Ottone Bacaredda, "democrazia" vuol dire… (è un discorso del 1911 a Palazzo di Città). Cagliari presto alla guerra
di Gianfranco Murtas
L’entrante 2021 sarà l’anno centenario della morte di Ottone Bacaredda, il sindaco-mito di Cagliari, della Cagliari nel suo passaggio di secolo, fra Ottocento e Novecento.
Egli sarà ricordato e celebrato. Certamente l’attuale Amministrazione civica è distante, sul piano delle idealità, dal grande sindaco liberale, o liberal-democratico, come meriterebbe meglio d’esser definito, piuttosto essendo essa più prossima, per valori, allo spirito che accompagnò la magistratura di Vittorio Tredici e poi quella di Enrico Endrich, per quel tanto anche di fasciomoro che le caratterizzò (giusto come oggi s’associano i tesserati sardisti a quelli che hanno rubato al mazziniano Goffredo Mameli il nome identitario e di vocazione). Ciò nonostante sarà suo dovere evocare e onorare una memoria assolutamente centrale nella storia della Cagliari moderna, richiamare di Bacaredda la progettualità, la buona opera realizzatrice.
Ho scritto tanto su Bacaredda e sulla Cagliari del suo tempo, e dunque non mi ripeto. Soltanto rinverdendo i sentimenti del prossimo calendario civico, vorrei qui – io repubblicano (e memore di quanto i repubblicani cagliaritani furono all’inizio ostili al sindaco e successivamente – dal 1911 al 1914, in altro contesto politico – fra i suoi maggiori collaboratori in un esecutivo dei più fattivi del primo Novecento) – richiamare un suo discorso del 15 novembre 1911, all’atto dunque della presentazione della sua nuova giunta (e maggioranza, inclusi i repubblicani Angelo Garau, Raffaello Meloni ed Enrico Nonnoi) al Consiglio comunale. Impegnati altri repubblicani – da Ettore Vassallo a Nicolò Macciotta – negli organi di governo laterale del Comune.
Chiari i riferimenti al bisogno di superare definitivamente gli inciampi di rappresentanza e causa delle eccessive supplenze commissariali, chiari – per la moralità politica che li sostiene – gli ammonimenti ad ancorare ogni nuovo debito di bilancio ad uno scopo produttivo, dandosi nel caso contrario ingiusto peso alle generazioni avvenire. Chiaro anche, mi sembra, e conquistato nella maturità non soltanto dell’anagrafe ma anche e soprattutto della esperienza di vita e d’amministrazione, il recupero del sostegno “leggero” delle generose aspirazioni che avevano spinto il giovane Bacaredda ancora studente universitario a promuovere nel fatale biennio 1869-1870 quel certo giornale cagliaritano dalla testata quanto mai espressiva: A vent’anni!
Come lui la città sognata e preparata. Città matura e, per volontà, ancora giovane, sempre credente nel futuro come opera continua, come donazione di sé per il bene comune. E così, città che dal liberalismo canonico si emancipava, appunto col Bacaredda del 1911, giungendo ai profili di un liberalismo “organizzatore” (secondo la dottrina per Bernstein) o chiamalo proprio democratico, sapendo così intercettare la storia nuova del Novecento. Così di concerto con quell’Associazione Democratica costituitasi a Cagliari nel 1910 per affermare, dal fronte liberale (e segnatamente massonico), idealità rigorosamente laiche e anche progressiste e riformatrici: quell’Associazione cui egli non prese parte formale ma da cui raccolse infiniti stimoli e propositi e progetti per la modernizzazione del territorio, per lo sviluppo civile e materiale dei suoi ceti sociali.
Dopo aver riportato quel discorso elevatissimo pronunciato a Palazzo di Città dal sindaco-mito, eccomi poi ad offrire uno sguardo, sì veloce ma non superficiale, alla Cagliari sempre più consapevole di essere il traino economico della Sardegna intera, la porta delle sue relazioni con il continente e il vasto mondo. Realtà urbana complessa e capoluogo certamente portatore di irrisolte e importanti contraddizioni, ma anche sempre più consapevole di una appartenenza nazionale, sulla linea della storia italiana in evoluzione: con Giolitti al governo dal marzo 1911 al marzo 1914, con Salandra poi ad affrontare la grande e grave partita della guerra europea fattasi presto mondiale.
«Onorevoli consiglieri…»
«Speravo che i discreti ozii mi fossero indefinitivamente consentiti come onesto premio alle mie passate fatiche e in questa speranza tanto più mi andavo confortando, quanto più mi pareva di sentirmi corazzato contro i reiterati perseveranti adescamenti dell’urna, che potrebbero ricordare l’episodio del casto Giuseppe alle prese colla moglie di Putifarre, se fossimo in campo di leggende bibliche e non di cronache elettorali.
«E se il poco casto Giuseppe oggi si dà per vinto, egli e che lo vinse non il desio dell’augusto amplesso, non la nostalgia del potere, non il risveglio serotino di spinti combattivi ma quel profondo senso del dovere che talora si impone alla volontà colla tirannia del comando: dovere di deferente ossequio alle non dubbie manifestazioni del corpo elettorale, cui ogni ulteriore ricusa potrebbe suonare caparbietà o alterigia o peggio; dovere di filiale gratitudine alla città meco così benigna e prodiga e magnanima.
«Ben la coscienza delle mie non più giovani forze vigilava ad ammonirmi quanto inadeguato fosse per essere da mia parte il contraccambio di tanto favore, ben meditavo come la delusione insegua da presso i troppo facili entusiasmi e quanto sia rischioso giuocare su una carta su di un'ultima carta, il proprio patrimonio morale, il buon nome, la stima pubblica, ma la voce del dovere fu più forte d'ogni altra, a comandarmi: fa’ ciò che devi, avvenga che può [...].
«Riprendo, dunque, con non soverchia gioia, ma con trepidante rassegnazione, la corona... di spine, di cui vi è piaciuto, egregi colleghi, non senza dolce violenza, ornarmi la fronte, e, in attesa, se occorre di essere immolato mi avventuro con voi, in voi tutta riponendo la mia fiducia, fra le fortunose sirti del mare magno municipale, dove non è esperto pilota che possa manovrar sicuro, poiché l'impreveduto suol mandare a vuoto gli sforzi così del coraggio come della prudenza [...].
«L'incremento demografico della Città la designa ad avere, in breve, una rappresentanza legale ben più considerevole, il promesso allargamento del suffragio, vera instaurazione di maturi sistemi democratici, spalancherà le porte della magistratura civica a nuove e balde e volenterose schiere, cui essa è ancora ingiustamente preclusa. Tutta una trasformazione, una rivoluzione andrà a verificarsi nel funzionamento della nostra vita pubblica; è una provvida trasfusione di sangue rosso e fluido che andrà a rinvigorire tutti i nostri organismi politici.
«In attesa di quel giorno auspicato e mentre siamo qui a propiziarne l'avvento guardiamo in faccia la situazione e rendiamoci conto delle assolute urgenti necessità che da essa derivano.
«È necessario, è urgente restituire un andamento normale alla nostra macchina amministrativa, mettendo fine ai regime un po’ autocratico e un po’ anarcoide dei Commissariati prefettizi e regi; è necessario, è urgente dar inizio a un periodo continuativo di raccoglimento e di lavoro, dove riposi l'esagitato spirito pubblico e trovi ragione di fiducia e di speranza.
«La prima città dell'Isola non deve oltre offrire di se stessa l'immagine di una nave alla deriva, né accreditare il sospetto che il nervosismo sia divenuto il suo temperamento costituzionale, il suo stato patologico cronico e ribelle ad ogni terapia. Si agitino le passioni, armeggino i partiti, gemano i torchi e sferzino le polemiche, tutto ciò è indizio di vitalità e sarà anche di patriottismo; ma non si rifiutino al paese quelle ore di tregua che anche la natura concede a se stessa, non gli si recidano i nervi, condannandolo ad una funzione che sembra una dissoluzione [...].
«Si lotti, insomma, per la propaganda e il trionfo delle idee - e le idee sono di tutti e rispettabili tutte, anche se opposte nelle aspirazioni, nei metodi e nelle finalità - ma non si dilanii la reputazione del paese, non se ne offenda il decoro, il prestigio, gl'interessi.
«Il paese non è, non vuol essere né un incapace, né un inabilitato. Esso insorge e reclama a gran voce il suo posto nella vita dei popoli liberi e civili.
«Ecco perché voi e io siamo qui: accinti ad una prova, della quale non ci dissimuliamo i disagi ed i pericoli, ma per ciò appunto ci parve degna di essere affrontata; ecco perché il manipolo più esiguo di questo rispettabile consesso spontaneo volle unirsi alla parte preponderante nel conferimento del mandato esecutivo, apprezzabile tratto di non consueta cavalleria; ecco, perché.
«Il domani di una lotta vivace combattuta con armi leali, io non scorgo qui né vincitori né vinti, ma una eletta e serrata falange di uomini intenti non a vantare diritti ma a compiere un dovere.
