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Gianfranco Murtas

Nell’immaginario calendario nostro cagliaritano…

di Gianfranco Murtas

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Quarant’anni fa perdemmo Amedeo Nazzari, cento anni fa nacque Giaime Pintor. Avevo sperato di poter realizzare un breve documentario sui giubilei decennali/pluridecennali dei nostri grandi, cogliendo dal calendario della loro scomparsa soltanto lo spunto per creare una specie di virtuosa ecumene fra quei cagliaritani – di nascita od elettivi – esemplari e diversi per tutto, non diversi per amore alla città capoluogo della Sardegna. E nello scorso ferragosto, come per un urgente adempimento morale, mi rinchiusi a casa a mettere nero su bianco qualche riga di testo che doveva combinarsi alle immagini già, anche esse, pronte, scannerizzate in perfetto ordine, e soltanto da montare... Un tocco appena di macchina, nulla, assolutamente nulla di speciale… Il ricordo come una preghiera civile

Valga l’intenzione, valga la testimonianza. Valga il sentimento perFabio Maria Crivelli e Cenza Thermes… per Cesare Saragat e Francesco Cocco Ortu sr. … per Ettore Pais ed Antonio Taramelli… per Francesco Ciusa, Ernesto Maria Piovella, Piero Schiavazzi e Dionigi Scano… per Clelia Garibaldi e Edmondo De Magistris, per Francesco Cocco Ortu jr. e Antonio Pigliaru… per Ugo La Malfa, Bernardo Loddo e Amedeo Nazzari… per Giaime Pintor


I diciassette del mio rosario civile, e Giaime

Il calendario come strumento evocativo di memorie: le memorie civiche, letterarie, artistiche, politiche, religiose, giornalistiche, accademiche, professionali di Cagliari. 

Nell’anno centenario della nascita di Giaime Pintor, gentile figura di intellettuale, studioso germanista ed esperto traduttore di autori come l’austriaco-boemo Rainer Maria Rilke, in divisa (poco più che ventenne) nella seconda guerra mondiale, e fra i primi dell’esercito allo sbando, dopo l’8 settembre, a raggiungere i nuclei partigiani per la liberazione dell’Italia dai nazisti

si cumulano, in una dimensione ecumenica, i nomi di alcuni dei nostri – cagliaritani di nascita od elettivi, forse diversissimi fra loro ma tutti per più ragioni intimamente legati alle vicende della città – che ci hanno lasciato in date anniversarie tonde: 

dieci anni fa toccò a Fabio Maria Crivelli… ed a Cenza Thermes

in tempi assai più remoti, novant’anni fa, a Cesare Saragat… e Francesco Cocco Ortu sr.

nel ’39, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, ad Ettore Pais… ed Antonio Taramelli

nel ’49, nel pieno delle fatiche della ricostruzione, a Francesco Ciusa…, Ernesto Maria Piovella…, Piero Schiavazzi… e Dionigi Scano…  

nel ’59 a Clelia Garibaldi… e Edmondo De Magistris

nel ’69 a Francesco Cocco Ortu jr. … e Antonio Pigliaru

nel ’79 ad Ugo La Malfa…, Bernardo Loddo… e Amedeo Nazzari

Cagliari e il suo spirito pubblico sarebbero stati diversi se essi non avessero portato il loro contributo chi all’università chi nella pubblicistica, o nella Chiesa, nella medicina o nel teatro, chi nella politica o nella tutela del patrimonio monumentale, nella poesia o nella saggistica storica…


Giaime Pintor studiò nella nostra università, a Giurisprudenza, curò giovanissimo un’antologia critica del teatro tedesco e pubblicò saggi storici ora sul risorgimento ora sulla tragedia bellica che visse in prima persona: saggi usciti per lo più postumi. Operò come interprete verso i comandi militari francesi, al tempo dell’armistizio; fu soprattutto uno spirito generoso combattente per l’ideale, fra l’azionismo antifascista e il comunismo, nell’anno in cui saltò in aria, in un campo minato, a Castelnuovo al Volturno: era il dicembre 1943, aveva 24 anni.


