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Gianfranco Murtas

Lettera dal non tempo. «Io, Erminio Magnini, cagliaritano classe 1877…». Appunti per una biografia minima (parte terza)

di Gianfranco Murtas

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Era stato impiantato da poco quel nostro cantiere nella vecchia proprietà Piroddi, fra la via Roma e la via Baylle, dirimpetto al palazzo colonnato dove vivevamo al primo piano, quando una nuova avversità, crudelissima, si abbatté sulla nostra casa: la malattia di Mario e poi la sua morte. Fu un dolore per me, quella morte, che mi portai dentro per anni, fino all’ultimo, e forse preparò esso stesso, giorno dopo giorno, quel che avvenne il dodici dicembre del millenovecentonove.

Aveva frequentato il Dettori – ginnasio e liceo – il mio Marietto. Un anno di ginnasio lo fece anche al Siotto, su a Castello, nelle aule che erano state il convento antico degli scolopi. Un punto proprio magico di Cagliari, all’ombra della torre dell’Elefante e alle spalle della chiesa, che era bellissima e grandissima, e sfortunatissima (per via delle bombe del 1943), di San Giuseppe Calasanzio. Forse non era granché brillante nel profitto, Marietto, ma comunque era sempre sufficiente, dignitosamente sufficiente, soprattutto però era stimato e benvoluto per il suo carattere. Fra i suoi compagni di classe, al ginnasio, aveva avuto anche nostro cugino Fedele Angelino, con loro era anche, per fare soltanto un nome, Giacomo Arbanasich, figlio del pastore protestante della chiesa battista di Cagliari, un triestino tutto Mazzini e Gesù che aveva l’oratorio, in quel temnpo, fra la via Sassari e il Corso. 

Una malattia di poche settimane, poi lo perdemmo Marietto. E i funerali, centinaia di persone, restituirono a lui quel che meritava. I compagni di scuola con la bandiera del liceo e i professori dettorini che parteciparono con una bella corona di fiori, così i canottieri dell’Ichnusa – lui stesso era un nostro socio, data l’età era una promessa – e gli operai dell’ebanificio dei fratelli Clemente, tantissimi notabili cittadini, impresari e commercianti amici di famiglia fra cui anche i Marini, una gran quantità di doni floreali portati al camposanto dal carro funebre e da altre due macchine padronali, naturalmente gli zii e il cugino Piero venuti da Iglesias. Arrivati a Bonaria, prima della tumulazione, presero la parola ed espressero i loro sentimenti i professori Arezio e Arullani – quello stesso della licenza liceale di Gramsci al Dettori pochi anni dopo –, un compagno del liceo, il ragionier Lucchi della Canottieri. Era il luglio del 1899, l’ho detto prima. Ad aprile erano venuti a Cagliari re Umberto e Margherita con mezzo governo e noi eravamo stati coinvolti per via dell’ospitalità che fummo chiamati a dare al gen. Pelloux allora presidente del Consiglio.




In quello stesso anno, a novembre, perdemmo lo zio Giovanni Angelino. Gli eravamo affezionati, l’ho raccontato. Abitava in un palazzo abbastanza vicino al nostro, quello delle poste e telegrafi nella parte alta della via Baylle. Ci affascinava il suo vissuto: era stato direttore di una miniera di diamanti in Brasile, credo di proprietà di una società belga, e in sud America aveva preso una certa malattia, la cosiddetta febbre gialla, da cui non guarì mai completamente; subì anche un assalto da parte di una banda di malavitosi, questo raccontava... 

Un po’ di Massoneria in famiglia

Era piemontese d’origini, di Casale Monferrato; dal Genio civile s’era pensionato da pochi anni. Sembrava anziano, ma non lo era più di tanto, aveva 61 anni quando lasciò vedova la zia Marietta e orfani i miei cugini Fedele ed Erasmo che erano ancora al liceo. Fu allora che la zia e i cugini si trasferirono di casa, restando sempre alla Marina, ma alle Scalette Santa Teresa che collegano la piazza del liceo Dettori e dell’Archivio di Stato (che aveva occupato l’antica chiesa gesuitica di Santa Teresa) con la via Manno. Fu in quella nuova casa che anche la zia Marietta ci lasciò, assai più giovane del marito perduto, giusto tre anni dopo, novembre 1902: appena 44enne, quasi come mio padre! Allora ci occupammo noi dei ragazzi, per far loro completare il liceo: quindi Fedele raggiunse gli zii a Travedona e si iscrisse prima a Medicina poi a Veterinaria a Milano – ricordo che a Milano mio fratello Silvio aveva intanto già trasferito la sua famiglia –, mentre Carlo Erasmo frequentò ancora a Cagliari il biennio di ingegneria – era socio della Corda Fratres – e poi, ben assistito dai parenti Angelino, continuò al Politecnico di Torino, città in cui fu pure iniziato alla Massoneria, proseguendo in questo l’esperienza del padre che infatti chiamava Dio “il Supremo” e conservava in bella mostra un diploma con molti ghirigori AGDGADU e simili. Fecero belle carriere, e l’uno e l’altro, Fedele nel Milanese, fu quasi un pioniere di San Giuliano Milanese allora borgata agricola dove ancora vive sua figlia Rita – donna formidabile ora con la sua età e il culto sempre vivo per la famiglia –, Carlo Erasmo in Africa orientale, al tempo della colonizzazione fascista, occupandosi delle ferrovie in Eritrea. Non ha avuto discendenza, mentre Fedele no, lui l’ha avuta e bella oggi anche sparsa internazionale… Aveva sposato una Rusconi, e delle tre figlie, sorella di Rita che ho citato poco fa, Carla sposò un Gavazzi, da cui altri figli fra cui Laura che sposò un Belloli… Un filone tutto al femminile. E oggi un Belloli – Andrea, giovane avvocato – sta lavorando a ricostruire la storia della famiglia, fra Lombardia e Sardegna e Lombardia di nuovo…


 



M’era rimasta di tutti quanti loro una grande nostalgia, quando perdemmo gli zii e quando perdemmo – ma era un… perdere per andare avanti, nell’età adulta e nella professione – i cugini. Quando me lo raccontarono fui sorpreso e anche affascinato… perché mi sembrava una favola, che gli zii si fossero sposati, nel lontano 1873 – io non ero ancora nato –, lui già uomo maturo di 36 anni e lei invece ragazzina mi pare di quattordici o quindici anni soltanto. Ci fu bisogno di dispense speciali rilasciate dal vicario generale della diocesi monsignor Ortu e le nozze si celebrarono a Sant’Anna. I figli arrivarono molti anni dopo – una decina addirittura – e coronarono i loro desideri finalmente.