«Una bella aurora, codesta, che pare promettere un radioso meriggio. Non è che una promessa, ma per me è già una garanzia: la garanzia di una concordia operosa. Molte questioni, per avventura, ci possono domani trovar divisi, perché nessuno ha fatto getto delle proprie idee, nessuno ha abdicato alla propria libertà d'azione; ci devono, anzi, trovar divisi, perché, se si può amministrare nel consenso unanime di un'assemblea, si amministra meglio nell'attrito dell'opinioni e sotto io stimolo e il sindacato di un'opposizione. Ma sarà l'opposizione che si risolve in una gara assidua di studio e di lavoro; sarà l'opposizione che non deflette da un comune intrasgredibile programma: quello di sollevare le condizioni del paese, di non fallire alla fiducia degli elettori.
«E se non temessi di andar troppo oltre, non alla fiducia, alla tolleranza almeno vorrei fare appello di quei partiti che sono fuori di noi, di quelli stessi che sono contro di noi; perché, non mettendo essi in dubbio le nostre buone intenzioni, come noi non mettiamo in dubbio le loro, se un giorno avverrà (e mi è gradita la profezia) che l'aura popolare li designi a nostri successori, non dovrà increscer loro di veder purgato il terreno di quel ciarpame fastidioso, di que' detriti ingombranti che son i postumi fatali delle crisi intermittenti e dei regimi provvisori [...].
«La risoluzione dell'epidemico, annoso, cosmopolita, problema del caro-viveri, la cauterizzazione della purulenta piaga del caro delle pigioni, il rinnovamento edilizio della città, la sua rigenerazione igienica sono miraggi suggestivi, dei quali si abbellano i sogni di chi vorrebbe il proprio paese ammirato e invidiato all'avanguardia del progresso, alle porte della felicità; ma i nostri occhi veggenti non appena ardiscon fissarli (sarà vizio di miopia) ne rimangono abbarbagliati. Perché attentare ai voli cui non bastano le nostre ali? Perché inseguire un amico che sfugge ad ogni segnale d'attacco? Perché armarci fino ai denti, quando le nostre armi non hanno filo e non hanno punta, ma sono spaventacchi per i passerotti?
«Tanto vale - sarà almeno virtù di animo aperto - confessare la nostra impotenza.
«Neppure è in nostre mani la verga di Mosè, onde ci sia dato promettere (e ne avremmo indicibile contento) di far zampillare cristalline e copiose acque da ogni ingrato masso tufaceo; ne è da noi (non potendo, come Giosuè, arrestare il corso degli astri) prodigare la luce del gas, e magari quella elettrica, allo stesso buon mercato col quale Domeneddio ci largisce la luce del sole.
«Compiti più modesti ci attendono, per quanto non tutti agevoli. Il miglior funzionamento dell'acquedotto - perenne e insaziata brama, improrogabile bisogno della cittadinanza, l'assetto definitivo dell'Azienda gas-acqua, la sistemazione della viabilità, le scuole, le case economiche e popolari, la gestione del dazio consumo, la fognatura, il piano di ampliamento della città e i mezzi opportuni a promuoverne l'incremento edilizio, le opere pubbliche e, prime fra tutte, il completamento del palazzo di Città, i servizi pubblici in genere e quelli interni, municipali in ispecie - ai quali tutti, è giustizia riconoscerlo, non fu manchevole l'opera dell'amministrazioni che ci hanno preceduto - rappresentano tal cumulo di studi e di fatiche cui non risponderà mai abbastanza il buon volere della Giunta o del Consiglio. Noi ci proponiamo di iniziarli; voi, egregi colleghi, li avvierete a quelle soluzioni che, nel vostro senno, vi parranno più acconce.
«Nessuno pensa che il compito sia facile e che possa esaurirsi con quella fretta alla quale invita e sprona il desiderio. Sono, la maggior parte, questioni tecniche connesse a complicati problemi di natura giuridica, amministrativa e finanziaria. Bisognerà attenersi alle norme di legge, subire le remore delle forme procedurali, ritornare sui regolamenti, correggere ed innovare. Bisognerà anche fare i conti con quella non trascurabile incognita che è il bilancio; una volta, ancora pochi anni addietro, così fondo e quasi pletorico, oggi, ahimè, per molti irreparabili eventi, messo, senza dubbio, a dura prova. Né si pretenderà che, per impinguare i forzieri, noi si faccia dell'alchimia; né ci si vorrà corrivi ad allungare la mano sull'onesto bilancio del contribuente; e, quanto a far debiti, debiti vogliono essere di chi li assume a scopo produttivo e non col subdolo giuoco di gabbare il presente e rimettere le più penose cure all'avvenire. Anche dei nostri posteri, come dei nostri antenati, dobbiamo avere rispetto. Meglio, diversamente, attendere gli anni delle sette vacche grasse e frattanto, costituiti in una nuova "Compagnia della lesina", imitare quel personaggio di Plutarco che, in mancanza di meglio, mangiava olive e beveva acqua.
«Ma vogliamo sperare che non sia il caso di una dieta così anti-energetica […]. Non per questo andrà a chiudersi l'era dei disagi, delle querimonie, dei rimproveri e delle accuse. È la sorte di chi amministra offrire il proprio petto a bersaglio degli amministrati ed è legittimo in costoro il bisogno di non appagarsi del bene per aspirare al meglio. Questo è il progresso [...].
«Ci sia lecito invocare a favore nostro il leggendario "grano di sale", con cui si vorrà commisurare le nostre forze colla gravità del momento e, in ogni caso, assolverci della felice colpa di non sacrificare alla facile arte di vendere lucciole per lanterne.
Giustizia e libertà per tutti e per ognuno
«Egregi Colleghi:
«La nostra amministrazione ha un appellativo simpatico: è un'amministrazione democratica. Democratica, non tanto perché procede direttamente da un sodalizio di tal nome, quanto perché è il fedele riflesso del colore dominante del paese; il colore, del resto, diffuso in ogni angolo di terra civile.
«L'idea democratica, purificata degli eccessi e delle manchevolezze della tradizione classica, ripudiato quanto aveva di violento e di aggressivo nella sua rigida concezione di sistema politico non ancora prevalente, ha subito essa pure l'influsso dei tempi, del progresso, della civiltà: è divenuta una tendenza, un sistema, un assetto sociale. Le sue forme si sono imposte come una necessità storica: esse rispondono ad un bisogno di menti più evolute, di spiriti più liberi; direi che hanno creato l'ambiente, nel quale l'umanità emancipandosi da ogni tirannide e da ogni barbarie, va maturando i suoi irrequivocabili destini.
«In questo ambiente poté intensificarsi la fioritura della dottrina socialista a base di postulati, di provvidezze e di rivendicazioni economiche; in questo ambiente il sentimento religioso anela più libero a ridissetarsi alle sue prime purissime fonti; in questo ambiente poté avvenire il fenomeno del Principato - istituto aristocratico per eccellenza - che innesta sul tronco arcaico del diritto divino il ramo verde del diritto plebiscitario, si democratizza, insomma; perché questa pare la legge inesorabile del progresso: o democratizzarsi o morire.
«Il fermento tenace e irresistibile del principio democratico opera in ogni sfera dell'attività umana: esso va trasformando il contenuto del diritto privato e apre sempre nuovi orizzonti agli atteggiamenti del diritto pubblico; esso solleva gli umili e abbassa i potenti; esso è il grande moderatore delle umane cupidigie, il grande mitigatore delle ingiustizie sociali.
«Se la libertà non è più un monopolio, né l'uguaglianza davanti alla legge una formula astratta, se la cultura è più accessibile, l'istruzione più diffusa, il lavoro più umano, se la ricchezza si va facendo meno egoista, meno feroce la giustizia, meno crudele la guerra, più miti i costumi, più cordiali i rapporti, più tolleranti le opinioni: tutto ciò è opera della Democrazia. A buon diritto il Tocqueville la disse "un fatto provvidenziale" [...].
«Essa, nella sua incessante evoluzione, persegue quell'ideale altissimo che infatuò la mente più eclettica e comprensiva dell'antichità, quell'ideale che al filosofo di Stagira piaceva riporre nella pace sociale, risultato dell'affratellamento di tutte le classi, egualmente protette ed egualmente interessate al bene della comunità.
«Come nel piccolo consorzio domestico la discrepanza delle idee, il contrasto dei temperamenti, le manifestazioni autarchiche delle energie individuali non ne alterano il ritmo del processo quotidiano, ma trovano un punto di contatto, un termine di conciliazione in quel vincolo spirituale che pure non astrae da un comune interesse materiale, così in una più grande famiglia, in questo consorzio etnico che si chiama Città, nessuna opinione, nessuna attività, nessun interesse per quanto antinomici, per quanto fatalmente cozzanti fra loro possono far sì che i rapporti necessari e inevitabili non siano alimentati e addolciti e, in ogni caso, resi meno aspri da quello spirito di tolleranza che, direi, è il profumo di libertà, da quella serena visione del bene collettivo che è il "diapason" regolare di ogni compagine civile.
«Nessuna amministrazione democratica potrebbe oggi farsi bella di tale appellativo, se nella sua bandiera non portasse il motto: giustizia e libertà per tutti; se, trincerandosi in un programma particolarista e unilaterale mirasse a perseguire interessi esclusivi di classe, di parte o di consorteria.
