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Andrea Giulio Pirastu

Tanti auguri a Paolo Fadda, conoscitore e rivelatore di Cagliari e dei Cagliaritani d’un tempo

I bellissimi novant’anni di un ragazzo innamorato della sua città

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Di Andrea Giulio Pirastu


Non ho una grande memoria ma, stranamente, ricordo con facilità le date di nascita. Alcune più di altre. Il trenta marzo lo ricordo bene, e questo compleanno è – forse – il più speciale, rispetto a tutti gli altri ottantanove, del nostro carissimo Paolo Fadda: perché è il novantesimo e perché è quello precedente al novantunesimo, che sarà altrettanto importante, a cui ne seguiranno speriamo tantissimi altri.

Novant’anni passati da questo stesso giorno di primavera del 1930 del nostro concittadino ad oggi – a mio giudizio – tra i più illustri; per la sua storia di manager di successo, di politico e di giornalista per lo più editorialista e di saggista e – perché no – per le sue amicizie “di uomini potenti”. Egli, «spettatore privilegiato di quel che è accaduto nell’isola negli ultimi 50 anni», oggi è invece il nostro “osservato speciale” per ciò che con grande galanteria, sapienza, generosità d’animo, impegno e passione ha saputo regalare alla città di Cagliari e alla Sardegna tutta, egli che più di tanti amministratori l’ha capita ed interpretata, conoscendone meglio il suo passato.

Ricordo quando, ormai dieci anni fa, nel 2010, si schierò in prima linea a difesa del comune amico, e parroco di Sant’Eulalia, don Mario Cugusi, dai soprusi e dai modi villani di un vescovo pavido ed autoritario, poco incline all’ascolto. C’ero anche io quando il presule definì l’assemblea di fedeli - riunitisi a sostegno del parroco sofferente - una “baracca”. Paolo Fadda era lì, al fianco di don Mario, per consolarlo e consolarci, saggiamente, davanti a tutti, sull’altare.

Siamo uniti anche da comuni studi classici e, peraltro, vissuti proprio all’interno delle stesse mura dell’Istituto salesiano di viale Sant’Ignazio. Certo, in tempi diversi, ma accomunati da uno stesso sentire verso gli insegnamenti di don Bosco. Come ex allievi, nel 2014, da agosto a settembre lavorammo insieme (e con alcuni altri, tra i quali il comune amico Gianfranco Murtas) al volume “Un secolo con don Bosco a Cagliari”, per onorare la presenza salesiana nel centenario dell’arrivo dei primi figli di don Bosco a Cagliari, giunti nel capoluogo per avviare prima l’oratorio, poi l’istituto scolastico. Furono giornate intense, ma il risultato fu sorprendente: il libro venne molto bene. C’era da aspettarselo, dati i presupposti e gli autori.

Vorrei onorare questa giornata, nel mio piccolo, portando come argomento di comune interesse – di Paolo Fadda e mio – e congiunzione fra noi proprio la nostra amata Cagliari, riproponendo alcuni suoi scritti su di essa.

A Cagliari son nato e ho trascorso gran parte della mia giovinezza, sino ad oggi. Sento, però, di essere anche parte d’altro, in quanto, una quota parziale delle mie origini non sono cagliaritane: madre villacidrese e padre guspinese con ascendenze ogliastrine. Il legame maggiore, dopo Cagliari, è senza dubbio con Villacidro, dove ho sempre trovato assonanze e colleganze tra persone, esperienze e vite di personaggi la cui conoscenza mi è parsa – ed è ancor oggi – di grande interesse.

Uno tra i brani che propongo, qui sotto, è tratto da “Sa cittadi avolotara” (Sanderson Craig – Editore in Cagliari, 1991), in cui il nostro caro festeggiato ci descrive gli “anni febbrili” dell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando Cagliari cambiò completamente volto con nuovi palazzi, eleganti e dall’architettura moderna, la cui costruzione avvenne, nel maggiore dei casi, tra l’ultimo decennio del diciannovesimo sec. ed il primo del secolo successivo. Le famiglie borghesi commissionavano, gli architetti e gli ingegneri progettavano e gli edili costruivano; spesso la categoria dei costruttori corrispondeva con quella dei proprietari del palazzo che, oltre ad occupare per la propria famiglia il piano nobile sapevano, poi, ben sfruttare gli ampi appartamenti e locali commerciali che questi bei palazzi avevano, mettendoli a reddito. Era nata, all’epoca, una sorta di sfida tra le varie famiglie, le più ricche, che riuscirono ad adornare in breve tempo, con un crescendo di bellezza - per esempio - tutto l’intorno della piazza del Carmine. Mentre, il completamento della “palazzata di via Roma”, che andò a far parte, via via, del quadrilatero direzionale e commerciale (con il Largo Carlo Felice, via Manno e viale Regina Margherita), rappresentava il “mantra” di ogni amministrazione comunale del tempo. L’obiettivo era, infatti, che si completasse la stazione e tutta la serie di palazzi che affacciavano (e affaciano) sulla via Roma, con i suoi portici, sino alla darsena. 

Proprio sul porticciolo della darsena, nel viale Regina Margherita, fronte golfo, si affaccia il palazzo Zedda-Piras, uno dei più bei palazzi di Cagliari. Esso fu progettato dall’Ingegner Giovanni Marcello – che, a lungo assessore, sarà per quasi tre anni (dal 1908 al 1910) sindaco di Cagliari – su commissione del cognato Francesco Zedda-Piras, industriale/commerciante vitivinicolo, nonché avo di Paolo Fadda, che vive proprio all’ultimo piano di questo maestoso edificio. Un appartamento che, anche internamente, non smentisce la bellezza esterna, ed incanta la vista eccezionale sul golfo e sulla via Roma; lo posso dire per esperienza personale perché, tempo fa, fui gentilmente invitato per organizzare una presentazione del libro “L’amico di uomini potenti”, che si sarebbe tenuta presso la sede della associazione “Ex allievi don Bosco” di cui curavo le attività culturali.

Insieme al brano anticipato (estrapolato da “Sa cittadi avolotara”) e ad una curiosa appendice tratta da “il Cavaliere del Nasco” dello stesso Fadda, propongo anche una poesia di Ignazio Cogotti, un villacidrese di nascita ma cagliaritano per studi e… tornato villacidrese per servire il suo “paese d’ombre” come amministratore, essendone consigliere comunale e poi, dal 1908 al 1920, addirittura sindaco, oltre che come avvocato di vasta clientela. Si tratta dei versi di “Is piccioccus de crobi”, che raccontano di quei ragazzi di strada che aiutavano i “benestanti” a portare la spesa a casa dal mercato del Largo, per “tres o cincu soddus” con cui, dopo, poter andare a fare “sa picchettara” (oltre a questi, “Sa cittadi avolotara” presenta uno zibaldone di poesie dialettali “po’ arregordai” richiamando, diversi autori popolareggianti: Ottone Bacaredda, Cesare Saragat, oltre a Cogotti ed altri).

Il secondo pezzo che propongo è tratto da “La città del novecento. Anni d’una nascita febbrile e convulsa”, capitolo centrale del libro “da Karel a Cagliari, due millenni di storia della Città”, pubblicato nel 2013 da Carlo Defino editore (la casa editrice forse più prestigiosa e fertile dell’Isola). Convulsa o “avolotara”, proprio come gli ultimi anni dell’Ottocento a cavallo del nuovo secolo.