Conosco le lettere che lo zio Giovanni spediva a mia madre nelle sue permanenze lombarde, cui talvolta si associava anche la zia Marietta. Solo in casa, quelle volte, forse era preso da una grave malinconia e le confidava i suoi stati d’animo: la rendita pensionistica era poca cosa, gli impegni verso le necessità di studio dei figli erano rilevanti: «se mancassi, dessa rendita si assottiglierebbe vieppiù e lascierebbe certamente in pensiero la buona mia consorte»… Caro lo zio Giovanni! Nel monumentale di Bonaria lui e la zia Marietta sono stati posti abbastanza vicini, nelle gradinate Cima, abbastanza vicini anche alla nostra postazione… monumentale, con l’angelo dalle ali spiegate, come volle mia madre Battistina dopo la scomparsa di Mario. Purtroppo quelle degli zii Marietta e Giovanni sono tombe andate in malora per la mancanza di manutenzioni.

Il filone rimasto fedele ad Iglesias

In Sardegna rimase lo zio Carlo, anzi Carlino come dicevamo noi: ad Iglesias impiantò una conceria a vapore che fu poi anche premiata all’Expo di Torino del 1898; preparò quella attività, fuori Porta Sant’Antonio, e anche la accompagnò per anni con vari commerci che furono tutti fruttuosi, ne ho accennato prima. Fu un bravo uomo d’affari, investì nel mattone a Iglesias, si disse che, fra i proprietari di case, fosse il più facoltoso, padrone di più di quaranta case, chissà… Aveva acquistato dai frati domenicani di Iglesias il convento che questi stessi avevano riscattato dopo l’esproprio da parte dello stato, al tempo delle leggi eversive… 

Della sua conceria esiste qualche foto e qualche descrizione suggestiva che racconta un pezzo di Iglesias del tempo antico, il mio stesso! «Conclusa via Eleonora, che presentava qualche sottano in più ma per il resto è rimasta quella di un tempo, si giungeva alla porta della città, il cosiddetto “solco” di S. Antonio. Sulla sinistra c’era il giardino della famiglia Gerini, in prossimità del quale sorgeva il casello del dazio. Più avanti, dopo il bivio d’una stradetta che ricongiungeva a via Campidano, si ergeva, elevata rispetto alla strada la chiesetta campestre di S. Antonio. Di fronte, a destra della strada principale, stava la conceria dei fratelli Magnini, una struttura risalente al 1899 che costituiva uno dei poli d’attrazione per i ragazzi sempre in cerca di diversivi. In quel grande fabbricato venivano trattate le pelli ovine e bovine smerciate nei magazzini di Ginetto Canè a S. Salvatore. Tutt’attorno, all’esterno, venivano stese le pelli degli animali. Al pianterreno stazionavano enormi botti ad asse orizzontale ove venivano introdotti gli agenti conciari e le pelli. Poi, tramite un meccanismo, le si faceva ruotare per ore. I ragazzi miravano quello spettacolo che si svolgeva proprio a ridosso della cinta muraria della città…».

Era ancora un ragazzino quando i Magnini, dico suo padre e i fratelli più grandi, approdarono ad Iglesias, doveva avere forse undici o dodici anni soltanto, era del 1851. Anche lui piuttosto piccolino di statura e sempre con una gran voglia di fare, restò ancora qualche tempo a Travedona per le scuole e per qualche lavoretto di formazione… fu registrato come caffettiere al tempo della chiamata militare, poi raggiunse i fratelli ad Iglesias. Fu in continente di nuovo appunto per il servizio di leva, soldato del distretto di Como, mandamento di Gavirate, circondario di Varese. Dal 1873, avuto il congedo illimitato e dopo una sola chiamata per istruzione, fu ormai libero di fare anche lui la sua vita. Riuscì bene come i suoi fratelli maggiori, e fece anche famiglia quasi subito tornando in Sardegna. 




Lo zio Carlino aveva sposato Annetta Nespola di Isili, la patria di Ghiani Mameli il banchiere e deputato. I Nespola avevano – come i Meloni famiglia di mia madre Battistina – un qualche grado di nobiltà, credo la cosiddetta “nobiltà di campagna”: donna Annetta aveva sposato lo zio Carlino, le sue sorelle donna Maria Giuseppa ed donna Agostina avevano invece sposato, rispettivamente, Biagio Valizzone – funzionario pubblico, ispettore demaniale delle tasse e credo qualche altra cosa, da cui ebbe una figlia, Carlotta – ed un Devoto, della grande famiglia di origine ligure, importanti armatori e commercianti: con lui, con Gerolamo Devoto cioè, la zia fece ben dieci figli, i più sono restati nella storia economica e professionale di Cagliari lungo tutto il Novecento, ma io vorrei ricordare – perché sfortunato – Efisino, quel cuginetto coetaneo di mio fratello Mario: nel camposanto di Bonaria c’è una commovente statua che lo riprende in un seggiolino col capo reclinato… “Cattivo, perché non ti svegli?” gli chiedevano i genitori addolorati…  

Mia zia Annetta aveva dato due figli allo zio Carlino: Piero ed Elisetta. Elisetta, purtroppo, anche lei bambina, se ne andò presto, a tre anni, nel 1882, mentre Piero, il grandetto – pochi mesi più di me – fortunatamente ebbe sempre buona salute e proseguì e sviluppò le attività paterne, anche se non ebbe vita molto lunga anche lui. Visse, Piero, una vita associativa piuttosto intensa ad Iglesias, partecipò a varie iniziative sociali a sostegno per esempio del ricovero di mendicità. Era anche uno sportivo, un ciclista da giovane, proprio come me, e come me partecipò anche a delle gare per esempio in occasione delle feste ferragostane sassaresi, quelle dei Candelieri. Mi riferisco agli anni di fine Ottocento. Fu anche consigliere del direttivo della società ginnastica Iolao di Iglesias, al tempo della presidenza del dottor Giuseppe Boldetti… dei Boldetti che erano arrivati anche loro, press’a poco nei nostri stessi anni, da Travedona a Iglesias… 