«Democratici, dunque, ma nel senso più moderno e più eletto della parola; democratici, cioè devoti al nostro colore [...] ma non Insofferenti che altri abbia sposato una fede diversa; non chiusi in un ferreo cerchio di anacronistica intransigenza, non armati di intolleranza aggressiva; democratici senza idoli da adorare, senza vittime da sacrificare [...]. Fu detto, una volta, del programma di un uomo politico che doveva definirsi l'attaccapanni al quale ciascuno, da qualunque parte venuto, poteva appendere il proprio cappello. Che se questo attaccapanni si volesse, per celia, assomigliare anche al Municipio, come noi lo concepiamo, sol perché, non diventando un pulpito o una tribuna, stende le sue braccia a tutela di ogni legittimo interesse e rimane il terreno neutro dove ogni giusto diritto trova la sua giusta protezione; ebbene diremo un'eresia, sia pure l'attaccapanni.
«Questa umile suppellettile domestica non disdegnerà di prestarsi ai fini di un alto interesse sociale, in quella conciliazione degli animi nella quale solo è riposta la fortuna della Città».
Così Ottone Bacaredda al Consiglio comunale ancora riunito a Palazzo di Città il 15 novembre 1911.
Modernismo 1911-1912
Dopo i mille giorni della sindacatura di Giovanni Marcello (con tutto quello che ha voluto dire in dirittura d’arrivo, con le dimissioni di giunta e Consiglio – ma come han fatto anche Provincia e Camera di commercio per protesta contro il governo per la mancata parola circa la terza coppia di treni: partita infine vinta ma certo con aggravi amministrativi e nuovi interregni commissariali) si è votato a marzo. Sindaco eletto Francesco Nobilioni e maggioranza moderata ad ipoteca clericale; sei mesi di sofferenza e poi dimissioni di giunta e Consiglio e nuova chiamata alle urne. A fine autunno è Bacaredda e il suo liberalismo aperto a riconquistare il governo municipale. In giunta due ex maestri Venerabili della loggia Sigismondo Arquer – Giuseppe Sanna-Randaccio ed Enrico Pernis – ed esponenti del radicalismo anticlericale come Antonio Giuseppe Satta Semidei; in maggioranza anche i tre consiglieri repubblicani.
Passa così il 1911. La cronaca apre la pagina del 1912…
La primavera riempie di sorpresa una città emozionalmente coinvolta, oltre ogni distinzione, anche nell'afflizione per altre due "eclissi", terrene e irrimediabili: quelle di Giovanni Pascoli, l'inquieto poeta del "fanciullino", e di fra Pietro Balestra, il solido e decisionista arcivescovo cagliaritano…
Nelle terre del Nord-Africa infuria la guerra coloniale… La Sardegna e Cagliari sono anch'esse naturalmente interessate. Fra estate e autunno i dispacci ministeriali, i bollettini dal fronte, le cronache dei giornali, avvertono che ogni paese, anche il più piccolo, è chiamato a fare la sua parte, ad offrire il suo contributo. I richiamati sono centinaia. È stato deciso un certo turn-over e le forze fresche rimpiazzano ogni qualche mese, coi caduti, i reduci, allargando la base dei coscritti giovani e meno giovani.
Un grido - «Viva l'Italia!» - e una marea di fazzoletti e di berretti che sventolano, applausi che scrosciano insistenti. Il 24 agosto arrivano alla stazione e raggiungono poi in solenne corteo, festeggiatissimi, la sede della Fratellanza militare una quarantina di reduci. Altri sessantacinque son tornati nei giorni precedenti. «Avete onorato la Sardegna [...], avete col vostro sangue obbligato quelle terre inospitali soggette alla Turchia a piegarsi davanti al tricolore...», dice un po’ retorico il presidente del sodalizio Ernesto Ciabatti.
All’Eden si proiettano alcuni documentari che raccontano la durezza dello scontro alle "Due Palme" o a Sid-Said e documentano il valore dei soldati isolani. Non per nulla il generale Airoldi, uno dei comandanti militari, aveva dichiarato: «I soldati sardi e quelli siciliani sono coloro che con più ardore bellico decidono le sorti della battaglia».
In gennaio la città è stata posta dagli eventi bellici quasi al centro di un affaire politico-militare-diplomatico internazionale, al centro dell'attenzione delle cancellerie di mezzo mondo: la cacciatorpediniera della Marina militare italiana, la "Agordat", ha costretto ad attraccare al porto cagliaritano due piroscafi francesi: il primo trasportava un aereo che si era ritenuto diretto ai turchi, cioè al nemico (e poteva essere un elemento decisivo per rovesciare l'andamento della guerra, per i bombardamenti possibili e comunque per lo spionaggio delle manovre al fronte e nelle retrovie), il secondo aveva a bordo ventinove passeggeri ottomani non meglio identificati. Sono state sollevate anche grandi questioni di diritto internazionale e di pace e di guerra, ci sono stati ordini e contrordini, e l'intera faccenda s'è chiusa con l'assoluzione francese da parte della Corte permanente dell'Aja e, specularmente, con la condanna, mitigata da qualche sconto negli indennizzi stabiliti, dell'Italia. E in tutto questo incerto e convulso svolgersi dei fatti i cagliaritani non hanno potuto prestare che la loro curiosità provinciale.
La città sta rapidamente trasformandosi. Questi anni che precedono la "grande guerra" registrano modifiche radicali negli assetti civili e urbani, nella dotazione dei servizi d'uso privato e pubblico, nei livelli e nella diffusione della cultura.
Nell'ultimo decennio la popolazione è aumentata di circa novemila unità, superando la soglia dei 61.000 abitanti. L'incremento è sensibile, sfiora il diciotto per cento. Cagliari si sta espandendo soprattutto verso oriente, a Villanova (il quartiere conta ormai più di ventimila residenti). Ma un po’ ovunque - tranne che a San Bartolomeo, in flessione (i censiti sono 1.683), e alla Marina, dove l'incremento è modesto (sono in tutto poco più di diecimila) - le statistiche ufficiali più recenti rivelano una crescita: a Stampace, dove hanno il loro domicilio 16.500 cagliaritani, a Castello (9.309), a Sant'Avendrace (3.067).
All'Università son iscritti, nell'anno accademico 1911-12, ben (o appena?) 249 studenti. Quasi la metà (114 contro i 97 del 1901) frequentano l'aula unicuique suum tribuere, 87 appartengono a Medicina, 35 a Scienze, 47 a Farmacia.
Una mini-guida telefonica informa che, in questo 1912, gli abbonati in città sono 429 e che - sempre avvalendosi della centralina di smistamento che l'ing. Vittorio Tronci ha impiantato, già dal 1900, all'ultimo piano di un palazzotto di piazza Yenne - è ormai possibile parlare, senza disturbo alcuno, con Sassari, Nuoro, Tempio, Ozieri, Alghero, Iglesias, Oristano.
In campo sociale hanno ormai una anzianità di tre lustri le "cucine economiche", un servizio offerto alla popolazione più povera dalla Congregazione cdi carità, organismo prefettizio aperto a sovvenzioni, lasciti e generosità di tutti, enti e privati. Con un patrimonio valutato circa 600.000 lire (in gran parte si tratta di cartelle di rendita consolidata), la Congregazione elargisce ogni anno qualcosa come 20-21.000 lire in beneficenza: ne sono favoriti singoli e asili e istituti che accolgono handicappati, senza-famiglia, bimbetti e anziani. Le razioni di minestra che annualmente vengono distribuite gratis presso i punti stabiliti nei quattro quartieri (incluso Sant'Avendrace, dove provvedono i conventuali dell'Annunziata) superano di molto le centomila.
Un'attiva e meritoria opera sociale a favore soprattutto dell'infanzia cominciano a svolgere in città anche i salesiani, in Sardegna già da dieci anni (sono arrivati nel 1902 e, insediati dallo stesso don Rua, il successore di don Bosco, hanno messo radici a Lanusei). A chiamarli a Cagliari era stato monsignor Mario Piu, presidente della Collegiata parrocchiale di Sant'Anna, ed ora essi hanno inaugurato, con l'oratorio, una scuola che comprende elementari e ginnasio inferiore. La zona è quella di Palabanda, giusto dirimpetto all'Orto botanico, uno splendido giardino ampio cinque ettari costeggiante l'Anfiteatro romano, un concentrato di piante esotiche che vengono da tutto il mondo e che qui si sono facilmente acclimatate, un compendio di eccezionale valore scientifico cui ha legato il suo nome, come direttore, dopo il fondatore Patrizio Gennari, il prof. Domenico Lovisato.
E a proposito di verde pubblico. Cento pini sono sistemati dal Comune nel vastissimo spiazzo (confinante con Io stesso Orto botanico) dell'Ospedale civile. Cagliari si fa verde, negli ultimi anni sono stati allestiti giardini e viali che sono un incanto. Araucaria, magnolie, palme nane, cactus, sono stati collocati nella piazza delle Reali, un buon numero di olmi al Carmine, nel Belvedere e a Terrapieno, l'Araucaria excelsa in piazza Costituzione, i Ficus retusa in via San Domenico e in piazzetta Savoia; il falso pepe in piazza Yenne, ecc.
A maggio il commendator Bacaredda - presente la giunta - firma l'atto di compromesso per l'impianto e l'esercizio di mia tramvia a trazione elettrica e per l'illuminazione delle principali vie e piazze della città, approvando nel contempo il progetto per la distribuzione e vendita dell'energia ai privati.