Dieci anni fa la città ha perduto Fabio Maria Crivelli e Cenza Thermes, lo storico direttore de L’Unione Sarda, che condusse dal 1954 al 1976 e ancora per un biennio fra il 1986 e l’88, e la scrittrice, storica e poetessa, autrice di “Cagliari amore mio” e di almeno altre cinquanta opere.

Crivelli arrivò a Cagliari, con la sua famiglia allora in boccio, nel gennaio 1954: aveva 33 anni soltanto ed otto appena di professione maturati fra le testate romane L’Epoca, Il Momento e Il Giornale d’Italia.

Cresciuto negli anni del regime, ventenne (ancora studente a Legge) era stato chiamato alla guerra in Sicilia; dopo l’armistizio non aveva aderito alla Repubblica Sociale di Mussolini e per questo era stato costretto per lunghi venti mesi in una sequenza di ben 12 campi di prigionia fra la Polonia e la Germania. Ne avrebbe scritto in “anni rubati”.

Adottò Cagliari e la Sardegna nella sua vita: diresse su una linea di centrismo liberale il giornale di Terrapieno negli anni ’50 e ’60; ne guidò lo sviluppo del notiziario nazionale e regionale, non soltanto cittadino, incrementandone notevolmente gli spazi d’inchiesta, le pagine speciali e gli inserti; accostò gli indirizzi editoriali ad un misurato progressismo negli anni ’70 difendendo L’Unione Sarda dalle improprie e sgradevoli ingerenze della nuova proprietà in capo alla SIR di Nino Rovelli, monopolista dell’informazione isolana allora: per questo fu licenziato nel ’76, e però poi – dieci anni dopo – venne richiamato in servizio dal nuovo editore Nichi Grauso, impegnato nel rilancio del giornale con corposi aggiornamenti telematici e informatici, mantenendo nel tempo, fin quasi alla fine, una intensa collaborazione alla testata.


La Thermes nacque dove Crivelli morì: a Sinnai, ma fu cagliaritana di famiglia cagliaritana e di vocazione cagliaritana tutta intera. Fu professoressa di Lettere alle scuole medie e preside. Fu, sulla scia di Francesco Alziator ma con una sua autonoma personalità, spagnolista e storica, autrice di saggi storico-letterari e gustose pagine memorialistiche…

Eccoli alcuni dei suoi libri… da Cagliari amore mio a E a dir di Cagliari, da Parlano i morti (Capriccio di primavera) a Un’estate a Nuioro (Agosto 1984), da In ombra e in luce Cagliari a Il mio Giorgio Aleo e la sua Historia, a Valse Oublie’e (Valzer d’altritempi)…


Fu nel 1929, l’anno dei patti lateranensi fra lo Stato italiano e la Santa Sede, da cui nacque anche, come soggetto di diritto internazionale, lo Stato della Città del Vaticano, che lasciarono questo mondo due altri cagliaritani di vocazione e di esperienza di vita: il poeta popolareggiante Cesare Saragat e Francesco Cocco Ortu, per cinquantadue anni parlamentare e ripetutamente ministro.

Saragat – sanlurese di nascita, zio paterno del futuro presidente della Repubblica Giuseppe Saragat – studiò agraria e si occupò delle proprietà paesane, dividendo il suo tempo e i suoi interessi fra il medio Campidano ed il capoluogo. 

Non pubblicò volumi ma un’infinità di versi, in sardo campidanese, affidati per lo più a fogli volanti donati poi agli amici più cari. Non mancano, dei primi anni ’20, i riferimenti satirici al montante fascismo; soprattutto è il sentimento dei sardi di campagna, ma con forti e frequenti contatti con la città, a dominare nei suoi componimenti: sardi mediamente acculturati, piuttosto autonomi in quanto alle risorse di vita.