Dicevo prima che appartenne anche lui ad una loggia massonica che riprendeva il nome del famoso conte della Gherardesca, il quale nel Duecento, ancora nel tempo dei Giudicati e prima dell’arrivo degli aragonesi, era stato fra i grandi padroni dell’Iglesiente… Sposò bene, Piero. Sposò Stella Gerini, una ragazza bellissima, forse la più bella di Iglesias, figlia di un vecchio garibaldino. E debbo dire che anche nella conceria di zio Carlino di garibaldini e figli di garibaldini ce ne furono: ricordo soprattutto Aurelio Galleppini, romagnolo di nascita con moglie aritzese, anche lui dignitario della loggia Ugolino, nonno del famoso Galep dei fumetti di Tex… Dovrei aggiungere che di garibaldini ce n’erano altri nell’azienda di Iglesias: ricorderei in particolare Raimondo Locci, che apparteneva anche lui alla loggia ed anche alla società del Tiro a segno. Era cagliaritano di nascita, aveva partecipato, quand’era ancora giovane, alla campagna del 1866, quella della liberazione del Veneto dal dominio austriaco. Era di confessione evangelico-battista, e ai suoi funerali fu commemorato appunto dal delegato della comunità protestante oltre che dal professor Attila Zerbini per la loggia e dal sindaco Fontana, pure lui massone, per il Tiro a segno.




Fu in quegli stessi anni della scomparsa di Raimondo Locci, che poi sono anche quelli che preparano la mia morte, che la mia famiglia – almeno nel filone dello zio Carlino, e precisamente nei Gerini che dettero Stella in sposa a Piero, come ho detto – visse qualche riflesso di gloria pubblica e godette anche di un bel benessere…

Debbo fare una premessa: Stella era figlia di Teobaldo, livornese di nascita, e di Antonietta Raffo. Teobaldo fu un “prode garibaldino”, come anche fu inciso nel cartiglio di pietra al camposanto quando morì nel 1894, poco più che cinquantenne. In Sardegna fu caposervizio della mineraria Malfidano, visse in relative ristrettezze. Ebbe, come figli, oltre a Stella, anche Adele maritata Oliviero, Cesare, Giulio e Dante: Giulio per qualche tempo, intorno al 1912-1913, fu presidente della locale sezione della società nazionale Dante Alighieri, il sodalizio che accompagnava i nostri emigrati nelle terre di approdo. Entrambi condivisero le sue idealità patriottiche. Sia Cesare che Dante operarono in Tunisia, nel settore estrattivo, ma partirono, con le loro conoscenze geologiche, proprio dalla Sardegna. Nel 1912, perciò dopo la mia morte, Dante cedette le sue permissioni di scavo e sfruttamento dei minerali di ferro del nord-ovest isolano: le vendette ad una nuova compagnia appena costituitasi a Firenze ad iniziativa del comm. Giorgio Olivetti, patron dell’Ilva, e denominata Società Nurra. Fu un bell’investimento per la Nurra, per quel territorio detto dell’Argentiera, ma anche per i Gerini, per Dante in particolare che capitalizzò quel che aveva speso cinque anni prima.

Nella colonia italiana di Tunisi gli vennero altri riconoscimenti. Aveva partecipato, Dante, giovanissimo allora, ad alcune campagne d’Africa, al tempo del colonialismo crispino. A Tunisi s’era creato un circolo garibaldino, e a lui dettero la presidenza. Ne scrissero i giornali locali e quelli sardi ripresero la notizia. Come presidente della Società dei militari in congedo – sarà stato appena tre quattro mesi prima della mia morte – egli ebbe dal governo francese una onorificenza detta delle “palme accademiche” e la commenda governativa del Nichan-Ift kar. Accompagnò queste soddisfazioni morali alle altre materiali, economiche cioè, che gli vennero dalla professione e dai commerci: fu dirigente minerario e fu anche uomo d’affari nella compravendita di permessi di scavo e sfruttamento. E quando dall’Isola partirono i goliardi per visitare la Tunisia, Dante era lì, anfitrione e guida competente del territorio che mischiava molto l’Africa mediterranea alla cultura e agli interessi sia della Francia che dell’Italia. Di lui si parlò a lungo per i meriti non soltanto tecnici e manageriali, diciamo imprenditoriali e capitalistici in campo minerario (per i giacimenti di piombo e zinco di Diebel Oust), ma anche per quelli patriottici, militari e garibaldini, buon figlio di tanto padre. Così in Tunisia ma anche in Spagna e Marocco…



Dello zio Carlino vorrei invece ricordare una speciale benemerenza. Fu il patron di una banda musicale. Iglesias aveva la sua municipale di bravi orfeonisti, ma per risparmiare sul bilancio qualcosa come 300 lire, il Consiglio finì per sopprimerla all’inizio degli anni ’90: allora io, ragazzino, ero ancora Milano a studiare… Lo zio cercò, di tasca sua, di rilanciare quel corpo musicale dicendosi pronto ad acquistare dal Comune gli strumenti da affidare ai vari componenti della banda. Ma la giunta si mostrò esosa e non se ne fece niente. Al che lo zio si rivolse a Firenze, non saprei a chi, e comprò tutta la strumentazione necessaria affidandola al maestro Floris, il quale si era preso il carico di organizzare e dirigere quella ventina di musicanti… 

Dovrei anche raccontare della vetreria Sanna, la vetreria di Edoardo Sanna, che pure si ricollega a vicende familiari e imprenditoriali Magnini, ma allungherei troppo… ne riparleremo. Di Edoardo vorrei soltanto ricordare che fu in loggia, a Iglesias, con Piero mio cugino, il quale si spense nel 1925, anticipando di tre anni suo padre... Avvenne a Cagliari, all’Ospedale civile dove era stato trasportato d’urgenza da Iglesias per un ictus. Non ci fu nulla da fare. La banda musicale accompagnò il feretro tornato ad Iglesias. Stella gli sopravvisse quarant’anni e più. Si risposò con Bernardino Cardone e se ne andò già ormai molto anziana nel 1964.

