Umanità e responsabilità pubblica, il chiaroscuro onesto e generoso di Armando Corona e Mario Giglio. Nel centenario della loro nascita (parte prima)
di Gianfranco Murtas
La storia civile della Sardegna, quando ne scriveranno gli annalisti futuri, avrà molto da dire di due personalità di prepotente scena quali sono stati Armando Corona (3 aprile 1921 – 2 aprile 2009) e Mario Giglio (8 aprile 1921 – 12 dicembre 2005) che la vicenda pubblica ha associato in diverse imprese di vasto impatto ed il calendario domestico perfino nella nascita avvenuta nell’aprile di cento anni fa: fu nel 1921, appena una settimana dopo la santa pasqua che ancora voleva e doveva risarcire la società isolana per i dodicimila - altri dice addirittura quindicimila - corregionali caduti nella grande guerra da poco conclusa con tragico bilancio. A Villaputzu, nel Sarrabus rurale, come a Sassari, capitale urbana del capo di sopra.
Lo sforzo d’indipendenza morale nel giudizio delle loro fatiche e del chiaroscuro di molte loro condotte dalle varie e larghe ricadute sociali – fra la politica e la finanza, la libera professione e l’imprenditoria – non può assicurare il risultato netto, ché in un caso e nell’altro l’amicizia affettuosa (prevalente anche nelle temporanee distanze), se pure favorisce – e qui è il valore aggiunto – la conoscenza di innumerevoli episodi di vita poco noti certamente mitiga, di necessità e per volontà, ogni possibile processo e sentenza. Ciò nonostante mi permetterò un accostamento onesto e congruo, utile a chi intenda, oggi stesso e nel prossimo futuro, meglio indagare e approfondire.
Di entrambi – attingendo alla memoria delle lunghe conversazioni confidenziali intrattenute con loro ed alle rivelazioni di tante carte – ho scritto numerose volte in libri e pubblicazioni d’occasione ed ho parlato in conferenze ora aperte ora più riservate, non sempre trovando piena consentaneità e talvolta incrociando perfino aperta, e legittima, contestazione. Qui di seguito cercherò di riunire i filoni e presentare – alternando le scene in capo ai due protagonisti, secondo uno sviluppo tendenzialmente temporale (formazione personale tra famiglia e studi, affermazione professionale, sbocchi apicali nelle istituzioni politiche e in quelle creditizie e, nel mezzo ed in fine, alta dirigenza massonica) – la persona, non soltanto la figura, di Armando Corona e Mario Giglio. Ricordando, per quando riguarda la Libera Muratoria d’obbedienza giustinianea, che il primo ne fu anche il Gran Maestro nell’ottennio 1982-1990, ed il secondo Ispettore regionale del Rito Scozzese nonché membro della Giunta esecutiva nazionale dal 1978 al 1982.
Ho scritto e scrivo di Armando Corona e Mario Giglio con un approccio religioso, di amicizia fedele: ne recupero anche oggi, come sempre, il corso intero di vita, avverto ancora con il dolore di una ferita aperta il dramma delle loro cadute, tanto più quelle di salute così a lungo protrattesi nel tempo, e per le incomprensioni che entrambi avevano (spesse volte ingenerosamente) raggiunto; direi anche per le loro incomprensioni del contributo critico che, con lealtà piena (almeno all’apparenza trascurata), questo o quello avevano donato alla loro riflessione e decisione. Mi rendo conto, naturalmente, quanto le personalità titolari di importanti quote di potere – sia così nella politica come nella finanza o nell’impresa – fatichino ad apprezzare o gradire le riserve, pur motivate ed ampiamente argomentate. Nel mio caso, e comunque diversamente fra un corrispondente e l’altro, mai le distanze critiche hanno abbattuto, né lo potevano, una rispondenza morale costruita fin dal primo momento con spirito di verità.
1.1 - Casa Corona: una famiglia tutta sarda e lo studio piacere-dovere
È medico da un anno esatto, Armando Corona, quando un ordigno esplode a Quirra ed Antonio entra nella vita della famiglia, compensando secondo logica di provvidenza la perdita di Giorgio, pochi anni prima, per una maligna pleurite e creando e donando nuova linfa ad una compagine unita dal progetto di realizzarsi attraverso la realizzazione di ciascun suo componente. Quattro sorelle maggiori – Iolanda la primogenita (supererà i centodue e anche i centrotre), Ginoa, Claudia e Immacolata – Zella cioè, scrittrice e collaboratrice speciale per vent’anni di padre Morittu –, quattro sorelle tutte e quattro insegnanti, dalle elementari al liceo – e talvolta passando dalle elementari al liceo e sommando le esperienze didattiche, e tutte politicamente schierate a sinistra, dal PCI al Partito Socialista, a quello Socialproletario di Lussu ultimo tempo.
La personalità dei genitori, sposi dal 1907, l’ha ben descritta lo stesso Corona (e di essi m’e capitato di richiamare di recente, in un lungo articolo dedicato al professor Vincenzo Racugno, altri e ulteriori tratti biografici): il signor Maurizio, originario di Ierzu, carattere d’acciaio, ha sgobbato per mantenere la famiglia, con il suo umile commercio dei vini – su un carro da paese a paese, fra Ogliastra e Gerrei e Sarrabus – e dopo con l’esattoria; la signora Chiara Paderi, origini in Villaputzu e qualche frazione di proprietà avita da mettere a frutto, di salda fede cattolica a compensare l’agnosticismo integrale del marito (è nipote d’un vescovo!), ha donato tutta se stessa nella educazione della prole.
C’è l’uno e c’è l’altro, il bianco e il nero in giusta miscela, nella educazione familiare. E l’uno e l’altro apporto entrano nella formazione di Armando bambino; le elementari in paese, il ginnasio – dal 1932 – al collegio serafico di Bonorva. Seminarista minore e fratino. Veste il saio francescano anche, almeno al servizio delle messe domenicali, nelle solennità ed alle processioni. Studia diligente e si fa apprezzare in convento. Forse troppo convento, tant’è che quando, un certo venerdì, riceve dal superiore e preside una lettera d’invito a partecipare, la domenica successiva, ad una cerimonia che potrebbe essere della professione semplice del figlio, il signor Maurizio, procuratosi il passaggio in vettura da un amico fortunatamente provvisto, sale su fino a quel cuore del Meilogu logudorese, a riprenderselo il figlio: «Intra in macchina, torrausu a domu».
Il tempo di riaggiustare l’orientamento. Qualche mese di scuola ad Armungia, gli esami da privatista per la licenza ginnasiale e un corso intensivo di latino e greco con il professor Pitzalis in vista del triennio liceale a Cagliari, al Dettori che ha la sua sede nel quartiere della Marina: Dante è di vigilanza all’ingresso, dal 1913, le aule e gli androni e le scale, tutto lì è figlio scomodo e austero della lunga stagione gesuitica vissuta dall’edificio.
Lo accompagnano, in questa fase della sua adolescenza, la madre e le sorelle, anch’esse ancora agli studi o all’esordio in cattedra. Il signor Maurizio va e viene, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro lontani dal capoluogo. Ora il suo mestiere è quello di esattore, e il figlio più volte l’ha aiutato a compilare le cartelle delle imposte: «ciò mi dava una certa maturità e la possibilità di portare il mio piccolo contributo all’economia familiare». E intanto sente, proprio ad Armungia, i racconti delle gesta sempre mitiche di Lussu, fra la grande guerra, l’avversione alla dittatura, l’attentato subìto nel 1926, la detenzione a Buoncammino, il confino e la fuga in Francia…
Salvato dal francescanesimo militante e fattosi cagliaritano per la frequenza dei corsi al Dettori, Armando ragazzo di 16-17-18 anni partecipa alle attività della chiesa-convento di San Domenico, nel quartiere di Villanova. Vive a poche decine di metri soltanto dall’antico compendio dei padri predicatori, fra i meglio organizzati nella pedagogia religiosa dei ragazzi e giovani.
Nel giro dell’Azione Cattolica giovani, a San Domenico egli ha pure un incarico ufficiale, quello di delegato allo sport. È fisicamente anche lui portato, furetto e scoiattolo, allo sport; è lui ad insegnare ad andare in bicicletta a coetanei con i quali condividerà moltissimo del suo tempo avvenire.
Alle cose della religione è molto attento; è il più disciplinato nell’ascolto delle lezioni, e pari rispetto e diligenza esige dai suoi, forse meno sensibili di lui al fascino della dottrina. Ma l’ascendente della dottrina, con il sovrappiù del condizionamento delle parole d’ordine del regime che gli rimbalzano dalla scuola, lo subisce anche in qualche sua incongrua espansione sociale: a quasi tre lustri dalla chiusura manu militari delle logge, si parla ancora, si sussurra anzi, di Massoneria irreligiosa e nemica dello Stato, sicché lui, fattosi fumatore, si rifiuta di rifornirsi, con l’amico del cuore che gli subentra infatti nella missione, al tabacchino di piazza Garibaldi perché – si sussurra appunto – esercìto da un massone!
Studia moltissimo, è conosciuto anche nelle altre classi e negli altri corsi. S’affiata in particolare con Bruno Montaldo e Giannetto Visentini, poi entrambi medici, il secondo per lunghi anni anche presidente dell’UNICEF nuorese. La notte studia con Tonino Usala, altro futuro medico e amico di tutta una vita, a partire dalla convivenza in attiva fraternità ad Armungia, dove Ginoa – una delle sorelle maggiori – ha iniziato ad insegnare.
Anno accademico 1939-1940. Matricola alla facoltà di Medicina. La laurea nel 1946. Ha la fortuna di perdere poco tempo con la guerra: la situazione di famiglia – studente, è il solo figlio maschio in casa – gli scampa, se non sono che poche settimane, il richiamo; molti suoi coetanei hanno dovuto dare di più, e nell’Isola e sul continente, alla patria in catene.