Anche in questo brano, come in tutto il libro, si percepisce l’amore dell’autore per la sua città; tantissimi i dettagli che ci riporta e ci descrive, attraverso una narrazione intrigante: quelli della società frenetica dell’epoca. Ritornano in vita tutti i personaggi che hanno costruito la città che oggi viviamo e ammiriamo in tutta la sua bellezza. Con le sue strade, i suoi palazzi alla moda “continentale”, che tanto facevano invidia ai “non cagliaritani”. Ecco che ci immergiamo nelle grandi manovre politiche degli amministratori del tempo come chi, da sindaco – Bacaredda –, e chi da deputato – Cocco Ortu -, insieme, seppur non mancassero spesso le distanze politiche, ma anche la poca simpatia reciproca, ci si ritrovava ugualmente per il bene della propria comunità e città, per far meglio e di più, per crescere e modernizzarsi. Lo stesso valeva per la borghesia cittadina che, nonostante fosse concentrata nel successo degli affari personali, trovava mezzi e tempo per interessarsi e per promuovere il diffuso progresso della propria città, per sollecitare i vari interventi atti a migliorarne gli standard civili e di salute pubblica. 

È così che è giunta, sino ai giorni nostri, la città che tanto lodiamo: grazie all’impegno, ai sogni, al cuore di tutti coloro che, nel passato l’hanno vissuta da protagonisti, cambiandone l’aspetto, modernizzandola in pochi decenni, con caparbietà e competenza, come in un veloce e armonioso giro di valzer.

Riporto inoltre, a conclusione, due articoli pubblicati in alcune pagine speciali curate da Massimo Crivelli e dedicate al capoluogo tra ieri ed oggi, su L’Unione Sarda nel 2012, uno del 3 maggio e il secondo del 12 luglio. Mi vorrei soffermare, brevemente sul primo, nel quale l’autore, nostro festeggiato, ci esorta ad amare la nostra bella città con gli occhi, con il cuore ma anche, e soprattutto, con i fatti. Ci pone davanti ad un problema ancora – forse – irrisolto, quello cioè della marcata distanza di ideali, di impegno e capacità tra le generazioni di un tempo passato (tra Ottocento e Novecento) che costruirono e fecero grande e bella Cagliari, e la nuova generazione di cittadini e amministratori che non sarebbero all’altezza del compito modernizzatore, auspicando l’entrata in gioco di una nuova “great generation”, una generazione, cioè, grande e forte come quella dei nonni. Di industriali, costruttori, amministratori, ingegneri, architetti etc, che riscoprano la bellezza di Cagliari, facendola riaffacciare al mare, con una ventata modernizzatrice, riconvertendo ad utilità quelle infrastrutture antiche, utili in passato, oggi obsolete: serve coraggio per andare avanti e riscoprire il fascino moderno, con la forza del passato. Chissà se qualcuno, di questa “great generation”, abbia già fatto capolino, e stia cercando di farsi notare per certe sue capacità e ambizioni. 


Da “Sa cittadi avolotara” (Sanderson Craig Editore in Cagliari, 1991)

I portici e la palazzata di via Roma


Nell'ultimo decennio del secolo (quel decennio che può esser chiamato febbrile), Cagliari cambia completamente volto: vengono costruiti sulla via Roma i bei palazzi dell'impresario Galeazzo Magnini (ai due lati della via Bajlle) su progetto dell'ingegnere municipale Giuseppe Costa ed il cavalier Vivanet, su progetto dell'ingegner Picchi, vi erige, quasi di fronte alla stazione delle Reali, un «signorile palazzo dotato di sontuose sale e d'eleganti gabinetti» (ed in quelle sale vi sarà ordinato, per qualche anno, il regio museo archeologico).

Attorno alla Statua dell'Immacolata (opera finitamente gentile, va ricordato, dello scultore Luigi Guglielmi) la piazza del Carmine va assumendo, «per la vastità e conformazione piana e regolare», l'aspetto di «gusto ed eleganza moderna», degna d'una moderna città. Vi sorgono, nello stile umbertino allora prediletto, i palazzi della «grandi famiglie» della Cagliari del tempo, leaders nei commerci e negli affari: gli Chapelle, gli Aurbacher, i Boscaro, i Faggioli ed i Rocca (anche il Todde Deplano aveva tentato inutilmente di erigervi un suo palazzo, grandioso e monumentale come le sue idee, rimasto peraltro solo al rustico e poi in parte crollato il 17 marzo 1891, travolgendo anche lo sfortunato proprietario, che vi perì appena quarantacinquenne).

E su questa costruzione («ricca di frontoni, timpani, cornici, trabeazioni...») fiorirono le leggende, sulle grandi sventure che procurava ai suoi proprietari presenti e futuri, sui neri fantasmi che vi s'aggiravano di notte e su tante altre fantasticherie d'ogni genere e colore.

Su di una rivista cagliaritana dell'epoca (Vita Sarda, per la precisione), il cronista così ne scrive: «la jattura sembra che perseguiti questo caseggiato, cominciato con sfarzo d'operai e di materiali da una persona che poco avea del suo; il popolino vi ricamò le più fantastiche storielle: si parlò di tesori rinvenuti in un'antica chiesa, di speculazioni edilizie, e verificandosi allora un certo risveglio nella parte nera, colla costruzione di vasti fabbricati per conto dei missionari, fra una storiella e l'altra si bisbigliò con una certa apprensione anche il nome dei tetri seguaci di Lojola».

Se la piazza del Carmine era destinata ad attirare «le attenzioni e le speranze dei nostri edili», il completamento della via Roma rappresentava, in quegli anni, il fiore all'occhiello d'ogni amministrazione comunale. S'auspicava, infatti, che se ne completasse, dalla stazione delle «Reali» fino alla Darsena, la severa palazzata ed il prestigioso porticato, affinché potesse divenire «strada di cui Cagliari potrà esser ben orgogliosa».

E la via Roma faceva parte, già dalle intuizioni del Cima, di quel quadrilatero di strade larghe e signorili (con il largo, la via Manno ed il viale Umberto ora Regina Margherita) che avrebbero dovuto cingere il quartiere della Marina, ormai nobilitato dalle funzioni, peraltro esercitate in maniera vicaria, di centro direzionale. Ed infatti il nuovo mercato, il palazzo civico, gli uffici delle Poste e della Banca d'Italia, l'albergo Scala di Ferro della famiglia Setti, il teatro Cerruti, i più eleganti caffè e negozi cittadini, oltre al porto commerciale ed ai suoi servizi (nel 1900 vi venne edificato il brutto palazzo della Dogana, poi demolito nel secondo dopoguerra), davano a quel quadrilatero (già sede del vecchio e povero quartiere di Lapola, una tinozza di fango ed immondizie) i contenuti di nuovo centro attrazionale per gli affari, la residenza ed i commerci.


Sempre negli stessi “anni febbrili”, proprio di fronte alla darsena portuale, nel lungo gomito che consente allo stradone allora dedicato al principe Umberto di raggiungere il Campo di Marte, affacciati su quello che sarà il giardinetto della darsena (quest'ultimo completato ed inaugurato nel marzo del 1895 su progetto dell'agronomo comunale signor Visca, così da renderlo «uno dei punti più ameni e pittoreschi della città»), i cavalieri Francesco Zedda Piras e Giovanni Zamberletti (entrambi esponenti della lungimirante e cospicua imprenditoria cittadina) vi costruiscono due fra i più eleganti e prestigiosi edifici della nuova Cagliari.

Il palazzo Zamberletti, d'angolo con la via Roma (opera anch'esso - va ricordato - dell'ing. Giuseppe Costa, prolifico progettista di quella stagione edilizia cagliaritana, e «uno dei primi ad usare con successo la pietra di Serrenti e la terracotta che oramai costituisce l'ornamentazione sua più preferita nella decorazione esterna»), verrà quasi distrutto dai bombardamenti del 1943 e, purtroppo, vi sopravvive ricostruito solo in parte, di lato all'anonimo e modesto edificio dell'INA.