Ad Iglesias Stella - mio cugino Piero ne era innamoratissimo – è stata un mito, una dea dannunziana, tutti favoleggiavano di quel “giardino degli Dei” che era diventato il suo mondo dorato, donatole dal marito ma io credo che molto venne anche dalle fortune economiche dei fratelli Gerini… Quel giardino fu allestito e curato, per quanto ne sappia – io ero allora già morto – dai prigionieri austriaci confinati in Sardegna al tempo della grande guerra. Era bellissima, sempre elegante, viaggiava, spesso anche all’estero fra Svizzera e Francia… Aveva un suo calesse, sapeva di essere un personaggio. Di lei hanno scritto in diversi sempre con ammirazione… Mi pare che fosse nel 1907 la volta che diede il meglio di sé, affascinando ancora di più gli iglesienti che da sempre erano affascinati da lei, dalla sua spontanea signorilità: alle feste della Madonna del Buoncammino, una delle più importanti ad Iglesias, partecipò come le altre signore e signorine della buona società offrendo qualcosa. Qualcosa? Non ebbe limiti: due meravigliosi cuscini arabi in raso seta e filigrana, sei ventagli giapponesi, due grossi spilloni d'argento per signora, una parure d'argento per uomo, tre “sandriero” di porcellana, un bellissimo portafiori in cristallo di Sèvres, tredici statuine di “bisquit”, e sempre di porcellana “bisquit” che la diceva lunga in quanto al gusto del tempo, tarda belle époque iglesiente! anche due elegantissimi portafiori, tre bomboniere, due portaspecchi… Insomma, un carro di cose inutili, assolutamente inutili, ma belle, per insaporire le case.

Della famiglia Gerini associata alla nostra Magnini vorrei anche richiamare la bella figura di Dante jr., Dante di cognome Oliviero, figlio di Adele, che di Piero e Stella fu il nipote prediletto: prese la carriera militare, Dante, era pilota dell’aviazione di Stato, avrebbe partecipato come tenente anche alla guerra di Spagna negli anni ’30. 

C’è poi un altro filone sassarese che viene dallo zio Carlino, è un’altra storia interessante che potrei raccontare, ma per adesso basta così. 

Invece vorrei ricordare rapidamente la discendenza iglesiente, la discendenza dello zio Carlino – che sarebbe morto nel 1926, lo stesso anno di mia madre Battistina – e della zia Annetta, che invece morì prima di me, nel 1902, lo stesso anno della zia Marietta sposata Angelino, e giovane anche lei di soli 46 anni... Ebbero Piero, oltre alla sfortunata Elisetta, e Piero e Stella ebbero Giampaolo, e da Giampaolo il cognome è poi passato a Patrizia, Edoardo e Stellina, come poi da Edoardo è passato a Gianluca e da Gianluca al piccolo Nicola che ha otto anni soltanto e una gran voglia di studiare… ricostruendo, come con i pezzi Lego, la storia della sua famiglia sardo-lombarda… 

Certamente, dei tanti ero soprattutto affezionato a mio cugino Piero – registrato Pietro, in memoria dello zio caduto nel curvone poi detto “sa orta de Magnini”, in agro di Urzulei un mese prima, in quell’inizio d’estate del 1876. Morì all’inizio di settembre del 1925, un anno prima del padre. 

Quelle nozze nella cappella dell’arcivescovo e l’ultimo ritorno

Una gioia in casa mia, pur se anche quella diminuita dal trasferimento in continente che ne sarebbe conseguito a Milano prima che a Roma, fu il matrimonio di Mariuccia, la mia sorellina. Era il 1905, lei era ancora minorenne, aveva frequentato l’Eleonora d’Arborea, la Normale femminile cioè – che era la scuola chiamatasi poi Magistrale; prima aveva frequentato il corso cosiddetto complementare, a Castello, sempre nello stabilimento della via Lamarmora che un tempo era stato il monastero della Purissima: licenza complementare nel 1898, quella normale tre anni dopo. Sposò l’ingegner Enrico Mellini un romagnolo che era un importante funzionario del ministero dei Trasporti, precisamente della motorizzazione civile, che aveva allora una carriera brillantissima. Gli capitò anche di guidare la delegazione italiana nelle trattative intergovernative, a livello europeo, per armonizzare alcune tratte ferroviarie dopo l’apertura della galleria del Sempione avvenuta proprio quello stesso 1905, direi nei giorni stessi del matrimonio. Mariuccia ed Enrico si erano conosciuti quando lui, quasi ad inizio di carriera, era un funzionario tecnico delle Ferrovie secondarie sarde. Aveva il grado di sotto-ispettore di seconda classe dell’ispettorato ferroviario quando, nel 1903, venne trasferito da Cagliari a Foggia. La lontananza evidentemente non aveva intaccato il bel rapporto d’amore con Mariuccia, avevano messo in progetto le nozze. Che furono celebrate nientemeno che dall’arcivescovo di Cagliari, monsignor Pietro Balestra, francescano conventuale, nella cappella dell’episcopio su a Castello. Fra i testimoni di Mariuccia era il professor Luigi Arezio che era un amico di famiglia: quello stesso che aveva preso la parola per commemorare Mario, al camposanto, sei anni prima.