A luglio Comune e Società elettrica sarda stipulano un accordo per la concessione a quest'ultima di due linee tramviarie urbane: quella da piazza Darsena a piazza Palazzo (attraverso la via Roma, il Largo, la via Manno, la piazza Martiri, il viale Terrapieno, s'Avanzada e piazza Indipendenza) e quella da Sant'Avendrace a via Nuova (passando per il Corso, la piazza Yenne, le vie Manno e Garibaldi). Il debutto però si farà attendere almeno tre anni. Colpa del Governo e delle lentezze burocratiche
Ma anche solo a considerare il momento della firma delle prime carte va riconosciuto che il ritardo della novità "tram urbani" è notevole se l'iniziativa la si confronta con l'attività, vecchia ormai di vent'anni, della Società Tramvie del Campidano che serve l'hinterland cagliaritano collegando, in un'oretta appena, Cagliari con Quartu e viceversa, attraverso anche Pirri, Monserrato, Selargius e Quartucciu, ed è gestita da qualche mese dalla "Vinalcool". La quale, dopo averla ricevuta dall'on. Merello, ha aggiustato i percorsi dello scartamento fino al porto, inventando anche una tratta nuova, quella del Poetto, la quasi sconosciuta spiaggia cagliaritana che è un vero paradiso di dune di sabbia fine e chiara...
Bacaredda s'impegna dunque per tram e luce elettrica. Da un anno, opera la SES, fondata a Livorno appunto, come è scritto nel suo atto di fondazione, per «l'esercizio di centrali generatrici di energia elettrica per forza motrice, illuminazione e trazione, o per altri scopi industriali, l'esercizio delle ferrovie e tramvie e le assunzioni di concessioni di forza idraulica». I primi esperimenti (la centralina è presso la Darsena) arriveranno nell'autunno del 1913: cinquanta chilometri di cavi sospesi sulle vie percorse dal tramvai danno un look nuovo alla città. Figurarsi quando tutto quell'apparato di lampade a iridescenza e ad arco saranno accese! Ogni lampada iridescente conta per cinquanta candele, e ognuna di quelle ad arco per ben cinquecento... Il chilowattora sembra cancellare in un attimo ben centosei anni di tentativi di dar luce, con le stelle e la luna, alla città di notte. Si spengono progressivamente i mille fanali a gas pubblici, i seimila "becchi" nelle case e negli uffici e nei negozi...
Il petrolio aveva sostituito l'olio, quello puro e quello miscelato oliva-lentischio. Dal '68 poi era in funzione il Gazogene gestito dalla "Gaz and water Company liniited" che ricavava la luce e l'energia dal litantrace. Ma scaduta la concessione quarantennale già nel 1907, le forze politiche dell'Estrema avevano reclamato la pubblicizzazione del servizio in uno con l'avvio di un programma di edilizia popolare. Ecco adesso qualcuno dei frutti di quelle lontane battaglie.
Sono i segnali di un'epoca nuova, d'un mondo nuovo. A maggio Icaro ha volteggiato sulla città. Guido Paolucci e Maurizio Ramassotto sono montati su due "Chiribiri" e da Tuvumannu, sfidando il forte maestrale, sono volati in cielo per il godimento dei cagliaritani che non avevano mai visto un aereo. A giugno qualcuno fa l'inventario delle autovetture circolanti in provincia o, può pure dirsi, in città: sono quarantatre.
Nel settore industriale un prodotto locale conquista... il mondo: è la birra che s'è voluto battezzare, con giusto regionale orgoglio, "Ichnusa". A produrla è la "Vinalcool", quell'azienda che ha rilevato la concessione tramviaria con lo scopo anche di ristrutturare la rete e arrivare direttamente e più alla svelta in porto, per l'imbarco delle sue botti di moscato e di cannonau, di spumante e di vermouth, di vernaccia e di malvasia, di monica e di nasco e girò per non dire, ora, della birra e delle varietà di menta e di liquori per tutti i gusti. Azienda leader, coniugante agricoltura e industria, era stata fondata da Giovanni Battista Capra che, ancora giovanotto, nel '49 era corso da Quartu a Roma per battersi coi garibaldini contro l'invasore francese e i papalini. Ora l'assetto proprietario della "Vinalcool" è mutato. C'è dentro mezza Massoneria cagliaritana, da Enrico Pernis a Francesco Napoleone, a Giuseppe Leonardi, e tutto va per il meglio. Tutti i mercati sono aperti.
I padroni e gli operai. Ancora 1912. La Società operaia - anzi, di Mutuo soccorso fra gli operai - trasferisce la sua sede in un palazzotto liberty all'angolo fra le vie Circonvallazione (XX Settembre) e Lanusei (sa Butanica). Di lato aveva funzionato per lungo tempo il cimitero degli acattolici (ma per le salme senza benedizione è stato ormai allestito uno spazio tutto speciale a ridosso della cappelletta al Monumentale, dove nel 1895 sono stati trasportati anche i resti da sa Butanica). Poco sopra, alle spalle della Manifattura tabacchi, è perfettamente agibile il campo dell’"Arborea" ereditato, con tanto di spogliatoi e palestre e l'ombra protettiva di anziani fichi più liberty dei manufatti liberty, dall’"Amsicora". Poco sopra ancora, casa Serra, villetta Mari e la "Scala di Ferro".
Bretella di collegamento fra il Bastione, la Marina e la zona di espansione di Villanova, la via Lanusei aveva ospitato, verso il campo Cappai – salendo sulla destra e incrociando la via GesùMaria, poi Eleonora d’Arborea -, il primo orto botanico della città, ed aveva anche accolto, nel 1908 e per un anno circa, l'asmatica tipografia che don Uras e canonico Puxeddu avevano voluto impiantare per la stampa del Corriere dell'Isola. Con le generose elargizioni dell'on. Merello è dunque sorta adesso, giusto alla base della "bretella", la nuova sede della Società operaia: quasi sessant'anni dopo la fondazione del sodalizio d'impronta garibaldina e para-massonica (e perciò mai rigidamente politica né tanto meno classista, sempre coerentemente mutualistica piuttosto che ideologica).
In autunno Raffa Garzia - il lontano conferenziere (diciassettenne!) del "Tuveri", ormai da nove anni comproprietario (erede del padre comproprietario e deceduto da alcuni anni) e direttore de L'Unione Sarda nonché docente di Lettere al Dettori (professore anche di un giovane di Ales tanto gracile nel fisico quanto intelligente, Antonio Granisci, che ha debuttato come giornalista proprio sull'Unione) - cede tipografia e testata del maggior quotidiano isolano: ad Armando Boi la prima, a Luigi Congiu (cognato dell’on. Cocco Ortu) la seconda. Dopo un breve interinato la direzione passa al redattore-capo del Carlino bolognese, Ascanio Fortis, che però resiste non più di un anno; la tipografia invece diventa immediatamente l'elemento coagulante un più largo consorzio di aziende che, con il conferimento di capitali freschi, consente l'innovazione tecnologica (nuova rotativa piana, quattro linotypes typograph, ecc.) e, presto, il trasferimento nella nuova sede di Terrapieno.
Tutto si muove. Enrico Nonnoi, che abita ed ha studio al primo piano di palazzo Magnini (ingresso fra le solenni colonne di via Baylle e finestre sul porto) continua ad inventare favole melo-drammatiche che poi legge in pubblico, sempre con successo: in marzo s'è esibito al Circolo degli impiegati civili e liberi professionisti, recitando la "Fine dei colomboni" e "Pepe e Michele"… Uomo di minoranza antisistema (è repubblicano fra i “tutti monarchici” clericali o liberali non importa), avvocato giovane e brillante, energie da vendere, continua a farsi patrono politico delle categorie di lavoratori che gli sembrano in disagio – così a settembre si attiva perché il personale daziario ottenga l'istituzione di una cassa previdenza e soccorso –, e continua ad occuparsi di scuola e di agricoltura, settori che conosce bene entrambi.
Come rappresentante del Comune nel Consiglio d'amministrazione della Scuola enologica ha ora - settembre 1912 - dato alle stampe la relazione che ha presentato al ministro dell'Agricoltura circa l'andamento del corso di studi come è emerso dagli esami estivi, cui ha partecipato nella veste di commissario di governo. Il livello dell'insegnamento è ottimo sotto il profilo sia teorico che pratico (il podere annesso alla scuola - utilizzato per le esercitazioni - ha fruttato più dei poderi privati!), e l'applicazione agli studi da parte dei ragazzi è addirittura straordinaria. Non potrebbe esser migliore la fama dell'Enologica che attira sempre più numerosi i rampolli delle famiglie di proprietari agrari dell'hinterland cagliaritano.
Già, i rampolli degli agrari. L'Enologica è una scuola con una tradizione eccezionale, grazie anche al valore del suo fondatore, Sante Cettolini, epperò non riesce a raggiungere in pieno il suo obiettivo: inglobare anche i giovani che vengono dalle famiglie degli agricoltori, dei lavoratori della terra. V'è alla base di questo, certamente, un fatto di cultura: pastori e braccianti faticano a comprendere - come afferma lo stesso preside - «il beneficio che l'istruzione può apportare ai figli, o vogliono da essi ritrarre qualche utile nel più breve tempo possibile, e non hanno i mezzi per il pagamento della pur modestissima retta».
