpiscono massoni, e tra gli elenchi di nomi sequestrati presso alcuni di loro – e magari in loro possesso a motivo del ruolo ricoperto – numerosi sono quelli per lo più insignificanti per le indagini, oppure vecchi di anni, o che ancora riguardano i “Riti”…
Anzi, proprio a proposito di quelli riguardanti i Riti vogliamo riferire una circostanza che ci pare interessante: abbiamo avuto occasione di visionare alcuni fascicoli relativi al sequestro, presso il Gran Maestro aggiunto Eraldo Ghinoi, di documentazione afferente al Rito di York, in cui era regolarmente riportata l’indicazione degli affiliati; ebbene: risulta di come gli inquirenti fossero convinti – in questo come in altri casi – di aver scoperto nei Riti – Corpi iniziatici regolari, paralleli al G.O.I. e da questo riconosciuti – le “famose” Logge segrete!
Verifiche successive comprovarono che i nominativi presenti negli elenchi di questi Organismi – sequestrati presso i recapiti di coloro che ne erano a vario titolo i responsabili – apparivano anche in quelli ritrovati al “Vascello”. La qual cosa escludeva, con tutta evidenza, che quei nomi si riferissero a massoni “coperti”.
I prolegomeni di un epilogo
Il contesto generale in cui si inseriscono le vicende che portarono il Gran Maestro Di Bernardo a rassegnare le dimissioni dal Grande Oriente d’Italia, e contestualmente lo spinsero a costituire la Gran Loggia Regolare d’Italia, è ampiamente descritto nelle pagine della sua autobiografia. Ne tenteremo un rapido sommario, con qualche nostro approfondimento.
Prima di addentrarci nello specifico, riteniamo tuttavia dar conto di un fattore psicologico che ci sembra – arrivati a questo punto – importante, forse persino decisivo: nel suo libro “Un massone racconta”, edito da Bastogi nel 2006, Gian Piero Pagella (che all’epoca dei fatti era impegnato al “Vascello” nella Commissione voluta per trasformare l’annuale Rendiconto finanziario e di cassa del G.O.I. in un vero e proprio Bilancio di competenza), tra le personali critiche alla Gran Maestranza targata Di Bernardo (riferite soprattutto agli ultimi mesi del mandato), certifica peraltro un fatto importante ed… esimente: Di Bernardo era fermamente e sinceramente convinto di trovarsi di fronte ad una situazione tale per cui il Grande Oriente d’Italia sarebbe stato in mano alle organizzazioni criminali. Inoltre, che tale condizione fosse ormai senza rimedio e non più recuperabile.
Ci sembra opportuno, a questo proposito, riferire un episodio non riportato nell’autobiografia. Di ritorno da un importante incontro internazionale a Vienna, avvenuto il 18 settembre 1992 in occasione del duecentocinquantesimo anniversario della fondazione della Massoneria austriaca, Di Bernardo ebbe modo di informare la Giunta del G.O.I. delle rilevanti preoccupazioni che investivano la Massoneria italiana, ormai percepita come il “ventre molle” del circuito europeo. Ventitré Grandi Maestri riuniti per l’occasione avevano espresso il loro disagio di fronte a quella che per alcuni costituiva una certezza: il G.O.I. stava per partorire un nuovo devastante “scandalo P2”; peraltro in un momento nel quale non era solo la Massoneria continentale ad essere sotto attacco (con i casi eclatanti dell’Austria, del Belgio, persino della Svizzera…), ma lo era addirittura quella inglese! E nell’occhio del ciclone non entrava un qualche argomento “a margine”, ma la stessa “segretezza”, cioè una caratteristica iniziatica da taluni ritenuta fondamentale.
È in questo quadro generale, tra gli attacchi provenienti dalla stampa italiana (in primis “L’Indipendente” di Vittorio Feltri e “La Repubblica” di Eugenio Scalfari), la mano pesante della magistratura inquirente (l’intera Giunta del “Vascello” era stata posta sotto intercettazione telefonica) e la sfiducia che trapelava dagli ambienti internazionali, che si devono leggere le motivazioni che portarono Giuliano Di Bernardo alle estreme conseguenze.
Un altro aspetto ci sembra ancora da segnalare: tra la primavera e l’estate dello stesso anno erano stati uccisi, negli attentati di stampo terroristico-mafioso di Capaci e via d’Amelio, i giudici del pool antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e la situazione era talmente grave e perdurante – ricordiamo anche l’attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze, del 27 maggio 1993, nel quale rimasero uccise cinque persone – che non venivano lesinati riferimenti alla cosiddetta “strategia della tensione”, che riportava alla teoria della destabilizzazione degli equilibri repubblicani precostituiti (periodo che va dalla strage di piazza Fontana a Milano, del 12 dicembre 1969, a quella della Stazione ferroviaria di Bologna, del 2 agosto 1980, passando per la bomba fatta esplodere in piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio 1974, e l’attentato dinamitardo al treno Italicus, compiuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974). E proprio a questo riguardo occorre evidenziare come la P2 fosse sempre stata sospettata di essere la cabina di regia, più o meno occulta, di tale eversione. Eversione, fin dai suoi primi sviluppi, di matrice fascista.
Si tratta di dinamiche di non poco conto, come si può facilmente intendere, anche perché aderivano alla P2 i vertici del S.I.S.M.I., il Servizio segreto militare (col Generale Giuseppe Santovito), quelli del S.I.S.D.E., il Servizio segreto civile (col Generale Giulio Grassini), oltre che vari generali ed ammiragli delle Forze Armate (Donato Lo Prete, Capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza, tessera 1600; Giovanni Torrisi, Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, tessera 815; Walter Pelosi, Segretario Generale del C.E.S.I.S., il Comitato esecutivo che coordinava S.I.S.M.I. e S.I.S.D.E.); ma ancora – stavolta nei servizi segreti di raccordo con le Ambasciate – il Generale Vito Miceli, capo del S.I.O.S. (Servizio informazioni operative dello Stato Maggiore) poi Direttore del S.I.D. (Servizio Informazioni della Difesa)… Insomma, tutti personaggi che per contiguità di funzioni erano vicini agli ambienti in cui si svilupparono i tentativi golpisti che vanno dal “Piano Solo” del Generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo (anno 1964), alla “Notte di Tora Tora” del “Principe Nero” Junio Valerio Borghese, ex Comandante della repubblichina Xª Flottiglia MAS (7-8 dicembre 1970), passando per le inchieste giudiziarie sui piduisti Gian Carlo De Marchi (tesoriere della “Rosa dei Venti”, organizzazione segreta di stampo neofascista collegata agli ambienti militari; in tutto e per tutto paragonabile a “Gladio”, che costituiva un’altra sorta di “filiale locale” dei servizi di intelligence N.A.T.O. operante parallelamente – e su un piano superiore – alle strutture ufficialmente riconosciute), Adelino Ruggeri (Gruppo eversivo M.A.R.), Loris Civitelli (coinvolto nel “golpe bianco” del diplomatico anticomunista Edgardo Sogno), Agostino Coppola (implicato in storie di mafia) ed altri, pure coinvolti nella combine tutta romana di quegli anni tra banda della Magliana e clan dei Marsigliesi.
Anche di questo si deve aver piena cognizione. Come è necessario ricordare che proprio tra il ’92 ed il ’93 si svolse la cosiddetta “Trattativa Stato-mafia”, che vide successivamente indagati (con alterne vicende processuali) i vertici del R.O.S. (Raggruppamento Operativo Speciale dell’Arma dei Carabinieri), uomini politici e boss di cosa nostra.
Queste circostanze non possono essere accantonate se si vuol davvero capire cosa accadde nel Grande Oriente d’Italia tra l’autunno del 1992 e la primavera del 1993.
La questione morale e… gli Architetti Revisori
Di Bernardo racconta di aver fornito al giudice Cordova, anche in occasione degli incontri avuti con lui successivamente, tutte le informazioni in suo possesso circa le presunte attività illegali di Corona, a questi addebitate in attesa di essere valutate, confermate o smentite: dalla costituzione di Logge coperte al traffico di armi. Dalle sue pagine si evince, con estrema nitidezza, il desiderio di mettersi nelle mani dei tutori della legge e della sicurezza pubblica, probabilmente anche per evitare di incorrere in qualche provvedimento tipico di quella “giustizia-spettacolo” che allora era molto in voga. Sappiamo, infatti, stavolta dalle pagine di Pagella, che l’eventualità di un possibile arresto preventivo per il Gran Maestro e i componenti della Giunta era argomento di normale discussione tra i membri della stessa, seppur in vario modo esorcizzato.
Di Bernardo, tuttavia, non si limita a riferire i fatti a Cordova. Esacerbato dalla pesantezza della situazione chiede ed ottiene un incontro con Michael Higham, Gran Segretario della Gran loggia Unita d’Inghilterra. Così in pochi giorni si ritrova a Londra, in Freemason’ Hall, la sede storica della Massoneria inglese.
Higham aveva già conoscenza dello stato in cui si trovava il Grande Oriente d’Italia (essendone stato informato dai canali di intelligence inglese), tanto che parlò a Di Bernardo con estrema franchezza del ruolo che, secondo lui, egli avrebbe potuto svolgere: «Quando lasciai Londra, sapevo esattamente che cosa avrei fatto. Fu proprio in quei giorni che Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, in un nostro incontro riservato, mi disse: “Di Bernardo, questa per te è la grande occasione per eliminare le mele marce. Approfittane”. Al suggerimento, che esprimeva buon senso, diedi questa risposta: “La via che Lei suggerisce non posso perseguirla, almeno per due ragioni. La prima riguarda Corona, il quale ha modificato le Costituzioni dell’Ordine togliendo al Gran Maestro il potere di espulsione. Non avrei, pertanto, lo strumento per farlo. Inoltre, le mele marce sono di proporzione tanto elevata da rendere di fatto impossibile la bonifica. Appare più semplice tagliare la pianta divenuta sterile e piantarne un’altra”».