Giuseppe Costa - è bene ricordarlo - sarà anche l'autore del progetto del «Politeama Regina Margherita» che i negozianti fratelli Boero gli commissionano nel 1894, avendo rilevato l'area del vecchio teatro Cerruti, chiamato affettuosamente dal popolino su barracconi per le sue strutture lignee (il nuovo teatro, sul viale omonimo, verrà inaugurato il giorno di Natale del 1897 con l'Africana di Meyerbeer). Sarà sempre Costa il realizzatore (1899) delle scuole elementari di Sant'Avendrace, primo esempio cittadino di casamento scolastico razionale e moderno. Ma Costa va soprattutto ricordato per il progetto del grande Bastione di San Remy, realizzato fra il 1899 ed il 1901, «e per molti anni punto di ritrovo preferito dei cagliaritani».

Il palazzo Zedda-Piras, forse uno dei più «puliti» esempi cagliaritani di architettura umbertina, fu dovuto invece all'ingegner Giovanni Marcello, che ne predispose il progetto nel 1889 per incarico del cognato Francesco Zedda-Piras (ne aveva sposato la sorella Doloretta), abile e fortunato industriale e commerciante vinicolo in Campidano, dopo essere stato brillante ufficiale della Marina Reale.

Questo bel palazzo, sobrio ed elegante, s'affaccia sul porticciolo della darsena, proprio di faccia al golfo, ed è terminato nell'inverno del 1892-93, divenendo da subito residenza privilegiata della «gente che conta» in città. In quegli stessi anni vi scelgono dimora, fra gli altri, il sindaco Ottone Bacaredda e l'inglese Henry Ergerton Piercy, figlio del pioniere dello sviluppo ferroviario sardo, ing. Benjamin, di cui per lungo tempo ne curerà gli interessi, amministrando, da Cagliari, le importanti aziende agricole del Marghine (Padrumannu e Baddesalighes) e commerciandone i prodotti caseari in un bel negozio nella piazzetta Savoia.


Da “Il Cavaliere del Nasco” (Carlo Delfino editore, 2012)

Del Palazzo in “su stradoni”


Ha visto quel che i Magnini e gli Zamberletti han ottenuto con i loro palazzi "a facci 'e mari", in quella elegante promenade, la via Roma, che va divenendo la più importante strada della città nuova. E stato tra i primi ad appoggiare la decisione della municipalità cittadina per voler realizzare, proprio di fronte alla darsena, un bel giardino pubblico, affidandone la realizzazione «all'esperto agronomo comunale, signor Visca, perché lo renda uno dei punti pii ameni e pittoreschi della città». Il suo, comunque, non era stato un giudizio solo estetico: tra i luoghi ove costruire i "suo" palazzo, aveva infatti adocchiato la parte terminale su stradoni (quel tratturo, polveroso e fangoso, ai tempi appena carrabile), quella, per intendersi, che, dopo una larga svolta e in leggera discesa, andava a confluire nella piazza d'Armi (oggi piazza Amendola). Possedere un bel palazzo con un bel giardino pubblico di fronte e con la vista sul bel mare della città era divenuta la sua idea fissa.

Dover acquisire quell'area e progettare la costruzione di un palazzo che arieggi a quelli fiorentini o romani è ormai una decisione già presa. Al cognato Giovanni Marcello, che è bravo ed esperto ingegnere, darà l'incarico di provvedervi. E gli detta innanzitutto le "specifiche" di quel che vuol Innanzitutto che abbia non meno di quattordici appartamenti, in modo che ogni figlio ne abbia uno per abitarvi e uno per metterlo a reddito; in più vuole un grande portone come i palazzi nobiliari di Roma (pensa a quello degli Orsini e dei Grazioli), perché vi possa entrare con la carrozza a cavalli e, di conseguenza, una stalla ove ricoverare mezzo e animali. E poi, ancora, dei grandi balconi perché si possa godere lo straordinario panorama del golfo... In breve, il suo dovrà essere il più bel palazzo della città! L'ingegner Marcello si sarebbe messo subito al lavoro nel suo studio di piazza Yenne e nel settembre del 1889 consegnerà al cognato ed agli uffici comunali il progetto di quel palazzo Zedda-Piras che dovrà sorgere in su stradoni, che verrà poi ribattezzato con il nome del re Umberto (e, a seguire, con quello della regina Margherita).


Is piccioccus de crobi 

Sunt in quattru o cincu, tot'impari 

assoziasus po fai 'na picchettara; 

unu hiat bolli andai a s'or'e mari, 

s'atru hiat bolli fai sa zipulara;


ma in su mentris chi staint cumbinendi, 

eccu unu bellu prat'e' culingionis,

beni indorau de bagna e fumiendi, 

chi ponit fini a tott'is chistionis.


Is piccioccus ddu 'ngiriant, e dognunu

preparat tre arrialis po pagai,

poi si sezzint e pappant in comunu.


Ma unu mischinu, ha perdiu sa bursitta, 

e tristu chi non podit picchettai,

castiat su prattu e ungi sa frocchitta.


(Versi di Ignazio Cogotti, 1899)



Da “da Karel a Cagliari, due millenni di storia della città” (Carlo Delfino editore, 2013)

Il primo grande cambiamento: anni d’una nascita febbrile e convulsa 


Il primo, grande cambiamento della città - quello che l'avrebbe portata ad eccellere nel firmamento isolano - era stato provocato proprio da quegli interventi nell'edilizia residenziale. La città, infatti, s'era estesa non solo territorialmente, ma aveva sempre più assunto un'immagine moderna, per via di fabbricati dalle linee eleganti, ampi e ben rifiniti, alla moda "continentale", come si diceva in giro.

Gli autori ed i protagonisti di quest'evoluzione "modernista" sarebbero stati, nell'ordine, gli uomini della borghesia, quelli della politica municipale, is maistrus ed ancora i tanti piccaperderis e manorbas del proletariato cittadino, ed infine gli ingegneri. Si potrebbe anche dissentire da quest'indicazione, ma è certo che proprio a quei protagonisti, alle loro capacità ed alle loro iniziative, si dovrà molto del "salto" che Cagliari farà nel suo assetto civile.

Può essere anche importante sottolineare la forte infusione di "secolarizzazione" (cioè di una laicità sconfinante nel laicismo a-religioso) nella società cagliaritana di quegli anni. E, quindi, l'allontanamento dalla Chiesa di una parte, non minoritaria, dell'establishment locale. Soprattutto di quello d'estrazione borghese. Per contro, la nobiltà cittadina - proprio per marcare la sua distanza da quei nuovi ricchi "adoratori del dio denaro" - si sarebbe stretta attorno ai rappresentanti più autorevoli della Chiesa cittadina, provocando così un'altra importante cesura nella società locale. Di questa situazione, peraltro vissuta anche difficoltosamente in diverse famiglie cittadine (il padre "negoziante" e massone anticlericale e la madre, discendente d'antica nobiltà, terziaria francescana), ne darà testimonianza la discesa nelle competizioni elettorali, di un partito di cattolici (il PPI di don Sturzo). Un partito, come diranno criticamente le "gazzette" del tempo, che si sarebbe aperto quasi esclusivamente ai rappresentanti di quella aristocrazia papalina (ancora incollerita per l'affronto fatto a Pio IX con Roma capitale del Regno) da sempre "esulata" in is arrugas strintas di Casteddu 'e susu.


Non era poi una critica senza riscontri dato che quel partito, nella sua versione cagliaritana, mostrerà assai poco di "popolare", non solo per via dei modesti suffragi ricevuti nelle urne ma soprattutto dal nome dei suoi candidati, in gran parte beneficiati dal fatidico "Don".