1913, anno di lampi anticlericali
Si riaffacciano, per la bisogna, anche i repubblicani di Cagliari, ma appena appena, tanto per dire che non sono morti dei tutto. Dopo il monumento a Dante, proprio davanti al Dettori - «Ai Divino Poeta, gli studenti liceali 1912-1913» —tocca finalmente all'eretico di Noia di essere onorato dalla città.
22 settembre. Insieme con altri esponenti delle sezioni repubblicane del capoluogo, di Guspini e di Sassari (presenti pure nella "Giordano Bruno" e nelle logge massoniche locali), Nonnoi e Meloni partecipano al raduno in onore dell’"abbrustolito" di Campo de' Fiori, 313 anni dopo quel martirio e quell'infamia dell'Inquisizione clericale.
È Raffaello Meloni a leggere le numerose lettere di adesione pervenute. Siamo già al teatro Civico per la commemorazione ufficiale, oratore l'assessore Satta-Semidei. In piazza Mazzini - come uno schiaffo quotidiano ai capitolari e beneficiati della Cattedrale, che entrano ed escono dalla porta dei Leoni - è stato appena inaugurato il monumento (ma Bacaredda avrà modo di lamentare: «L'omaggio reso a Giordano Bruno non fu degno né del suo gran nome né della sua dottrina; poiché il ricordo innalzatogli rimane indubbiamente una brutta cosa, meritevole di riabilitazione». Esattamente quello che L'Unione Sarda ha scritto per l'erma di Dante: «Meglio, oh assai meglio, che si fosse piantata una palma nel bel mezzo della piazza...»).
I repubblicani la loro testimonianza l'hanno resa, e neppure in seconda battuta. Al Comitato promotore essi hanno aderito subito, unitamente all'Associazione anticlericale d'avanguardia, alla Sezione radicale, a quella socialista, alla loggia massonica "Sigismondo Arquer" e all'Associazione democratica. «Il nascituro che non nasce mai», aveva scritto il clericale Corriere dell'isola riguardo al PRI cagliaritano per sottolineare i difetti dell'organizzazione. La risposta è venuta ora, ma sembra quasi una tantum, non politica ma solo dottrinaria.
Il 30 settembre (1912) c'era stato il dibattito in Consiglio comunale sulla proposta di contributo pro-monumento. S'era riaffacciato il ricordo della bella impresa del 1905, della fatica che c'era voluta per ottenere l'assenso alla sistemazione del busto di Bovio nella piazzetta delle Reali, superando le difficoltà di dediche e simili. Picinelli aveva rammentato la concessione dell'area, allora, da parte del Municipio. E Nonnoi - già presidente del Comitato in onore del filosofo di Trani - aveva replicato aspro: «Il Comune di Cagliari non diede neppure un centesimo: fu una vergogna». E poi ancora: «Quando si lanciò l'idea di erigere un busto a Giovanni Bovio, mentre anche i più piccoli comuni della Sardegna concorsero sia pure con modesto obolo, solo il Comune di Cagliari vergognosamente rifiutò di concedere un sussidio». Tanto per essere precisi. E proponeva adesso di quantificare, per il monumento a Giordano Bruno, in 200 lire l'intervento del Municipio. S'era poi deciso per la metà.
Ottobre. Il turno elettorale questa volta si snoda fra le coordinate dell'inedito patto Gentiloni, l'intesa che unisce cattolici e moderati liberali, l'accordo che suggella - dopo le mille eccezioni fattesi ormai regola - la pacificazione fra sistema politico (figlio del pur indimenticato vulnus del '70) e movimento cattolico organizzato.
La revoca del non-expedit, giustificata dalle garanzie pattizie, e l'azzardo ideologico (e solo ideologico: ma i cattolici sono per forma mentis i più machiavellici operatori della politica!) ancora pochi anni avanti impensabile dell'alleanza fra nobiltà nera e variopinte sciarpe scozzesi, fra alti gradi massonici e conti palatini - tutti tesi, dentro i confini della pletora dei collegi elettorali, a combattere il comune avversario dell'Estrema socialista - si coniugano con un altro allargamento del suffragio popolare, da cui però continuano a restare esclusi donne ed analfabeti.
Sono ormai 178.000 in Sardegna gli aventi diritto all'elettorato attivo, benché a presentarsi alle urne siano poi un declino, appena.
La destra catto-liberale a Cagliari fa blocco su Edmondo Sanjust, ministeriale convinto, deputato uscente e rientrante, con i suoi 4.158 voti. Ad opporsi a cotanto nome sono in diversi, nomi altrettanto importanti a Cagliari e hinterland, ma tutti escono dal confronto con le ossa rotte... Così Giovanni Marcello, liberal-centrista, già sindaco in un interregno bacareddiano (fra il 1907 e il 1910): 1.900 voti; così Gino Corradetti, socialista: mille voti quasi tondi. E così Antonio Giuseppe Satta-Semidei, il radicale che ha ricevuto l'appoggio formale della sezione repubblicana (oltre che della propria), che raccoglie 1.195 voti.
Il 1914, l’anno della vigilia
Dopo quasi tre anni va esaurendosi l'alleanza amministrativa laica stipulata a suo tempo fra Ottone Bacaredda, l'Associazione democratica ed i repubblicani. Un'intesa che naturalmente è stata egemonizzata dalla prepotente personalità del sindaco e dalla sua capacità amministrativa.
L'incremento demografico ha imposto di varcare i confini dei tradizionali quartieri cittadini. L'attività edilizia sta sopraffacendo orti e cardeti che dalle ultime propaggini di via San Giovanni o di via Garibaldi vanno giù in direzione di Monte Urpinu, di Molentargius, del Poetto. Son estesi molte centinaia di ettari questi campi verdi: su tutto dominano le piante spinose dei fichi d'India, più numerose di grilli e lucertole, da sempre padroni di questa parte della città. Le case sorgono lungo il rettifilo che dal porto conduce press'a poco all'antico convento di San Benedetto, destinato a perdere il suo secolare privilegio: il silenzio. Una cinquantina sono gli appartamenti costruiti dalla mano pubblica per sovvenire alle impellenti necessità del ceto operaio. L'area è quella di campo Carreras, 30.000 metri quadri.
Il cuore delle attività sportive - dove più alta di tutte è sempre la stella dell’"Amsicora" - solo temporaneamente ha smesso di essere ai piedi del colle di Bonaria. Da due anni appena, costretto dalla pretesa di un aumento eccessivo del canone di affitto, il cav. Costa ha dovuto traslocare coi suoi ragazzi e portarsi in un campo fra la stazione ferroviaria e la piazza del Carmine. Ma è certo: l’"Amsicora" tornerà al suo stadium, a quel luogo in cui per dieci anni una massa imponente di cagliaritani ha ammirato l'agonismo e la tecnica della nuova generazione belle époque. (Tutto era cominciato nel 1898 per le tradizionali "feste di maggio". Quello era anche il maggio di Pelloux e di Bava Beccaris, il maggio della sospensione delle libertà statutarie, il maggio dell'alt alla vita associativa terrore dei poliziotti, un diktat che aveva colpito pure i partiti dell’opposizione repubblicana e socialista). A tamburo battente era stato allestito un velodromo, ma negli anni, dopo il ciclismo e il motociclismo, era anche venuto il tiro al piccione e poi ancora, con l’"Amsicora", la ginnastica e l'atletica e la scherma e, con Valentino Martelli, il tennis).
Cagliari sta definendo il suo nuovo assetto. Gli stallaggi sono stati allontanati dal centro abitato e sospinti verso la periferia di Sant'Avendrace. Alla Marina - in via Baylle, dove da anni opera il poliambulatorio del professor Raffaele Aresu - il Comune ha istituito il suo ufficio sanitario. Da risolvere rimane invece il problema idrico. Le nuove dimensioni della città, il progresso della cultura igienica (per le case non meno che per le persone), impone un plus di risorse a disposizione. La siccità che ha colpito la Sardegna e Cagliari particolarmente fra 1912 e 1913 ha obbligato ad integrare l'apporto dei bacini di Corongiu, in funzione ormai da circa cinquant'anni, con le disponibilità degli antichi pozzi urbani ai quali si era pensato di non dover fare più, in nome della modernità, ricorso.
Bacaredda (con l'assessore Satta-Semidei) ha destinato nel 1913 il cinquanta per cento del bilancio municipale al finanziamento di opere di pubblica utilità. Lo sforzo è obiettivamente immane.