Intanto, gli attacchi contro il Grande Oriente d’Italia si intensificano. All’interno del G.O.I. si rimprovera a Di Bernardo di non saper difendere l’Obbedienza dalle indagini della Magistratura... un po’ perché sembra avere scarsa esperienza e preparazione per reggere l’urto di una così massiccia offensiva, soprattutto politica, un po’ per ragioni caratteriali. Velatamente, viene auspicato il ritorno di “Armandino” (come era sopranominato Corona) alla guida della Comunione. Momenti difficilissimi per il Gran Maestro, che viene a conoscenza di incontri segreti (vietati dai Regolamenti) a cui partecipano anche suoi “fedelissimi”, nel corso dei quali gli sono rivolte le accuse più infamanti. I suoi registrano le conversazioni e gliele fanno ascoltare... In un clima di crescente ostilità verso di lui, è, o sarebbe, Armando Corona a guidare la rivolta. Viene anche elevata una Tavola d’Accusa contro il Gran Maestro, il clima si fa incandescente…
Tutto ciò si concretizza in una questione piuttosto spinosa (che traiamo da diversa documentazione in nostro possesso): verso la metà di febbraio del 1993 fu perfezionata la bozza della relazione che accompagnava i Bilanci predisposti dalla Gran Tesoreria. Il 21 dello stesso mese Ermanno Poggiali, Presidente del Collegio dei Grandi Architetti Revisori, informò il Gran Maestro e poi gli altri membri della Giunta che la relazione da lui predisposta era stata approvata, nel consesso che presiedeva, dal solo Pietro Spavieri, trovando invece la contrarietà degli altri Revisori, e cioè di Antonello Zucco, di Michele Dolce e di Pippo Wrzy (secondo Di Bernardo, ricordiamo, fomentati da Corona). Costoro, con una relazione di cinque facciate scritte fitte fitte su foglio protocollo, mossero una serie di osservazioni, contestando l’onerosità degli emolumenti percepiti dal Gran Maestro, la presunta indeterminatezza e mancanza di chiarezza di alcune poste patrimoniali indicate nei conti e la necessità di esser posti nelle condizioni di poter esaminare più a fondo le partite contabili delle società controllate.
Quella che fu subito definita la “controrelazione” chiosava: «Per queste ragioni, questo Collegio ritiene di non poter aderire all’approvazione del bilancio consuntivo e soprattutto del preventivo come sono stati presentati. In questi termini è il nostro parere».
Il tutto costituiva un fatto della massima gravità. Cosa sarebbe accaduto al Grande Oriente d’Italia se in sede di Gran Loggia i Bilanci non fossero stati approvati? Un impasse pericolosissimo. Tra l’altro dalla durata incerta, poiché l’eventuale convocazione di una Gran Loggia straordinaria, per risolvere il problema, avrebbe richiesto alcuni mesi.
A questo punto si decise, dopo un’approfondita consultazione, che sarebbero state presentate ai “fratelli” due relazioni. Quella che muoveva le contestazioni ed un’altra, da prepararsi con grande scrupolo, tesa a smontare punto su punto gli argomenti dei Revisori “dissidenti”, i quali – sottolinea Di Bernardo – non avevano intenti “contabili”, bensì “politici”.
D’altro canto, il “Corriere della Sera” del 18 marzo 1993 titolava: “Massoni, venti di guerra”. Sottotitolo: “Corona attacca Di Bernardo con i maestri sardo-piemontesi”, replicando un modulo narrativo molto più adatto ad una formazione politica o partitica, che non ad una Obbedienza massonica. Vi si legge: «È guerra al vertice del Grande Oriente d’Italia. L’ex gran maestro Armando Corona ha chiamato a raccolta i suoi seguaci per cercare di spodestare l’attuale capo della massoneria, Giuliano Di Bernardo. L’appuntamento è per sabato all’Hilton, dove si terrà una riunione dei 700 maestri venerabili. Gli uomini di Corona si preparano a uno scontro duro. Tanto per cominciare hanno deciso di votare, all’assemblea di sabato, contro l’approvazione del bilancio. Inoltre, hanno compilato un elenco di accuse nei confronti di Di Bernardo, e vogliono dimostrare che la gestione di quest’ultimo deve essere considerata fallimentare, sia per l’immagine pubblica della massoneria, sia per il governo interno dell’organizzazione. Soprattutto non è piaciuto a numerosi fratelli il comportamento che il gran maestro ha tenuto di fronte all’inchiesta del procuratore di Palmi, Cordova, che ha richiesto e ottenuto gli elenchi della massoneria. In particolare, sono state criticate due dichiarazioni pubbliche di Di Bernardo. La prima, fatta durante la trasmissione “Milano, Italia”, la seconda in un’intervista. In sostanza, il gran maestro diceva: < Il lavoro di Cordova va bene perché ci sta aiutando a fare pulizia >. Una frase valutata assolutamente “inopportuna”. Anche perché, sottolineano gli amici di Corona, quando è stato necessario il Grande Oriente ha fatto pulizia al suo interno di propria iniziativa. E viene ricordato come il capo della P2 e i suoi accoliti siano stati a suo tempo espulsi dalla massoneria … In vista dell’assemblea di sabato, Armando Corona ha chiamato a raccolta i suoi. Nei giorni scorsi, avvalendosi soprattutto delle logge massoniche sarde e piemontesi, dove conta il maggior numero di seguaci, ha cercato consensi tra i fratelli di tutta Italia. Ha organizzato incontri, ha parlato a lungo al telefono con tutti i principali esponenti del Grande Oriente. La maggior parte delle logge sembra, comunque, divisa al proprio interno su quale dei due contendenti appoggiare. In ogni caso, anche ammesso che i 700 maestri venerabili riescano a sconfiggere Di Bernardo, sarebbe impossibile per Corona sostituirlo immediatamente, perché devono trascorrere almeno 5 anni prima che un ex gran maestro possa essere rieletto. Gli uomini di Corona hanno già pensato di aggirare l’ostacolo: vogliono proporre una sorta di “reggenza”, guidata da Corona, come ex gran maestro, e dall’attuale gran maestro aggiunto, Eraldo Ghinoi, seguace di Corona».
La Gran Loggia del 20 marzo 1993
La Gran Loggia del 1993 sarebbe passata alla storia come una delle più “difficili” di sempre. Sappiamo, dalle fonti che abbiamo consultato, che i Grandi Architetti Revisori dissenzienti si davano un gran da fare per intercettare personalmente tutti i “fratelli” presenti all’Hilton di Roma, illustrando concitatamente le ragioni delle loro contestazioni, mentre Armando Corona riappariva in un contesto ufficiale dopo oltre due anni di assenza. All’Oriente si sarebbero accomodati anche i Grandi Maestri onorari al completo, che costituivano una presenza minacciosa: avevano infatti chiesto al Gran Maestro di dimettersi, poiché – sostenevano – la perdita di prestigio di cui egli era ormai vittima lo rendeva inidoneo alla prosecuzione del mandato.
Così ricorda Di Bernardo quel giorno: «Dopo l’apertura dei Lavori, il 1° Gran Sorvegliante, Rosario Genovese, cominciò a raccogliere le richieste per gli interventi. Si formò una lunga fila di fratelli che volevano accusare il Gran Maestro e chiederne le dimissioni. Per consentire a tutti di parlare, si limitò a cinque minuti il tempo degli interventi. Dalle ore 11 della mattina alle ore 16 del pomeriggio, senza alcuna interruzione, mi furono rivolte le accuse più disonorevoli da un centinaio di massoni che concludevano il loro intervento chiedendo le mie dimissioni. Per tutto il tempo rimasi impassibile, seduto sul Trono di re Salomone, per ascoltare le infamie e le calunnie che mi venivano scaraventate addosso. Senza mai reagire alle provocazioni. Alle ore 16 concessi la pausa di un’ora. La motivazione era quella di consentire ai presenti di mangiare qualcosa. In verità, volevo che si verificasse un fatto da me atteso. Conoscendo Corona, davo per certo che avrebbe inviato una persona di sua fiducia per propormi un accordo. Era sua abitudine cavalcare l’onda. Mi ero chiuso nella mia camera e aspettavo che qualcuno bussasse. Tre colpi furono battuti alla porta e andai ad aprire. La sera prima mi ero arrovellato a pensare chi sarebbe stato il messaggero di Corona. Avevo fatto diverse ipotesi ma non avrei mai potuto indovinare. Pensai a una regola della mafia: colui che verrà a proporti l’accordo è il traditore. Chi mi avrebbe tradito? Aprii la porta e mi trovai di fronte Gianni Puglisi. Ero sbalordito. Puglisi era uno dei più stimati professori che insegnava all’Università di Palermo. Era Presidente di molte associazioni culturali. Poco tempo prima, insieme con Paolo Ungari avevamo costituito con atto notarile l’“Associazione per la difesa dei valori laici”. Era uno dei più fedeli collaboratori del mio progetto “trasparenza”. Lo feci entrare. Senza alcun imbarazzo, mi disse che “Armandino” (come lo chiamava lui), nonostante tutto, aveva sempre apprezzato la mia intelligenza. Sarebbe stato disposto a salvarmi, se avessi fatto un accordo con lui sul governo del Grande Oriente d’Italia. Ciò dimostrava che Corona aveva ripreso il totale controllo della Comunione, se poteva decidere da solo quale sarebbe stato il mio destino. Gli dissi di riferirgli che non ero affatto interessato alla sua offerta e che fra poco ci saremmo scontrati nell’arena della Gran Loggia. Da allora non l’ho più visto. Alle 17 ripresero i lavori e gli attacchi al Gran Maestro. Alle 18 diedi un colpo di maglietto e intimai il silenzio. Prima di cominciare a parlare mi sono guardato intorno. L’ultima cosa che ho visto è stato il Grande Oratore (Gustavo Raffi), che sedeva sulla mia destra, rivolgersi al Gran Tesoriere (Pietro Mascagni), che gli sedeva di fronte, che faceva il segno della croce rivolgendosi a me. Era certo che sarei stato crocefisso. Tutti erano convinti che avrei capitolato. Non fu così. In un silenzio di tomba, parlai. Forse per venti minuti, ma sembrò un’eternità. Se il corpo era del Gran Maestro, l’intelletto era del filosofo. Ciò che dissi è ancora vivido nella mia memoria e rappresenta forse la più sublime delle mie vittorie. Guardando tutti negli occhi, le parole cominciarono a defluire dalla mia bocca. Il silenzio regnava sovrano. Tutti si aspettavano che io giustificassi la mia incapacità a governare la Comunione e chiedessi sommessamente clemenza. Vi fu invece il boato delle mie accuse che rimbombavano nell’immenso salone dell’Hilton».
Pure la partita sui Bilanci fu vinta, e stando alla cronologia degli interventi di quel giorno anche prima del discorso di Di Bernardo. Venne infatti dimostrata l’inconsistenza delle critiche dei Revisori dissidenti, ma soprattutto, con argomentazioni non confutabili, venne smontata agli occhi dei presenti l’accusa che era stata ordita – sottotraccia – nella trama delle contestazioni, quella di “falso in bilancio”. Cosicché su 600 votanti solo 21, alla fine, si espressero contro Di Bernardo. Che in questo modo continuava ad essere, a pieno titolo, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.