Cosa sia l’università di Cagliari in quegli anni lo rappresenta il magnifico rettore Giuseppe Brotzu all’apertura dell’anno accademico. Nasce la facoltà di Ingegneria mineraria, vince la linea di espandere l’area delle facoltà nel cuore di Stampace piuttosto che nei 16.000 mq. di San Lorenzo, Magistero compie il suo primo anno d’attività superando alla grande i numeri di Lettere, Giurisprudenza accoglie il corso di Scienze politiche, ci sono poi la Scuola sindacale e il Centro di Studi corporativi. Di Medicina fra didattica, ricerca e assistenza sanitaria dice molto, ovviamente, il professor Brotzu, e anche di Scienze, Matematica, Farmacia e degli istituti di Chimica generale e Chimica applicata, di Geologia, di Botanica, di Zoologia, di Geografia…
I maggiori problemi effettivamente sono quelli dell’edilizia, specialmente di Medicina. È appena stata iniziata la costruzione della Clinica medica, bisognerà quindi pensare, secondo priorità, ad Anatomia patologica e Medicina legale, e a Clinica e Patologia chirurgica, Ostetricia e Neuropatologia.
Ci sono i littoriali (oltre 1.500 iscritti), quelli della cultura – Zella ha appena vinto la seconda posizione al concorso di poesia e Cenza Thermes la terza nella narrativa – e quelli del lavoro, gli agonali, la mensa, la rivista Sud-Est, la Coorte della milizia, la Befana fascista, la Cassa e l’Opera, la Casa dello studente è stata appena autorizzata…
Si iscrive a Medicina il futuro Gran Maestro, che certo non sa che la facoltà cagliaritana ha avuto – prima della dittatura evidentemente – diversi presidi massoni: Pasquale Umana, Oddo Casagrandi, Roberto Binaghi, Pasquale Sfameni e prima di tutti Luigi Zanda che fu anche magnifico rettore per due volte negli anni ’80 dell'Ottocento… Con il preside attuale Giovanni Zanda sono 68 i professori, e negli istituti, con quelli vincitori di concorso, gli assistenti volontari sono numerosi anch’essi, una trentina circa.
L’intera popolazione universitaria conta 1.302 studenti in corso e 79 fuori corso; a Medicina sono 182 (soltanto 6 donne) e 15 fuori corso; le matricole della facoltà nell’anno accademico 1939-40 sono 35, di cui una sola donna.
Libri e corsia d’ospedale, tutti i giorni; mai una vacanza, non sono tempi. Dal professor Aresu, dal professor Setzu, esami, esami…, lo studio combinato con colleghi, e con l’amico di sempre Tonino Usala nottate intere, cenando in fraternità con uova e uova, nella nuova casa di via XX Settembre. L’uno ripete all’altro, e vince sempre la parlata di paese: almeno la ripetizione è in sardo variante campidanese.
Sono anche gli anni degli innamoramenti. Qualcuno più importante che non la semplice cotta giovanile. E il rammarico, le lacrime perfino, per l’amore non corrisposto. Fino a che arriverà la donna, liceale a Cagliari, presto insegnante anche lei come le cognate, che gli darà, nei primi anni ’50, tre figli.
Dopo la laurea, quell’esercizio ambulatoriale a Villaputzu per un anno e qualcosa, poi la prima condotta. E sarà lui stesso a raccontarlo nel libro autobiografico Dal bisturi alla squadra (Bompiani, 1987):
Quando nel luglio del 1946 presi la laurea la prima cosa che dovetti affrontare fu un grosso debito che mio padre aveva contratto per farmi terminare gli studi. La guerra aveva polverizzato ogni economia, e soltanto attraverso un prestito al Banco di Sardegna mio padre poté mantenermi negli ultimi anni di università…
Due anni dopo partecipai al mio primo concorso per diventare medico condotto. Fu un concorso estremamente difficile giacché in Italia era dal 1935 che non si facevano concorsi. Tutti i laureati, a partire da quella data fino al 1946, avevano presentato domanda per questo concorso; a questi andavano aggiunti tutti i vecchi medici, che nel frattempo avendo maturato tanti anni di servizio, tentavano quella prova per potersi avvicinare alla città.
Io, che ero uscito con un’ottima preparazione dall’università, vinsi il concorso ma venni mandato nella condotta di un quadrilatero geografico costituito dal territorio di quattro centri abitati: Senis, Assolo, Nureci e Asuni, allora appartenenti alla provincia di Cagliari…
Nel consorzio medico di Senis arrivai nel luglio del ’48. Fu grande la mia sorpresa poiché si trattava di un angolo di terra più povero e deserto dei paesi del Terzo Mondo. Non c’era acquedotto, non c’erano fognature, mancava l’energia elettrica e si tirava avanti con il lume a petrolio o a gas. Non c’era ambulatorio, mancavano le scuole, e le strade erano ancora polverose al punto che durante le giornate di pioggia si trasformavano in pantani. Non c’era nemmeno il prete poiché la popolazione, sentendosi abbandonata da tutti, aveva organizzato uno sciopero anche contro tutte le autorità religiose. Il primo provvedimento di rappresaglia preso dal clero fu quello di richiamare il prete e scomunicare la parrocchia…
Il 95 per cento della popolazione attiva lavorava in agricoltura e il restante 5 per cento si occupava dei servizi: faceva il barbiere, l’artigiano, il becchino, scavava pozzi per l’acqua… I proprietari terrieri pagavano i salariati alle tariffe più basse di quelle contrattuali... I lavoratori agricoli percepivano il salario soltanto quando il tempo era buono e potevano prestare la loro opera: quando il tempo era troppo freddo o troppo caldo, piovoso o ventoso, vista l’impossibilità di lavorare, i braccianti non venivano pagati. Mancava ogni forma di assistenza sanitaria pubblica e i lavoratori non potevano pagarsela di tasca propria per l’estrema indigenza in cui versavano. Ma anche dopo il ’48 la legislazione italiana fu molto ingiusta nei confronti dei lavoratori agricoli, al punto che questi, pur essendo stati ammessi alla visita medica gratuita, si dovevano comprare le medicine. Il risultato di questa situazione era che quelli che lavoravano cinquantun giorni all’anno venivano iscritti come “eccezionali”, il che comportava il diritto alla visita medica soltanto per i capi-famiglia; mentre per gli “occasionali” e gli “abituali” la visita gratuita si estendeva anche ai familiari, pur restando a loro carico l’acquisto dei farmaci…
Mi trovai a fare il capopopolo richiamando l’attenzione delle autorità, dapprima solo di quelle prefettizie. Successivamente, nel 1949, data in cui in Sardegna si svolsero le elezioni regionali, durante le visite degli onorevoli a caccia di voti in questo sperduto lembo di terra, conobbi parecchi politici riuscendo in tal modo a ottenere l’acquedotto, l’edificio scolastico, l’ambulatorio e la bitumazione delle strade. Tutto ciò mi contrapponeva automaticamente al potere economico del paese e al nuovo parroco. Questa battaglia che conducevo come sardo che difende i propri concittadini, e quindi come sardista, aveva indotto il clero a considerarmi comunista e a scomunicarmi: mi venne impedito di fungere da testimone alle nozze degli amici o dei parenti che si sposavano o di fare da padrino a battezzandi e cresimandi...
Quella diventò una delle zone più combattive della intera Sardegna. E poiché allora si facevano liste comuni tra comunisti, socialisti e sardisti finimmo con l’aver sotto controllo quasi tutte le amministrazioni comunali della zona….
1.2 - Casa Giglio: dal vitalismo dei vent’anni all’università per un nuovo balzo
Viene da una famiglia piccolo borghese del capoluogo turritano il Fratello massone che, per il suo dinamismo e anche per la spregiudicatezza del suo protagonismo, rappresenterà forse il Maestro di maggior carisma fra le Colonne del Tempio non soltanto cagliaritano lungo quasi due decenni, fino alla metà degli anni ’80, quando passa il testimone della maggior leadership ad Armando Corona. Mario Giglio viene iniziato nel 1957, trentacinquenne, e quando già da quasi un decennio è alle dipendenze del Banco di Napoli, l’istituto di credito nazionale che vanta il più antico insediamento ed il maggior numero di sportelli sul territorio isolano.
È stato cresciuto dagli zii materni (un colonnello tutto casa-e-caserma e le sue tre sorelle nubili), perché i genitori e la sorella si sono dovuti trasferire – lui ancora piccolo – a Milano per ragioni di lavoro. (Una malattia tardivamente diagnosticata ha fatto perdere al padre Luigi, già maresciallo dei carabinieri, il suo posto di direttore del mercato civico di Sassari e soltanto le premure di un parente, dirigente della Vallardi, hanno consentito al capofamiglia di rimediare un’altra occupazione ma in Lombardia dove si trasferisce con la moglie Pasqualina Obino sposata nel 1913. Questione di mesi, ché una polmonite lo elimina brutalmente in una giornata nevosa).
Frequenta la prima classe dell’Istituto Tecnico Commerciale, ma quasi subito – raccogliendo il suggerimento dei suoi professori che ne intuiscono le attitudini di studio verso le discipline umanistiche – si trasferisce al ginnasio-liceo. All’Azuni incontra il miglior corpo docente della città, politicamente defilato (siamo negli anni del conformistico consenso alla dittatura) e tendenzialmente afascista: i professori Pittalis, Chiarini – l’europeista mazziniano –, Leoni, Melis (dal quale avrà in dono l’Opera del Settembrini)…
Studente e sportivo. Secondo l’ideologia vitalistica del regime – che prima ancora d’esser odio al nemico è prova d’abnegazione per la causa difesa, virtù dell’immolazione – è un assiduo dei campi Dux. Il raggio delle sue amicizie adolescenziali è assolutamente ecumenico, ancorché vada segnalato che, se c’è, l’antifascismo sassarese non azzarda molto più delle barzellette sui gerarchi d’ogni livello fino al Gran Consiglio e Mussolini e si beve tranquillamente, ogni giorno, l’enfasi delle titolazioni dell’Isola (il giornale che ha sostituito La Nuova Sardegna, soppressa nel 1926) in edicola. Segni, silenzioso e sempre malaticcio, non parla di politica; Giuseppe Dessì, provveditore agli studi per scelta di Bottai, accetta di indossare la camicia nera (ma in democrazia si riscatterà, subendo anche un trasferimento punitivo per un presunto sgarbo a De Gasperi); Antonio Pigliaru – capo dell’Ufficio di propaganda della GIL – è pronto alla galera pur di difendere i sacri principi della rivoluzione fascista.