Peraltro, nelle quasi cinquanta chiese cittadine, le liturgie, non solo domenicali, sarebbero state seguite da una assai numerosa folla di fedeli, e le pie congregazioni di carità avrebbero trovato sovvenzioni sempre più sostanziose anche dagli esponenti di quel milieu borghese targato A.G.D.G.A.D.U.

Né avrebbe destato meraviglia negli ambienti cittadini che un venerabile "trentatré" della massoneria locale avesse donato, ad un ordine religioso, un vasto appezzamento di terreno per edificarvi un collegio per impartire ai giovani locali un'educazione cattolica.

Ci sarà dunque, anche nel campo della fede in Domineddio, una Cagliari bifronte (di laici atei e di laici credenti), ma che, sotto sotto, avrebbe manifestato una sua convinta coesione su quell'agognato destino di progresso, rappresentato dalla conquista di migliori condizioni di benessere e di vivibilità sociali.

Fin qui si è già detto molto sulle borghesie cittadine, sul loro formarsi e sul loro moltiplicarsi soprattutto negli affari e nelle attività di commercio. E opportuno ora aggiungere che, dalle provenienze quasi esclusivamente forestiere del passato, si sarebbero aggiunti, man mano, nuovi apporti di provenienza locale, in gran parte dai paesi dell'interno.

Si è già detto di Efisio Cocco e delle sue vincenti attività mercantili, si dovrà quindi aggiungere - per dare conferma a quest'assunto - il ricordo di Francesco Zedda-Piras, giunto da Tiana (piccolo centro delle Barbagie) e divenuto uno dei principali attori dell'economia cittadina. Ma l'elenco di quanti immigrati dai loro paeselli avrebbero fatto fortuna in città, è molto più ampio, in quanto non andrebbero dimenticati Francesco Spissu, Ernesto Sanna-Manunta, Giovanni Mascia, Giovanni Zedda-Zedda, Guglielmo Cau, Felice Muscas, ecc. Is piccioccus 'e crobi (i ragazzini con il cesto) fanno parte della simbologia d'una Cagliari d'antan, quando per "tres o cincu soddus" aiutavano i "benestanti" a trasportare la spesa dal mercato. 

Si trattava d'una borghesia fattasi sempre più indigena per nascita ed autoctona per formazione e, quindi, strettamente legata alle sorti della città. Ci sono diversi esempi a convalida di questo stretto rapporto: rileggendo, ad esempio, i resoconti della locale Camera di commercio (di fatto, il tempio dell'economia cittadina), si ha la percezione netta di quanta correlazione ponessero tra il successo dei propri affari ed il progresso della città. Alla quale, quindi, dedicavano mille attenzioni per promuovere e per sollecitare gli interventi atti a migliorarne gli standard civili.

«Quel che è necessario è fare della nostra Cagliari, la Livorno del Mediterraneo inferiore - aveva indicato l'ingegner Giorgio Asproni ai suoi colleghi dell'istituzione camerale - perché ne abbiamo le capacità e le possibilità, sol che si sappia sviluppare le grandi risorse sconosciute ed inespresse che sono nella nostra terra e nella nostra gente. Sta quindi a noi - aveva aggiunto - non rimanere con le mani in mano in modo da fare di Cagliari una città di livello internazionale»

Si trattava certamente di un invito alla mobilitazione, ad operare insieme verso un obiettivo che andava ben oltre (solo che lo si riferisca alla cultura di quel tempo) agli obiettivi molto autarchici allora prevalenti.

In effetti, gli intendimenti di quella borghesia erano ben in linea con la crescita ed il progresso della città, tanto da condividerne le stesse direttrici di sviluppo. Si può quindi sostenere, senz'ombra di dubbio, che quella borghesia s'era fatta "cagliaritana" a pieno titolo, anche perché sempre più stretti rapporti coniugali e familiari avevano fatto sì che anche casate forestiere come Gavaudo, Pernis o Devoto - intrecciatesi con quelle dei Tronci, dei Pisu, dei Melis od anche dei "sangue blu" come i Sanjust od i Villahermosa - fossero divenute titolari di una provata ed indiscussa cagliaritanità.


A fianco di questi borghesi c'erano poi gli uomini della politica municipale. Pare necessario spiegare il perché di quell'aggettivazione – municipale – con cui si è inteso meglio identificare quegli esponenti del potere locale, proprio per rimarcarne le differenze con quella del parlamento nazionale. Vi è infatti da sottolineare come il gruppo di comando del Municipio cittadino (il cui leader era il sindaco Ottone Bacaredda) avesse un legame molto stretto con gli ambienti economici locali, tanto che alcuni esponenti ne saranno cooptati come assessori nella Giunta. Nello stesso Consiglio comunale v'erano diversi "negozianti" ed "industriali", di fatto numericamente superiori ai liberi professionisti (assai pochi erano i nobili). C'era dunque quasi una simbiosi fra la politica bacareddiana e quella auspicata dai gruppi dell'imprenditoria borghese per far progredire la città, mentre sarebbero emerse, talvolta, delle polemiche contrapposizioni con la rappresentanza parlamentare egemonizzata dalla personalità di Francesco Cocco-Ortu.

Non appare facile capire quali fossero, effettivamente, le differenze fra i bacareddiani ed i cocchisti, anche se talune incomprensioni erano nate fin dai tempi dei fallimenti bancari di fine '800 e dei differenti atteggiamenti assunti nei confronti del banchiere Pietro Ghiani-Mameli (peraltro, come già detto, da considerarsi come uno dei "grandi borghesi" della storia cittadina). Non ci sarebbe motivo, quindi, per indicarne la collocazione politica con le denominazioni classiche - sinistra e destra - e neppure con le amicizie parlamentari privilegiate (zanardelliani o crispini). Alcune male lingue la facevano discendere dall'appartenenza (o per la simpatia) a differenti camarille cittadine più o meno affaristiche, dato che le differenziazioni si sarebbero sempre manifestate su problemi cittadini (il vincolo degli interessi - avrebbe rilevato Aldo Accardo nella sua storia post-unitaria della città - sarebbe stato sempre più forte delle appartenenze ideologiche).

È certo, quindi, che i loro rapporti non furono mai molto buoni, anche perché al Cocco-Ortu, potente parlamentare ed uomo di governo, avrebbe dato ombra il favore che Bacaredda riscuoteva fra gli elettori cagliaritani, cioè della sua città.

Un aspetto anch'esso importante, e che ci riconduce al punto di partenza di quest'analisi, è che con Bacaredda sarebbero entrati nell'amministrazione comunale molti uomini "nuovi", quasi tutti provenienti dall'ambiente economico cittadino, rompendo così quello che era stato il "maso chiuso" dei cocchisti, come venivano chiamati i seguaci del Cocco-Ortu.

Al di là di questo, pare importante riconoscere a quegli uomini della politica municipale il merito d'aver saputo accompagnare, con intelligenza ed acume, il progresso della città, mostrando soprattutto molta sensibilità amministrativa ed una chiara visione prospettica sulle trasformazioni urbane da realizzare.

Ha giustamente ricordato lo storico Gianfranco Tore come, dal 1900 in avanti, fosse stato avviato un imponente programma di opere pubbliche, «con un investimento annuo di più di un milione di lire, trasformando Cagliari in una vera città en marche». Era divenuta la città dei grands travaux, delle grandi sistemazioni viarie, del tracciamento dei grandi viali alberati, del completamento degli edifici scolastici, al servizio di una popolazione che al censimento dei 1901 aveva superato i 50 mila abitanti.


Il nuovo Palazzo civico e l'imponente bastione di Saint Remy avrebbero contribuito, e non poco, ad arricchire l'immagine architettonica della città, da sempre così povera di monumenti. Era in atto, senza dubbio alcuno, una importante trasformazione urbanistica, di arricchimento dell'arredo e delle funzioni cittadine, nell'obiettivò di arrivare ad una effettiva "saldatura" fra quelle che erano state le "appendici" di pianura (Marina, Stampace e Villanova) con il centro di Castello. Il piano comunale predisposto dall'ingegner Giuseppe Costa ne aveva tracciato le linee direttrici ed il grande impegno finanziario dell'amministrazione Bacaredda ne aveva avviato la realizzazione.