Le dimissioni
In Gran Loggia, dopo l’intervento accusatorio di Di Bernardo, prese la parola Armando Corona, che – come risulta agli atti – difese il Gran Maestro e la Giunta nel nome di una concordia da ritrovarsi. La circostanza suscitò un certo stupore tra i più, ma non tra chi conosceva bene quel medico sardo che aveva avuto la ventura di guidare l’Obbedienza per ben otto anni, e lo sapeva uomo acuto ed intelligente, capace di battere onorevolmente in ritirata quando la situazione lo avesse richiesto. Ma se con il Gran Tesoriere Pietro Mascagni, a fine assemblea, ed in occasione di un capannello pubblico, parlò della necessità di un obbligato “ricompattamento” per il bene della Comunione, Di Bernardo riferisce che in separata sede il tono utilizzato nei suoi confronti fu molto differente: «Non finirà così!», avrebbe detto rivolto a colui che – almeno per il momento – lo aveva sconfitto.
Una cosa però è certa: dopo questi eventi l’imperativo categorico per il Professore diviene il ritiro dal Grande Oriente d’Italia. Giusto il tempo di essere nuovamente ricevuto in Freemasons’ Hall, per comunicare agli inglesi che... “alea iacta est”.
I motivi psicologici che portarono Di Bernardo a questa decisione li abbiamo già scandagliati; quelli concreti, da lui riferiti nel corso di una riunione ristretta al “Vascello” tenutasi in data 14 aprile furono, a supporto, le gravi ed intollerabili minacce ricevute da lui e dalla sua famiglia in quei mesi terribili.
«Il 15 aprile del 1993, consegnai al Gran Segretario, Alfredo Diomede, la mia “Lettera alla Comunione: Epilogo”, in cui spiegavo le ragioni del mio ritiro, con la richiesta di inviarla a tutte le Logge. Quella lettera non fu mai spedita e i fratelli non hanno mai saputo perché li ho abbandonati. La lettera così concludeva: “Il Gran Maestro, per coerenza con i propri ideali di vita e di pensiero, constatata la propria impossibilità a garantire che tutto sia giusto e perfetto, dichiara conclusa la sua opera al vertice del Grande Oriente d’Italia e rimette il Supremo Maglietto nelle mani della Gran Loggia». Con queste parole, ed accompagnato da Luigi Savina, Di Bernardo lasciava per sempre Villa il Vascello.
Il contraccolpo per il Grande Oriente d’Italia non poté che essere potente. La notizia viaggiò per i circuiti massonici come un fulmine, aggravata ancora di più – se possibile – dal fatto che solo quarantotto ore più tardi, all’Hotel Parco dei Principi di Roma, il “Professore Filosofo” fondava ufficialmente, e con la presenza significativa del già citato Yves Trestournel, Gran Segretario della Gran Loggia Nazionale Francese, un nuovo gruppo massonico composto da 107 “fratelli” transfughi dal G.O.I. (tutti di ritualità Emulation, e facenti parte delle seguenti Logge: “Keats & Shelley”, “Degli Antichi Doveri”, “Michael” di Roma, “Sir Horace Mann 1732” di Firenze, “Pericle Maruzzi” di Bologna e “Polaris” di Milano), che in assoluta segretezza aveva preso già forma – ma una forma da riempire con uomini in carne ed ossa – come Associazione non riconosciuta mesi prima.
Il “disconoscimento” inglese
La lettera di Di Bernardo, come da lui asserito, non giungerà mai ai “fratelli” del Grande Oriente d’Italia; Il 19 aprile 1993 la Giunta, riunitasi al “Vascello”, decide invece di incriminare il suo Magister Maximus dimissionario per “alto tradimento”. Toccherà al Grande Oratore Gustavo Raffi proporre la relativa Tavola d’Accusa… la condanna sarà alla “damnatio memoriae”.
Sono settimane concitate, in cui il G.O.I. viene massacrato da stampa e televisione nazionali: il 17 maggio 1993 “La Gazzetta del Mezzogiorno” pubblica un articolo dal titolo “Quarta mafia”, nel quale la Massoneria viene accomunata alle associazioni criminali e le Logge coperte descritte come luoghi di attività oscure e destabilizzanti; il 28 dello stesso mese il “TG3”, nelle sue edizioni giornaliere, accosta il Grande Oriente d’Italia alla mafia e all’eversione. Tanto che lo Studio legale dell’avvocato Virgilio Gaito, «a nome e nell’interesse della Giunta», indirizzerà due fermissime lettere di protesta. E della questione si informerà persino l’allora Presidente della R.A.I. Walter Pedullà. A scrivergli il Gran Maestro aggiunto Eraldo Ghinoi (colui che si era, o si sarebbe, detto «fedele collaboratore» di Gelli)…
Se al “Vascello” tali erano, in quel periodo, le preoccupazioni (il 2 luglio 1993 fu anche indirizzata una lettera all’On.le Luciano Violante, Presidente della Commissione parlamentare antimafia, con l’intento di aprire un canale di collaborazione), attraverso la fondazione della Gran Loggia Regolare d’Italia fu compiuto – ad opera di Di Bernardo – il primo atto volto ad introdurre, o applicare, in Italia il modello di Massoneria proprio della Gran Loggia Unita d’Inghilterra (U.G.L.E.). Ciò avrebbe significato una cosa sola: che iniziava, da quel momento, la lotta per l’ottenimento dei riconoscimenti internazionali, primo fra tutti – naturalmente – quello inglese. Senza tale riconoscimento la nuova Gran Loggia non sarebbe entrata nel circuito internazionale delle massonerie regolari (quelle, appunto, in reciprocità di rapporti con la Gran Loggia Unita d’Inghilterra).
Di Bernardo riferisce di come avviò, proprio in quei mesi, una costruttiva corrispondenza epistolare con Michael Higham, Gran Segretario dell’U.G.L.E., al fine di creare le condizioni più favorevoli al riconoscimento.
Annotiamo come i Regolamenti Generali della Massoneria inglese prevedono che il riconoscimento possa essere concesso soltanto ad una Obbedienza regolare. Tale fu riscontrato essere il G.O.I., che nel 1972 (esattamente 110 anni dopo che Costantino Nigra ne aveva fatto richiesta), essendo Gran Maestro Lino Salvini, ottenne quella patente, particolarmente onorifica, che si accompagnò alle numerose altre acquisite, da mezzo mondo, già nei lunghi decenni di vita della Comunione. A questo proposito è da dire che l’interpretazione dell’“esclusività territoriale” (secondo cui il riconoscimento può essere ottenuto da una sola Obbedienza in un determinato paese, interpretazione a cui si conforma lo stesso Di Bernardo) era stata una ricostruzione restrittiva del tutto “italiana”, mentre da parte inglese è stato più volte ribadito (da ultimo durante la Gran Maestranza Raffi) che a fondamento del riconoscimento è la “regolarità” e non la “esclusività”: possono essere riconosciute perciò, operanti in uno stesso paese, due o più Obbedienze e non soltanto una, a patto che ciascuna sia sorta dall’unione di tre Logge regolarmente costituite e consacrate.
Se ne dovrebbe oggi concludere che non fu per dare il riconoscimento alla Gran Loggia Regolare d’Italia che la Massoneria inglese ritirò quello al Grande Oriente d’Italia, ma per un (forse implicito) addebito al G.O.I. di Palazzo Giustiniani di aver derogato all’imperativo di estraneità alle logiche politiche e di aver ceduto (disobbedendo) in tema di altri qualificanti landmarks.
Fatto sta che il disconoscimento si concretizzò ufficialmente l’8 settembre 1993, preceduto da numerosi contatti formali tra il Gran Segretario Alfredo Diomede ed il suo omologo inglese, il potente Michael Higham. Contatti che sfociarono nel ricevimento in Freemasons’s Hall del solo ex Gran Maestro Armando Corona, alla sua ultima e più importante partita.
La visita di Corona a Londra, immaginata come udienza da chiedere per tranquillizzare gli inglesi, non andò come sperato al “Vascello”. Riportiamo di seguito la comunicazione riservata e confidenziale, datata 6 settembre 1993, attraverso la quale il Gran Segretario Higham fornisce a Roma la notizia che già dal 9 di giugno la Gran Loggia Unita d’Inghilterra aveva sospeso il proprio riconoscimento al Grande Oriente d’Italia:
Nella comunicazione, a sostengo di quello che sarà il successivo disconoscimento, vengono citati gli Allegati “A”, “B” e “C”: sommariamente essi si riferiscono alle informazioni e prove ricevute dall’Ufficio per gli Affari Generali inglese in merito all’esistenza di Logge coperte, al frequente e “simpatizzante” contatto di aderenti lombardi con “massoni atei” del Grande Oriente di Francia (durante la frequentazione dei loro lavori rituali), all’apertura dei lavori di Loggia senza la contestuale apertura del Volume della Legge Sacra, all’introduzione di donne nel Tempio durante le cerimonie funebri… ma, soprattutto, il riferimento è ad un presunto messaggio, datato 1989, rivolto dall’allora Gran Maestro Armando Corona al Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, per il tramite di una lettera fatta pervenire al Professor Aldo Mola (Direttore del Centro Studi della Massoneria e vicino al Gran Maestro francese), in cui lo stesso Corona avrebbe affermato di condividere l’impostazione “laica” (vale a dire agnostica, ai limiti dell’ateismo) dell’Obbedienza francese, in contrasto con l’impostazione della Gran Loggia Unita d’Inghilterra.
A questo proposito rammentiamo che la Massoneria di stampo inglese richiede la fede in un Dio, unico e buono. Questo non comporta, per il massone, credere in un Dio particolare, o in qualche particolare aspetto delle religioni positive, ma implica comunque una morale basata sulla Divina Provvidenza, connotazione assente nella Massoneria di marca illuminista.
La corrispondenza appena riprodotta fu dichiarata successivamente apocrifa sia da Corona sia dal Professor Mola, per mezzo delle dichiarazioni espresse nelle lettere che di seguito riportiamo:
A ciò bisogna aggiungere che il Grande Oriente d’Italia aveva già protestato (lettera datata 7 settembre 1993), con «totale disapprovazione e sdegno», avverso le determinazioni che si apprestava ad assumere la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, minacciando di intraprendere un’azione legale contro il “Board of General Purposes” inglese ed i suoi membri, così come contro qualsiasi informatore (ritenuto in malafede):
La Gran Loggia Regolare d’Italia
Archiviato il disconoscimento al G.O.I., l’8 dicembre 1993 la Gran Loggia Unita d’Inghilterra concesse il proprio riconoscimento alla Gran Loggia Regolare d’Italia (G.L.R.I.), assegnandole in tal modo una patente di legittimità e regolarità della massima importanza. Come fieramente annota lo stesso Di Bernardo nella sua autobiografia, per esprimere la più alta considerazione dell’U.G.L.E. verso la nuova Obbedienza, nata soltanto qualche mese prima, il marchese Lord Northampton fu nominato Gran Rappresentante dell’U.G.L.E. presso la G.L.R.I.; Lord Northampton in quel periodo rivestiva la carica di Assistente Gran Maestro ed era membro della “House of Lords”.