Dittatura dal “volto umano”, questa sassarese, né potrebbe essere diversamente, filtrata come è dall’atavica “cionfra” del luogo, spirito disincantato e tollerante dei residenti, che peraltro hanno la consolazione di vedere nei federali tutti ottimi amministratori.
Viene così naturale, almeno sotto un certo profilo, dopo la maturità classica e l’anno del matricolato a Giurisprudenza, e dopo anche gli obblighi della leva di guerra nell’esercito regolare (corso allievi ufficiali di complemento nel 1942, nel 3° reggimento Fanteria carrista a Bologna all'inizio del 1943), finire nell’esercito messo su dalla repubblichetta di Mussolini ormai dimissionato dal Gran Consiglio e dal re. Sbandato «in seguito agli eventi sopravvenuti all’armistizio» – come scriveranno nel foglio-matricola della Difesa – si arruola nei ranghi filoburgundi della X MAS.
Cresciuto a una sensibilità nazionalista, ad una cultura patriottarda, secondo cui i confini della patria sono sacri e inviolabili, condivide pienamente il comando dei suoi gerarchi: è Tito il nemico numero uno dell’Italia, è lui l’attentatore dell’unità della Nazione nel nome del disvalore comunista. Così, in forza a un battaglione attivo più sul fronte di terra che su quello di mare (per il quale invero la X MAS di Junio Valerio Borghese è sorta), dopo che contro i partigiani francesi entrati nel territorio italiano, combatte contro i titini nella Venezia Giulia, e s’attiva disperatamente a salvare quelli della Osoppo massacrati dagli jugoslavi. Viene infine fatto prigioniero, patisce svariati mesi di prigionia in un campo di concentramento.
Fuciliere, anzi sergente comandante di una squadra fucilieri, si distingue in molteplici azioni di pattuglia («con slancio e perizia nell’assolvimento di difficili compiti») tanto da essere premiato con una medaglia di bronzo: «alla testa della sua squadra con slancio e sprezzo del pericolo andava all’assalto di un nucleo consistente di ribelli, eliminandoli»: così a Punta Merola nell’agosto 1944.
Torna a casa a guerra finita, congedato (ma ancora in attesa di eventuale reimpiego sotto le armi) dal distretto militare di Milano proprio il giorno della liberazione.
C’è chi, non a torto, descrive la X MAS di terra come una serie di battaglioni rari per ferocia, esperti nei rastrellamenti alla nazista. Lui sa di aver servito un ideale, quello cui è stato educato, e quando se ne presenta l’occasione – già nel febbraio 1946 – espone il suo punto di vista sulla Voce Universitaria, il quindicinale goliardico dell’Associazione Turritana Universitaria che ha sollecitato i giovani sassaresi ad un aperto confronto d’idee sul futuro dell’Italia, ora che la guerra, e con essa la dittatura, sono finalmente passate.
Egli crede che i suoi amici, i suoi coetanei, la gioventù intellettuale chiamata a dibattito abbia il diritto di guadagnar tempo per riorientarsi nel nuovo quadro che la storia ha appena aperto. «Qual è il pane spirituale che si offre a questi giovani diffidenti per un troppo amaro boccone? Ma lasciateli dormire, lasciateli dormire un riposante sonno senza sogni, ché troppo hanno sognato. Han sognato fino a ieri, fino alla tragedia, cose belle e grandi. Per tutti i loro vent’anni hanno sognato, senza che nessuno dicesse loro che era un delitto sognare una Patria grande, potente, degna del genio italiano e capace di dare pane a tutti i suoi figli. Solo questo han sognato i giovani: il resto eran fronzoli. Per questo sogno... la gioventù ha vissuto, palpitato, combattuto generosamente, si è sacrificata eroicamente e coscientemente...».
Preziosa testimonianza degli anni lontani viene certamente dalle pagine introduttive dell’autobiografico La mia avventura ad Ivrea (Stampacolor, 2003):
Tutti i classici, Carducci in testa ma Leopardi con maggiore efficacia, parlano di Patria e rimpiangono Roma imperiale.
A scuola andavo bene ed il prof. Carlo Melis a fine anno mi regalò un libro con una dedica ambivalente, Le rimembranze di Luigi Settembrini. Credo che se lo sapesse ne proverebbe un dispiacere, ma quel libro rafforzò in me l'amor di Patria e lo spirito di sacrificio. L'invito alla democrazia, contenuto nella dedica, lo compresi solo da adulto. Nelle famiglie si raccontavano barzellette sui fascisti ladri. Ma gli esempi dei fascisti altolocati puniti per non avere speso bene i fondi pubblici contrastavano con le barzellette sui fascisti ladri. Vedi il segretario federale Gana spedito in Africa per un pettegolezzo su 28.000 lire “risparmiate” sul milione stanziato per l'acquedotto di Sassari: sarà stato vero? non si sa. Comunque fu sostituito da uno noto per la sua estrema onestà e che rimase in carica fino alla guerra. Le peggiori critiche venivano mosse al prof. Ascione, che si diceva incamerasse lo stipendio di professore e quello di membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Dirò che le uniche critiche al fascismo, mosse con sentimento e astio, erano quelle contro la politica sociale e sindacale: eccesso di difesa per le raccoglitrici di olive, istituzione dell'ufficio del lavoro a cui bisognava rivolgersi per le assunzioni, viaggi a Roma delle massaie rurali, ecc.
Tutte cose che nei giovani non avevano presa. Mai che si rimpiangesse la perduta democrazia, che ricordava, invece, lo strapotere di socialisti e comunisti e le loro prepotenze.
Non parliamo poi della scuola, dove alle elementari gli e le insegnanti erano tutti/e grati al fascismo che con la riforma Gentile aveva dato loro dignità e prestigio. Fatto sta che a 8 anni, in terza elementare, vestito da balilla, montavo la guardia, insieme agli ultimi garibaldini, al sacrario dei caduti delle Cinque giornate di Milano (che sta sotto il monumento).
Dulce et decorum est pro patria mori, declamava in prima liceo il non fascista prof. Chiarini.
Et dubitamus adhuc virtute estendere vires, scrivevo io con il minio sulla parete di fronte al Liceo Azuni. E il non fascista preside Porcelli, invece di darci una lezione di pacifismo, veniva in classe a discutere su un errore di metrica da lui rilevato nella scritta e impiantava una discussione col prof. Chiarini che l'aveva insegnata e la difendeva a spada tratta.
La folla in Piazza d'Italia e nella piazze d'Italia applaudiva commossa al discorso del Duce trasmesso per radio, che proclamava la conquista dell'impero. Ho visto piangere un sacco di gente adulta ed era stato difficile trovar posto nella zona libera della piazza.
Altrettanto dicasi per la dichiarazione di guerra, ormai vinta dai tedeschi, anche se poi andò come andò.
Ma ancora durante la guerra, al discorso di Mussolini al Lirico di Milano, il teatro era stracolmo di folla plaudente, e gli altoparlanti ne diffondevano nelle piazze il testo un po' amaro.
E tutti i volontari che partivano per la guerra, forse non sapevano che molti di essi non sarebbero tornati? possibile che fossero tutti ubriachi? E quel camerata che inciampato in una mina antiuomo, morente, dissanguato, mi prese la mano e mi raccomandò di dire al padre che era morto con coraggio, forse non meritava rispetto?
È un fatto che, al mio ritorno, mi aspettavo di essere ricevuto con tutti gli onori. Ed invece trovai che la massa che mi aveva accompagnato alla stazione, perché andassi a combattere contro gli inglesi, mi fischiava minacciosa perché non avevo cambiato bandiera.
Dalle OO.PP. al BancoNapoli, e la progressiva scoperta della democrazia sociale
Riflette, il giovane ormai di venticinque anni tornato ai libri dopo aver smesso la divisa e la mitragliatrice, sulla sua vicenda personale e su quella collettiva dei coetanei che hanno vissuto la medesima esperienza. Vuole tempo per capire, con gli altri, la nuova realtà, i cui valori-forza sembrano il contrario di quelli finora conosciuti e praticati: «quando la vita ci respingerà nella mischia, diremo ancora una parola che sia espressione della nostra volontà e, se ne avremo, della nostra fede».
E i risultati vengono. L’alto dosaggio d’improvvisa democrazia degli anni 1945-1946 ed immediatamente successivi, nei quali pure non mancano gli appannamenti trasformistici – con la dialettica politica interna al CLN e la sua traduzione sulle pagine dei giornali – consente a chi prima non possedeva appropriati strumenti critici di lettura della realtà politica di utilizzarli per il setacciato ripasso della recente storia nazionale. I princìpi d’un tempo sono ora apprezzati come disvalori e viceversa. La stessa parola “democrazia”, tanto vituperata nel ventennio, ora assume tutto intero il suo significato sociale e libertario. Egli scopre la tragica verità del nazismo, marcherà un giorno, con la lettura del Vicario, la sua radicata propensione anticlericale. Coglie il senso d’ingiustizia d’una frase che più di qualche volta gli capita di udire nella sua città, replica di un’ideologia diffusa anche altrove: «Quello non deve lavorare perché comunista!».
Di più. Testimonierà con franchezza:
… finimmo il servizio nella Decima senza un grande concetto dei partigiani italiani. Ma il destino volle che una volta rientrato in Sardegna ed avendo iniziato nel campo dell’economia, mi ritrovassi amico di un paio di partigiani comunisti. Debbo dire che fu un’amicizia che non mi diede cattive sorprese, come spesso capita a chi contrae amicizia dopo 30 anni nel campo del lavoro.