Cagliari era ormai un'altra città, aveva una linea tranviaria che l'attraversava e la collegava con l'entroterra quartese, aveva, nel litorale di Giorgino, i suoi stabilimenti balneari alla stregua di Genova e di Livorno, aveva i suoi caffè ed i suoi restaurant, non diversamente dalle grandi città continentali. Erano degli aspetti che la distinguevano ancor più dall'altra Sardegna, e se contribuivano ad aumentarne l'orgoglio, contestualmente ne aumentavano 1'invidia, e, quindi, i pregiudizi per una città che la si indicava sempre più come sanguisuga (a tal proposito, rincarando la dose, l'oristanese avvocato Porcella, membro della Deputazione provinciale, avrebbe definito Cagliari «la beniamina della nonna», ed il suo municipio «il Creso della Sardegna»!).

Occorre ricordare che Ottone Bacaredda era divenuto sindaco della città nel 1889, appena quarantenne (era nato a fine dicembre del 1848), succedendo al professor Gaetano Orrù. Proprio nel suo discorso d'insediamento, così come riportato dalle cronache, avrebbe indicato pragmaticamente le linee della sua azione che s'impegnava a svolgere «con mente serena, con spirito elevato, non chiedendo consiglio alle nostre personali simpatie e amicizie od a rancori o ad animosità che abbassano e umiliano, non ubbidendo alla influenza di partigiane passioni, ma nel nome della moralità e della giustizia per il bene della nostra Cagliari. Il tutto - concludeva - senza odi e senza rancori».

Tutta la sua politica municipale sarà svolta quindi a far grande la città, nella convinzione di dover lasciare un suo segno indelebile nella storia cittadina e, contestualmente, imponendone le sue risorse e le sue qualità "d'eccellenza" sul resto dell'isola. Imponendo alla sua amministrazione d'essere - come spesso amava ripetere - una "casa di vetro".

In questo suo impegno avrebbe trovato non poche difficoltà nella situazione economica generale del Paese, e nell'emergere di aree di crisi e di malcontento fra gli strati più deboli della popolazione cittadina. Per quel che riporteranno le cronache politiche, sarà proprio all'inizio del Novecento che sarebbe emersa la "questione" delle due Italie: di un Centro-Nord in sviluppo e in continuo progresso e di un Sud (con le due isole) in gravi difficoltà e, soprattutto, con vasti problemi di malessere e di povertà sociali.

Forse ci sono dei dati che servono a testimoniare quel forte disagio e le ragioni del malcontento popolare. Li aveva elaborati nel 1902 Francesco Saverio Nitti: come ricchezza mobile (reddito) per abitante la Sardegna era sotto di poco meno di un terzo della media del Regno; la circolazione monetaria per abitante era, nell'isola, neppure un quinto, mentre la spesa pubblica nei quarant'anni unitari aveva visto l'isola penalizzata fortemente (neppure 12 lire per abitante rispetto alle 64 del Centro-Nord).

Saranno anche queste le ragioni (aggravate dalle ripetute penurie nei raccolti agrari) a motivare quei moti popolari che, nel maggio del 1906, porteranno all'attenzione della pubblica opinione cagliaritana la "classe operaia". La crescita dei prezzi nei generi di prima necessità ed i bassi salari con cui venivano retribuiti carichi di lavoro sempre più pesanti, avrebbero fatto esplodere una rabbiosa, ed anche violenta, sollevazione popolare.

Che la responsabilità fosse poi da addebitare all'amministrazione Bacaredda sarebbero legittimi molti dubbi, ma è certo che essa divenne l'oggetto-obiettivo dell'esasperazione generale. I ripetuti e prolungati scioperi dichiarati dalle diverse categorie di lavoratori (dalle sigaraie ai tranvieri ed ai portuali), insieme agli affollati cortei per le vie cittadine, avrebbero dato l'immagine di una vera e propria sommossa popolare, con scontri e devastazioni di cui ancor oggi c'è memoria.

Non è nella logica di questo racconto riportare la cronaca di quelle tumultuose vicende (che peraltro hanno avuto diversi attenti cronisti): si è ritenuto di farne menzione perché proprio da allora anche la classe operaia sarebbe divenuta, al pari della borghesia cittadina, protagonista della vita sociale cagliaritana. La stessa nascita della Camera del lavoro nel 1907 dovrebbe essere ricordata come una tappa importante nel cammino cagliaritano verso la modernità continentale.

Una modernità - occorre ricordare - che ormai andava investendo tutta la società cittadina. E che aveva il suo slogan nel verbo "costruire". Ed anche Cagliari diverrà protagonista di quello che in tutt'Europa sarebbe stato indicato come "il tempo degli ingegneri", cioè dei costruttori.

La tecnica e la scienza per saper ben costruire case, ferrovie, porti, navi e macchine d'ogni genere, erano divenute essenziali per attuare quella grande rivoluzione industriale in atto nel vecchio continente e nelle Americhe. Un po' dovunque la "scienza politecnica" veniva considerata la chiave giusta per aprire alla società del XX secolo le porte del progresso. Dovunque, quindi, ma anche a Cagliari, dove gli ingegneri sarebbero divenuti l'avanguardia virtuosa della borghesia cittadina, oltre che i protagonisti delle grandi trasformazioni sociali, tecniche ed ambientali portate dal nuovo secolo.

Lo stesso svolgimento a Cagliari, come già ricordato, del X Congresso nazionale degli ingegneri italiani, risulterà un'occasione straordinaria per portare questa professione a protagonista della modernizzazione della società e dell'habitat locale. In quell'occasione, attorno al centinaio e passa di ospiti, s'era unita una numerosa pattuglia di ingegneri cagliaritani (in gran parte provenienti dalla scuola ingegneristica del Valentino). Fra essi andrebbero ricordati Edmondo Sanjust, Beniamino Pirola, Giorgio Asproni, Stanislao e Dionigi Scano, Carlo Floris-Thorel, Enrico Stefani, Luigi Contivecchi, Gracco Tronci-Pernis, Antonio Cao-Pinna, Enrico Devoto.

Se la borghesia cittadina, come s'è visto, era assurta, con Bacaredda, a promotrice politica del progresso della città, quegli ingegneri ne sarebbero divenuti lo strumento tecnico, dato che ad essi - o a taluni di essi - si dovranno le linee guida utilizzate dal ministro Cocco-Ortu per varare la legislazione "speciale" a favore dell'isola.

Proprio ad essi - od a taluni di essi - si dovrà quel miracolo idroelettrico che, con l'elettricità e le bonifiche, darà il via alla più importante opera di redenzione sociale mai vista in Sardegna. Il fatto che si fosse formato a Cagliari il fertile laboratorio di quelle idee e di quei progetti (ricordiamo le opere sul Tirso; sulla piana terralbese e sullo stagno di Santa Gilla) avrebbe dato un nuovo importante titolo di merito alla città, divenuta quindi anche capitale del risorgimento isolano.

Ormai Cagliari, come avrebbero scritto Giancarlo Sorgia e Giannino Todde, era riuscita «a travalicare le vecchie mura medioevali per recitare un ruolo di primo piano nell'area isolana e mediterranea, pur trovandosi di fronte ad una crisi di crescenza resa ancor più grave dalla situazione di un'isola condizionata da pesanti squilibri socio-economici».


Comunque, pur con i tanti distinguo accennati, la città, per via di quelle nuove magnifiche case e quegli imponenti nuovi palazzi avrebbe suscitato un «nuovo e forte sentimento d'orgoglio e d'amor cittadino» in tutti i suoi abitanti.