Il riconoscimento della Gran Loggia Regolare d’Italia venne preceduto, oltre che dalla sospensione e poi dal definitivo disconoscimento del G.O.I., da un altro atto che dimostrava l’assoluta volontà della Gran Loggia Unita d’Inghilterra di accogliere nel circuito della regolarità universale la nuova Obbedienza italiana; una lettera circolare datata 20 aprile 1993, firmata dal Gran Segretario Michael Higham, informò tutte le Grandi Logge del Mondo che nel nostro paese si era costituita la G.L.R.I., facendo espresso divieto, ai massoni inglesi, di visitare le Logge del Grande Oriente d’Italia.
Al riconoscimento inglese seguì, dappresso, quello della Gran Loggia Nazionale Francese (G.L.N.F.), il 10 marzo 1994, dopo che anch’essa aveva lo aveva revocato al G.O.I. in data 4 dicembre 1993, ed altri ancora s’aggiunsero di lì a poco.
Fra i primi di questa nuova “ondata” vanno ricordati quelli della Gran Loggia d’Irlanda, il 1° ottobre 1994, e della Gran Loggia dello Stato di Israele, il 5 marzo 1995. Un riconoscimento importante, quest’ultimo, soprattutto per il fatto che la maggior parte dei simboli che la Massoneria speculativa mutua dalla storia millenaria dell’umanità deriva proprio dall’Antico Testamento, e dalle vicende del popolo ebraico ivi descritte; si pensi soltanto al significato che il Tempio di re Salomone assume nel pensiero, e nei rituali, della Libera Muratoria.
Arriverà poi il riconoscimento della Gran Loggia di Scozia, in data 4 maggio 1995, per mezzo del quale la G.L.R.I. si troverà in reciprocità di rapporti con i tre “Garanti mondiali” della regolarità massonica (Grandi Logge di Inghilterra, Irlanda e Scozia), cui si deve la formulazione della Tavola dei “Principi fondamentali per il riconoscimento di una Gran Loggia”, emanata nel 1929.
La “Congiura dei Professori”
«La Gran Loggia di Venezia del 15 giugno del 1996, convocata per la mia conferma al rango di Gran Maestro, segnò l’apice dello splendore della Massoneria che avevo fondato. Nella città lagunare convenne il gotha della Massoneria mondiale. Tutti mi acclamavano come colui che aveva introdotto in Italia la vera e pura Massoneria inglese e stava riportando la Luce massonica nei paesi che si erano liberati della dittatura comunista. Il massimo di potenza evocativa si raggiunse con la “processione” delle cento gondole sul Canal Grande al calar della sera. Alla testa della processione, vi era la gondola dorata del Gran Maestro che ospitava il marchese Lord Northampton. Tutti indossavano i paramenti massonici del loro rango. Un Apprendista serviva champagne in calici pregiati. Con le ombre che cominciavano a calare e le prime luci che si accendevano, arrivammo in uno storico palazzo per la cena di gala. Le pareti affrescate dal Tiepolo e musiche immortali incisero nella mia memoria immagini indelebili. Dopo la mia rielezione, iniziò però un lento declino che trovò l’apice nella “Congiura dei professori” del 6 settembre 1997».
Introduce così, Giuliano Di Bernardo, il racconto di come anche il sogno legato alla Gran Loggia Regolare d’Italia si infranse, alla fine, sugli scogli dell’animo umano… Quell’Uomo “misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono”, stava nuovamente mostrando il suo lato oscuro...
D’altronde, la famosa frase del sofista Protagora (citato più volte dal Professore nella sua autobiografia) già reca in sé la più subdola delle antilogie!
Perché se da un lato essa esprime tutta la dignità dell’uomo di fronte al mondo, dall’altro mina ab origine qualsiasi possibilità di “fondamento” – per usare una terminologia adoperata all’inizio – insito nel giudizio dell’uomo, o meglio, nell’esperienza che l’uomo – ogni singolo uomo – ha delle cose del mondo. Questa, infatti, si troverà, volta per volta, a confliggere con la ragione, perché delle cose appare sempre un che di diverso, come se non esistesse mai un solo “logos”, ma sempre un logos e un logos “αντιθετικός”… tanto per l’etica come per la morale.
In questo modo, mancando il senso – e la possibilità stessa – della “Verità”, finisce per emergere la categoria della “Potenza”, che per sua natura non ha mai a che fare con il “giusto”, ma piuttosto con l’“opportunità”, la quale – a sua volta – è sovente strumento per la prevaricazione dell’uno sull’altro.
Comunque, portata questa riflessione e… ritornando alla vicenda storica, fatto sta che, come in passato nel G.O.I., il pretesto è nuovamente trovato nelle irregolarità di Bilancio!
I nuovi nemici non rispondono più ai nomi di Corona e Ghinoi, ma a quelli di Renzo Dionigi e Vittorio Collesano, entrambi professori universitari affermati e – per stessa ammissione di Di Bernardo – uomini dal grande spessore intellettuale. Entrambi entrati nella G.L.R.I. con il favore del Gran Maestro, allo scopo di elevare il livello speculativo della nuova Obbedienza. Cosa che, in effetti, si era concretizzata nella nascita di una nuova Loggia a Varese, la “Gerolamo Cardano”, cui aderirono successivamente allievi e colleghi dei due illustri fondatori.
La “fronda” venne organizzata mentre Di Bernardo si trovava all’estero: il “Consiglio delle Proposte Generali” si sarebbe svolto anche in sua assenza, i motivi avanzati erano “seri ed urgenti”. Neppure Savina, però, pareva saper nulla di preciso…
Alla fine Di Bernardo riuscì ad essere presente, tanto da poter sentirsi dire in faccia da Dionigi che si reputavano necessarie le sue dimissioni. Poi, in aggiunta e a titolo conclusivo: «…come già concordato con i Gran Segretari d’Irlanda, di Scozia e d’Inghilterra». E a riprova gli venne mostrata una lettera del Gran Segretario d’Irlanda, Michael Walker, in cui era auspicata effettivamente la sua sostituzione… L’imboscata pareva esser stata organizzata nei minimi dettagli.
Alla richiesta di conoscere le accuse rivoltegli, Dionigi dichiarò che si trattava dell’accertamento di irregolarità contabili. A quel punto Di Bernardo riferisce di essere stato preso da un profondo senso di frustrazione: «Non osavo crederci. Nel Grande Oriente d’Italia si era tentato di detronizzarmi accusandomi di irregolarità nel Bilancio. Nella mia Gran Loggia, mi si accusava dello stesso misfatto. Questa fu la prima conferma di come la Gran Loggia Regolare d’Italia si stesse trasformando per assumere le caratteristiche tipiche del Grande Oriente d’Italia. Tutto ciò che avevo fatto per dare all’Italia la Massoneria inglese cominciava a sciogliersi come neve al sole».
La proposta delle dimissioni fu messa ai voti, ma probabilmente non tutto era stato organizzato a dovere, poiché il Consiglio si ritrovò diviso a metà. Questa circostanza dette modo a Di Bernardo di esercitare la forza che gli derivava dall’impugnare il Supremo Maglietto; sciolta la riunione, impose ai congiurati di lasciare la Sala, promettendo loro che il giorno dopo sarebbero stati espulsi dall’Obbedienza.
Riannodate subito le fila delle relazioni estere, egli apprese (forse con sorpresa, ma anche con intima soddisfazione) come Lord Northampton cadesse dalle nuvole, professandosi completamente estraneo alla vicenda, e lo stesso successe con MacGibbon, Segretario della Gran Loggia di Scozia, che subito prese le distanze dal collega irlandese. Anche Higham più tardi si sarebbe scusato con Di Bernardo, affermando di essere stato – suo malgrado – portato dentro una vicenda che mai si sarebbe dovuta verificare. Walker fu così lasciato solo, con l’affanno di doversi giustificare per essersi indebitamente intromesso negli affari interni di un’altra Obbedienza.
In seguito, si accertò che effettivamente vi erano stati degli ammanchi di cassa, nonostante Di Bernardo avesse voluto che il Bilancio fosse certificato ogni anno dalla società di revisione inglese Ernst & Young (oggi EY). Ma queste mancanze furono di importo complessivamente modesto, tanto che il certificatore tenne sempre per buone le giustificazioni che nel frattempo gli arrivavano dal Gran Segretario Luigi Savina, il quale, affetto da infezione cerebrale causata dal virus dell’HIV, stava progressivamente sviluppando una forma molto grave di demenza, motivo che lo portò – con tutta probabilità inconsapevolmente – ad essere l’unico responsabile delle stesse, oltreché ad una morte prematura qualche tempo dopo.
Nuovamente, un epilogo
Espulsi i congiurati, che si portarono con loro quanti ne dipendevano per ragioni di professione o accademiche, per la Gran Loggia Regolare d’Italia inizia un lento periodo di declino. Coloro che restarono dettarono a Di Bernardo le condizioni del loro appoggio, mentre altri cui nulla fu concesso – è il caso della “Loggia degli Stewards” di Bergamo, lasciarono in toto – frustrati nelle loro aspettative – l’Obbedienza, determinando un ulteriore depauperamento.
A questa situazione fece eco il mutato atteggiamento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra (fin lì del tutto amichevole), la quale cominciò – proprio sul finire del decennio – a manifestare un sostegno via via più blando, fino a giungere alla formalizzazione di vere e proprie critiche.
La causa di questo progressivo allontanamento – riferisce Di Bernardo – sarebbe stata una lotta di potere interna alla stessa U.G.L.E.; infatti, un gruppo di “riformatori” cui avevano aderito anche il marchese Lord Northampton e Gavin Purser, Presidente del cennato “Board of General Purposes” (il Consiglio delle Proposte Generali), mirava a modificare i rapporti fra il Gran Maestro, il duca di Kent, ed il Gran Segretario. Michael Higham, a favore del primo, sul modello delle Obbedienze continentali.