Si avvicina agli ideali del socialismo. Nel nuovo clima un po’ sfrenato di dottrinarismi spinti, rivelatori comunque di un fermento etico che è sempre positivo, riprende gli studi. Un anno, poco più, di vita veramente monacale tutta dedicata agli esami – il primo della serie è diritto ecclesiastico, verranno poi quelli da sostenere col tremendo professor Salis: diritto privato, civile e commerciale – ed a fine 1946 si laurea.
Prosegue nella pratica sportiva, tanto più la pesca subacquea, ma soprattutto si butta a cercare un lavoro. Inizia come cassiere all’Automobil club di Sassari, diventa espertissimo in timbri e bolli, anche se poi è vero che il parco delle vetture in circolazione in città e provincia, nei due o tre anni dopo la guerra, non è che sia così numeroso...
Un suo amico di sempre, Giovanni Pazzi, vice direttore del Provveditorato alle OO.PP. di Cagliari, gli segnala la possibilità di entrare nella sua amministrazione, dipartimento regionale del Ministero dei Lavori Pubblici. Pur laureato, gli chiedono soltanto di fare il dattilografo: deve battere a macchina le brevissime lettere di accompagnamento delle pratiche in viaggio da un ufficio all’altro. È veloce, anche troppo per le abitudini della burocrazia statale. Gli danno anche da ricopiare, a mano, i contratti. Viene pagato un tot a riga, e lui scrive con una calligrafia... larga.
È l’esperienza di un anno circa. Nel febbraio 1948 la svolta: il prossimo prefetto Enrico Parodi, che nel lavoro di banca non si sente realizzato, ottiene l’assunzione al Provveditorato e per Giglio – boicottato perché l’amministrazione statale ha dato direttive di scartare gli ex repubblichini dall’immissione in ruolo – si apre la porta del Banco di Napoli.
Per sei mesi egli è diurnista nella sede di Cagliari, senza assicurazione, pagato a giornata. Intraprendente, passa avventizio dopo qualche mese. Lo si è visto da subito all’ufficio Portafoglio, al quale è stato assegnato, bravo a fare la quadrata delle colonne orizzontali e verticali degli effetti presentati allo sconto o al dopo incasso... Ma può fare qualcosa di più, e la possibilità di mostrarlo gli viene fornita nello stesso anno quando accetta di seguire il suo capoufficio inviato a dirigere la filiale di Ozieri. Dieci, dodici ore al giorno, non c’è lo straordinario, basta e basti l’apprezzamento del capo.
Ozieri è una piazza relativamente ricca. Vi opera la filiazione sarda della Galbani che sa collocare la produzione in diversi mercati esteri: tedeschi, americani… C’è molto da lavorare… Vive presso una pensione che – come in certe commedie italiane – è il palcoscenico di personaggi della più varia umanità. Sarà una scuola di vita sociale indimenticabile. Lavora spesso anche la domenica, e quando non c’è il treno ecco la bicicletta alla volta di Sassari. Ha qualche impegno familiare, è ormai prossimo al matrimonio con Paola Perantoni, figlia di uno dei maggiori avvocati del foro turritano (colui che prima del 25 luglio famoso aveva osato schiaffeggiare in piazza d’Italia un maresciallo dei carabinieri dirigente dell’ufficio spionaggio).
Sono sue, a conferma ennesima di pensose confidenze tante volte ripetute, le parole che valgono come la didascalia di una scena filmica che durerà una vita intera:
Mi convertii alla democrazia dopo diversi anni, quando a S. Antioco il prete mi mandò a dire, all'ora dell'aperitivo nel Bar Rosi, di essere molto dispiaciuto perché facevo arrivare all'edicola 3 copie del Borghese, settimanale diretto da quel massone di Longanesi. Al che in pieno bar dissi: «Magari ci fosse ancora la massoneria, mi ci iscriverei subito!». La massoneria c'era ed era presente in quel bar con un suo adepto. Per cui, dopo qualche giorno, ricevetti la visita di un alto ufficiale di marina in pensione che era stato iniziato alla massoneria da Gabriele D'Annunzio a Fiume e che mi invitò a entrare a farne parte. Ed io naturalmente accettai.
2.1 - Corona: il debutto professionale, la prima condotta
A Senis è arrivato con una Vespa 125, l’ultima novità industriale dell’Italia ripartita dopo le devastazioni della guerra. Indossa un vestito nuovo, porta la borsa da medico che affascina di per sé. Il paese conta meno di mille abitanti e con Assolo, Nureci ed Asuni si arriva a 2.600 anime. Povertà da tagliare a fette. A parte la mancanza di infrastrutture e servizi pubblici, c’è un diffuso analfabetismo. La parrocchia vende Il Quotidiano Sardo, dieci copie forse in tutto il circondario, non molto maggiori sono le vendite de L’Unione Sarda, ogni giorno puntualissima nel suo ritardo. L’agricoltura è estensiva e di sussistenza, i terreni sono asciutti. Quasi l’intera produzione cerealicola viene conferita all’ammasso al Consorzio Agrario che, a tassi di interesse molto alti, anticipa un 50 per cento che basta appena a pagare i debiti contratti l’anno precedente per acquistare beni di prima necessità…
Il giovane medico non si risparmia, si concede a tutti, matura esperienza professionale e soprattutto umana. All’inizio non ha ambulatorio suo, visita nei quattro paesi della condotta utilizzando una stanza messagli a disposizione da qualcuno presso la propria abitazione. C’è poi il giro delle visite domiciliari che si conclude spesso, la sera, con una sosta conviviale, quel classico spuntino paesano che, magari accompagnato da una sana partita a carte, favorisce la confidenza reciproca e raccoglie le prenotazioni di comparaggio.
Sempre compensato in natura, il lavoro di cinque, sei, sette anni, a giornata piena, sovente sabato e domenica compresi, dà risultati anche nello standing personale e familiare del medico: che per le polverose strade marmillesi viaggia ora su una Fiat 500 giardinetta. E con quella vettura arriva ad Ales. Benvoluto da chi è stato da lui assistito, sono numerosi i pazienti che continueranno a farsi da lui seguire nella nuova condotta alerese.
È qui, a Senis, che fa famiglia, qui nascono i primi due suoi figli, amatissimi sempre.
Nel 1955 Corona ha 34 anni. Si è preparato al nuovo concorso con il massimo di impegno, studiando sodo ma anche solo. Ed ha avuto bisogno del confronto, come negli anni dell’università. Ha chiamato l’amico di sempre, già specialista: «Il cuore, domani, me lo ripeti?». Per dire: riportami alle oracce di sgobbo per l’esame, alla teoria, fisiologia e patologia del cuore… Hanno fatto conclave due giorni interi: il primo è quello della lezione, un ripasso generale ma minuzioso, con la casistica; il secondo, come da accordi, è lui, il dottor Corona, che ha ripetuto all’altro, il quale quasi sessant’anni dopo confida: «Era bello sentirlo parlare di medicina», preciso e semplice negli enunciati, esposizione chiara e clinicamente pertinente, forse perfetta. E lui stesso, Armando Corona, sa guardarsi indietro, alle fatiche di quei cimenti:
A Senis rimasi sette anni… Lasciai il quadrilatero carico di esperienze di vita vissuta che tuttora conservo nel mio cuore come una zona di fermento spirituale…
Nel 1955 vinsi il concorso per la condotta ad Ales, patria di Antonio Gramsci. Lì esistevano già alcune strutture civili importanti per quei tempi e per quei luoghi: la farmacia, la pretura, la stazione dei carabinieri, la caserma forestale. Giunsi preceduto da una solida fama di mangiapreti, di uomo di sinistra e di laico intransigente. In quella situazione mi trovai al centro di violente polemiche da parte dei cattolici. Ma nel giro di tre anni, grazie a un’ininterrotta rotazione di amministrazioni di sinistra, la diocesi di Ales divenne la più rossa d’Italia. Tutto ciò mentre andava prendendo corpo una sorta di curiosa amicizia tra me e il vescovo, monsignor Antonio Tedde… L’ho annoverato trai miei pazienti per circa vent’anni… I soldi che riusciva a racimolare dagli enti pubblici, dai fedeli o dalle donazioni li destinava interamente alla costruzione di orfanotrofi, di brefotrofi e di scuole, giacché allora lo Stato non provvedeva a nessuno di questi bisogni.
Questo legame di amicizia si consolidò nel tempo sicché la gente finì con l’accomunare nel giudizio negativo anche il vescovo di Ales, che pagava ben cara la sua amicizia con un laico. Fino al punto che la DC, attraverso la Coldiretti, aprì nel paese un poliambulatorio che, in teoria, assisteva soltanto gli agricoltori, ma di fatto, allargando il campo dell’assistenza, si proponeva di sottrarmi gli assistiti per costringermi ad abbandonare il paese… Nonostante cominciassero ad arrivare ad Ales medici molto più bravi di me, persino specialisti che settimanalmente arrivavano da Cagliari, la gran parte della gente preferiva venire da me.
Pur essendo stata la DC a volere questo poliambulatorio, il vescovo di Ales veniva ancora nel mio studio; vi arrivava a piedi, per farsi vedere e far capire a tutti che lui continuava a rimettere la propria salute nelle mie mani. Era una prova, e una testimonianza, d’amicizia e di stima che non dimenticherò mai... Egli aveva uno spiccatissimo senso di giustizia sociale e di tolleranza… A lui queste doti provenivano dalla smisurata fede religiosa giacché è mia convinzione che egli fosse uno di quei sacerdoti che credono veramente in Dio; voglio sottolineare questa notazione poiché ho avuto occasione di conoscere sacerdoti che in Dio non credevano assolutamente.
Ad Ales, con un vescovo per amico
Occorre fare qui, dopo quello al caro monsignor Antonio Tedde, il riferimento al presule all’inizio già richiamato dal campo familiare: monsignor Giuseppe Paderi Concas, prozio materno di Armando Corona.