A lui e al suo genio rappresentativo, Francesco Alziator ha dedicato pagine di ammirazione nel celebrato suo “Testi campidanesi di poesie popolareggianti”, accanto a Efisio Pintor Sirigu, Ottone Bacaredda, Ignazio Cogotti il villacidrese, Gaetano Canelles: “Saragat ebbe la ventura di appartenere a quella prima generazione di Sardi che varcò il mare, non perché costretta a servire come carne da cannone sui campi di Crimea o chissà dove, ma per studiare nelle università della Penisola. Egli è della generazione che fece veramente l’esperienza del cosiddetto continente…”.

“Si arribas a Casteddu a primu borta / Is picciocus de crobi in sta stazioni / T’afferranta; ti tirant’in sa porta. / Cument’e can ‘e cassa a su sirboni / E si lestru non sesi a ndi stupai, / In ci perdis sa conca, o su dinai.

“C’est murìgu de manus, de berrittas, / De cascias, de valigias, e cofinus, /De guardias dazziarias, e cascittas, De bertulas, de crobis e cadinu, / E prim’e podi nai: “ndi seu foras” / Ti currit su sudori casi a coras…”.


Francesco Cocco Ortu fu senz’altro il più illustre dei politici sardi nel passaggio fra l’Ottocento e il Novecento. Fu avvocato negli anni giovanili, quando anche partecipò all’amministrazione comunale di Cagliari, del capoluogo divenendo anche leader come facente funzioni di sindaco – avvenne nel 1883 – , dal 1876 riversò il meglio delle sue energie sull’attività parlamentare. 

Liberale nato simpatizzante mazziniano, vicino alle posizioni progressiste di Giuseppe Zanardelli, cui si lega il nuovo codice di diritto penale con la abolizione della pena di morte, fu sottosegretario e poi ministro: dell’Agricoltura, nei governi di Rudinì e Giolitti, di Grazia e Giustizia, nel governo appunto Zanardelli.

A lui si deve la prima legislazione speciale per la Sardegna – tanto più in materia fondiaria ed agricola – approvata dal Parlamento nel 1897 e rinnovata dieci anni dopo; a lui si deve l’estremo tentativo compiuto verso il re Vittorio Emanuele III di bloccare l’avanzata fascista nel 1922: nonostante le pressioni del parlamentare sardo, autorevolissimo decano della Camera dei deputati, il sovrano non firmò il decreto di stato d’assedio e, dopo la cosiddetta “marcia su Roma”, a Mussolini affidò l’incarico di costituire il governo.

La sua morte, avvenuta a Roma dove era rimasto a consumare la sua vecchiaia, fu annunciata da un colonnino anonimo e avaro dell’Unione Sarda, il giornale che egli aveva fondato giusto quarant’anni prima, al tempo del suo conflitto politico con il partito di Ottone Bacaredda. Ben altro era diventato adesso il suo avversario: il regime di dittatura che emarginando lui, aveva anche divorato tutta la credibilità liberale del quotidiano di Terrapieno…


Nell’anno in cui Hitler occupò la Polonia iniziando la seconda guerra mondiale, scomparvero, già anziani, due personalità del mondo accademico e statale nel campo della tutela storico-archeologica, celebrate infine dal regime anche con il laticlavio senatoriale per nomina regia: Ettore Pais e Antonio Tamarelli.

Pais – storico antichista e medievista di nascita piemontese – fu direttore del museo archeologico della Sardegna, a Cagliari presso il palazzo dell’università, nei primi anni ‘80 dell’Ottocento, e della stessa università fu pure docente, prima che a Palermo, Pisa e Roma. 