Bisogna ricordare, a questo proposito, che nella Massoneria inglese il Gran Maestro ha un titolo (quindi una carica) di pura rappresentanza, soprattutto quando egli è contestualmente re d’Inghilterra. Con la conseguenza che a rivestire il ruolo di governo ed amministrazione è il Gran Segretario, figura realmente apicale in merito alle decisioni interne, e a quelle riferite ai rapporti internazionali, compresi i tanto importanti “riconoscimenti”.
Il fatto che fosse stato appunto il Gran Segretario Michael Higham a favorire il riconoscimento della G.L.R.I., e anche della Gran Loggia di Grecia, rendeva questi vulnerabile agli attacchi circa presunti errori di valutazione in tali sue decisioni. Le contestazioni, in realtà, avevano come primo obiettivo l’indebolimento dell’Alto Dignitario, per spingerlo a rassegnare le dimissioni dal suo incarico. Queste, tuttavia, ebbero come conseguenza generale (e forse imprevista) la messa in discussione di importanti rapporti internazionali. Una ricaduta si ebbe proprio anche nelle relazioni con la Gran Loggia Regolare d’Italia; un’altra conseguenza, medesima per logica ma di segno opposto, portò invece al riavvicinamento tra Gran Loggia Unita d’Inghilterra e Grande Oriente d’Italia, che tornò a sperare – proprio all’inizio del nuovo millennio, Gran Maestro Gustavo Raffi – nella concreta possibilità di riottenere il riconoscimento perduto.
In questo nuovo contesto, fatto di un mutato quadro delle relazioni estere, di un inasprimento delle tensioni interne ed una sorta di disillusione verso un destino che, nonostante ogni premessa ed ogni suo personale intento, sembrava ripetersi con inesorabile fatalità, Di Bernardo, il 15 dicembre 2001 (in seguito ad una regolare votazione), passò il Supremo Maglietto al suo successore.
Poi a giugno del 2002, considerando ormai conclusa per sempre la sua esperienza in Massoneria, il “Professore Filosofo” lasciò anche la Gran Loggia Regolare d’Italia, che aveva fondato esattamente nove anni prima, dimettendosi contestualmente da ogni altro incarico ricoperto nella Massoneria mondiale.
Un capitolo a parte: l’Europa dell’Est
Tra i ricordi più interessanti che Di Bernardo offre alla curiosità e alla fantasia dei suoi lettori figurano senz’altro quelli relativi alla riattivazione dei circuiti massonici nell’Est Europa, attività che segue alla caduta del Muro di Berlino del 9 novembre 1989 (data che si colloca a ridosso della sua elezione a Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia).
Riportare la Luce massonica in paesi che per lunghi decenni era stati sotto il giogo del socialismo reale (cioè quel socialismo de facto attuato nel blocco orientale, secondo la nota definizione di Brežnev) diventa per Di Bernardo non solo l’occasione per dar corpo gli ideali universalistici della Massoneria, ma anche una irripetibile occasione storica.
Così, il 20 ottobre 1990 a Budapest una folta delegazione italiana, guidata dal nuovo Gran Maestro del G.O.I., saluta la rinascita della Libera Muratoria in Ungheria. Al termine della cerimonia, conclusasi con i classici saluti augurali, l’appuntamento è dato per quarantott’ore dopo, nella piazza del Parlamento, quando il Gran Maestro ungherese Istvan Galambos e lo stesso Di Bernardo depongono una corona d’alloro ai piedi del monumento dedicato a Lajos Kossuth, patriota e massone, eroe nazionale del paese.
Ma gli eventi si susseguono ravvicinati, così è soltanto un mese dopo, a Villa il Vascello, che il Ministro degli Esteri della Romania Adrian Nastase viene ricevuto con i più grandi onori. Reca con sé una lettera ufficiale del Presidente Ion Iliescu al Gran Maestro Giuliano Di Bernardo, in essa è espressa la richiesta di ricostituire la Massoneria rumena sotto gli auspici del Grande Oriente d’Italia.
Di Bernardo vola a Bucarest poco tempo dopo, al fine di sondare il terreno e prendere i primi contatti. All’aeroporto viene accolto da alti funzionari dei servizi segreti e da Constantin Iancu, personaggio al centro di rapporti di altissimo livello ed iniziato in una Loggia dell’Aquila, ben conosciuto dal Gran Segretario Alfredo Diomede. Ne consegue l’incontro con il Presidente Iliescu nello storico Palazzo Cotroceni, sede della Presidenza della Repubblica rumena.
Iliescu spiega al suo ospite come, nonostante molte proposte ricevute dalle Massonerie europee, ritenesse che il risveglio della Massoneria rumena dovesse avvenire ad opera del Grande Oriente d’Italia, ciò in considerazione dei rapporti storici e di amicizia intercorrenti tra il suo popolo e gli italiani.
La trasferta a Bucarest costituisce anche l’occasione, per Di Bernardo, di incontrare, certamente con un sentimento… ambivalente, alcuni degli uomini da considerarsi tra i più influenti del nuovo governo, tra loro Virgil Magureanu, temutissimo Direttore del Serviciul Roman de Informatii (il Servizio segreto nazionale), ritenuto all’epoca della dittatura come l’autore o il mandante dei più atroci crimini contro il popolo rumeno, ed il Generale Victor Atanasie Stanculescu, Ministro della Difesa, l’uomo che fece tornare indietro l’elicottero che stava portando all’estero Ceaușescu in fuga, e che ebbe poi un ruolo decisivo nel processo che si concluse con la fucilazione dello stesso dittatore e della moglie Elena. Ma non solo: la frequentazione di paesi così a lungo isolati dalle influenze della cultura occidentale, con i suoi propri modelli economici e stili di vita, offre a Di Bernardo anche lo spunto per proporre alcune profonde e necessarie riflessioni critiche a cavallo tra due “mondi”: quello comunista, che si stava rapidamente dissolvendo e quello “nuovo”, nel quale tuttavia lo sviluppo delle sopraggiungenti realtà politiche, sociali ed economiche era affidato ad una classe dirigente i cui quadri provenivano dal regime precedente o con esso erano stati spesso pesantemente collusi.
Si arriva in questo modo al 24 gennaio 1993, quando, scelti i candidati per formare le nuove Logge tra esponenti di alto livello di quella società, ed “elevate le colonne” utilizzando Costituzioni e Regolamenti del Grande Oriente d’Italia tradotti in rumeno, in una solenne cerimonia si dichiara formalmente costituita e consacrata la Gran Loggia Nazionale di Romania, alla cui guida è posto Nicu Filip, uomo cui Di Bernardo riconosce una dignità adamantina, il quale viene installato sul Trono di re Salomone.
Sempre in questi primi anni di Gran Maestranza è da segnalare il suggestivo incontro con il potentissimo Patriarca della Chiesa ortodossa russa Alessio II, anch’egli all’inizio del suo mandato (era succeduto al suo predecessore Pimen I il 10 giugno 1990).
Favorito da Iancu e organizzato dal Segretario della Chiesa ortodossa rumena, l’incontro (non esente all’inizio da qualche piccola incomprensione diplomatica, poi superata in una piacevole conversazione durata fino alle prime ore del mattino successivo) si svolse in una Mosca invernale imbiancata dalla neve. Alessio II parla a Di Bernardo dei suoi progetti per ridare vita e splendore all’Oriente cristiano, e non lesina critiche a Giovanni Paolo II, accusandolo di inviare in Russia i preti polacchi e gli “uniati” (ovvero i cristiani d’Oriente in comunione – cioè uniti, da cui il termine “uniati” – con la sede apostolica di Roma), che consideravano il suo paese come una terra di conquista confessionale, in pura (e sgradita, anzi avversata) logica proselitistica.
Risalgono invece ai tempi della Gran Maestranza in G.L.R.I. i risvegli della Massoneria in Moldova ed Ucraina.
Di Bernardo riferisce come, proprio in questo periodo più avanzato di conoscenza dell’Est, egli avesse sviluppato una maggiore coscienza di tutte quelle rivendicazioni territoriali e di indipendenza, caratterizzanti i territori un tempo detti “d’oltre cortina”, che via via andavano lacerando i rapporti tra le Repubbliche ex sovietiche e Mosca, fino alle drammatiche situazioni che oggi ben conosciamo ed animano le più attuali cronache di guerra.
L’occasione per riprendere la missione del risveglio della Massoneria nei paesi dell’ex Impero sovietico si presentò il 23 ottobre 1996, in occasione di una ambasceria il cui intento era quello di sollecitare la costituzione in Moldova di una Gran Loggia simile a quella che Di Bernardo aveva fondato, o meglio: che più correttamente intendeva profilare, intimamente riformandola, in Italia.
Così nella primavera del 1997 Di Bernardo è a Chisinau, ricevuto nella capitale del paese dal Presidente della Repubblica Petru Lucinski, con gli onori di un Capo di Stato. Il “Professore Filosofo” racconta che per meglio omaggiarlo si tenne addirittura un concerto, presso il Teatro nazionale dell’opera e del balletto, cui parteciparono circa 300 persone, tra le quali 20 ambasciatori e 5 ministri, oltre a prestigiosi esponenti della società civile moldava (giornalisti, artisti, imprenditori e rettori delle locali Università), tutti desiderosi di conoscerlo e fargli sentire la loro calorosa ospitalità. In questo modo poté cominciare, da subito, la selezione per la costituzione delle Logge… Rispetto al passato non cambiava nulla, salvo – cosa non certo di poco conto – il rituale: stavolta Emulation, in perfetto ossequio alla tradizione inglese.
Il 15 ottobre 1999 a Chisinau si tenne finalmente la solenne cerimonia: avendo accertato l’esistenza di sette Logge, tutte regolarmente costituite e consacrate, operanti nel Distretto della Moldova, con le formalità di rito venne fondata la Gran Loggia di Moldova ed Anatoli Coman, proprio colui che ne era stato ispiratore con la sua ambasceria di tre anni prima, ne divenne Gran Maestro.
La costituzione della Gran Loggia d’Ucraina avvenne appena due giorni più tardi, il 17 ottobre 1999. A Odessa, Di Bernardo, accertata l’esistenza di sei Logge operanti nel Distretto d’Ucraina (“Hiram”, “Novoya Atlantida”, “Kosmopolitan”, “Zoloti Vorota”, “Svet Istiny” e “Obriy”), fonda la Gran Loggia d’Ucraina e nomina Valeriy Zaporozhan suo Gran Maestro.