Lo spirito borghese, introdotto da un intraprendente ceto di uomini "del fare", sarebbe così riuscito a prevalere sulle chiusure tradizionaliste ed attendiste del vecchio establishment feudale. La città, con quel suo febbrile operare, «si dimostrava attiva e partecipe, al corrente tempestivamente di quello che avveniva allora in Europa. E ritrovava anche in un ritorno all'antico, una vocazione mediterranea, che sarebbe stata l'ispiratrice della nascita di un cantiere navale [promosso dal Falqui-Massidda] e di operazioni commerciali nell'area tunisina [finanziate dal Credito Agricolo e Industriale Sardo di Pietro Ghiani Mameli]», come ci hanno ricordato proprio Sorgia e Todde in quella loro documentata istoria delle amministrazioni civiche cagliaritane.

La Cagliari degli anni bacareddiani andrebbe interpretata in questa sua ricerca di modernità e di collegamento con il resto del mondo, alla riconquista di quegli spazi che erano stati fenici e romani ed al riavvicinamento ad un porto che divenisse finalmente una risorsa per il progresso cittadino, occasione di lavoro oltre che di profittevoli affari. Una discesa verso la pianura che ha poi trovato il suo simbolo nel palazzo Civico progettato da Crescentino Caselli e da Annibale Rigotti.

L'asse "fronte mare" della via Roma, con i suoi palazzi ariosi ed i suoi portici monumentali, era un po' la risposta che la borghesia degli affari aveva inteso dare, come segno di modernità e di progresso, al conservatorismo edilizio d'una nobiltà che s'era caparbiamente arroccata nelle impervie stradine del Castello ed in quelle abitazioni che di aristocratico avevano ben poco. Così nella stessa forma e nella composizione dei palazzi edificati a Cagliari "in pianura" (accenniamo qui ai palazzi Vivanet, Accardo, Magnini, Zedda-Piras, Zamberletti, Serventi, Garzia, Manca, Chapelle, ecc.) si possono leggere, visibilmente, i complessi processi di cambiamento avvenuti non solo nell'arte del costruire (l'uso dei materiali, l'utilizzo dello spazio, l'introduzione dei comfort igienici, ecc.), quanto quelli attinenti ai nuovi e differenti bisogni e desideri che la comunità cittadina esprimeva per la qualità dell'abitare e del vivere.

Saranno poi queste le cause che avrebbero determinato, nel giudizio dei posteri, un'aspra critica nei confronti di quella borghesia locale che aveva assunto la guida della città e del suo sviluppo, sostituendosi alla nobiltà di Casteddu 'e susu. Ad essa verranno attribuiti peccati d'ogni genere, soprattutto miopie ed egoismi, affarismi ed ingordigie, oltre che una certa dose di incultura e di grettezza spirituale. Tralasciandone, purtroppo, la valenza degli indubbi meriti.

Si sarebbe così sostenuto - con un evidente peccato di faziosità ideologica - che la Cagliari borghese sarebbe stata edificata non certo per far più grande e meglio vivibile la città, quanto per aumentare a dismisura il portafoglio di pochi furbi plutocrati (irridente e polemica definizione usata allora per chi, in nome del capitalismo, comandava e s'arricchiva «ai danni del popolo minuto»).

Anche di recente sono state espresse molte acide critiche su quest'esplosione edilizia della città del primo '900, espresse anche da pulpiti autorevoli, addebitando soprattutto alla borghesia locale (a quei ceti produttivi che avevano soppiantato la vecchia e oziosa nobiltà redditiera) d'avere pensato solo ai propri interessi materiali ed al proprio diletto, con l'arricchire la città di passeggiate, viali e terrazze, dimenticando però di dare soluzione al problema abitativo delle classi più deboli.


Così lo stesso salto di qualità che Cagliari compie in quegli anni (con il nuovo porto, l'acquedotto, la rete fognaria, l'illuminazione pubblica, ecc.) non trova sufficiente valutazione, sopravanzato dalle aspre accuse rivolte a quel «sistema di potere clientelare e paternalistico» messo su dalla borghesia produttiva locale per «difendere e salvaguardare i nuovi modi di produzione capitalistica», fondati più sullo «sfruttamento operaio che sull'innovazione tecnica e tecnologica».

Così anche quella stessa polemica delle case popolari come alternativa al palazzo civico od al nuovo imponente bastione di St.Remy rischierà di essere niente più che un pretesto per poter definire reazionaria od antipopolare un'amministrazione civica che s'era voluta caratterizzare con un vasto programma di opere pubbliche, peccando più d'immagine - come s'è sostenuto da taluni - che di sostanza. Una critica che non avrebbe tenuto conto, non solo dell'atmosfera e delle condizioni di quegli anni difficili, ma anche delle stesse configurazioni sociali del tempo.

Poco importava, a quelle sirene marxiane, rilevare che il reddito medio d'un cagliaritano fosse aumentato del 40 per cento nell'ultimo ventennio; che i giovani iscritti nelle scuole secondarie cittadine fossero aumentati di due volte e mezzo; che gli interventi del "Monte di pietà" fossero in una fase di progressiva diminuzione, e che i consumi degli alimenti-base - come il pane e i legumi - si fossero triplicati (come noterà una rilevazione della locale Camera di commercio).

Seppure piegate più ai voleri dell'ideologia partigiana che a quelli dell'obiettività storica (come si potrebbe intuire), quelle accuse anti-borghesi paiono tutto sommato ingiuste. Perché dimenticano che è stato merito di quella calunniata borghesia (come avrebbe detto Bacaredda) se, pur tra indubbi peccati di egoismo e di omissioni, s'era potuto avviare e compiere il rinascimento della città, la sua entrata fra le comunità moderne, la sua emancipazione anche sul fronte del lavoro e del progresso (a Cagliari, si poetava allora, v'è mera tra ballu e mera dinai).

Con l'affermarsi di un gruppo sempre più numeroso, e per certi versi abbastanza coeso di uomini "nuovi" (interessati a far cambiare "marcia e direzione" allo sviluppo della città), si sarebbe riusciti a far sì che Cagliari si potesse allineare, «sempre più attiva e partecipe», a quanto «stava avvenendo allora in Europa». Ma, fatto assai importante, non avrebbe perduto i segni della sua identità passata, i valori della tradizione e l'orgoglio delle proprie origini. Ed in questo «ritorno all'antico ritrovava e rinnovava una vocazione sempre più in linea con il progresso, con quel che scienza e tecnica stavano regalando alla qualità della vita civica».

Andrebbe anche rilevato che - anche per merito di quella emergente borghesia - la città appariva ben più "acculturata", più in linea con i movimenti artistici e letterari che erano emersi nelle terre "continentali". Così, per far bella la propria casa, s'acquistavano oli e acquerelli (i più ricercati erano quelli di Guglielmo Bilancioni, di Enrico Castagnino e di Raffaele Ciuffo, tutti con atelier in città), si frequentavano gli studi di scultori come Cosimo Fadda e Giuseppe Sartorio, e, soprattutto, s'acquistavano e si leggevano libri.


Le librerie più frequentate erano quelle di Felice Muscas e di Camillo Brundu (ambedue in Marina, a dimostrazione di dove risiedessero i più fedeli acquirenti) e, fra i libri più acquistati, erano i romanzi di Antonio Fogazzaro e di Guido da Verona e le poesie di Giosuè Carducci. Per i ragazzi di allora il best-seller era l'avvincente storia dei loro coetenei "della via Pal", indimenticabile capolavoro dell'ungherese Ferenc Molnar.