In una serata organizzata dalla Famiglia ogliastrina presso i salesiani – pensando al secolare istituto di Lanusei – sarà lo stesso Corona a presentare questa figura nel momento in cui, nel lontano 1897, tenne pulpito in lingua sarda a Santa Maria Maggiore, basilica papale romana. «Quel discorso in sardo rappresenta emblematicamente – dirà – il legame tra questo sacerdote e il suo popolo; un legame profondo che lo inorgogliva e lo gratificava perché non mancava mai di ricordare che egli era il vescovo della diocesi dov’era nato».
È contento, Corona massone e leader politico dello schieramento laico, di biografare un vescovo: lo racconta mezzadro – agricoltore e pastore –, ancora bambino, a Muravera, e scolaro a Villaputzu; lo racconta amante del canto e della musica; lo racconta arrivato a Cagliari con un coetaneo e amico, quando – scrive e dice – «trovarono rifugio sulle scalinate della chiesa di San Domenico. Dopo aver riposato un pochino, suggestionato forse dall’ambiente, Giuseppe Paderi cominciò a cantare una laude sacra che aveva imparato nella parrocchia di Villaputzu. I frati udirono quel canto e, incuriositi, si avvicinarono ai due ragazzi e appresero la loro storia. Li presero e ben volere e li iniziarono agli studi. Questo vuole la leggenda e forse c’è qualcosa di vero».
Il seminario di Cagliari, la laurea in teologia, il parrocato vinto per concorso nella sua Villaputzu, poi a Ilbono, quindi il canonicato penitenziere e dopo quello teologico nella cattedrale di Tortolì, la presidenza del seminario diocesano ogliastrino, l’episcopato… Sono otto cartelle fitte di corretto inquadramento storico, narrazione spumeggiante e riflessioni accurate. «Se dunque parlò in sardo in occasione di quel pellegrinaggio – è la conclusione – fu per farsi capire veramente e non per vestire di belle parole il vuoto di propositi o d’azione come, purtroppo, in varie occasioni, anche ai nostri giorni, accade». La quasi quindicennale esperienza maturata in Consiglio regionale forse gli dà motivo per questa considerazione.
Anche nel clero di Ales c’è chi è più illuminato e comprensivo, e chi lo è meno. E talvolta si crede furbo più di tutti, salvo fare poi i conti con chi è scafato e sa godersela. Come quella volta che un canonico della cattedrale cerca di incastrarlo, il giovane dottor Corona, con un registratore clandestino, a proposito di certi consigli che egli darebbe alle donne in materia di contraccezione – e sia magari soltanto il metodo Ogino Knaus –, e la soffiata di un amico della curia stessa l’aiuta a disarmare l’avversario:
«Dottore, dicono che lei suggerisca alle donne come non rimanere incinte…».
«Eh, caro monsignore, la gente dice tante cose… Ma se stiamo a quello che dice la gente! Eh, perché c’è chi dice che lei è il padre di Tizio, e anche di Caio, che è stato pure con Sempronia…».
Registrazione rubata ma non utilizzabile.
Nella politica provinciale e in quella del PSd’A
L’elezione al Consiglio provinciale, insieme con un altro sardista – l’avvocato oristanese Emanuele Cau – è del novembre 1964, quella ad assessore effettivo di una giunta quadripartita di centro-sinistra del gennaio 1965.
Proprio riferendosi a tale impegno politico aggiungerà:
Quando mi fu offerta la candidatura nel Collegio provinciale abitavo ad Ales ormai da otto anni. Il sindaco era un militante del Partito Sardo d’Azione… Risultai eletto nel Collegio di Ales quasi a furor di popolo, per usare un termine enfatico. Fino ad allora quel posto di consigliere provinciale era stato sempre occupato da un democristiano… Venni eletto grazie anche alla diretta partecipazione di molti parroci della zona, che da tempo avevano esorcizzato il mio laicismo privilegiando il mio impegno di medico e di cittadino che si batteva per Ales, contrapponendo l’azione alle ideologie allora ristrette in steccati e trincee.
Appena eletto consigliere provinciale, iniziò un periodo di grandi sacrifici. Ero impegnato dalla mia professione di medico sino al primo pomeriggio, poi dovevo andare a Cagliari di gran carriera per partecipare alle riunioni della giunta provinciale. Solo a tarda sera ripercorrevo gli 80 km. che separavano Ales dal capoluogo: una volta giunto in paese sovente ero chiamato da qualche paziente per qualche consulto urgente. In tutti gli anni di professione non avevo mai rinunciato a visitare i miei ammalati più bisognosi prima del riposo notturno.
Il presidente della giunta provinciale, il professor Meloni, democristiano… mi prescelse come assessore agli Istituti Psichiatrici che erano da tempo nell’occhio del ciclone per una durissima polemica insorta sulla gestione di una casa di cura. La gestione incriminata era quella ottenuta dal dottor Gaetano Berretta che aveva avuto in affitto, dai Salesiani, un complesso edilizio adagiato sulla splendida spiaggia di Solanas…
Il mio predecessore, che andandosene era divenuto segretario provinciale della DC, si era fatto carico, a condizioni vantaggiose, di gestire in questa ex colonia marina il sovrannumero dei malati di mente che affollavano il manicomio di Cagliari. Le accuse che venivano mosse erano quelle di percepire una quota altissima per curare questi malati che in effetti venivano tenuti “scalzi, mal vestiti e denutriti”. Questo fenomeno di speculazione fu la patata bollente che mi ritrovai tra le mani. Una volta avuti tutti gli elementi conoscitivi, non mi fu difficile arrivare alla conclusione che dovevano esistere dei collegamenti e delle collusioni tra le strutture dell’amministrazione provinciale e colui che era responsabile della tutela dei malati di mente e della gestione della casa di cura. Quando venne inviata una Commissione d’inchiesta, i colleghi consiglieri trovarono gli ammalati non solo puliti e quieti, ma persino fiori sui tavoli del refettorio e sopra il comodino accanto al letto. Era veramente un fatto insolito.
Per questo decisi di compiere una ispezione unitamente a due medici dell’ospedale psichiatrico idonei alla bisogna… L’ispezione fu improvvisa senza che qualcuno dell’amministrazione potesse preavvertire. La colonia di Solanas ci si presentò trasformata in uno squallido complesso assistenziale… Prima della mia ispezione si recò sul posto un’altra commissione d’inchiesta; fu consentito al giornalista che l’accompagnava di pubblicare l’agghiacciante relazione dei membri indicandone la fonte…
Solanas venne chiuso e gli ammalati furono imbarcati per il continente tra il pianto e la disperazione dei familiari che forse non li avrebbero mai più rivisti.
Nel giugno 1965 un’altra partita elettorale: per il rinnovo del Consiglio regionale. L’obiettivo è mancato per un pugno di voti.
Questa sconfitta è bruciante. Probabilmente contano, nella delusione o nel dispetto del dopo, accordi non onorati e anche la batosta al congresso provinciale del partito che chiude la sua segreteria politica di un anno. Sta di fatto che per lunghi mesi Corona si estranea dalla stessa militanza, limitandosi alla guida del suo assessorato provinciale, ed alla conduzione degli altri suoi interessi professionali-imprenditoriali come vanno prendendo corpo in tale contesto temporale.
Arte mediatoria e fiuto degli affari (puliti)
Siamo nella seconda metà degli anni ’60, e anche qui si riappalesano in forma evidente i tratti di chiaroscuro di una personalità determinata e insieme pragmatica, per taluni aspetti perfino spregiudicata, pur sempre all’interno di coordinate etiche riconoscibili.
C’è forse, in lui, come un’ansia risarcitoria dei sacrifici paterni – la dura fatica dei viaggi commerciali fra paese e paese, in quegli anni ’10 e ’20, quando nella casa Corona-Paderi si sono affacciate al mondo ben undici vite! in parte non lieve tranciate dalla mortalità infantile che è un mesto portato dell’epoca. E sacrifici anche di dopo, perché le ragazze avessero diploma e laurea, e anche lui fosse dottore, un dottore realizzato, tanto bravo nel mestiere quanto soddisfatto nel compenso dell’impegno profuso, della competenza sudata: l’agiatezza da condividere e trasmettere ai figli e ai figli dei figli, insieme con l’ammonimento dell’esempio: studio e lavoro, sempre studio e lavoro, e relazioni mai passive.
Il denaro non sarà mai un moloch per Armando Corona, che pure ne avrà, nel divenire del tempo, molto, e che costituisce per tutti una tentazione d’ingordigia dalla quale conviene cautelarsi. È per lui, invece o prima di tutto, la prova provata di una abilità: quella di mettere a frutto, con arte, ciò che sa, per fatica di studio e fatica di esperienza, e insieme però – e tanto più, questo, in una fase temporale a noi più prossima, anni ’80 e ’90 (operazioni immobiliari in Cagliari: centro commerciale, ex cementeria) – ciò che già soltanto il nome costruito nel tempo vale: passepartout aggregativo. Certo, entra in questa filosofia applicata alla produzione della ricchezza molto rischio, e s’affacciano come termini dialettici il bianco e il nero dell’impianto templare; non meno certo è comunque – d’altra parte –, che se ne zampilleranno molte, di risorse, nessuno che abbia bussato ha trovato la porta chiusa.
«Su dottori, m’esti arribada custa cartella de impostasa, e appu biu chi no esti giusta, mi chiedono cinquecentomila lire anni ’60, depidi nai de mi da cancellai; deu no potzu pagai custu depidu».
«Lassìdimì tottu, e torridi innoi crasi , ada a biri che custu fastidiu deusu a sistemai».
L’indomani. «Su dottori, mi dda fatta cancellai sa cartella sbagliada?».
«Certu, eccu noi. Alloghidi custa recìda, ma l’anno prossimo si faccia assistere da un commercialista quando deve fare denuncia dei redditi».
La cartella l’ha annullata il ministro, o l’intendente, o chi altri? No, la cartella l’ha pagata «su dottori» che insieme ha dato il consiglio: si faccia assistere dal commercialista e non faccia altri pasticci.
«Sono alla rovina. Domani scade l’IVA e ho la cassa vuota, non ho proprio niente. Non ce la faccio…».
«Lo vedi quel pacchetto su quel mobile lì? Prendilo e portatelo via».