Innumerevoli le sue pubblicazioni scientifiche, fra cui “Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano”, “Civiltà dei nuraghi e lo sviluppo archeologico della Sardegna”, “La Sardegna prima del dominio romano”, “La Sardegna medievale”…


Taramelli – archeologo e accademico dei Lincei di origini friulane, prolifico saggista anch’egli – giunse a Cagliari nel 1902, 34enne, per dirigere il rinnovato museo archeologico che, dopo una sosta quasi decennale a palazzo Vivanet, s’era portato in piazza Indipendenza a Castello. Visse allora intensamente, Antonio Taramelli, una fertilissima stagione di vita sarda, promuovendo, dirigendo o seguendo campagne di scavo nel Sulcis ed a Bithia in particolare, a Cornus – la patria di Amsicora capo dei sardi pelliti alleati dei cartaginesi contro gli invasori romani – e nelle più varie zone isolane, da Paulilatino a Sarroch, da Bonorva ed Alghero ad Abbasanta.

A Cagliari diresse gli scavi punici di Sant’Avendrace e dell’ateneo del capoluogo fu anch’egli docente, associando l’incarico a quello di sovrintendente delle opere di antichità ed arti dell’Isola. 


E’ il 1949. Passata la seconda guerra mondiale, nel fervore della ricostruzione difficile ma necessaria dell’Italia tutta e della Sardegna, di Cagliari martoriata dai bombardamenti del 1943 ed ora in progressiva ripresa dallo sfollamento che l’aveva ridotta al deserto, - con le prime amministrazioni di CLN presiedute da Gavino Dessy Deliperi e Cesare Pintus e quella eletta a guida di Luigi Crespellani, tutte chiamate a coordinare gli sforzi della rinascita – , alcuni lutti uniscono tutti in un sentimento civico autentico: 

scompare lo scultore Francesco Ciusa, nuorese di nascita e cagliaritano ormai elettivo – da quasi trent’anni residente in città –; 

scompare l’arcivescovo Ernesto Maria Piovella, missionario milanese in Sardegna dal 1907 (prima ad Alghero, poi ad Oristano), dal 1920 a Cagliari; 

scompare Piero Schiavazzi, il tenore tutto cagliaritano che si è esibito con enorme successo nei teatri di mezzo mondo;

scompare Dionigi Scano, ingegnere progettista attivo sui più diversi fronti, dalle bonifiche di Arborea alle linee ferroviarie, e capo dell’ufficio di tutela dei monumenti nonché storico dell’arte e molto altro.

Ciusa s’era rivelato, nella sua Nuoro, appena ventenne, agli inizi del Novecento; nel 1907 s’era segnalato – vincitore morale potrebbe dirsi – alla biennale di Venezia con il famoso suo blocco “La Madre dell’ucciso”.

Aveva studiato belle arti a Firenze grazie a una modesta borsa di studio concessagli dal comune di Nuoro, e certamente quei valori aveva restituito alla sua comunità e alla Sardegna tutta con una produzione tutta di altissimo livello: il Pane, la Filatrice, il Nomade, il Dormiente, Dolorante anima sarda, la Bontà, L’anfora sarda… Dieci, cinquanta, cento e più di cento furono i soggetti, diversi dei quali – fusi in bronzo – acquistati dal Comune di Cagliari che ne fa oggi bella mostra nel palazzo municipale.

Degli anni ’30 è la Madonna del combattente, nel transetto di destra della basilica di Bonaria…

Massone della loggia Sigismondo Arquer, fu intimo – come un fratello minore – di Sebastiano Satta e – come fratello maggiore – di Mario Delitala, anch’egli massone della loggia Karales.

Negli anni della seconda guerra mondiale ebbe un insegnamento nella facoltà di Ingegneria. Ci ha lasciato la sua autobiografia…

Dal 1949 al 1988 le sue spoglie riposarono nel cimitero cagliaritano di San Michele; esse furono poi trasferite, per sollecitazioni della Chiesa nuorese, nel capoluogo barbaricino ove oggi riposano nella chiesetta di Santu Caralu.