Con i libri, e la lettura, si cercava un collegamento con il mondo che stava al di là del mare, sprovincializzando la propria anima prima ancora che la propria vita fisica. S'andava a teatro - prosa, lirica e operette erano le opzioni più gettonate - anche per vivere emozioni differenti da quelle possibili nel "piccolo mondo" cittadino, emozioni che - per dirla con le memorie di un cagliaritano d'allora - erano poi delle vere e proprie evasioni culturali, cioè dei viaggi virtuali verso un mondo diverso, affascinante ed intrigante.

Cagliari, quindi, si sprovincializzava, guardando più al mondo della cultura e della conoscenza che a quello delle corti e delle loro pittoresche ma sterili liturgie, tanto prediletto dalle classe aristocratiche del passato. Si faceva politica non più come conquista di poteri personali, ma come strumento per una crescita collettiva, cercando sempre di conciliare il proprio particolare con gli interessi generali della gente. E con la politica si cercava di armonizzare sempre più la città con la campagna, non dividendone più, come un tempo, interessi e privilegi, ma ricercandone motivi e legami di unità.

Il fatto poi che i nuovi cagliaritani (quegli oltre 20 mila giunti in città in meno di vent'anni) fossero in gran parte provenienti dai villaggi dell'interno, sarà la controprova che l'evoluzione borghese, con la sua politica, aveva fatto di Cagliari la città dove trovare lavoro e buon vivere, dove era possibile riscattarsi dalle miserie e dalle angustie del villaggio. Dove, lo si dica senza arrossire, era possibile imparare un mestiere moderno (quanti bastascius e giornaderis, ad esempio, sarebbero divenuti esperti tornitori e provetti saldatori nelle officine di Rocca o di Doglio o manovratori e fuochisti nelle ferrovie!) e, soprattutto, liberarsi da quell'avvilente condizione di rimanere serbidori a vita, sempre carichi di doveri e privi di diritti, alla corte de is meris.

Saranno quindi quei primi anni del Novecento il vero ed importante turningpoint, il punto di svolta di Cagliari per l'entrata nella modernità. E da allora, lo si voglia o meno riconoscere, la città sarebbe divenuta il faro su cui tutta l'isola dei villaggi avrebbe cominciato ad indirizzare la propria rotta.


L'Unione Sarda, giovedì 3 maggio 2012

Amiamola questa città. Sognando una grande generazione di cagliaritani


In questo appassionato riflettere sulla città, e sul suo appannamento civile, occorre certamente mitigare i crucci e la rabbia con un’iniezione d’amore e di speranza. Che paiono i sentimenti più giusti per alimentare un grande sogno. Che poi è quello di veder emergere una nuova great generation casteddaia che voglia e sappia prendere in mano le sorti della città, come fecero i loro nonni nei secoli passati, e che ne proponga e ne realizzi il rinascimento, secondo il modello dettato dalle esigenze di questa contemporaneità. 

Ma perché una generazione che sia great, cioè grande ed importante, per il futuro di Cagliari? Occorre infatti essere d'accordo sul fatto che le città del nostro tempo sono divenute straordinariamente difficili e complicate. Soprattutto perché non sono più, come un tempo, dei luoghi ben definiti e racchiusi da quella che allora si indicava come “cinta daziaria”. Oggi le città (e Cagliari è fra queste) paiono in continuo mutamento e si espandono in modo diffuso e frammentato, tanto da spargere le loro impronte nel territorio circostante, assumendo l'immagine di una struttura multispaziale. «La città odierna - ha sostenuto il geografo di Bristol, Nigel Thrift - è dovunque ed in ogni cosa, perché è venuta meno la tradizionale linea di divisione con la campagna». Mandando così in aria quella appassionante querelle tra strapaese stracittà che aveva tanto intrigato i sociologi ed urbanisti nel secolo scorso. 

Vi è dunque da prendere atto che in questo ventunesimo secolo vi è stato un profondo ripensamento dell'idea di città, rendendola assai diversa da quella dei secoli precedenti. Anche Cagliari, quindi, andrebbe interpretata in maniera differente, ed anche opposta, al formato urbanistico ereditato dal passato. Perché Innanzitutto si sono modificati e rivoluzionati i “ritmi” urbani con una accentuazione della mobilità individuale e collettiva, che ha fatto delle distanze urbane una variabile trascurabile, tanto che ciò che era lontano (si pensi a Su Baroni, a La Palma o Sant’Alenixedda) ora è ritenuto vicino a portata di pochi minuti. E ancora, centri come Assemini, Sestu o Sinnai vanno considerati parti essenziali di un’unica great town casteddaia.

Non a caso, ai tempi di Bacaredda, la Cagliari era il luogo riservato ai suoi 50mila abitanti; oggi, invece, moltiplicato per tre i suoi spazi e i suoi abitanti, s’è dovuta ulteriormente diffondere nel territorio, spargendo l'essenza urbana nei luoghi contermini, trasformandosi così in una catena di aggregazioni, per cui non appare più come un luogo ben definito spazialmente, ma è diventato il terminal di una fitta rete di connessioni trans urbane. Quel che sconforta (e fa pure rabbia) è che, per governarla, si continuino ad utilizzare gli stessi strumenti e gli stessi canoni del tempo passato, incuranti di quel che nel frattempo è avvenuto. Infatti, se circa un secolo fa il sindaco Ottone Bacaredda aveva delineato quelle che, a suo giudizio, dovevano essere le direttrici di crescita della Cagliari del ventesimo secolo, indicando l'obiettivo di farne una città postfeudale e moderna, oggi, un secolo dopo e nel palazzo che porta il suo nome, si continuano a rimuginare vecchi stilemi urbanistici, sordi e distratti nel captare quel che di postmoderno è maturato aldilà del mare. Rimasti però prigionieri degli screzi di congrega e dei favori e disfavori corporativi. Tanto da far sì che anche i “baretti” del Poetto siano assurti ad oggetto d’un verboso terreno di scontri consiliari, risoltosi poi alla bell’e meglio, e dopo un lungo tira e molla, con l'idea peregrina di averli vestiti tutti con uguali divise, quasi fossero delle orfanelle delle suore vincenziane. 

La Cagliari d'oggi è, purtroppo, questa, tanto che non è facile capire se desti più preoccupazioni o rabbia. Per questo vi è il desiderio e l’auspicio di riavere fra noi una great generation, e questo nella politica come nell'economia, nel lavoro come nella cultura, capace di ripensare la città, di considerandola nei suoi presupposti identitari e nelle sue evidenze fisiche e geografiche, perché è sempre città anche quel che amministrativamente non lo è (pensiamo a Pitz’e serra, a Torre degli ulivi ed a Capitana, ad esempio).

Una nuova great generation, s’è detto, perché quella che aveva immaginato e realizzato la Cagliari borghese negli anni a cavallo fra i due ultimi secoli, può essere certamente definita tale. Ancora: perché qui i nostri nonni, parafrasando la definizione dell'americano Tom Brokaw, erano certamente degli uomini tagliati con un “panno” di capacità e di intraprendenza (un panno che sembra essere ormai assai poco diffuso). Non vi è dubbio infatti che la generazione cagliaritana dei vari Josias Pernis, Francesco Zedda-Piras, Ottone Bacaredda, Gaetano Rossi-Doria, Francesco Nobilioni, Luigi Merello, Agostino Varsi, Amsicora Capra, Dionigi Scano, Antonio Cocco e Galeazzo Magnini, fra i tanti, non ha trovato poi eredi e seguaci d’altrettanta intraprendenza e capacità. 