Il rapporto instaurato con l’Ucraina è ricco di mille sfaccettature; lo stesso Gran Maestro italiano asserisce di essersi sentito, per la prima volta in vita sua, attratto da una città: Odessa. Odessa con le sue caratteristiche architetture ottocentesche, con il fascino “mediterraneo” dovuto alle tante influenze dei popoli marinari che l’hanno occupata nelle varie fasi della sua storia, con la celebre scalinata Potemkim, che “scivola” fino al faro Voronstov, sulla costa del Mar Nero, e con i tanti suoi altri luoghi stimolanti e meravigliosi…
La rinascita dell’Ordine massonico in Ucraina venne preparata con cura, e la testa di ponte fu proprio la Moldova, da sempre in rapporti stretti con la vicina nazione. È proprio a Chisinau, infatti, che Di Bernardo conosce Zaporozhan, rettore dell’Università medica di Odessa ed eminente personalità del suo paese.
Gli anni necessari alla costituzione delle sei Logge nel Distretto sono per lui forieri di molte esperienze, dall’incontro con il Presidente ucraino Leonid Kuchma, nell’inverno del 1997, alla scoperta del Teatro nazionale dell’opera e del balletto di Odessa, con le sue musiche immortali… dal silenzio quasi magico degli inverni, allo sbocciare di fiori variopinti in primavera, sulle rive del Danubio nell’oblast’ di Crimea. Da Sebastopoli a Yalta… sono pagine piene di pathos, queste delle cronache dell’Est, nelle quali si ha modo di scoprire l’anima di un uomo interessato alla natura e all’intimità dei suoi simili, dismessi per una volta gli austeri abiti del Gran Maestro e del personaggio pubblico dalle mille relazioni ed interessi ufficiali.
Poco tempo dopo i Gran Maestri della Gran Loggia Regolare d’Italia, della Gran Loggia d’Ucraina e della Gran Loggia di Moldova formano la “Federazione delle Gran Logge dell’Est Europeo”. Di Bernardo ne diviene il Gran Maestro federale, con un programma che prevede la fondazione di nuove Comunioni in Armenia, Georgia ed Azerbaigian…
Ma anche stavolta la ruota gira, e non tutto va per il verso giusto… Infatti, nonostante le Gran Logge d’Ucraina e Moldova avessero adottato le Costituzioni ed il rituale Emulation tradotti nelle loro lingue, il riconoscimento da parte della Gran Loggia Unita d’Inghilterra – atteso dai rispettivi Gran Maestri e da Di Bernardo – non arriva e non arriverà mai.
Una serie di mosse sbagliate, in tema di richieste di riconoscimento da parte di Coman, porterà addirittura al successivo disconoscimento della Gran Loggia di Moldova da parte della stessa Gran Loggia Regolare d’Italia, che ne aveva coltivato la nascita. Mentre Valeriy Zaporozhan, al momento del ritiro di Di Bernardo dalla G.L.R.I., deciderà di seguirne il destino, dimettendosi anch’egli da Gran Maestro della Gran Loggia d’Ucraina e conservando con il collega italiano un’amicizia destinata a durare nel tempo.
Nuovi percorsi
Con la conclusione dell’esperienza massonica, tuttavia, non cessa in Di Bernardo la volontà di continuare a sognare e progettare. È ancora una volta l’utopia a condurlo a fondare, già nell’estate del 2022, cioè a pochi mesi dall’allontanamento volontario dalla G.L.R.I., l’Accademia degli Illuminati, con la prima sede a Roma in Piazza di Spagna (dove resterà per sei anni). Tra i fondatori dell’Accademia (professori, filosofi, uomini d’esperienza nella comunicazione e qualche lobbysta) figura anche Giorgio Eldarov, archimandrita bulgaro di grande spessore culturale, Responsabile del programma di Radio Vaticana in Bulgaria per quasi trent’anni e contestualmente uomo dei servizi segreti, cui pure fu affidato l’incarico, da parte di Papa Giovanni Paolo II, di seguire la cosiddetta “pista bulgara” per l’attentato in piazza San Pietro del 13 maggio 1981. A questo proposito Di Bernardo riferisce che la proposta di accoglierlo nella nuova formazione gli arrivò direttamente dal Cardinale Pietro Parolin, all’epoca Sottosegretario per i rapporti con l’Estero della Segreteria di Stato del Vaticano. A dimostrazione dell’attenzione ricevuta dal progetto anche al di là del Tevere.
A questo seguì, dopo un’intensa fase di preparazione, la costituzione a Trento, il 6 giugno 2011, dell’Ordine Dignity, con la registrazione della relativa Associazione “Dignity. Ordine per la difesa della dignità dell’uomo”, il quale riprendeva un antico piano di lavoro risalente al 1991, quando – con forti sollecitazioni da parte di Luigi Savina, che era egli stesso ebreo – Di Bernardo ricevette al “Vascello” una importante delegazione di ebrei svizzeri, guidata dall’avvocato di Zurigo Joseph Guggenheim. La proposta fu quella di costituire, sotto la sua guida, una Fondazione internazionale per la difesa delle minoranze etniche, cui avrebbero successivamente aderito i vertici di Israele, e quelli ebraici di Stati Uniti e, ovviamente, Svizzera.
Scopo istituzionale di questo nuovo Ordine (ancora presente sulla scena pubblica e che raggruppa gli Illuminati che Di Bernardo definisce “operativi”) è la difesa della dignità umana, ossia – come si legge nel Manifesto fondativo - «della condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dalle sue qualità intrinseche e dalla sua stessa natura». Tale programma, esprimendo nella “dignità” una caratteristica universale, si prefigge di accomunare tutti gli “umani”, senza distinzione di sesso, età, razza, religione, lingua e cultura, determinandosi anche a superare il materialismo e l’utilitarismo imperanti attraverso una rinnovata fede in Dio.
Dignity è un Ordine internazionale, formalmente costituito in Austria con sede legale a Vienna, diffuso in tutto il mondo.
«E la Scala giace orizzontale»…
Proporre una riflessione critica sull’autobiografia di Giuliano Di Bernardo stimola il tentativo di dar conto, dal punto di vista culturale e filosofico, del limite insito in tutte le costruzioni umane. Queste, infatti, anche quando formate dagli uomini più valorosi e pervase dalle più alte idealità, è come se soccombessero continuamente di fronte a ad una tara congenita, quella costituita dallo scarto – sempre incolmabile – tra l’immaginazione e la concreta fattualità storica dell’azione.
A tutto ciò non sfugge la Massoneria in quanto società di uomini.
Ma sta qua, appunto, la questione. Perché se le considerazioni appena proposte sembrano addirittura pleonastiche, quando riferite a quelle aggregazioni umane contingenti che si formano nei movimenti, nei gruppi, nelle associazioni e nei partiti, le stesse pongono invece sofferte problematiche se applicate, come criterio interpretativo, a quel “fondamento” – già dichiarato “complesso” – che è proprio delle realtà tradizionali e iniziatiche, alle quali la Massoneria, nelle sue più autentiche espressioni ideali, pure appartiene.
Il prefiggersi scopi pratici come la costituzione di un particolare tipo di società, l’instaurazione di un certo modello economico, l’organizzazione di un caratteristico complesso religioso, ancorché finalità altissime delle strutturazioni umane, restano altra cosa dal fissare un traguardo che mira all’innalzamento dell’uomo, in quanto essere integrale, ai più alti valori etici e spirituali. Soprattutto quando il “metodo” attraverso cui raggiungere il risultato è una dottrina fondata sulla comprensione, ed il superamento, delle semplici categorie del bene e del male convenzionalmente profilate.
E qua veniamo al nocciolo del nostro ragionamento, ed alla domanda che vorremmo condividere con il Professor Di Bernardo e già a lui porgere: “Ha senso concepire un sistema rivelativo progressivo, che nelle intenzioni dovrebbe accompagnare lo sviluppo spirituale dell’adepto, se l’oggetto di questo apparato simbolico – cioè l'uomo in quanto tale – non è – né può essere – caposaldo dello stesso sistema?”.
Questo ci pare il punto, che è anche un tratto di estrema attualità sia per alcune vicende propriamente obbedienziali ancora in corso (e tanto più riguardanti direttamente la maggiore Comunione massonica nazionale), sia per svariati e brucianti fatti di cronaca (giudiziaria) non dissimili da quelli risalenti a trent’anni fa, come se il ripetersi ciclico delle cadute e degli errori certificasse, ogni oltre ragionevole dubbio, quell’inevitabile (e soffertamente prevedibile) “fallimento” che Di Bernardo non nasconde tra le righe della sua autobiografia.
E siccome di “fallimento” ha parlato anche il Professor Claudio Bonvecchio, insigne personalità accademica e Alto Dignitario della Massoneria italiana di secolare riferimento al Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, nella lunga, distesa ed approfondita intervista rilasciata a Giornalia.com poche settimane fa, allora ci sembra urga una riflessione più mirata sui limiti della Libera Muratoria così come si presenta in quanto fatto storico e sulle eventuali – se esistono – possibilità di rilancio.
Poiché è evidente che qualsiasi percorso concepito come orientato “verso” la Verità, ma che non sia esso stesso – in princìpio – “nella” Verità, sarà destinato per sua propria natura all’errore, e con ciò al fallimento. E quand’anche attraverso di esso si dovesse pervenire alla “Verità”, ma da estranei rispetto al suo più autentico significato, non varrebbe più quanto riferito da Luca (11, 9) nella Vulgata: «petite et dabitur vobis, quærite et invenietis, pulsate et aperietur vobis», perché giunti infine dinnanzi a quella soglia… nulla sarebbe dato, e la porta resterebbe chiusa.
D’altronde, è proprio nelle Lezioni prestoniane della ritualità Emulation, tanto care al Professor Di Bernardo e alla Massoneria regolare inglese, che si afferma: «Alla costruzione del Tempio di re Salomone, non si sentì mai il suono di attrezzi metallici … Le pietre furono tagliate nella cava e lì squadrate, scolpite, marcate e numerate». Intendendo, con ciò, che ogni singola pietra necessaria all’edificazione di quello che – ancora oggi – continua a rappresentare – per la Massoneria universale – il simbolo di una società giusta e coesa deve essere (già da sempre) “instrumentum” pronto all’uso.
Fuor di metafora, l’espressione riporta alla necessità che l’iniziato sia preparato nel proprio cuore, alla Grande Opera, non potendo in realtà ricevere, o saper recepire, nulla che già non possegga per grazia divina (sia esso l’ultimo degli “Apprendisti” sia esso il Gran Maestro in persona).