Vissero felici, pur senza figli, Mariuccia ed Enrico. Per il grosso nella capitale, avevano una casa bellissima, indipendente, fra la città e la campagna, in zona di Pietralata. Trascorse molti anni anche di vedovanza, Mariuccia, sempre assistita dalle fedeli Ester e Savina Mereu, fino a che non si decise di tornare a Cagliari, ma da morta: il che avvenne nel 1980. I funerali si celebrarono nel santuario di Nostra Signora di Bonaria e lei fu poi sepolta nella tomba di famiglia fatta allestire da mia madre e dove anch’io la attesi. Ci separarono ben 71 anni! io ero lì dal 1909, lei arrivò nel 1980. Mia madre era morta nel 1926 e la riebbe con sé, questa figlia, negli spazi segreti del camposanto, cinquantaquattro anni dopo. C’è una fotografia di madre e figlia scattata appena un mese prima che mamma Battistina cedesse all’età… Altre foto ritoccate col colore ci rendono Mariuccia com’era, piccolina, in quei primi anni ’90 dell’Ottocento, c’è anche un ritratto bellissimo – lei vestita di rosso – opera nientemeno che del Bilancioni, credo amico dello zio Giovanni, massone anche lui e autore di molte bellissime pitture in Camera di commercio o in certe chiese cagliaritane come Sant’Antonio di via Manno, ma anche a Sassari, come il palazzo Giordano Apostoli…




Il calendario, gli anni e le misure del tempo, oltreché gli spazi fisici, sono cose del mondo… Penso adesso alle coincidenze, alle combinazioni del calendario: Ester Mereu era nata poche settimane prima del mio suicidio, quasi avessi voluto o dovuto dare a lei il testimone, la missione di custodire nell’età avanzante mia sorella… 

Naturalmente debbo chiudere questa rassegna con mia madre. Donna Battistina era minuta, minuta ma forte, forte nel fisico e soprattutto nello spirito, misurata in ogni cosa, sobria nel vestire ma direi anche elegante con quelle gonne lunghe… Il suo mondo era costituito insieme dalle relazioni e dalle cose, belle le une – le relazioni – e belle le altre – le cose, e anche le case –. 

Le sue relazioni erano in primo luogo con la famiglia, con noi figli, tanto più con noi figli dopo la precoce vedovanza. Si può immaginare cosa voglia dire restare vedova con quattro figli di cui uno soltanto grandetto – Silvio – e due bambini com’eravamo io e Mario – otto anni io, due Mario – e la piccolina venuta al mondo già senza padre… Fortunatamente la vicinanza dei cognati, soprattutto di Marietta e Giovanni Angelino, che avevano bambini piccoli anche loro in quel tempo – dico Fedele e Carlo Erasmo, dopo la perdita della piccola Edvige –, l’aiutò molto. Ma anche i parenti di Iglesias furono presenti, e noi con loro. Altrettando direi, nonostante la distanza, anche con gli altri nostri parenti in Lombardia i rapporti furono sempre positivi, e prolungate le sue e nostre permanenze nel Varesotto. Però debbo dire che, per quanto fosse una donna molto riservata, mamma Battistina – donna Battistina la chiamavano tutti – manteneva rapporti con molte altre persone fuori della famiglia, a Cagliari soprattutto: con i Loi, la famiglia di Eva, così prima come dopo il matrimonio di Silvio, con amici che erano entrati in qualche combinazione d’affari con papà Galeazzo, con la parrocchia…

Ma insieme con le relazioni fiduciarie, quelle personali cioè, io metterei, a dire del suo mondo, le “cose belle”, come le ho definite prima. Mi riferisco in particolare alla casa, anzi alle case. Era stata lei, con l’aiuto soprattutto di Silvio, ma per una sua speciale capacità di progettare il futuro per il benessere dei suoi figli e dei suoi nipoti che sperava sarebbero venuti al mondo, a volere il palazzo sorto poi sulle rovine della conceria dei fratelli Piroddi. 

Del palazzo tutto bow window e ancora il trionfo pompeiano

Si sa, tutta la via Saline – più tardi l’avrebbero chiamata via Sardegna, parallela alla via Roma – era affollata di concerie. L’odore nauseabondo che risaliva da quelle lavorazioni e le esigenze crescenti d’ordine igienico imposero negli anni fra ’80 e ’90, il trasferimento, uno dopo l’altro, degli opifici. Press’a poco per la stessa ragione erano state chiuse o allontanate dal centro is osterieddas, alberghi popolari dove sostavano in riposo anche gli animali, buoi e cavalli, che ogni giorno portavano dalla campagna le derrate per il mercato. Neppure dimentichiamoci che tanto negli anni ’80 quanto anche successivamente, ai primi del nuovo secolo cioè, per qualche vibrione arrivato dal mare – da Napoli si disse – s’erano diffuse in città epidemie coleriche che si faticò a debellare ricorrendo molto alle quarantene nel lazzaretto di Sant’Elia, ma intanto numerose famiglie soffrirono dolorosi lutti… 

Le concerie, dicevo, erano lì, a ridosso della porta medievale di Sant’Agostino, poi abbattuta: erano lì da ben cinquecento anni – mezzo millennio! –, dal tempo degli aragonesi! Bisognerebbe dire anche che l’inaugurazione del mercato, il famoso Partenone, nel 1886, accrebbe ancor più il bisogno di sanificazione della zona e quindi anche di trasformazione edilizia dell’intero compendio dove cinquant’anni dopo sarebbe sorto anche il palazzo della Rinascente e dove intanto fu allestito quel “baraccone” attrezzato per gli spettacoli diventato poi il cine-teatro Iris dei fratelli Mazza. Si allontanarono le concerie dei Loddo, dei Manca, degli Spissu, dei Gavaudo, e di altri ancora, anche dei Piroddi. In provincia erano una trentina, allora, gli stabilimenti conciari, ad Iglesias c’era anche quello dello zio Carlino divenuto fra i più moderni per le sue tecnologie e premiato anche all’expo del 1898 di Torino… Dunque anche i Piroddi, Salvatore e Lugi, direi anche Antonio ed Aurelio – il quale aveva la rivendita a su Condottu, cioè nella via Gio.Maria Angioy di Stampace – specializzati nella lavorazione di pelli per guanti, vacchette, schiappe di suola e particolarmente di suola bianca, se ne andarono, trovando nuovo spazio verso il viale San Pietro, oltre la chiesa dei carmelitani… Noi comprammo, mia madre comprò.