Quello apre a casa il pacchetto: 15milioni di lire anni ’90.
Tanta potenza economica si è costruita progressivamente con uno spiccatissimo intuito per gli affari, che non è stato esente da mosse spregiudicate che altre sensibilità giudicherebbero non commendevoli, ma che, s’è detto, risultano essere rimaste sempre nei limiti dell’eticamente e giuridicamente lecito.
Quando va a farsi visitare nel suo ambulatorio paesano un tale al quale riscontra una brutta forma artrosica e consiglia una visita specialistica a Cagliari «che però le costerà un po’», capita che si senta rispondere: «Eh, questo non è un problema per me, io sono padrone di questo e di quello e di quell’altro ancora». Conclusione: alla domanda «Quanto le devo, dottore?», la sua risposta è «750 lire», quando una visita normale costa forse 50 o 100...
Così un’infinità di altre volte, e queste sono confidenze che vengono da ogni parte, dai paesi e dalla città, perché poi sono effettivamente molti coloro che sono stati o protagonisti o testimoni di episodi similari in cui, come un Robin Hood ridistributore, Armando Corona ha fatto il medico e non solo il medico.
Compensato forfettariamente con i prodotti della natura in abbonamento annuo, al tempo delle condotte marmillesi, ha collaboratori che vanno a raccogliere frumento e fave, ed a vendere poi ai grossisti.
Ad un certo punto il grano lo utilizza nel forno che costruisce a Senis: da lì viene pane di buona qualità (egli è ufficiale sanitario, e la cosa suona come una garanzia); la distribuzione nel circondario, con il Leoncino CA 10273.
Forse l’idea del panificio gli è venuta quella volta in cui, saputo di un intero carico di sacchi di farina che, a bordo di un veliero attraccato al porto di Cagliari, non si riesce per qualche ragione ad esitare, ne azzarda lui l’acquisto in blocco per un prezzo, data la situazione, da saldi…
Così avvia una attività di trasporti – con il Leoncino OM dei primi anni ’50 – fra l’alta Marmilla e il capoluogo, per i pressoché quotidiani rifornimenti delle botteghe locali: i poli commerciali a Cagliari sono i pastifici Costa e Balletto, i magazzini Grauso e Dante Melis, fra la piazza del Carmine e il viale Trieste, e il cassone si riempie di contenitori di pasta, formaggio, strutto, uova, ecc.
Né soltanto di derrate alimentari si tratta, ma anche di pietre di tufo per i cantieri domestici dei paesi. Ci sono poi gli uomini da accompagnare al posto di lavoro: d’estate i mietitori a Villacidro, partenza il lunedì mattina, rientro il sabato sera; tutto l’anno i minatori a Montevecchio ed Arbus-Ingurtosu. E ancora: i giocatori delle squadre di calcio che giocano in trasferta, e perfino i pellegrini che si recano alle feste patronali per pregare e divertirsi... È una Sardegna povera che s’adatta al suo leoncino.
È in costanza della sua attività amministrativa alla Provincia di Cagliari – vale a dire negli anni ’60 – , che Corona imprime delle accelerate ad alcune iniziative cui ormai crede giusto dare una sorta di precedenza: da una parte la politica, dall’altra gli affari fra professione e imprenditoria: tanto da ricavarne sì un utile finale, ma anche un utile strumentale o collaterale, indirizzato ad altri fini, secondo la sua più intima vocazione: mettere insieme le persone, alleggerirle dei loro pesi, ma non tanto gravando le spalle di altri quanto “organizzando” pragmaticamente i rimedi.
Conosce il valore della sua arte mediatoria. Proprio al tempo del suo assessorato provinciale riunisce, una volta, medici e infermieri dell’O.P. interessati a definire gli ambiti di competenza per talune mansioni non meglio allora disciplinate. «Concordate fra voi e fatemi sapere per formalizzare. Io adesso vi lascio».
Fuori da quella sala un amico con il quale s’è allontanato gli chiede se non sia meglio invece rimanere e pilotare la discussione e l’accordo. «No, quelli non si mettono mica d’accordo, e quando s’accorgeranno di non poter andare avanti così chiederanno a me di intervenire e decidere, e io lo farò con il consenso di tutti».
Così affermerà nel tempo la sua qualità conciliatoria anche in Consiglio regionale dove, eletto per la prima volta nel giugno 1969, sarà confermato altre due volte: cinque e dieci anni dopo. Eccolo ripensarci sopra:
Cercavo di far avanzare la mia vecchia idea di rivedere i meccanismi di funzionamento del Consiglio regionale e soprattutto tentavo di concepire un metodo per consentire che alla vita della Regione potessero dare il proprio apporto tutti, attenuando la rigidità degli steccati tra opposizione e maggioranza… Era cominciata nella DC la rotazione dei campanili, costituendo delle giunte ad horas… Era una lotta di correnti, una conflittualità esasperata… i partiti gestivano come potevano gli umori delle popolazioni delle zone interne, considerate vere culle culturali e di omertà del dilagante banditismo…
Ogni risorsa locale e ogni sovvenzione finanziaria dello Stato andavano alla petrolchimica… Ne deriverà per la Sardegna, votata alla petrolchimica di base, un periodo di esasperato colonialismo che finirà con lo schiacciare le tradizionali risorse locali… Il petrolio soppiantava il carbone costringendo le miniere alla chiusura… Da alcune zone di La Maddalena venne segnalato come la base americana che forniva di testate atomiche i sommergibili nucleari, stesse distruggendo l’industria turistica con lo spauracchio dell’inquinamento radioattivo…
Nella mia seconda legislatura, riproposi la mia convinzione che le opposizioni dovessero dirigere qualche Commissione consiliare e intervenire maggiormente nelle varie istanze decisionali… Questa spinta ebbe il suo coronamento solo nel 1979… La mia abitazione in via dei Punici a Cagliari era diventata una sorta di gozzaniana retrobottega del farmacista, dove convergevano i massimi leader dei partiti.
2.2 - Giglio: bancario di giusto assalto a Sant’Antioco, e l’iniziazione cagliaritana
Nel 1950, per Mario Giglio, un avanzamento di carriera importante: è segnalato per la direzione della filiale di Sant’Antioco. Ormai nell’organico del Banco come effettivo (ha superato un concorso interno a base di computisteria e ragioneria), coglie l’occasione come una svolta nella sua vita. S’integra perfettamente nell’ambiente, frequentando e legandosi ad amicizia fraterna con uomini di forte personalità, e anche di opposte tendenze politiche: dai socialisti ai missini come Josto Biggio, che gli capiterà di frequentare, negli anni avvenire, anche in loggia (personaggio interessante Biggio: era antifascista, passa a destra per reazione alle violenze dei partigiani che a Torino hanno assassinato suo fratello rifiutatosi di accettare la libertà se non insieme ai suoi commilitoni)... Gli è facile scoprire, con diversi di loro, un idem sentire sui grandi valori della vita e dell’impegno civile. Grande intimità – e prova provata di una socievolezza spontanea che, condivisa con la sua famiglia ancora in boccio, ne è il carattere tipico – sviluppa anche con i Puddu e gli Esu (Ela e Nicu) ben noti tutti in paese e questi ultimi proprietari dell’alloggio, giusto sopra i locali della agenzia, che ospita i Giglio e sempre disponibili ad occuparsi, con familiarità ed un aiuto leggero, dei piccoli di casa.
Sono anni formativi, pur già in una età adulta, e come rodaggio famigliare, per Mario e Paola Perantoni. Lei insegna diritto ed economia all’Istituto tecnico di Carbonia (ed ogni giorno sono chilometri e chilometri, in parte da fare… calcantibus!): i bambini nascono in questi anni, Luigi nel 1952, Giammario nel 1956, l’uno a Sassari (per una preferita assistenza familiare dei Perantoni), l’altro a Carbonia (con l’assistenza del dottor Renato Meloni, primario ginecologo del locale nosocomio, ed in forza alla locale loggia Giovanni Mori impiantata alcuni anni prima da Alberto Silicani).
La vita semplice di una famigliola di cosiddetto ceto medio (impiegatizio e scolastico), che ha radici a Sassari ma mette fronde, in quegli anni ’50, nel più eccentrico e singolare sud isolano. Sassari rimane nel cuore, evidentemente, anche per gli affetti che lì permangono ed è dunque meta periodica di risalite (e ridiscese) eroiche: a Natale, Pasqua, Ognissanti, l’estate… si parte alla volta di Scala di Giocca e dei secolari tesori urbani che essa presidia percorrendo la vecchia ed umilissima strada per Cagliari e da lì verso nord, la Carlo Felice a due corsie, ancora troppo curvilinea e attraversante tutti i paesi, zona dopo zona, nel Marghine dopo che nei due Campidani, e nel Logudoro... Viaggi di otto o nove ore a bordo di una Giulietta Alfa Romeo e, talvolta, perfino di una Fiat 500 giardinetta regolata sui 70 Km all'ora… Avventure di molti nella Sardegna che ancora vive, prima degli investimenti della Rinascita e della sua prima industrializzazione o del suo primo sviluppo turistico, la povertà del dopoguerra… In più, la resistente passione della pesca subacquea condivisa con la giovane moglie e un gruppo di amici fedeli…
Sant’Antioco significa anche l’incontro di Mario Giglio con la Massoneria e, in essa, una progressione di responsabilità perfino direttive; le future sedi di lavoro a Cagliari, ad Olbia e Oristano, e poi nuovamente a Cagliari ed infine a Sassari significheranno una parallela ascensione: quella professionale misurata nei volumi dell’abile intermediato (e nei redditi del punto operativo) ogni volta premiati con una promozione di carriera e quella civile misurata in termini di proselitismo liberomuratorio nei diversi campi degli impieghi sociali, dall’insegnamento alle attività liberali, dall’amministrazione pubblica all’impresa privata.