L’arcivescovo Piovella governò la diocesi di Cagliari per 29 anni: dovette convivere con la dittatura, assorbendo nella sua spiritualità e bontà ogni impuntatura anticlericale del primo fascismo, e traendo il massimo, per la Chiesa militante, dal conformismo del tempo che modellava le istituzioni del regime: benedisse le truppe in partenza per le avventure africane, pagò il fio di una guerra che aveva affiancato l’Italia alla Germania di Adolf Hitler. 

Certamente organizzò il clero ed il laicato dell’Azione Cattolica secondo i criteri invalsi nel suo tempo – infoltendo il seminario tridentino e inaugurando quello estivo di Dolianova, promuovendo liturgie di popolo per il Corpus Domini o l’Immacolata ed organizzando congressi eucaristici –, sofferse la crisi bellica che comportò, per i bombardamenti aerei degli alleati, la rovina di alcune chiese storiche – da Santa Caterina a Santa Lucia, a San Giorgio, ecc. e le gravi offese, con crolli dei cupoloni o di altre parti monumentali, a Bonaria, Sant’Anna, Sant’Eulalia…

Sfollò anch’egli, verso Dolianova e poi Nurri. Una foto lo ritrae al ritorno, seduto in piazza Carlo Alberto, accanto alla statua di San Francesco, di fronte alle macerie di Castello.

 I suoi furono funerali di popolo…


Piero Schiavazzi, classe 1875, studiò canto, a spese del Comune di Cagliari, presso il liceo Rossini di Pesaro, ed esordì poco più che ventenne nella “Boheme”; a Cagliari, al Politeama, fu nel 1899, lo stesso anno della posa della prima pietra del nuovo municipio bacareddiano: cantò nella “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni.

Al Politeama del viale Regina Margherita, o al Civico di Castello, tornò numerose volte: per “Lucia di Lammermoor” di Donizetti, per i “Pagliacci” di Leoncavallo, per il “Faust” di Gounod, per il “Rigoletto” di Verdi, per la “Fedora” di Giordano, per la “Manon” di Massenet, ecc.

Centinaia furono le sue esibizioni nei teatri italiani ed europei, ovunque ottenne i migliori successi.

 Ebbe un temperamento brillante, vitalista fino alla spregiudicatezza. Molto fu amato, ma molto amò, nella vita privata come in quella pubblica d’artista. Della sua personalità e degli episodi di vita ha scritto in diversi libri Adriano Vargiu. 

Morì a Roma ormai anziano, a maggio, e nell’ottobre successivo di quel 1949 le sue spoglie furono trasferite – secondo il suo desiderio – nella sua città natale. Riposano al camposanto di Bonaria.


Dionigi Scano, sanlurese di nascita, cagliaritano d’adozione, laureatosi al Politecnico di Torino, operò nell’Ufficio regionale dei monumenti a Cagliari di cui presto assunse la direzione, divenendo infine soprintendente della Sardegna. 

Lavorò allo studio e in molti casi al restauro di compendi religiosi ormai quasi millenari, del romanico isolano: da Saccargia a Santa Giusta mise mano e soprattutto ingegno, affermando la linea che i restauri marcassero l’intervento ricostruttivo operato, onde evitare improprie o false letture.

Oltre a vari libri di storia dell’arte monumentale, nell’Isola, lavorò a ricerche su Dante e la Sardegna e sulla tragica esperienza di Sigismondo Arquer, arso vivo dalla Inquisizione spagnola nel 1571.

Pubblicò “Forma Karalis” – stradario storico cittadino e documentato report sulle fortificazioni pisane, spagnole e piemontesi. Fu anche direttore o condirettore di varie riviste di cultura, tanto più di Mediterranea, certamente la maggiore fra quelle pubblicate negli anni del regime di dittatura.


Può associarsi il nome di Clelia Garibaldi, scomparsa nel febbraio 1959, alla città di Cagliari? Invero lei risiedette per lo più fra Caprera e Livorno, ed a Cagliari, come pure a Sassari, potevano portarla le memorie paterne, ché il Generale fu cittadino onorario di entrambi i capoluoghi per formale delibera dei rispettivi Consigli comunali.