Il 1914, vigilia della "grande guerra", è un anno cruciale anche nella vita benefica della città. È l'anno in cui suor Giuseppina Nicoli, una lombarda di mezz'età manager della carità, giunge alla direzione dell'asilo "Marina e Stampace", autentico polmone di solidarietà dei quartieri popolari di Cagliari. Ogni quartiere ha, ormai da decenni, la sua "officina" della fraternità. La Cagliari cattolica ha sempre sfornato iniziative, qualche volta anticipatrici e profetiche per esempio nei modelli pedagogici, altre volte tese lungo il filo di uno stanco e tradizionale paternalismo di stampo clericale, le quali hanno operato da stanza di compensazione fra ceti e da luogo d'incontro fra generazioni. A Castello il conservatorio delle "Figlie della Provvidenza", il più antico di tutte quelle iniziative, e l'asilo "Umberto I e Margherita", vocazionalmente sensibile alla realtà dei miseri rintanati nei sottani tisici delle vie-bisce piuttosto che, come il primo, alla "civile condizione" delle fanciulle con schiatta in disgrazia; a Stampace l'asilo "San Giuseppe", voluto da un francese arricchitosi troppo in Sardegna e desideroso di rendere parte di quel che aveva ricevuto; a Villanova l'asilo "Carlo Felice", da subito all'avanguardia: e poi, analogo nello statuto di accoglienza, l'istituto "San Vincenzo de Paoli", in località Stelladas, tra il versante orientale di Castello e Monte Claro, zona Is Mirrionis, rimontante addirittura al 1843 e perciò più datato, condizionato dalle cautele e dalle convenzioni di tempi imbalsamati dal classismo rovesciato, ideologico e pratico.
Scuola e lavoro: binomio pedagogico, la sola via possibile per uscire dalla miseria e dall'ignoranza dell'oggi ed entrare, con un mestiere in mano, nel domani familiare e sociale, nelle case e nelle industrie. C'è la cultura generale e di base (con scrittura e calligrafia, lettura e "numerazione", canto e grammatica e naturalmente catechismo) e c'è qualche corso extra di pianoforte, di pittura e di lingua straniera, ma anche la "formazione professionale", l'apprendistato nei laboratori e negli opifici o nei poderi annessi ai convitti in perenne stremo. E poi ci sono gli istituti "speciali" per handicappati, ciechi e sordomuti in primis, anche qui alla ricerca di una qualche "normalizzazione" di stato, attraverso l'istruzione scolastica e l'apprendimento di un mestiere artigianale.
Affidati tutti alle Figlie della carità (con suor Nicoli sopra tutte le altre emergono le straordinarie figure di suor Maria Jacob dell'asilo "Umberto I e Margherita" e di suor Maria Calcagno del "Carlo Felice"), chi in un modo e chi in un altro le "opere pie" - sovvenendo all'immediato e guardando al futuro dei loro giovanissimi ospiti - cercano di alimentare, pur con ogni prudente gradualismo di forma ma anche con la convinzione indotta dal bisogno, il rapporto con la città. Per esempio raccogliendo commesse di lavoro dalle aziende (tessili in specie, attive nella zona portuale), inserendo ragazzi e ragazze nelle scuole pubbliche (la Normale in via Lamarmora, ma anche le elementari nelle aule del "Satta"), promuovendo manifestazioni che siano capaci di fruttare risorse per l'amministrazione magari solo ordinaria (feste di beneficenza, concorso a funerali di generosi borghesi o aristocratici), ospitando associazioni di chiesa (tipo Luigini e Figlie di Maria) e servizi sociali (del genere delle "cucine economiche" per i poveri o dell’"Opera della misericordia" pro-incurabili) e addirittura facendo degli stessi ospiti sperimentali e quindi provetti operatori di solidarietà a favore dei più emarginati, anche oltre i confini del territorio rionale.
Obiettivo: la promozione umana, l'emancipazione dai risucchi dell'accattonaggio e della prostituzione. Il recupero di trovatelli e sbandati insieme, se possibile, con l'addottrinamento religioso verso cui il veicolo migliore e più produttivo resta comunque la testimonianza del vivere, del fare gratuito e gioioso. Ed è per questo che la pietas di laici e di massoni non meno di quella di credenti e di osservanti continua a poggiarsi sulle "opere" e con discrezione continua ad offrire il suo "grazie" che, nella materialità dell'espressione, è certo ad un tempo e civile morale.
E in Municipio? Sta finalmente per completarsi il palazzo civico. Nel '14 Bacaredda potrà presiedere il Consiglio comunale nella nuova sede. Il 24 novembre: una gran data davvero. Il nuovo turno elettorale ha cambiato tutto nella geografia politica cittadina. Tutto tranne, naturalmente, Bacaredda.
Segnali dell'antefatto. Nonnoi, Meloni (segretario dei repubblicani) e Garau - l'intero gruppo repubblicano in Consiglio cioè - si sono associati, nel maggio, alle riserve espresse dal socialista Piga circa l'opportunità di talune spese deliberate dall'Amministrazione. A Cagliari è venuto il duca degli Abruzzi e il Municipio lo ha onorato con un gran ricevimento.
L'assessore Ballero, che non si aspettava quel "no", afferma di comprendere «le ragioni di coerenza (ideologica) che hanno mosso i colleghi nella loro disapprovazione». Replica Nonnoi: non si tratta di ideologia e del principe, dice press'a poco. È solo che la giunta non doveva esagerare nei festeggiamenti. Inopportuni, oltretutto, viste le critiche condizioni della città e dell'intero Paese.
Interviene il sindaco. Domanda se il dissenso dei consiglieri socialista e repubblicani sia da intendersi come biasimo all'esecutivo: «perché in tal caso io ed i miei colleghi di giunta sappiamo quello che ci rimane da fare». Spiega che i festeggiamenti erano doverosi, trattandosi di un esponente di casa Savoia, e che in ogni caso sarebbero stati inammissibili atti di "pitoccheria". Nonnoi, Meloni e Garau (con Piga) chiariscono i limiti delle loro riserve: nessun biasimo, solo perplessità...
Ai comizi per il rinnovo municipale il PRI torna alla logica bioccarda, all'alleanza coll'Estrema popolare. L'Unione Sarda ironizza: la Sinistra punterebbe alla «conquista completa del Comune», Umberto Cao sarebbe «sindaco in pectore», ecc. I repubblicani ricandidano Nonnoi e Meloni. Si ritira invece Angelo Garau, assorbito da impegni professionali, sostituito dal giovane farmacista Pietro Spano. Bacaredda torna a "giocare" in proprio. I massoni (Efisio Nateri, Giuseppe Nissardi, Ubaldo Sommaruga, G. Sanna-Randaccio, Ignazio Macis, Dionigi Scano, Luigi Gioda, R. Enrico Pernis, Francesco Putzu) scendono numerosi in competizione, presenti nelle liste concorrenti di area liberale un po’ moderata un po’ progressista. Ce n'è qualcuno, naturalmente - perché in loggia convivono opinioni opposte - anche nella scheda "popolare", quella includente i repubblicani. Ci sono ad esempio Mauro Angioni, avvocato e prossimo parlamentare sardista, e Gio. Battista Rossino, pittore, il suo collega Antonio Ghisu, ed il rag. Eraclio Mereu (questi ultimi due social-riformisti). I socialisti intransigenti presentano una loro lista super-demagogica, con Virgilio Piga, Carmine Orario, Augusto Dragoni, ecc.
Si quadruplica, a Cagliari, il numero degli elettori, nel 1914: da tremila circa a dodicimila. Il trionfo è, ancora una volta, per Bacaredda, che raccoglie 2.200 voti. La sua lista piazza 32 consiglieri su 40. Gli altri otto sono appannaggio del Partito clerico-moderato. I "popolari" non ce la fanno, i repubblicani non tornano in Consiglio, non partecipano alla storica assemblea che inaugura la nuova aula municipale nel palazzo di via Roma. Umberto Cao, il radicale "sindaco in pectore " s'accontenterà d'esser sindaco "ombra", ma fuori dal Consiglio, primo dei non eletti benché con più del doppio dei voti raccolti dai repubblicani, che non vanno oltre i quattrocento.
Il nuovo municipio e… certe nozze d’argento
Martedì 24 novembre. Una sede nuova per un Consiglio comunale nuovo. È in una grande aula rettangolare destinata alla biblioteca che si riunisce l'Assemblea civica. La sala, al primo piano del municipio, mostra tutta la virtù pittorica di Adolfo Cao: nel dittico della volta la maestria dell'artista ha rappresentato gli allegorici quadri del cimento e del trionfo, rinchiusi da un frego le cui nappe angolari realizzano quattro figure femminili, simboli della scienza, della poesia, dell'arte e della storia. Due medaglioni stagliano i profili di Dante e di Leonardo.
Tanta solennità per un episodio davvero storico della vita comunale. Non è infatti solo l'inaugurazione del palazzo che si festeggia, ma il venticinquesimo anniversario del sindacato più orgoglioso e produttivo che Cagliari millenaria ricordi: nelle mani di Ottone Bacaredda le sorti della città sono state affidate con speranza dal 1889. Dalla casa del cittadino Maimoni, nell'apice castellano, al "palazzo di città" vecchio di quattro secoli, dirimpetto al duomo ed all'episcopio, fino a questo modernissimo e insieme austero edificio che significa tante cose nella Cagliari novecentesca... Coincidenza migliore, anche umana e personale oltre che amministrativa e pubblica, non poteva esserci per battezzare il nuovo municipio.
Parla Bacaredda. Infiammano tutti, assemblea e pubblico, le parole del sindaco nel quale ormai, dopo tante opposizioni anche immotivate che sono andate via via stemperandosi, l'intera città si riconosce. «Viva Ottone Bacaredda, viva il primo cittadino di Cagliari!», grida qualcuno, mentre l'ovazione che copre le sue ultime parole strappano anche qualche lacrima d'emozione a questo gentiluomo ormai sessantaseienne, giustamente stanco dopo tante fatiche eppure ancora pronto a servire l'interesse di Cagliari, della gente di Cagliari.