Brancacciano nella loggia Cavour
Nipote, per parte di madre, del farmacista Vittore Simon – massone sassarese di grande ascendente nella Fratellanza e fuori – l’ancor giovane quadro della banca cerca, forse inconsapevolmente, di dare una certa sistematizzazione alle teorie indifferentiste cui si sente, per sedimentazioni successive, vicino. (È noto che la Massoneria, pur fondandosi su un impianto dottrinario religioso e perfino cristiano, vanta in Italia una tradizione per certi versi eterodossa, spinta più sul piano dell’azione civile che non su quello della speculazione spirituale e filosofica). È l’obbedienza di Palazzo Brancaccio ad offrire l’occasione tanto attesa.
Egli è lettore dell’iconoclasta Il Borghese di Leo Longanesi ed Indro Montanelli. D’intesa con l’edicolante fa arrivare in paese alcune copie della rivista altrimenti senza lettori a Sant’Antioco. Una copia per sé, un’altra come personale omaggio a chiunque voglia condividere i suoi stessi interessi ed ideali riflessi dal giornale…
Capita, un certo giorno, che qualcuno gli confidi il rammarico del parroco per la circolazione in paese di quella testata periodica ritenuta, a torto più che a ragione, di stampo massonico. Lui perde le staffe, grintoso come è, contestando il diritto di chiunque – e sia pure monsignore arciprete – di sindacare le altrui letture o gli altrui orientamenti ideologici. Insorge: «Ma cosa m’importa se Il Borghese è o non è un giornale massonico, almeno ci fosse la Massoneria qui e ovunque per ripulire l’Italia dalle porcherie che vediamo!».
Sono in diversi ad ascoltare, nel bar centrale, questo sfogo di un minuto, né mancano le orecchie ... competenti. Succede infatti che pochi giorni dopo, a tarda sera, s’avvicini alla banca un signore, distinto ma cordiale, il quale rivolgendosi a lui fa: «So che ha espresso il desiderio di entrare in Massoneria». E lui, diffidente e sospettoso, risponde: «Perché, le dispiace?». Immediato il chiarimento: no, quello era l’invito a... sottoscrivere la domanda d’iniziazione. Non ci pensa sopra, firma e basta. È convinto di aver trovato un’associazione fieramente anticlericale. Così inizia l’avventura di loggia di Mario Giglio, che s’arresterà trenta e più anni dopo con gli alti gradi scozzesi e il governo carismatico della Circoscrizione giustinianea sarda. Ad aver raccolto il suo sbotto era stato il Fratello Antioco Napoli – che in gioventù era stato un soldato fiumano con d’Annunzio! –, a svolger ora l’incarico del messo con il sacro modulo il Fratello Angelo Ferralasco (questo il racconto fatto da lui stesso, ma i ruoli di Napoli e Ferralasco potrebbero essere invertiti).
È nel 1957 che, nel Tempio cagliaritano di via Portoscalas, Mario Giglio riceve la Luce massonica dal Maestro Venerabile Antonio Ottelio e l’abbraccio dei Fratelli. La cerimonia è, come sempre, ricca di emozioni, anche se forse ritualmente non perfetta. In essa si inserisce, come... battitore libero, l’anziano Fratello Nuti che – udite le risposte fornite alle classiche domande del Testamento da vergare nel Gabinetto di Riflessione – chiede al recipiendario qualche chiarimento, qualche specificazione ulteriore, sulla tavola dei Doveri, sull’idea del GADU e così via.
Inizia la scuola della loggia, lo studio del rituale e dei simboli visti nella loro essenza strumentale e non dogmatica o univoca, ma allusiva a realtà spirituali profonde e di difficile definizione col vocabolario corrente.
Giustinianeo nella N. Cavour e funzionario sempre in carriera, ad Olbia dopo che a Cagliari
Per un anno, finché non lascerà Sant’Antioco per Cagliari (assegnato come responsabile dell’ufficio Fidi alla sede del largo Carlo Felice), ogni settimana monta in macchina e arriva all’appuntamento di via Portoscalas, puntualmente in compagnia del Fratello Ferralasco che vanta una discreta anzianità massonica, rimontante agli anni della guerra, quando era divenuto Figlio della Vedova in una loggia semiclandestina di Bologna (dove sotto falsa identità svolgeva una redditizia attività commerciale).
Nel 1958 la loggia Cavour, all’obbedienza degli AA.LL.AA.MM. – Antichi Liberi Accettati Muratori (ex Palazzo Brancaccio), corrente nazionale dello scozzesismo fattosi ormai “misto” con officine cioè aperte alle donne (ed ancora, ma in limine, affidate al sovranato del sassarese Federico Farina) – si regolarizza nel Grande Oriente d’Italia. È la ricaduta sarda della decisione assunta da una ventina di compagini latomistiche diffuse un po’ in tutt’Italia. Abbatte le sue colonne la consorella intitolata a Domenico Alberto Azuni, pure incardinata a Cagliari, e dal suo piedilista vengono alcuni di quelli che contribuiranno ai rinforzi di un gran bel progetto: creare un polo massonico nel capoluogo isolano, unificando tutte le risorse disponibili, quale che sia l’originaria matrice. Trasversalità piena sia sociale che ideale o politica, attenzione al rituale e rigore anticlericale. E così, dati anche l’indebolimento frazionistico dei giustinianei della Risorgimento – la prima delle logge isolane sorta nel novembre 1944 – e la dispersione dei neoferani di Piazza del Gesù (alla fine degli anni ’40 articolati in città in due logge – la Avezzana e la Palermi – ed un capitolo – l’Ichnusa –, e ricompostisi successivamente nei ranghi della Pitagora da Samo), ecco subito, della Cavour, l’assunta manifesta leadership: trenta Fratelli nel 1958, sessanta l’anno dopo e il bisogno di nuovi più funzionali assetti.
Nella sua loggia, Mario Giglio incontra, in segreta confidenza, impiegati e commercianti, proprietari agricoli e professionisti, colonnelli nella riserva, funzionari della Procura o dei Vigili del fuoco, incontra uomini che giungono un po’ da tutta l’Isola – Carloforte e Macomer, Iglesias e Cagliari e Guspini ecc. – ed anche del continente – da Venezia a Genova, da Rivignano del Friuli a Delia della Sicilia… I più sono anziani – classe 1887, 1893, 1894, 1896, 1897, 1898, 1899, 1903… come Ottelio e Crovato, Napoli e Dessì, Nuti e Pinna e Crobu e Giorgio, o come Lonzu e Barraccu, Panzalis e Carta… – altri sono più o meno prossimi ai suoi 36 anni – da Battiloro a Lo Presti, da Agus a Fanni, ad altri ancora. Diversi degli anziani sono stati iniziati in anni lontani, chi nel 1919 e chi nel 1920 o nel 1921, altri hanno cominciato la loro avventura liberomuratoria fra il 1947 ed il 1948 oppure nei primi anni del decennio successivo…
Divenuta polo attrattivo di Artieri bisognosi di inquadramento fraternale la loggia Cavour ormai regolarizzatasi, con il numero d’ordine 574, nel Grande Oriente di Palazzo Giustiniani ed assorbite le forze anche della XX Settembre, della Mazzini e soprattutto della Risorgimento apripista, si sdoppierà soltanto un anno dopo in due distinte formazioni: la Nuova Cavour con il numero 598 e la Libertà con il numero 599. E dopo pochi mesi ancora, appunto attraverso queste compagini tutte associate alla ritualità scozzese - ad esse è imparentata anche quella di Nuoro, la Gennargentu n. 576 (ex Ortobene neoferana) –, troveranno nuova sede nell’elegante e prestigioso palazzo Chapelle. Da lì inizia per la Massoneria cagliaritana una nuova stagione di progressiva modernità e di efficientamento organizzativo, con gemmazioni successive ed un coordinamento regionale. Di tanto Mario Giglio sarà per gran parte protagonista e perfino regista.
E in banca? Nel 1958 ritorna a Cagliari. Prende casa in via Milano – una strada a ridosso della basilica di Bonaria e ancora tutta cantiere, con i palazzi che sorgono uno dopo l’altro e fanno quartiere con il complesso delle case popolari più prossime a via della Pineta ed allo stadio Amsicora. Davvero tutto è in trasformazione, l’accelerata urbanizzazione impone nuovi servizi, c’è la parrocchia nuova e c’è la scuola che da via Firenze si sposta in via Venezia (prima la Randaccio delle elementari, poi toccherà alla Tuveri delle medie).
Nel 1961 un altro trasferimento: vinto il concorso interno per il grado di funzionario di direzione, viene assegnato alla filiale di Olbia. Dapprima solo, raggiunto poi dalla moglie (che deve anche lei cambiare scuola, colleghi professori ed alunni) e dai figli. Due anni pieni, una full immersion gallurese, fra costa e centri rurali più interni. Cacciatore, buon conoscitore del territorio in progressiva esplorazione, tutto serve anche alla politica del Banco che, pur presente nella zona (sia a Tempio che ad Olbia) già da trent’anni, vuole sviluppare ancora la platea della sua clientela…
La filiale di Olbia ha diretta competenza sulla Gallura smeraldina, dove proprio nei primissimi anni ’60 iniziano le vendite dei terreni costieri da parte di proprietari legati, per famiglia e da secoli, all’agricoltura o pastorizia. Per la banca che ha vocazione di intermediazione gli affari non possono che essere d’oro… Giglio vive in pieno questa stagione anch’essa autenticamente epocale: vive la prima trasformazione del territorio, le idealità politico-sociali (ed economiche) che guideranno i progetti dell’Aga Khan e di numerosi altri attori della scena finanziaria internazionale. Egli partecipa, ora testimone ora coprotagonista, alle negoziazioni fra proprietari – sovente uomini da generazioni dediti, come detto, all’agricoltura o alla pastorizia e perciò forse anche bisognosi di consiglio – e nuovi ambiziosi capitalisti, impresari, progettisti, ingegneri ed architetti… Con notaio a seguito è lui a consegnare personalmente, nell’abitazione spesso modesta o modestissima dei venditori, gli assegni circolari che saldano e suggellano i contratti… In pochi anni i volumi di lavoro della filiale, tanto nella raccolta quanto negli impieghi, raddoppiano ed i meriti sono pienamente riconosciuti a chi ha interamente speso le sue energie per la buona causa del suo istituto.