Il cantiere fu innalzato fra il 1898 e il ’99 e durò qualcosa come un lustro, alcuni appartamenti furono pronti già nel 1901, li demmo in affitto già quell’anno. Il caffè Torino di Palenzona arrivò nell’estate 1903, trasferendosi dai locali che aveva nella stessa via Roma ma verso la via Barcellona. Tre piani, quello stile moderno dei bow window, di cui ho già accennato proprio facendo riferimento al nostro appartamento, nel piano alto del palazzo. L’ho già detto ma lo ripeto. Il gioiello lì era, a parte il mare che si vedeva dalle tante finestre della casa, anche dalla mia stanza che faceva angolo con il lato di via Baylle, la sala pompeiana. Nella Guida di Cagliari del Corona, dico quella dell’edizione 1894, ce n’è una descrizione. Per parte mia, io l’ho già descritta, ma mi sembra bello integrare adesso, con quelle poche ma indovinate righe di Francesco Corona: «Posta al piano ultimo del palazzo Magnini, in via Roma, essa rivaleggia con la prima – il riferimento qui è alla sala egizia del signor Giovanni Zamberletti –, sia per le pitture, che per il ricco mobilio artistico. Misura circa ottanta metri quadrati ed è in stile pompeiano. Gli affreschi sono del pittore Conci Giuseppe, il quale si rivela artista, massime nella vera riproduzione dei fiori. Ammirabile l’affresco della volta, parco di tinte e di grande effetto. Il mobilio, che ritiene della mollezza e sveltezza pompeiana, fu provveduto anch’esso dallo stabilimento Clemente di Sassari. Pure del Conci – aggiungo io: primo maestro istruttore del ben noto Cesare Cabras monserratino – sono le pitture delle altre sale, fra cui emerge uno splendido quadro a mezza parete nella sala da pranzo».

Tra le pitture del professor Marchisio – le famose vestali – e quelle di Conci, e anche le decorazioni liberty che egli aggiunse di suo gusto raffinato, veramente la casa di donna Battistina Meloni vedova Magnini, e di noi altri figli – mia soprattutto, ché Silvio e Mariuccia ormai venivano sì, con qualche frequenza, ma insomma ormai s’erano trasferiti in continente – era una piccola reggia: una reggia borghese nella via Roma della capitale della Sardegna. Esserne stati orgogliosi mi pare legittimo! 

In questa casa mia madre visse molti anni, una ventina circa, gli ultimi suoi anni purtroppo con una salute malferma, assistita da alcuni nipoti, da alcune amiche, dalle collaboratrici di casa. C’erano, a starle vicino, Leonida e Raimondo Puddu, miei cugini originari di Gesturi, c’era la signora Margherita Capra – dei Capra della Vinalcool – e la signora Ada Granata… Lasciò il mondo la mattina del 4 maggio 1926, con tutti i conforti della sua religione. Aveva ormai 81 anni, fu assistita fino all’ultimo da Maria Luisa Piredda e soprattutto dalla fedelissima Rosa Piras le cui spoglie sarebbero state poi accolte anch’esse nella nostra tomba familiare. L’accompagnamento sanitario glielo aveva fornito il nostro amico dottor Raffaele Cocco Dalmasso che aveva, quel pomeriggio del 12 dicembre 1909, riscontrato la mia morte.

Di donna Battistina Meloni, matriarca sarda

Fu un grande accompagnamento quello di mia madre, era stimata davvero da tutti. La cerimonia di benedizione avvenne nella chiesa di Sant’Agostino, che da poco tempo era diventata parrocchia autonoma, uscendo dalla collegiata di Sant’Eulalia; fecero benissimo Silvio e Mariuccia a destinare una grossa somma – erano 12mila lire – per azioni benefiche, assegnando la somma al commissario prefettizio, il ragionier Vittorio Tredici – un iglesiente forse ben conosciuto da Silvio –, che poi la ripartì fra tutte le congregazioni e associazioni caritatevoli della città.

Mia madre stata sempre una donna devota, secondo l’educazione ricevuta nella sua famiglia. Ed era stata sempre di buon cuore, generosa e tanto generosa quanto discreta nel fare il bene, nell’assistere i poveri e i bisognosi. Anche quando l’Italia entrò in guerra contro l’Austria e la Germania e in città come ovunque si organizzarono iniziative di assistenza civile, mamma Battistina sostenne generosamente il ricreatorio d’accoglienza dei figli dei richiamati insieme alle amiche donna Doloretta Marcello vedova di Francesco Zedda Piras e di donna Enrichetta Nieddu Cappai… Era l’estate del 1915… Fecero bene Silvio e Mariuccia a sottolinearlo nel necrologio uscito sul giornale. In casa avevamo degli inginocchiatoi che avevano anche la seduta, telaio e impagliatura, che forse per qualche tempo furono portati nella parrocchiale di Sant’Eulalia… Il nome di mamma Battistina e quello di Mario nello schienale… Nelle chiese, in quel tempo, non c’erano ancora i banchi per tutti, i fedeli che potevano si munivano di un proprio sgabello… 




Morì mamma Battistina quarantuno anni dopo papà Galeazzo, ventisette dopo Mario, diciassette dopo me… Certo dovette elaborarseli tutti i lutti che non furono poi soltanto quelli… A quel punto – era il 1926, dunque tempo già di fascismo – le nostre case rimasero vuote: scomparsi Galeazzo e Battistina, scomparsi Marietto ed io, Silvio a Milano e Mariuccia a Roma… tutto fu affittato. Fino al 1980-81, quando i figli di Silvio, nel frattempo scomparso anche lui, misero in vendita tutto quanto. Ricordo anche che le bombe del 1943 avevano colpito, nella via Roma – che era zona militarmente importante per quel che valeva il porto – diversi palazzi: quello Zamberletti di fronte alla darsena fu abbattuto, ma altri ve ne furono di crollati pesantemente al suolo; il nostro, quello nuovo, subì un indebolimento a qualche struttura, e per qualche anno, per ordinanza comunale e del Genio civile, restò isolato da alte cantonate. Poi tornò bello quasi quanto era all’inizio… 