Piace comunque inserirla nella rassegna per una ragione ideale: per i 125 voti che i cagliaritani le dettero nel 1948, quando si presentò capolista del partito dell’Edera mazziniana nella circoscrizione isolana per l’elezione del primo Parlamento repubblicano; 

e per i lunghi resoconti che L’Unione Sarda, a firma di Filippo Canu – giovane repubblicano che l’aveva frequentata e ne aveva raccolto le memorie – pubblicò all’indomani della morte.


Se ebbe funerali civili, in un clima di austerità patriottica, Clelia Garibaldi sepolta a Caprera, ebbe invece un accompagnamento tutto religioso Edmondo De Magistris, il medico dei poveri di Castello e non solo.

Egli fu anche e ripetutamente consigliere comunale di Cagliari, nei primissimi anni del Novecento, prima che il Consiglio si spostasse nella nuova sede di via Roma: marcò la sua appartenenza al partito clericale, che invero in più occasioni, in specie dopo i moti del 1906 e per tema delle sinistre in avanzamento, accettò di allearsi con i liberali o i liberaldemocratici di Ottone Bacaredda.

Soprattutto, don Mondino De Magistris fu un apostolo della medicina: visse la medicina certamente come scienza, ma anche come arte umana, perché lui abilissimo diagnosta seppe sempre accompagnare l’assistenza sanitaria all’incoraggiamento fraterno e paterno all’infermo.

Parlandone agli Amici del libro, disse Giovannino Sanjust, già direttore di Radio Cagliari: “Il suo accompagnamento funebre non fu triste. Fu un’apoteosi di affetto, di riconoscenza. Lo seguivano folle di ammalati guariti, ma soprattutto di poveri. I poveri dei sottani di Castello e dei mezzanelli di Villanova e Stampace, i poveri degli ospizi e degli istituti di assistenza”.


Consigliere comunale per venti e più anni, ma anche parlamentare nella prima legislatura e nella quarta – quella del centro-sinistra moroteo che egli combatté – Francesco Cocco Ortu fu senz’altro una delle figure pubbliche più rilevanti del panorama professionale – come avvocato – e politico – nelle file liberali – del secondo dopoguerra. 

Scomparve ancora giovane, 55enne, nel 1969, ed anche a lui la città offrì funerali di popolo, nella camera ardente in municipio e nella messa da requiem in Sant’Anna.

Nipote del vecchio ministro zanardelliano e giolittiano, ne seguì le tracce. Fu antifascista ancora ragazzo, se è vero che si laureò a Roma perché là non pretendevano la camicia nera come invece avveniva a Cagliari.

Cattolico di profonda fede, congregato mariano, amò il risorgimento che era stato scomunicato dai papi e rifondò il Partito liberale dopo l’armistizio del 1943. Collaborò anzi, da prima, con Gavino Dessy Deliperi commissario prefettizio in Comune e con lui per alcuni mesi, nel 1944, in una giunta di CLN: ebbe allora l’incarico dell’Annona.

La sua presenza nell’Assemblea civica fu, nonostante gli impegni professionali e quelli politici di maggior livello – alla Camera o in Consiglio regionale – assidua e pronta, con interventi sempre ampiamente documentati. 

Fu cruciale la sua iniziativa combinata a quella del sardista Titino Melis per sventare, nel 1960, il commissariamento del Comune a causa dei conflitti interni alla Democrazia Cristiana: suggerì allora il nome del prof. Giuseppe Peretti, il rettore dell’università cui si deve la Cittadella dei musei, quale sindaco fino alle elezioni…

Non pensò all’interesse di parte, ma a quello della città. Fu la sua costante.