Interviene poi il consigliere Gioda: «Illustrissimo signor sindaco, consenta a me, come il più vecchio per età e come il veterano dei colleghi del Consiglio, interpretando il sentimento unanime di noi consiglieri tutti, di esprimerLe, oggi che ricorre il venticinquesimo anno della sua nomina a sindaco della nostra amata città, i sensi della più alta e sincera ammirazione per la sua illuminata opera e per la sua benefica amministrazione...».
E, dopo i ringraziamenti commossi, il lavoro. Il Consiglio comincia una lunga tornata di ratifica di delibere adottate dall'esecutivo. Si continuerà a discutere e a decidere su stallaggi e concessioni di aree fabbricabili, su storni e rettifiche di bilancio e su sistemazioni di strade, ecc.
Peccato per i repubblicani. Non hanno potuto partecipare alla festa. Nonnoi, insieme col giovanissimo sassarese Michele Saba, ha dato come repubblicano, nel maggio, la sua adesione al primo congresso regionale sardo, convocato a Roma e organizzato dal Circolo degli isolani che nella capitale hanno stabilito la loro residenza. (Per bizzarria di calendario esso si svolge come temporale premessa alla dodicesima assemblea nazionale del PRI che a Bologna confermerà la linea Zuccarini di una repubblica basata sulle autonomie territoriali).
Presieduta dal sen. Parpagila e dal comm. Crespo, la riunione romana si svolge a Castel Sant'Angelo. A parteciparvi sono almeno in trecento. L'adesione è stata corale e i contributi di analisi e di proposta hanno impegnato severamente il meglio dell'intellettualità e della politica, delle professioni e dell'imprenditoria sarde.
La Sardegna ormai da sessantasette anni ha rinunciato alla sua storica autonomia di Regnum Sardiniae, ma l'Italia - cioè il Parlamento e il governo centrali, Torino prima, Firenze e Roma poi - non ha corrisposto a quell'atto un po’ ingenuo di fiducia, a quell'anticipato contributo al processo dell'unificazione territoriale della Nazione. Non ha corrisposto con la solidarietà degli investimenti produttivi e sociali al desiderio dell'isola di partecipare, anch'essa da protagonista, alle principali correnti dei traffici commerciali e del progresso civile. E invece sono venute le imposte sempre più gravose, e i balzelli ormai strozzano l'agricoltura.
Il congresso discute di ogni aspetto della vita sociale ed economica regionale: di sistemazioni idrauliche e di bonifiche, di rimboschimento e di impianti elettrici, di comunicazioni terrestri e marittime e di colonizzazione e protezione della piccola proprietà, di emigrazione e di credito agrario, di usura e di fisco, di miniere e di pesca, di malaria e di tracoma, e di banditismo, ecc. Al centro di tutto, e come sintesi di tutto, c'è l'attesa della legislazione speciale, di un flusso di finanziamenti adeguato ad affrontare nel profondo la "questione sarda". Ci sono state ormai chissà quante inchieste parlamentari ma l'isola continua a pagare i suoi prezzi.
Sardegna - la rivista che Attilio Deffenu sta stampando a Milano e cui fra gli altri collaborano Enrico Berlinguer e Michele Saba e Dino Cannas ecc. - ospita alcune delle relazione presentate al congresso. Ci crede il giovane vulcanico intellettuale nuorese, "inorganico" per antonomasia, socialista, antiprotezionista e autonomista, a questo summit. Quantomeno si pone in atteggiamento di attesa, d'apertura. Ma forse ha ragione il suo collaboratore e antico compagno del foglio socialista sassarese La Via, Lucio Secchi, a pronosticare l'insuccesso: «Alla chiusura di questo congresso verrà a trovarsi sul banco presidenziale un grosso fascicolo di ordini del giorno con i quali, è da credere, si rivolgeranno rispettosissimi voti al governo perché si decida a far tante cose che non ha voluto mai fare. Siccome non è da supporre nemmeno lontanamente che il governo, con tutto il rispetto dovuto ma non mai usato alla Sardegna, vorrà considerare quegli ordini del giorno come decreti della Provvidenza...». Ma, volontà a parte, non è neppure il momento migliore per "distrarre" sulla Sardegna l'attenzione governativa e, in generale, degli italiani: «Essi hanno da pensare alle loro nuove colonie, ed ognuno capisce che, trascurare oggi la Libia per occuparsi di questa miserabile isola nostra ben soggiogata e asservita, sarebbe delitto di lesa patria», aggiunge amaro Secchi.
I tempi sono... eroici davvero, oltre ogni ironia o polemica. Sono i giorni di Sarajevo. Nell'Italia interventista - ma dalla parte dell'intesa e contro gli Imperi centrali - i democratici sopravanzano tutti, mossi dal lascito morale e patriottico, propriamente etico-politico, di Mazzini e Garibaldi, che è lo stesso di Guglielmo Oberdan: una nuova guerra d'indipendenza per strappare a Cecco Beppe Trento e Trieste ed unificare finalmente la Nazione.
Ma un lutto più domestico intanto colpisce la Sardegna che vuole cambiare, fedele all'Italia ma anche alla propria tradizione "rivoluzionaria". Ad andarsene è Sebastiano Satta, il poeta delle Icnusie, dei sonetti in memoria di Giorgio Asproni e di Giovanni Battista Tuveri, di Garibaldi e dei morti di Buggerru, l'amico fraterno di Francesco Ciusa, il ribelle e progressivo carducciano di Nuoro: «Udite, morituri archimandriti, / Patriarchi custodi / Dell'antico costume, e voi, banditi, / Belli feroci prodi: / La patria che nudrì l'anima amara / Di crucci, è moribonda. /Or voi con l'elce fatele una bara / Grande grave profonda, / E, morta, ve la chiudete, nei manti / Neri del secolare / Suo silenzio ravvolta, e senza pianti, / Sprofondatela in mare».
Ora lo piange, con tutta l'isola, Montanaru: «Da sas tuas canzones, Bustianu, / Nostra gloria manna, e nostr'onore! / E oe tue ses mortu! Ite dolore / Ite luttu a su meu coru sanu!».
All’Eden, Battisti pro-intervento
12, 13 dicembre. Cesare Battisti è a Cagliari. Giunge in treno da Sassari; è accolto con tutti gli onori popolari da una folla strabocchevole convenuta alla stazione. Un folto gruppo di studenti intona l'inno di Mameli e un breve corteo lo accompagna fino all'albergo, al "Quattro Mori". Da qui, per necessità di risposta all'insistito benvenuto, s'affaccia per salutare la città, ringraziare dell'accoglienza, assicurare che, al ritorno a Trento, porterà con sé «il ricordo sacro dell'isola fremente e buona», isola italiana, isola che un sincero senso di patriottismo «stringe alle sorelle lontane andanti all'amplesso della madre patria».
Battisti ha 39 anni, ma ha un volto stanco, quasi da vecchio. I baffoni e il pizzo generoso accentuano un'immagine pensosa, austera. Veste sempre di scuro. Un fiocco nero al colletto, un cappotto pesante, una gran lobbia: così compare in città, così lo ritrae Renato Paglietti in un'istantanea che lo mostra con un lungo seguito di amici: Nonnoi, Fasola, ecc.
Da qualche mese - tre, quattro - ha varcato il confine e s'è stabilito a Milano che è divenuto il centro della sua attività di propaganda irredentista. Prenderà parte attiva ai combattimenti della guerra, lui che è stato sempre, già ventenne, soprattutto uomo di penna. Gli austriaci lo faranno prigioniero nel luglio del '16 a Monte Corno. Processo sommario, condanna al capestro, una morte da eroe fra 10 offese inclementi della soldataglia. Un grido: «Viva Trento italiana, viva l'Italia!».
Ore 21: banchetto al "Firenze", nel corso Vittorio Emanuele. Al tavolo d'onore il meglio di repubblicanesimo-radicalismo-massoneria cagliaritani: Enrico Nonnoi, innanzitutto, poi Antonio Ferrari, Dionigi Scano, Giuseppe A. Satta-Semidei. E nel grande salone altri settanta.
Al dessert il saluto formale all'illustre ospite, all'«uomo generoso che in questo momento esprime il sogno più intensamente sognato da tutto il popolo d'Italia», è Nonnoi a porgerlo.
Risponde Battisti: «Le accoglienze della città di Cagliari mi commuovono profondamente. Ho con gioia mai provata accettato l'invito di venire in questa terra forte. Ho sentito tanta onda d'affetto conquidermi e commuovermi che non ho quasi forza di parlare: ma vorrei che tutti i miei sensi di vera riconoscenza al popolo sardo si intendessero appieno nel grazie che ad esso rivolgo: grazie pieno di amore, di ammirazione.