Nelle memorie di famiglia e negli atti conservati da qualcuno dei miei nipoti – da Paolo soprattutto, che è un po’ il raccoglitore ed ordinatore di questi documenti, ad Albizzate, e vi si dedica soprattutto adesso che, dopo tanti anni, ha lasciato l’avvocatura per godersi interamente la sua famiglia e anche… le famiglie di prima –, direi anche dai libri sulla storia otto-novecentesca di Cagliari, dagli annuari vari della Camera di commercio, perfino dagli elenchi telefonici dei tempi lontani, sono rimasti molti nomi dei professionisti e delle ditte od amministrazioni che hanno occupato, per un tempo variabile, quella decina di appartamenti, fra un palazzo e l’altro, che s’affacciano sull’acqua e il cielo del porto: i Nonnoi, prima l’avvocato Enrico poi l’avvocato Dario, i Besson, Basilio Costa appaltatore di esattorie (era il nonno del giudice Lombardini), Pietro Laporte grossista di vini, l’agenzia della Compagnia Italiana del Turismo, negli anni del fascismo anche il Commissariato generale per le fabbricazioni di guerra, il direttore del Circolo ferroviario d’ispezione per la Sardegna, l’avvocato Romolo Carro, l’industriale Gracco Tronci Pernis, ci fu un bar Amsicora, e ancora altri cento in cento e passa anni…

Ecco qui. Ho fatto il quadro generale della mia famiglia, ma non mi voglio negare a quel che mi si è chiesto: di raccontare di me personalmente cioè. Anche se la mia vita è stata una vita minima, come l’ho definita all’inizio. Allora le ripasso le tappe della mia vita… 

Eccomi qui, Erminio convittore, ciclista, schermidore e canottiere

La morte di mio padre aveva consigliato mamma Battistina, d’accordo con i miei nonni lombardi e gli zii rimpatriati, a farmi frequentare il convitto nazionale militare di Milano. Nel 1888 mi rilasciarono la prima licenza, quella elementare/ginnasiale... Avevo undici anni. Ricordo che era maggio, prima dell’estate. Ricordo anche che, per la lodevole condotta, mi avevano rilasciato un certificato di benemerenza, lo chiamavano “cifra reale” che nel concreto si presentava come il monogramma reale da portare prima sul berretto poi sulla manica sinistra della divisa.




Erano tempi, quelli, di frequenti avvicendamenti nella direzione e anche nella équipe dei superiori militari che erano i nostri professori. Il capo era il conte Carlo Barbiano di Belgioioso, colonnello, che fu poi collocato in posizione ausiliaria e nel 1890 sostituito dal cavalier Giuseppe Borsarelli, tenente colonnello artigliere; restò pure lui poco tempo sostituito da un certo cavalier Antonio Fumagalli che veniva dall’artiglieria di Messina.

Erano volti che passavano rapidi in quegli anni, non li tengo a mente precisamente nel calendario, ma ricordo qualche nome: un capitano Ettore Levi, comandante in 2.a e aiutante maggiore, con lui il capitano Giovenale Fea… mi ricordo un capitano Giuseppe Bianco, i tenenti Enrico Manzaroli e Piero Mandiroli, e anche altri… Benedetto Spagnolio che veniva dall’8° fanteria, Giuseppe Guida, Antonio Finelli, Armando Meda Nasi… tutti molto… militari, disciplinati, regolari.

Funzionavano allora cinque convitti nazionali militari in Italia: oltre a quello di Milano ce n’era uno a Macerata, uno a l’Aquila, uno a Siena ed uno a Salerno. Credo operativi dal 1882 ma sperimentali per triennio, e nel 1888 – l’anno della mia licenza milanese – ebbero infatti una proroga di sperimentazione per un terzo triennio, e poi si continuò ancora… Così come il mio, erano retti, questi convitti militari, da un colonnello o da un tenente colonnello nominato dal ministero della guerra d’intesa con la Pubblica Istruzione; così il coadiutore, più mirato a guidare gli studi, la cui designazione veniva dalla Pubblica Istruzione.

Ho detto sperimentazione: non mancarono infatti le voci critiche, soprattutto provenienti dal mondo della scuola che aveva più a cuore le questioni educative e culturali in genere, preferendo riservarle alla responsabilità pubblica che non alle logiche marziali e che non apprezzava la commistione: anche perché vedeva crescere qua e là i convitti clericali, considerati da molte famiglie una migliore alternativa, per i propri figli, rispetto a quelli militari. Ricordo, per rapide letture e per sentito dire, quella polemica: «Nei Convitti si dà la istruzione elementare, e questa a nulla serve per gli aspiranti alla carriera militare, avvegnaché ora sia obbligo di averla tutta percorsa per essere ammessi al Collegio militare…». Insomma, i militari consideravano i convitti come la premessa formativa delle future carriere in divisa, non la premessa delle carriere civili quali che fossero. E certamente io non avevo l’indole di farmi soldato…

Ma non fui un grande studente… Continuai con il ginnasio a Milano, e là ricevevo di tanto in tanto le visite di mia madre che ne profittava dato che se ne veniva ogni anno con qualcuno di noi, e tanto più con Mariuccia, dai parenti di Travedona, alloggiando o a Travedona stesso o in una casa che papà Galeazzo aveva acquistato a Varese città. Questa buona abitudine di mantenere i rapporti con la famiglia di mio padre continuò nel tempo, continuò sempre, anche dopo la morte dei miei nonni, il nonno Giuseppe nel 1889. E allora io, che nel frattempo ero tornato in Sardegna, o in altre circostanze Silvio, le scrivevamo aggiornandola sulle nostre cose e anche sugli affari che, in un modo o nell’altro, dovevamo gestire noi, dalla riscossione degli affitti dell’Iglesiente al cantiere di via Roma. Coglievamo anche l’occasione di chiederle se, facendo una capatina a Milano, ci potesse procurare qualche capo di maggior moda… una camicia, una cravatta, cose così…




Chi volesse approfondire potrebbe trovare molti dettagli proprio in questi scambi epistolari, che mischiavano gli affetti e l’economia familiare. Ad esempio, Silvio aggiornava la mamma sull’amministrazione dei beni locali a Fluminimaggiore ed a Iglesias.

In una certa lettera le riferì – questo lo ricordo bene – della rovinosa alluvione che, all'inizio di ottobre del 1889, aveva colpito il Campidano, l’hinterland di Cagliari – da Selargius a Quartu e Pirri e Monserrato – e il capoluogo stesso, con vari decessi di persone, case distrutte, cadaveri di animali trascinati per chilometri dalla furia delle acque. Io ero ancora agli studi a Milano, come ho detto, ragazzino di dodici anni.