Antonio Pigliaru, filosofo del diritto di nascita orunese, può essere ascritto ai cagliaritani d’onore per gli studi universitari che completò all’università del capoluogo, dove si laureò (in facoltà di Lettere) con una tesi sull’esistenzialismo in Giacomo Leopardi.

A Cagliari e alla sua università egli legò il suo nome anche come docente: assistente volontario dapprima, libero docente poi. Fu poi ordinario, e insegnò a Sassari.

Fondatore e animatore della rivista Ichnusa, nel 1949, autore di saggi di grande impatto come “La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”, “Scritti di scienza politica”, ecc. 

Se da giovane – era del 1922 – aveva seguito, nella sua formazione, quel che il regime concedeva, coinvolgendosi in imprese che, dopo la guerra, gli costarono una condanna a sette anni di reclusione, quasi integralmente abbattuti dalla celebre amnistia del ’46 voluta dal guardasigilli Togliatti, si collocò, come intellettuale, in un’area democratica a forti richiami gramsciani.  

Di lui ha scritto Manlio Brigaglia: “Non era facile stargli vicino, se la vicinanza era chiesta all’impegno intellettuale, nella velocità di adeguare continuamente le proprie risposte alle domande del reale: perciò a tanti, anche dei suoi amici, è accaduto di fraintenderlo, di abbandonarlo, di combatterlo anche a viso aperto. Era una lezione di franchezza, di spietatezza ideologica, di “settarismo” che avevano imparato da lui, anche se a molti è accaduto di ripeterla senza la bontà inesauribile, il rifiuto deciso e alto proclamato di condannare… Pigliaru era sempre disposto a mettere in discussione le proprie convinzioni ideali, senza mai rinunciare alla consapevolezza della propria fragilità metafisica, della propria umiltà esistenziale”.


Il nome di Ugo La Malfa, siciliano di Palermo, si lega alla Sardegna e a Cagliari per molte ragioni ideali e politiche miste al sentimento verso la nostra terra conosciuta in numerose, anche se frequenti, permanenze.

La prima si lega al suo antifascismo: aveva 25 anni, si era appena laureato in Scienze consolari e specializzazione in economia al Ca Foscari di Venezia, e fu richiamato sotto le armi. L’Italia era già imprigionata dalla dittatura, nel 1926.

L’anno prima, insieme con Mario Berlinguer – il padre del futuro segretario del PCI – s’era distinto al congresso dell’Unione Nazionale Democratica di Giovanni Amendola, destinato a morte per le aggressioni fasciste. 

Fu assegnato ad un reparto di artiglieria a Cagliari, a San Bartolomeo, che raccoglieva gli elementi ritenuti sovversivi. A Palermo, al corso allievi ufficiali di complemento, gli erano stati trovati, fra le carte personali, volantini contro il regime. Aveva confessato il suo antifascismo, era stato degradato, espulso dal corso e spedito in Sardegna, al 16° Artiglieria, reggimento di puniti, “reggimento di artiglieria da campagna che non aveva né cavalli né cannoni, e nemmeno latrine… A dicembre o gennaio facevo i bagni di mare per pulirmi…”.

Inquadrò la sua vita, con spirito modernamente patriottico, associandola strettamente alla democrazia da riconquistare. Restò vigilato, là a un passo dai bagni penali. Un anno dopo sarebbe stato arrestato e detenuto per alcuni mesi a San Vittore, accusato di sovversione per un attentato al re: anche Gramsci era allora in quelle celle, e con La Malfa allora 27enne era Titino Melis, militante sardista, al quale si legò, umanamente e politicamente, per gli anni avvenire. 

Raccontava del Poetto: all’ombra di un albero non lontano dalla Sella del Diavolo, si rifugiava, nelle ore di libertà, a meditare il presente e il futuro suo e della patria.