«Io sento per la Sardegna - aggiunge - l'amore più vivo. Ricordo che tutti noi trentini abbiamo sempre amato quest'isola come fratelli. E vorrei che la memoria mi aiutasse per ricordare i versi che un trentino ha scritto per la vostra isola: versi pieni d'affetto, di sentimento, di amore. Il sacrificio che l'Italia oggi vuol fare è grande; e il giorno che anche noi figli irredenti potremo chiamarci, come voi ci chiamate, italiani, sarà un giorno di gloria per tutti. Salute a Cagliari, degna figlia di Roma, degna figlia dell'Italia grande».
Applausi ed evviva si levano forti e prolungati ed esprimono bene l'emozione che ha pervaso tutti.
Adesso parla Satta-Semidei. Dice: «Mentre il governo medita, mentre i cuori fremono in un gran silenzio quasi forzato, mi è oggi gratissimo rivolgere il mio pensiero e la parola sentita dell'anima mia al nostro fratello nel cuore e nelle aspirazioni on. Battisti, figlio di quella terra cui i nostri santi desideri si rivolgono. Trento e Trieste ritorneranno anche politicamente italiane: nell'anima e nelle aspirazioni lo sono e lo sono state sempre».
Conclusione: «Possano tutti i fratelli stringersi presto la mano di fronte alla patria comune». Un'infinità di acclamazioni, di auspici gridati a tutta voce: «Viva Trento e Trieste italiane!», chiudono la serata.
Mattina del 13 dicembre. La sala del cine-teatro "Eden" è stracolma di pubblico. L'atmosfera è entusiastica. Battisti è dapprima atteso, poi seguito, nella sua esposizione, con un carico d'affetto straordinario, il feeling che lo apparenta ai suoi non è facile da spezzare. C'è anche un particolare familiare cui forse egli pensa in questo momento: sua moglie Ernesta è stata "cagliaritana", ha vissuto a Cagliari ed ha studiato al Dettori di cui il padre era preside.
L'oratore esordisce riferendosi alle pretese economiche dell'Austria sul Trentino, dimostrando la loro infondatezza. «Le province irredente non solo sono politicamente oppresse ma sono anche economicamente sfruttate», afferma. E aggiunge che «è giunta l'ora di stendere le braccia alle due provincie che da così lungo tempo in mezzo alle più odiose persecuzioni, ai più intensi dolori, ai più sublimi sacrifici tengono sacro il culto della loro grande patria».
Secondo molti - dice ancora - «Trieste in mano all'Italia perderebbe ogni e qualunque importanza commerciale perché il suo commercio verrebbe assorbito da Venezia» e invece - spiega - «Trieste deve la sua floridezza economica al fatto di essere l'unico sbocco dei commerci del nord sul Mediterraneo e questo suo privilegio non potrebbe in alcun modo per ragioni ovvie avere Venezia».
Accenna poi alla civiltà tedesca, affermando che «sarebbe ingiusto non riconoscere nella Germania il centro più progredito delle scienze, delle arti e dei commerci, ma oggi noi non dobbiamo pensare a ciò, dobbiamo pensare al pericolo dell'egemonia in Europa di uno stato già potente e del danno che quest'egemonia porterebbe. Quando la tragica ora di storia che viviamo sarà passata, allora si potrà riparlare dei meriti dei filosofi, degli storici, dei musicisti.
«Quando l'Italia stipulò il suo trattato di alleanza con la Germania e l'Austria - soggiunge - quest'ultima era considerata come un cuscinetto per l'equilibrio europeo, oggi non più. Tutti i popoli che compongono l'impero degli Asburgo tendono a ricongiungersi alle loro patrie.
«L'Italia - conclude - è convinta di tutto ciò ed ha giudicato giunto il momento di intraprendere l'ultima guerra di indipendenza. Se non ci fossero mille altri sintomi di questa sua incrollabile volontà, basterebbero le nobili e patriottiche parole pronunciate dal presidente del Consiglio on. Salandra, parole che furono accolte dall'unanime applauso della Camera, e così il sogno di Garibaldi si avvererà e il sublime sacrificio di Oberdan non sarà stato inutile».
Molti occhi sono lucidi, in sala. Gli studenti intonano "Fratelli d'Italia". L'inno interrompe uno scroscio d'applausi che pare non voler finire.
Ripasso democratico fra tamburi di guerra nel 1915
«Dio salvi patria nostra benedetta da Giovanni Giolitti minatore monarchia», aveva vanamente cercato di telegrafare - quando l'Italia aveva appena abbandonato la posizione di neutralità - il professor Domenico Lovisato al presidente del Consiglio Salandra. L'ufficio gli aveva respinto il messaggio. Così - ma senza riferimenti polemici ai "gigante" di Dronero - l'intero corpo docente dell'Ateneo: «Il Consiglio accademico della R. Università di Cagliari, in questo grave momento storico, solenne di speranze mentre la Patria si accinge al grave cimento per la difesa dei suoi sacrosanti diritti della libertà e della civiltà dei popoli, fidente nell'alto senno del Governo, nel valore dell'Esercito dell'Armata, nelle virtù dei cittadini, esprime il più fervido augurio che si compiano gli alti destini d'Italia. Rettore Casagrandi»; «Professori Università Cagliari lieti che conforme volontà di popolo le sorti della Patria siano nuovamente affidate a chi della lotta ha saputo nobilmente interpretare le più alte idealità, invocano inflessibile perseveranza nel civile proposito conseguimento aspirazioni nazionali e difesa supremi interessi della civiltà e della libertà. Vinci, Casagrandi, Fasola, Binaghi, De Lieto, Gentili, Putzu, Cocco, Garau, Massenti, Castelli...».
Almeno Garau e Castelli sono repubblicani di fede e di partito. E Salandra, uomo della destra liberale e monarchica, non è neppure il meglio che la politica nazionale possa esprimere. Ma è l'uomo che, col suo ministro degli Esteri Sidney Sonnino, ha concluso le intese segrete di Londra ed ha portato l'Esercito allo scontro con l'ex-alleato triplicista, l'Austria «carcere dei popoli».
I repubblicani di Cagliari hanno partecipato alla dimostrazione patriottica di metà maggio, quando il Governo ha dichiarato l'entrata in guerra dell'Italia. Da palazzo Vivanet, dal balcone di casa Massenti, s'è rivolto alla folla che, eccitata dagli eventi, s'è data convegno in piazza XXVII Marzo (Carmine), anche Enrico Nonnoi. Mancano i socialisti, che hanno parlato di un «governo guerrafondaio», riferendosi a quello Salandra, accusandolo di orchestrare «le dimostrazioni irredentiste per far apparire la guerra come volontà popolare».
A Cagliari esplode il mito patriottico: lo si avverte nell'eccitazione dei singoli; le invisibili trame della psicologia collettiva danno la carica anche a chi sembra meno acceso. Non mancano certo le venature nazionaliste, magari inconfessate, che prendono un po’ ogni ambiente, non escluso quello socialista e neppure quello cattolico. È sentita come un evento necessario ed ineludibile la partita da giocarsi, costi quel che costi, per la conquista della più completa unità territoriale. È dunque manifestazione di popolo quella che il 16 aprile 1915 si replica ancora nell'antico forum cittadino, in quella piazza disputata negli ultimi anni dagli acidi che guelfi e ghibellini locali si sono generosamente e reciprocamente sparsi addosso. Non è più teatro di divisioni ma di unità la piazza XXVII Marzo.
In ventimila hanno ascoltato le solenni parole di Sanna-Randaccio («Cittadini di Cagliari, il vaticinio del Poeta si è avverato. I coboldi e gli gnomi stavano per trionfare. Ma la generazione garibaldina discese alle rive del mare e tese le braccia su le grandi acque e gridava: Vieni, ritorna, o duce, o liberatore...»), di Bacaredda, di Casagrandi, di Delisi, che è un sindacalista con fama di repubblicano.
Veramente come un sol uomo, come un fiume ribollente, la folla ha poi cominciato il suo pellegrinaggio fra consolati ed uffici pubblici. Monsieur Leca, il diplomatico francese, ha ringraziato e detto di aver sempre avvertito «il patriottismo sardo forte come il granito delle vostre montagne». Un concerto di evviva ha subissato poco dopo la delegazione belga.
Da meno d'un mese l'Università ha laureato in Giurisprudenza Emilio Lussu. Hanno assistito alla discussione della tesi (dal supponente titolo Nuovo contributo alla teoria del salario), a palazzo Belgrano, un buon numero di amici-colleghi tutti interventisti, come lui è interventista, meglio: «un interventista chiassoso, anzi il leader degli interventisti universitari di Cagliari», come gli capiterà di ricordare accennando a quel pirotecnico post-laurea, con «dimostrazioni nell'aula magna e poi in piazza, con cariche di carabinieri a piedi e a cavallo».
Senza una cultura politica vera e propria, ma capace di sentire sulla pelle quel bisogno di chiudere finalmente e dignitosamente la partita risorgimentale, Lussu ha frequentato qualche amico repubblicano a Cagliari, ha riflettuto - con trasporto forse più di sentimenti che di ragione - sul dovere o sul mandato "provvidenziale" che ora incombe sull'Italia progressista, antitriplicista.
Il 13 maggio - giusto due settimane dopo il suo dottorato e alla vigilia della manifestazione dei ventimila in città - s'imbarca sul transatlantico "America", ancorato al porto del capoluogo. È sottotenente. Comincia la grande avventura, l'episodio che indirizzerà la sua vita.
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