Ma a proposito di affari, di pagamenti e di riscossioni, mi vien da ripensare a quanto anche papà Galeazzo se ne fosse occupato dopo la scomparsa tragica dello zio Pietro. Anche il nonno Giuseppe tornò per qualche tempo in Sardegna: le proprietà erano numerose, fra Cagliari e l’Iglesiente, dico dello zio Pietro oltre che di papà. A casa c’erano registri e registroni di scritture contabili da non averne un’idea! Avevano stampato un’infinità di fogli con l’intestazione “Impresa Magnini Galeazzo - Eredi di Magnini Pietro”. Papà era molto scrupoloso ed esigente con i suoi collaboratori che tenevano anche i rapporti con le amministrazioni, con il Comune, con le Finanze, ricchezza mobile, tassa fabbricati, diritto d’acqua, il Demanio, l’Esattoria, ecc. E mi ricordo ancora i nomi di qualcuno di quei pigionali delle case o dei magazzini del povero zio Pietro, nomi che sentivo pronunciare a casa tutti i giorni dal papà con i suoi impiegati o anche qualche familiare: Fava Nicolò, Pinna Mura subentrato a Fava, Macis Francesco subentrato a Pinna Mura sempre per la casa del corso Vittorio Emanuele, canonico Tassara di Iglesias – era il rettore del seminario e anche il vicario generale della diocesi –, canonico Efisio Leo pure di Iglesias, Tito Taci anche lui iglesiente e primo titolare dell’albergo Leone d’Oro, Pittaluga, Fedele Matta, Raffaele Azzeni, Atzeni Vincenzo, Ebardi Domenico per l’appartamento di piazza Jenne a Cagliari, le Poste per l’Ufficio telegrafico di Iglesias, Luigi Marcialis… basta, basta, mi sono venuti questi nomi come in un soffio improvviso di memoria… C’erano parcelle per onorari a non so quanti avvocati come Enrico Lai – uno dei prossimi fondatori de L’Unione Sarda con il partito di Cocco Ortu –, Francesco Muntoni, Felice Sanna, c’erano cause al Tribunale di Commercio, c’erano pagamenti a un tale capomastro Camedda per tanti lavori di manutenzione fatti in una casa o nell’altra, magari in una barberia di Iglesias che lo zio Pietro aveva affittato a qualcuno, c’erano gli incassi dei dividendi delle azioni del Banco di Cagliari, insomma il giro era largo e impegnava chissà quante ore ogni giorno questi poveri eredi dello zio Pietro, che non aveva lasciato figli: dunque papà Galeazzo e lo zio Carlino di Iglesias e anche il nonno erano là a correre ora per pagare ora per incassare, una giostra… Ripeto, allora ero ancora un bambino, vedevo a casa – proprio allora ci stavamo trasferendo da porta Stampace a via Baylle, nell’appartamento che era stato dello zio Pietro e della zia Marietta Giacometti – questo affaccendarsi, queste carte, questi brogliacci, sentivo questi nomi nelle conversazioni di mio padre con i ragionieri…

Ritorno dove avevo lasciato. Dopo quei dieci anni circa passati a studiare a Milano ecco nuovamente la mia vita come la desideravo…

Tornato a Cagliari, mi misurai nel 1896 – 19enne – con la bicicletta. In Sardegna fu proprio allora, o poco prima – forse nel 1894 o nel 1895 – che si costituirono le prime società ciclistiche… in città la Veloce club e la Forza e Coraggio, analoghi sodalizi presto cominciarono la loro attività a Sassari, capoluogo della seconda provincia sarda che aveva anch’essa un territorio enorme, includendo non soltanto l’Algherese e il Logudoro ma anche la Gallura e la Barbagia nuorese con la Baronia costiera.

Io fui fra i primi a provare ad andare sulle due ruote. Ricordo che quell’estate del 1896, con Peppino Piovano e Elino Boero – famoso anzi famosissimo perché s’era cimentato da solo nella Cagliari- Sassari che non era davvero una impresa da niente! –, con loro e con forse una decina d’altri tutti della Canottieri, raggiunsi Sassari. Col treno fino ad Ozieri e poi fummo nella città dove, alla vigilia di Ferragosto, si festeggia da secoli l’Assunta con la processione dei candelieri. Una devozione religiosa che si accompagna con manifestazioni di vario genere soprattutto sportivo – comprese le corse dei cavalli – e con lotterie e cose così. Organizzò il club ciclistico sassarese. Ci allenammo in pista, poi gareggiammo. Io feci tre corse, non ne vinsi neppure una, ma non mi importava vincere, forse non mi è mai importato.

Alla fine di quello stesso mese di agosto fummo, come gruppo di ciclisti cagliaritani, ad Isili, patria di una mia zia, la moglie di zio Carlino ad Iglesias, Annetta Nespola che ho citato prima. Ero con Piovano che vinse la medaglia d’oro e con Dessì…

A fine agosto dell’anno dopo fui impegnato con una trentina di altri soci, atleti e dirigenti in una manifestazione sociale a favore dell’Ospizio Marino Sardo, nel vecchio Lazzaretto di Sant’Elia, a Cagliari, dove esso era già operativo da svariati anni a favore dei bambini scrofolosi delle zone povere della città e della provincia. Si trattava di raccogliere fondi per il suo sviluppo. Ci imbarcammo in sei natanti, quattro jole (di cui una a sedili fissi), un outrigger ed una baleniera: muovemmo dal porto e arrivammo a Sant’Elia, punto d’incontro fra la costa ad oriente del porto cittadino e, a sei-sette chilometri, la spiaggia del Poetto, che era una montagna enorme di sabbia bianca e finissima, una montagna allora deserta e utilizzata come campo di esercitazioni di tiro. Portammo ghiaccio e liquori, biscotti e dolci e tanto altro da distribuire ai bambini. All’amministrazione fu più gradito un bigliettone di cento lire per rimpinguare le finanze dell’Ospizio.

Pochi mesi dopo venni chiamato a svolgere il mio servizio di leva: fui a Firenze allora, una gran bella esperienza. Non lasciai però la bici. 

Fonte: Gianfranco Murtas
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