Negli anni della Rinascita, da ministro del Bilancio, e in una feconda ripresa dell’antico sodalizio dei repubblicani con i sardisti, secondo la tradizione mazziniana che allora e da sempre, dai tempi di Emilio Lussu anni ’20, li univa, fu decisivo per mettere in capo alla Regione e non alla Cassa del Mezzogiorno gli interventi del Piano, quei 400 miliardi che dal 1962 e per dodici anni avrebbe dovuto assicurare l’aggiuntività dei finanziamenti governativi all’Isola.

Mantenne sino alla fine i rapporti con l’Isola e con Cagliari anche dopo la rottura con il PSd’A orientato ormai a quella scelta nazionalitaria e indipendentista che, passo dopo passo, l’ha portato a farsi partner del leghismo già padano e secessionista, oggi addirittura sovranista…

Numerosi furono i cagliaritani presenti ai suoi funerali di popolo a Roma, con le bandiere rosse delle antiche società operaie mazziniane e l’edera simbolo della Giovine Europa. Parvero, quelli, la ripetizione dei funerali che 103 anni prima avevano accompagnato al Verano le spoglie di Giorgio Asproni.


Scomparve ancora giovane, poco più che cinquantenne, nel 1979, un illustre cagliaritano noto nel mondo della scienza medica e della ricerca microbiologica: Bernardo Loddo

Laureatosi nel 1950, pubblicò centinaia di studi scientifici nello speciale campo virologico e per molti anni diresse l’Istituto di microbiologia della nostra università.

Fu l’erede ideale di Giuseppe Brotzu, ch’egli accompagnò a Londra per il ritiro dell’encomio del British Council per la scoperta sulle cefalosporine. Studiò e lavorò non soltanto in Italia, ma anche in Francia, al Pasteur, e negli Stati Uniti, all’Istituto di Bethesda. Fu definito, a ragione, un “monaco” della scienza, perché la sua vita fu interamente assorbita dagli interessi della ricerca e della didattica. Era in via Porcell che egli trasformò un semplice laboratorio in un centro internazionale di virologia. Incrociò ripetutamente, nei suoi studi, diversi premi Nobel. 

Il suo capolavoro fu forse l’individuazione, nel 1961, della guanidina, una sostanza capace di inibire il virus albergante nelle cellule e in malefica simbiosi con loro, senza danneggiare le altre cellule. Furono i virus della poliomielite i primi ad entrare nelle felici verifiche di laboratorio: un laboratorio che, nonostante il genio degli operatori e il merito sociale della loro fatica, restò povero per l’avarizia dei finanziamenti da parte della politica. 

Loddo fu vittima di un incidente stradale, e morì senza riprendere conoscenza per alcuni giorni e dopo un inutile disperato intervento chirurgico. La città pianse uno dei suoi figli più meritevoli.


Amedeo Nazzari, Amedeo Buffa all’anagrafe – Nazzari il cognome d’arte derivato dagli avi materni –, rappresentò per molti anni la Sardegna e Cagliari nel mondo della cinematografia nazionale.

Dal 1914, quand’era ancora bambino, si trasferì nella capitale, qui frequentando poi l’Accademia d’Arte Drammatica e, dopo il palcoscenico (già dal ’27), esordendo davanti alla macchina da presa nel 1935. Era quello il tempo dei cosiddetti “telefoni bianchi”; nella politica e nello spirito nazionale era il tempo delle compagne d’Etiopia e del titolo imperiale per il re Vittorio Emanuele III. 

Girò forse duecento film, e per il più fu l’eroe buono, bello e romantico dei soggetti cinematografici ancora negli anni ’40 e ’50: quando Cinecittà produceva pellicole in gran quantità osando competere con Hollywood. Nei cast anche i più bei nomi del cinema italiano fra attori e registri, fra cui Federico Fellini per “Le notti di Cabiria”.

Approderà anche in televisione e in un programma degli anni ’60 – Mare contro Mare, Tirreno contro Adriatico – capitanerà la squadra d’arte giochi e musica cagliaritana contro quella di Taranto… 

  





Fonte: Gianfranco Murtas
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