Non paia questa la nostalgia proustiana d'un tempo perduto, quanto l'auspicio perché si possa ricostruire, sulle sponde di questo nostro meraviglioso golfo, una nuova coraggiosa élite di veri Hominis (e non d’homineddus o di mes’hominis) capace di porre fine all’incalzante declino della città. Fra i tanti che portano amore, s’avverte infatti la speranza che Cagliari debba essere definita e avviata verso un irrimediabile renewal urbanistico. E che, per redigerlo ed attuarlo, si debba disporre di una generazione che sia great, cioè grande e forte come quella dei nonni. Perché i cambiamenti da portare avanti per il futuro di Cagliari, paiono, se non enormi, assai importanti e delicati. Infatti, per chi la vive, e sa ascoltarla ed interpretarla, appare progettata e costruita per persone ed attività assai differenti da quelli d'oggi: per stili di vita, per esigenze di mobilità e di lavoro, ed anche per desideri di nuove attrattive e di nuove suggestioni. 

Occorre quindi ripensarla, trasformandola, ove occorra, radicalmente. Finora, purtroppo, si è agito solo aggiungendo o togliendo qualcosa, senza un progetto complessivo. Il risultato è quello di avere realizzato un tessuto urbano simile più ad un multicolore vestito d’Arlecchino che ad una elegante bistimenta d’una monocolore grisaglia.

Occorre quindi cambiare spartito (in politica come in cultura) in modo che sia l'amore ed averla vinta sulla rabbia d'oggi. 



Da L’Unione Sarda, lunedì 12 luglio 2012

Cagliari riscopra mare e lagune, una parte del suo litorale è rimasta terra di nessuno.

Proprio l'altro giorno, mentre lentamente e non senza fatica, compivo s’arziara del viale Regina Margherita verso piazza Costituzione, sono stato fermato, all'altezza della piazzetta, da una coppia di gentili signori: «ma lei - mi chiesero - è quel Paolo Fadda che scrive su L’Unione Sarda della nostra città, dandone un'immagine così negativa, quasi un innamorato tradito e abbandonato?». Aggiungendo ancora, alla mia risposta affermativa, «non le pare più giusto ed opportuno, allora, il passare da una critica alla Gino Bartali (“l’è tutto da rifare…”) ad una fase propositiva, su cosa sia meglio fare per ridare lustro a Cagliari?».

Quei bravi signori, marito e moglie, non avevano poi del tutto torto, dato che è assai più facile criticare che fare, come insegnano anche molte cronache dei nostri giorni.

Purtroppo anch'io, per la verità, non m’ero sottratto del tutto a quella moda, indulgendo più nel disapprovare atteggiamenti che a dare dei suggerimenti.

Eppure qualcosa di positivo l'avevo pur detta, indicando come la città d'oggi si trovasse dinanzi ad un delicato “turning point”, un punto di svolta, non diversamente da quello affrontato dalla giunta Bacaredda nei decenni finali dell'Ottocento, allorché si decise di voltare le spalle alla vecchia city nobiliare appollaiata in Castello per progettare una nuova town borghese, riaffacciata sul golfo e spalmata in pianura, nei luoghi romani.

Cercherò quindi di dire qualcosa su quale svolta occorrerebbe oggi puntare. Sarei dell'avviso che nel suo futuro, non diversamente dal passato, ci possa o ci debba essere un “riaffaccio” sul mare. Cioè a quella straordinaria risorsa che fa Cagliari l'ombelico del Mediterraneo. Perché la città dovrebbe tornare ad essere, a pieno titolo, una “città d'acqua” alla pari di Genova, di Barcellona o di Marsiglia. Se si è detto “d'acqua” a bella posta, perché le acque di Cagliari non sono solo quelle del porto e del golfo ove si specchia, ma sono anche quelle ferme, delle sue due grandi lagune (Santa Gilla e Molentargius) con cui dovrà sempre meglio relazionarsi. Vi è infatti in atto, un po' dovunque (in Europa come nelle Americhe e in Asia) una tendenza a recuperare il rapporto delle città con l'acqua che le lambisce e le caratterizza. In modo da riconsegnare all'uso sociale le vecchie banchine ed i docks in disuso, ridando così fruibilità ad un rapporto - fisico ed anche visivo - tra il cittadino ed il mare. Proprio perché è questo l'elemento che può dare una particolare ed originale valorizzazione estetica, un plus di fascino ed attrazione alle città che ne hanno disponibilità. Trasformandosi da strumento di impresa (il porto commerciale) ad eccellenza paesaggistico-ambientale (vedi ad esempio Barcellona).

Certo, bisognerebbe rompere decisamente col diaframma, non solo spirituale ma anche fisico, che s’è formato da noi fra la città costruita ed il mare. Per questo bisognerebbe non dimenticare che anche i diversi piani urbanistici del Novecento, solo raramente e mai compiutamente, hanno ricercato omologazioni od integrazioni con il fronte-mare (con il porto, il litorale, gli stagni, i canali ecc.). Al contrario, pian piano le direttrici dell'espansione cittadina si sarebbero indirizzate altrove, lontane dal mare e dagli stagni, lasciandone i litorali come terra di nessuno. Così il fronte-mare cittadino da San Paolo a Sant'Elia è rimasto quanto di più confuso ed incongruo (per funzioni e tipologie di un mal costruito) si possa pensare. Non mi è facile comprendere quali ne siano state le cause, ma è certo che l'argomento non fu mai posto in bell’evidenza nell'agenda delle amministrazioni cittadine. Avendo permesso ad altri - alle autorità portuali, ferroviarie, demaniali e militari -, per indifferenza, acquiescenza o dabbenaggine, la possibilità di fare, di quel lungo litorale, “roba loro”. Sottraendolo così ad una cittadinanza, rimasta peraltro indifferente o disinteressata di fronte a cotanta usucapione. 

Proprio su questo, lo scrittore Guido Piovene, in un suo integrante reportage letterario su Cagliari, avrebbe notato come i cagliaritani gli fossero parsi «senza amore alcuno» per il loro mare, quasi insensibili, od anche estranei, di fronte allo spettacolo della loro paradisiaca Baia degli Angeli, capace di sfidare in emozioni e bellezza quella famosissima di Rio.

Occorrerebbe quindi ricostruire quel legame antico in modo da superare quella dicotomia urbanistica che fa pencolare Cagliari fra un modello di “città-colle” stile Urbino ed uno di “città-lineare” tipo Ferrara. Modelli incongrui, per quel che si capisce, per una città di mare. Ci sarebbe dunque da ripensare, con una differente narrazione urbanistica, tutto il water front cittadino - quel lungo litorale che collega le due lagune di levante e di ponente - per farne un punto d'eccellenza cittadina. Ricorderò in proposito che qualche anno fa, a Venezia, si svolse un importante convegno internazionale proprio sul futuro degli aspetti architettonici nelle città d'acqua o, meglio, su quali atouts urbanistici si dovesse puntare per ridare loro un nuovo splendore, dopo il declino della portualità ottocentesca con il passaggio della marineria “delle rinfuse” a quella dei porta-container. Ora, non sarebbe quindi un'idea da coltivare che anche a Cagliari, in un’auspicabile scienza di cultura cittadina, si pensasse qualcosa del genere, mobilitando intelligenze e saperi d’ogni dove, per trasferirci conoscenze, idee ed esempi capaci di metter su un piano di riqualificazione urbanistico-architettonico-ambientale del nostro intero sistema acqua? 

Un'iniziativa del genere, se mal non penso, servirebbe anche a far capire che a Giorgino, al Campus Universitario, alla Promenade nella via Roma, allo stadio ed al borgo di Sant’Elia, occorrerebbe dare una narrazione unitaria e non dei singoli e sbrindellati interventi architettonici. Sono Infatti convinto che dovrà essere proprio l'acqua - quella “de su mari biu” e quella morta delle due lagune - su cui dover puntare per rigenerare, urbanisticamente e paesaggisticamente, la città, dandole così un nuovo grande futuro. 





Fonte: Andrea Giulio Pirastu
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