In questo senso la “Pietra Perfetta” sarebbe così non perché “levigata” da percorsi che sono, sovente, solo sterile teoria di “titoli”, “potenze” e “gradi” declinati in mille modi diversi, e variopinte distinzioni, ma perché – riferiamo sempre dalle Lezioni Emulation care al “Professore Filosofo” – «approvata dalla Squadra della parola di Dio e provata dal Compasso della propria coscienza», cioè da quei princìpi fondativi che un filosofo come Immanuel Kant, riportandoli all’unico modo in cui è possibile parlare di una vera conoscenza, quindi di “Verità”, riassume nella frase: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me», a conclusione della sua opera “Kritik der praktischen Vernunft”.
Detto ciò, forse potrà leggersi sotto un differente punto di vista la recente proposta del Professor Bonvecchio di aprire la Massoneria italiana (e nello specifico il Grande Oriente d’Italia) al riconoscimento di Legge e ad una rinnovata trasparenza, tanto nei rapporti interni (soprattutto in quelli che intercorrono tra gli associati ed il vertice politico-amministrativo) quanto verso la società civile, nella quale la Libera Muratoria opera e si muovono i suoi iscritti.
Tesi, tra l’altro, sostenuta dallo stesso Di Bernardo nel corso dell’udienza relativa al processo “‘Ndrangheta stragista”, tenutasi davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria (Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo), l’11 gennaio 2019.
Ed è proprio con questa commistione di filosofia, misticismo e pragmatismo che vogliamo concludere. In un sinolo che – se non sbagliamo clamorosamente, e per nostro esclusivo difetto – è Massoneria, è cioè quel campo nel quale si identifica o integralmente si compendia quella Libera Muratoria che è permanentemente all’esame della storia.
Che non sia proprio questo quel “fondamento intuitivo” evocato dal Professor Di Bernardo nei suoi scritti più genuinamente filosofici dedicati alla materia iniziatica?
«L’unica via per la ricostruzione del Tempio»: questo forse potrebbero dire, con competenza e addirittura sapienza, i massoni veri.
Particolare della XV ed ultima Tavola del Mutus Liber di Altus. La Rochelle, 1677, per i tipi di Pierre Savouret
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Gianfranco Murtas: “Per Armando Corona, memoria e sentimento”
Se, come si dice, ogni biografia è anche autobiografia di chi la scrive, mi pare vero anche l’inverso: che ogni autobiografia di per sé strettamente personale – come questa di Giuliano Di Bernardo – costituisca anche la biografia di un più largo ambiente o di un contesto sociale che comprenda dunque molti, compresi in pieno – né sarebbero gli ultimi – i suoi lettori. Sicché l’approccio alle pagine dell’autobiografia del filosofo ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, così come sono rese a noi dalla mediazione della scrittura leggera e insieme precisa ed intensa di Michele Campostella (e che la redazione di Giornalia.com mi ha chiesto di commentare), si è a me rivelato, immediatamente e consapevolmente, inclusivo. E se adesso oso aggiungere alle tante altrui anche alcune poche righe mie è perché avverto una certa, e sia pure marginale, chiamata alla partecipazione: proprio così, partecipazione ad alcune delle situazioni evocate ed una confessione – ma già cento volte liberamente resa – che afferisce ad una amicizia, non facile ma sempre sincera ed integra, che mi ha unito lungo quasi mezzo secolo al coprotagonista sardo del racconto autobiografico, a quel coprotagonista mio conterraneo che tante pagine occupa e domina nel libro di Di Bernardo. Mi riferisco ad Armando, o come noi e anch’io si diceva, Armandino Corona. Il quale emerge, nella resa testimonianza del professore, come una presenza complessivamente negativa, mentre io, certamente schermato anche dal trascorso affetto personale, ne ho una visione, direi una memoria, al netto positiva ed assai articolata, giusto nella logica del chiaroscuro, o dell’alternanza fra le tessere bianche e quelle nere alle quali feci allusione allorché la benemerita associazione Amici del libro mi chiese, nel febbraio 2010, a dieci mesi soltanto dalla scomparsa di quel leader, di parlarne diffusamente e per aspetti diversi.
E quando fui invitato a dare un titolo alla conversazione/testimonianza propostami ricordo che suggerii, quasi si trattasse di una inevitabile opposizione interpretativa, la formula de “la figura e la persona”. Per dire che della prima si era teso generalmente ad offrire, a seconda dell’osservatorio particolare, una esasperazione ora agiografica ora dileggiante, comunque impropria, mentre della seconda occorreva curare una rappresentazione assolutamente né angelica né demoniaca, ma semplicemente, e meravigliosamente, umana. Come avrei desiderato per me, come credo tutti quanti desiderino per sé, con spirito di verità e d’onestà intellettuale e anche di altrui carità.
Analogamente mi espressi nelle dichiarazioni che mi furono chieste, il primo giorno del lutto, alla radio ed ancora così fu, nel dicembre 2017, all’università di Sassari, quando mi venne conferito l’incarico di tracciare un pur sommario profilo di chi arò e mieté, nei terreni della Marmilla e nell’immediato dopoguerra, le sue iniziali esperienze professionali combinate a quelle politiche nel sardismo postbellico – quello che in progressione seppe guardare al centro-sinistra come evoluzione virtuosa del quadro di alleanze e di programmi legislativi dell’autonomia speciale – e seppe poi costruire tanto, e di materiale e di morale, sulla scena pubblica regionale e, dal 1969 in poi, in massoneria. Di lato a numerose e crescenti, e più spesso fortunate, avventure d’investitore, non di imprenditore (ma forse anche, inizialmente, di imprenditore delegante), che sempre ne accompagnarono il nome nella conoscenza delle banche e del mercato speculativo. Ed anche – mi permetto un’osservazione dilla partigiana – di lato ad un conclusivo, mestamente conclusivo, dileguamento dalle antiche idealità sardo-azioniste e di rimando democratico per finire nel frastornamento che le penose frodi del berlusconismo e delle sue scatole vuote, gravosamente politiche (o di contropolitica), imposero, ad un certo punto, alla nostra povera Italia.
Resta Corona, nel mio giudizio, il migliore (con Pietro Soddu) nella visione delle potenzialità dell’unità autonomistica messa in cantiere e avviata, in Sardegna, nella seconda metà degli anni ’70; resta il migliore, nonostante qualche appannamento per voler tutto afferrare, nella grande scommessa antigelliana ed antiP2 fra i giustinianei dei primi anni ’80; resta il migliore – sia consentita questa semplificazione – nella fissazione, ancora non per breve tempo, delle sintesi fra l’esperienza locale isolana e quella della macroscena o macrostoria nazionale che l’affiancamento a personalità d’eccellenza (per moralità e sentimento patriottico, per sentimento istituzionale e servizio all’interesse generale) come Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, nella politica, come Augusto Comba in massoneria, gli aveva all’inizio suggerito, sussumendo, ma mai soffocando, in Roma caput mundi e caput Italiae ogni periferia familiare e sentimentale, in Roma tanto Villaputzu e Senis quanto Ales e Cagliari…
Nei testi pubblicati (tanto più in quelli curati da Giovanni Greco e Gian Carlo Lucchi) anche in tempi recenti ho insistito su tale accostamento così come non ho nascosto – vi abbia io ragione oppure no – l’insidia che ad un certo punto, proprio nella capitale, mi pare ne segnò o minò, in progressione, le antiche coerenze, inducendolo a cedere alla rete del potere ingordo e mai soddisfatto, lui che pur aveva quintali di saggezza sarda in testa e nativa bontà nel cuore. Così in una Roma divenuta sede di traffici in incrocio e che schizzi non commendevoli nei comportamenti saettava all’incontrario verso l’Isola, fino in Consiglio regionale del quale pure egli aveva tenuto, con evidente sacrificio personale e per oltre un anno, una onorevolissima (e non cercata) presidenza.
Resta di lui in me la memoria del medico appassionato della sua missione e fedele esistenzialmente al giuramento di Ippocrate, medico educatore di medici ed attento e delicato assistente di quanti, anche sconosciuti e magari attraverso ponti impossibili, a lui si rivolgevano per una indicazione certa di sperati rimedi di salute, in Italia ed all’estero. Resta l’immagine dell’uomo sensibile ai minimi quali che fossero e incontrasse nella sua strada (e addirittura cercasse di sua iniziativa!), resta il miliardario che si fa autista, su una utilitaria coraggiosa nella confusione della circolazione cittadina, di un ragazzo di vent’anni per arrivare in tempo, insieme, a salutare un amico storico e giornalista prossimo alla morte e con Asproni nell’animo, resta il miliardario che a quel ragazzo di vent’anni che studiava a casa sua dedicava ore di confidenza tutta personale, raccontando senza vanto alcuno delle sue ricchezze che però voleva allora frenare, senza astinenze s’intende! per darsi interamente al servizio della politica: ripeto, certamente privo di eroismi di facciata, ma con qualche pragmatismo moderatore e anche con disciplina severa e capacità realizzativa.
E in continente? e in massoneria? A Roma arrivò, ma partì dal Sulcis-Iglesiente. Giunse in loggia, a Carbonia, quella volta che era l’ultima settimana di ottobre del 1969 quando era già consigliere regionale e da cinque anni assessore provinciale con competenza alla sanità psichiatrica. Uomo fatto e già esperto di tutto, alle soglie dei cinquant’anni, professionista affermato (e bravo), medico specialista ed amministratore e direttore sanitario di una importante casa di cura, benestante e benvoluto, capace di meravigliosa (e anche furba) empatia per dono di natura e per scuola di paese, titolare di un consenso politico-elettorale personalmente coltivato anche se non sempre al meglio affidato alla custodia dei collaboratori. Arrivò in loggia da sardista e suscitò qualche dubbio in un 33 scozzese che forse temeva un’insufficiente affezione alla patria italiana, e che infatti chiese e richiese precisazioni giunte infine perfette. Fu accolto e trovò nel Tempio sulcitano diversi dei suoi, della Carbosarda, come Mario Tuveri, e degli altri (l’altra famiglia sardista dei Melis) come Tiberio Pintor che lo iniziava libero muratore, insieme con i repubblicani mazziniani di Ghigo Galardi, i socialdemocratici di Carlo Biggio e i socialisti di Peppino Tocco. E quanti altri, come i Dedoni, galantuomini tutti, galantuomini perfetti, professionisti di valore.
Due anni a Carbonia, alla Giovanni Mori n. 533 – non assiduo a causa degli impegni in Consiglio ma presente sempre nelle fattive interlocuzioni parallele – per trasferirsi poi nella più impegnata loggia cagliaritana, la Hiram n. 657 che era allora al maglietto di Mario Giglio e lo era stata a quello di Sabino Jusco, lo storico dell’arte che amò la Sardegna quanto i sardi, tra la Soprintendenza e il liceo artistico di cui era stato fra i fondatori un quindicennio prima. Personalità d’oro alla Hiram, con Franco d’Aspro e Ciccio Pitzurra, Ignazio Cella e Hoder Claro Grassi e tanti altri, personalità d’oro anche presso la loggia-madre Nuova Cavour n. 598 (di prevalenza scozzese e liberal-moderata) e alla Giordano Bruno n. 656 con Carlo Anichini, l’oceanografo di rinomanza scientifica ed accademica nazionale e internazionale. Preziosa, nel circuito latomistico cagliaritano del tempo, la sponda tutta “civile” della Sigismondo Arquer n. 709, al tempo affidata al maglietto di Francesco Bussalai e forte di uomini come Francesco Masala, Antonello Satta, Anton Francesco Branca, Umberto Lecca, Rinaldo Botticini e Sergio Caddeo e quanti altri, né tutti socialisti o tutti lussiani. Fu quella una scuola formativa, come poteva esserla statoa, in altri tempi, quella universitaria: fu la scuola massonica frequentata da Armando Corona a Cagliari, e fu veramente una scuola di primissimo livello: laica e riflessiva, critica e responsabile.
Di quella compagine rituale, radicata nella cultura dei simboli e aperta alla socialità solidale ed alle produzioni culturali, divenne nel 1975 il Secondo Sorvegliante e l’anno successivo il Maestro Venerabile, mentre anche in politica impreziosiva le sue maturazioni. Nella sede del prestigioso palazzo Chapelle e poi in quella nuova e moderna di Genneruxi affermò una leadership naturale, non rubata a nessuno, proprio come avveniva anche sulla scena pubblica e istituzionale del Consiglio regionale e poi della giunta, quando anche a livello nazionale il suo partito Repubblicano gli consegnava – per volontà di Ugo La Malfa – la responsabilità della presidenza probivirale.
Conosceva il mestiere per dote d’intuizione naturale oltre che per lezioni ricevute ed assimilate. E con lui, in un grande “gioco di squadra” – gioco civile, nobilissimo – quanti altri, uomini come Paolo Carleo, come Carlo Maxia, come Salvatore Gusmeri confluiti nella nuova loggia Risorgimento n. 770 e come quelli del rispettato decanato come Vincenzo e Giuseppe Delitala, Tancredi Pilato e Beppe Loi, sulla scia della semina (ora al tramonto) di Alberto Silicani e (ancora potentemente energica) di Mario Giglio – che bene avevano raccordato Cagliari con Carbonia e Oristano, con Sassari e con Nuoro e anche la Gallura – ecco lo sviluppo, il primo grande sviluppo della Libera Muratoria isolana. Moderna, capace di importanti elaborazioni – ci si ricorderà almeno del convegno internazionale sul diritto d’asilo, promosso dalla collegata Lega Italiana dei diritti dell’uomo (e cui io stesso collaborai non poco) – che, per dover esse rimanere recluse ancora nel recinto del Tempio, furono, non di meno, cosa concreta e d’impronta.
Il dirigente politico e il dignitario massonico salirono insieme, alla fine degli anni ’70, gli ideali gradoni che portavano a responsabilità apicali. Assessore regionale e presidente dell’Assemblea, per tre mandati consecutivi in Consiglio regionale, leader del suo partito del quale era stato, con altri, costruttore da zero, associando la frazione italianista del sardismo al cenacolo dei fedelissimi mazziniani dei Saba, dei Burrai e dei Puddu, fu in crescendo un negoziatore – lui uomo di estrema minoranza ma pur ecumenico come nessun altro – di quote di potere soltanto all’apparenza cadette, intercettando commissariati e segreterie tecniche invece che presidenze pompose. Contò qualcosa, non poco davvero, nelle aree delle Opere pubbliche o del sistema sanitario, interospedaliero, Crespellani e dell’Oncologico intitolato ad un clinico d’oro, uno scienziato luminare, che era stato anche un azionista mazziniano resistente antifascista come Armando Businco. Conobbe e fu anzi regista di una rete virtuosa di servizi alla società, saldando con abilità l’amministrazione degli apparati alla politica delle decisioni.
Conoscendo, per il suo ufficio di presidente nazionale dei probiviri repubblicani, realtà politiche (più spesso intrecciate a quelle massoniche) dell’Italia tutta, dal Piemonte alla Sicilia maturò crediti di affidabilità, per dimostrato equilibrio, nelle correlative gerarchie di Palazzo Giustiniani: presidente della commissione elettorale nazionale dopo le dimissioni anticipate del gran maestro Lino Salvini (già lui impigliatosi nella ragna gelliana) e primo presidente della Corte Centrale del GOI dal 1978; e quando, dall’inizio dell’estate 1981, Giovanni Spadolini assume la presidenza del Consiglio dei ministri, ecco il sardo rispettato e rispettabile che è chiamato, con i capigruppo PRI di Camera e Senato, alla operativa vicesegreteria nazionale dell’Edera.
Poi le complicazioni. L’impeachment cui fu inchiodato dalla parte comunista del Consiglio regionale per abuso di potere: per aver accordato, negli anni della presidenza, una proroga di otto mesi all’editore Caracciolo nella custodia delle azioni destinate alla cordata (ancora non formatasi) degli imprenditori sardi che avrebbero dovuto sottoscrivere il 48 per cento del capitale azionario della Nuova Sardegna salvata dal fallimento della SIR… una vera e propria commedia orchestrata per punirlo dall’aver fatto pendere il suo voto – e chissà se infine scegliendo per il meglio – a favore del ritorno del centro-sinistra al governo regionale, contro la passata maggioranza frontista, socialcomunista e sardista.
Restò consigliere regionale ancora per due anni pieni quando venne chiamato alla gran maestranza, ma non frequentò più l’aula, impoverendo così, e anzi privando, della sua rappresentanza l’opinione che lo aveva eletto. Il che gli fu contestato in un crescendo polemico all’interno del suo stesso fierissimo partito, e con conseguente penoso avvelenamento di relazioni personali che pur duravano, salde e fertili, da venti o trenta o quarant’anni!
Se il dirlo qualcosa conta, potrei testimoniare la mia vicinanza a lui, strettissima, ancora nelle stagioni di bonaccia e una successiva distanza quando l’uomo di potere ormai condizionato da coordinate indecifrabili, a Palazzo Giustiniani (e poi al magnifico Vascello), non impose, così in politica come nell’intesa corporativa, regole convenzionali portatrici di ricadute, e di cadute ritenute incongrue e infine non accettabili. Salvo sempre l’affetto che superava il rigore delle militanze, salvo il rispetto reciproco, salve fortunatamente le convergenze sugli amori che avevano unito, per lungo tempo, l’anziano e il giovane: per la storia autonomistica magari, per l’arte plastica di Franco d’Aspro magari, per la comunità salvatrice di padre Morittu magari.
Che la gran maestranza fosse, oltre a tante altre cose tutte virtuose, anche la sede di importanti negoziazioni – e già basterebbe a darne un’idea l’accredito presso l’estero, cioè presso circuiti massonici esteri, di dignitari portatori di interessi pubblici e privati – mi fu chiaro già in quei primi anni ’80 (che erano gli anni in cui forse neppure erano nati molti di quelli che oggi passano per sommi sacerdoti ed archimandriti e poi insolentiscono e sfregiano nientemeno che Bovio e Mazzini, il presidente Mattarella ed il Venticinque aprile).
Ho memoria pressoché precisa di quanto l’episodio della perquisizione della Finanza pesò su quanti, come me, a Corona erano legati da sentimento puro. E se oggi Di Bernardo riferisce di contratti per la fornitura di armi conclusi dalla Selenia, azienda di Stato (della filiera già IRI e Finmeccanica), con alcuni governi africani, grazie anche alla mediazione del gran maestro del Grande Oriente d’Italia ne provo sgradevolezza ma forse non sorpresa assoluta. Perché sempre occorre distinguere fra traffici malavitosi e illegali e mercato, sia pure mercato riservato e protetto da segreto di Stato. E comunque, giustamente distinguendo, resta quel tanto su cui merita interrogarsi.
Non credo di essere in alcun modo all’altezza di pronunciare considerazioni definitive, valgono per me quelle dimensioni romantiche e tutte morali che dovrebbero qualificare istituzioni civili che la storia ha chiamato alla pratica dell’umanitarismo e della democrazia. La Libera Muratoria fra esse. E però, cogliendo sempre il chiaroscuro che è nelle situazioni come nella vita degli uomini, resta un interrogativo anch’esso senza risposta: se il gran lavoro del giudice Cordova, venuto dopo quello del giudice Palermo e, come quello, approdato a nulla – per limiti che non saprei attribuire a chi – e che inchiodò il GOI (a anche altre Obbedienze) per anni e anni, e costò moltissimo alle casse pubbliche, meritasse davvero il sacrificio di 18mila processi finiti, come dice Virgilio Gaito, in prescrizione. Inclusi quelli che dovevano inchiodare qualche signore della ndrangheta.
E non credo neppure di dover entrare, in questa sede, sul campo della lettura critica della gran maestranza Corona, misurando e pesando, oltreché lo stile, il merito di innumerevoli specifiche questioni iscritte nell’agenda del tempo e trattate sempre in chiave di corresponsabilità. Verrà forse il momento e s’esalterà il chiaroscuro. Ma credo che abbia fatto bene il professor Di Bernardo a rendere esplicita, e ricomposta, la sua testimonianza su episodi particolari, di essi cercando e forse trovando un fil rouge interpretativo del tutto.
Del molto o moltissimo soltanto mi permetto di esternare, per debito alla mia coscienza azionista, il rammarico che proprio negli anni della gran maestranza Corona – del sardo che amò Giorgio Asproni – subì come una derubricazione, nel calendario d’onore del Grande Oriente d’Italia, la ricorrenza del 20 Settembre che un tempo apriva l’anno massonico e divenne, con la nuova costituzione, la semplice apertura della seconda sessione annua dei lavori fraternali. Perché la società liquida che oggi soffriamo per il tanto che essa avareggia di riferimenti ideali e patriottici (alla mazziniana s’intende, non all’abusiva corrente), e già quel pensiero debole teorizzato da Vattimo che aveva registrato, quarant’anni fa, le scombinazioni valoriali paiono eredità anche di quel voler fare, in apparente distanziamento dalla politica, “da qui in poi”, senza retaggi o con liberi alleggerimenti. Alleggerimenti di troppo. Mentre noi, noi tutti, massoni o non massoni, umanisti e negoziatori, siamo tutti figli di una società e di una storia di cui dobbiamo conoscere trama e ordito per trarne lezione e intelligenza per il virtuoso necessario avanzamento.
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