Sono anni – potrebbe aggiungersi anche questo – in cui, sempre più carico di esperienza e anche di… legittima (forse doverosa) ambizione, il bancario iniziato Apprendista a Cagliari nel 1957 ed ormai graduato Maestro, frequenta la loggia sassarese (perennemente tribolata) intitolata a Gio.Maria Angioy – al Maglietto prevalente (prestigioso e insieme contestato) di Bruno Mura o a quello di merito antifascista e sardista/repubblicano di Michelino Conti e Annibale Rovasio – ma semina anche in Gallura. Verrà il momento in cui pure qui un nucleo massonico gemmato da Sassari, si organizzerà nelle strutture della loggia Caprera all’Oriente di Cala di Volpe (Arzachena cioè).
Altri successi ad Oristano, in ufficio e in loggia
I brillanti risultati del biennio gallurese gli valgono la titolarità di un’altra filiale che aspetta un dinamismo come il suo per tradurre in numeri virtuosi le potenzialità del mercato: Oristano, dove il Banco vanta un insediamento di oltre quarant’anni ma non è mai riuscito in un definitivo sprint... E qui l’esperienza maturata ad Olbia – dove ha appena lasciato infinite nuove amicizie e anche il progetto di una casa (quella al mare di Pittulongu) – porta a nuovi successi. Dal 1963 al 1965 sono mille giorni in cui sia la città che quella larga frazione della provincia compresa fra il Marghine-Planargia e il Guilcer (dove opera la dipendenza di Ghilarza), il Madrolisai (dove è operativo invece l’agenzia di Sorgono) ed il Sarcidano, il Campidano di Cagliari fino all’Iglesiente settentrionale – e dunque il Barigadu e il Montiferru, la Marmilla ed il Terralbese – sono quotidianamente battute del direttore che alla stanca prassi dell’attesa del cliente in ufficio sostituisce quella della visita al cliente nel suo ambiente di lavoro, per coglierne vitali dati d’azienda e sondarne le relazioni a grappolo… Sarà così, dal 1965 in poi anche a Cagliari (fino al 1973) ed a Sassari (nel triennio 1973-1976)…
Sempre accompagnato dalla moglie Paola e dai figli ora alle soglie della adolescenza, Giglio mette tenda ad Oristano, nella centralissima via Tirso, poi in un villino di via Campanelli, godendone la storia antica e mitologica, quella giudicale ed eleonoriana. Non per nulla stringe forte amicizia con una certa intellettualità non accademica, con Peppetto Pau in specie, ma anche il pittore Corriga, il cav. Tarantini, il prof. Manconi… Nella città vive e perfino promuove una certa attualità anche associativa, pur se ancora Oristano si mostri più ricca di potenziali inespressi che di visibile intraprendenza. Per questo, accanto alle cure sia familiari che professionali mette quelle direttamente o indirettamente volte al rilancio massonico.
Eccolo così presente e anzi motore di una fase di ripresa della Libertà e Lavoro: fondata nel 1907, come gemmazione della cagliaritana Sigismondo Arquer, la loggia era stata rifondata alla fine del 1949 con il numero d’ordine 451 ad iniziativa di Cicito Pischedda, Francesco Barraccu, Gino Loffredo e Giorgio Luigi Pintus. Anche Quintino Fernando, il celebrato professore di storia e filosofia del De Castro (e infine del cagliaritano Pacinotti), era allora del gruppo che presto s’era allargato a comprendere uomini come Cecchino Sini e Delio Butta del Vecchio (entrambi funzionari del Credito Italiano), come il medico Leandro Floris e l’insegnante (e intellettuale a tutto tondo) Ovidio Addis e altri ancora via via, tutti di nome conosciuto nel raggio cittadino e provinciale, chi per lo studio medico o legale chi per la cattedra scolastica… Poi la crisi, il rincuccio di diversi Artieri – Floris e Baldino, Addis e Sini, Chessa e Manconi… - nel piedilista sassarese e finalmente nel 1964, auspice proprio Mario Giglio anch’egli temporaneamente in organico alla Gio.Maria Angioy, il risveglio operativo, la ripresa della ritualità, dei tracciamenti tematici e del proselitismo.
È a lui, al Fratello Giglio, che viene consegnata la simbolica pietra grezza per il nuovo Tempio d’Oristano (ospitato nella casa al mare di Leandro Floris o nel retro del suo ambulatorio). Gli Apprendisti ed i Compagni di lontana iniziazione sono promossi ai gradi di merito, e si concordano le linee per infoltire le Colonne, ancora guardando con interesse speciale alle professioni e alla scuola. Così il piedilista si allarga con misura ma anche con decisione: Uras, Manca, Vacca, Fadda… e ancora Bruno Stiglitz, già impegnato nella politica locale ed ambasciatore di UNESCO e UNICEF, e Giorgio Farris, giovane talentuoso nell’arte e anche nella scoperta archeologica, discepolo caro di Ovidio Addis.
Lavora intensamente la loggia, ma poi la malattia di Addis e la partenza di Mario Giglio per Cagliari già nel 1965 si presenteranno come cause di stasi e rinuncia. Le Colonne saranno abbattute nel 1968 e intanto però la scena massonica sarda, proprio per l’attivismo (e la mobilità non soltanto fisica) di Giglio, offre novità non da poco. Così nel chiaroscuro che è la permanente consapevolezza critica dell’autentica Libera Muratoria quali che siano i meridiani e i paralleli in cui essa si colloca: la Nuova Cavour affronta due gemmazioni in contemporanea, fra 1965 e 1966: s’innalzano le Colonne della Giordano Bruno n. 656 (che non godranno però di buon futuro) e quelle della Hiram n. 657. Di quest’ultima compagine è il promotore proprio l’ancora giovane (adesso 44enne) funzionario del Banco di Napoli iniziato alla Massoneria ormai da quasi nove anni e soprattutto arricchito da tante esperienze maturate in luoghi così diversi dell’Isola, fra Cagliari e Sassari, Olbia ed Oristano, e fra logge e capitoli di vario orientamento e differente storia e consistenza, addirittura fra obbedienze corporative di matrici concorrenti.
Alla fabbrica della loggia Hiram
Questa storia è possibile raccontarla per fasi evolutive: altre volte l’ho fatto, ma stavolta è il focus Giglio la novità, almeno quella espositiva.
Tornato a Cagliari dove aveva iniziato la sua carriera ed incaricato dalla direzione del suo Banco di Napoli (ora ne è titolare Antonio Meridda) di guidare il centrale e professionale ufficio Fidi – da cui poi, nell’arco di appena sette-otto anni, egli partirà alla meritata conquista di posizioni sempre più onorevoli nella sua carriera (vice direttore/settorista, direttore di succursale, condirettore di sede) – Mario Giglio conferisce alla sua militanza massonica, che conduce in parallelo a quella politica nella socialdemocrazia di Giuseppe Saragat che sta per unificarsi con il PSI di Pietro Nenni, elementi del tutto nuovi, progettuali, capaci di coinvolgere numerose delle personalità attive nei ranghi della loggia Nuova Cavour. Potrebbe anche dirsi, senza che questo suoni come licenza per eccessi e perfino abusi, che l’esercizio concreto della fratellanza si incroci spesse volte con l’assistenza creditizia che egli fornisce per giusto mestiere nell’interesse del suo istituto. Mezza Massoneria cagliaritana, e più che mezza, negli anni ’60 e primi ’70 del Novecento, ha il conto corrente, il mutuo fondiario o d’impresa, e i depositi di famiglia e d’azienda nella grande e storica filiale del largo Carlo Felice… (Giunto ai ruoli dirigenziali proprio per lui, e fidando sulle sue entrature, il Banco allestirà un ufficio del tutto speciale anche di rappresentanza verso la pubblica amministrazione statale, regionale e locale e con poteri deliberativi importanti).
Ma nella Fratellanza organizzata ed ormai da qualche anno insediata a palazzo Chapelle? Come accennato, Cagliari conta, nel primo lustro degli anni ’60, una sola loggia (dopo il riflusso della Libertà n. 599). È la Nuova Cavour che ormai conta nel suo organico, nel 1965, qualcosa come un’ottantina di Fratelli. Sembra venuta l’ora di una o più gemmazioni, che possano anche alimentare una sana dialettica e magari alimentare uno spirito emulativo nello sforzo di fare sempre meglio. A Roma, la granmaestranza di Giordano Gamberini (un chimico dignitario della Chiesa gnostica e presto nel team dei traduttori della Bibbia concordata, capolavoro postconciliare) sta operando per dare efficienza alla “macchina” organizzativa della Comunione, impostando con gradualità le linee programmatiche e di costume finalizzate alla ricomposizione della frattura del 1908 (da cui è derivata la Ser.ma Gran Loggia di Piazza del Gesù), alla pacificazione dialogica con la Chiesa cattolica, al formale riconoscimento di regolarità da parte della Gran Loggia Unita di Londra.
Certamente le logge, anche quelle sarde – al tempo presenti anche a Sassari ed a Carbonia, oltreché in provvisorio rilancio ad Oristano – non potranno trascurare, nei loro lavori, la pratica del rituale, la riflessione sui simboli dell’arte regia, gli approfondimenti della storia obbedienziale, partendo dalle antiche suggestioni misteriche per arrivare ai maestri comacini, ai R+C del Cinque-seicento, alla svolta speculativa del primo Settecento inglese, alle influenze della spiritualità scozzese, alle sante compromissioni nel risorgimento nazionale italiano, alla difesa della più rigorosa laicità dell’ordinamento così nella scuola come nella legislazione più complessiva… Ma pure questo non basta: le logge moderne, fedeli alla Tradizione che non è mai polverosa museazione ma vitale innesto del nuovo nell’antico, debbono poter sviluppare una sensibilità civile nell’osservazione critica del tempo presente e accostarsi, valendosi anche delle professionalità interne, ai nuovi svolgimenti nell’arte come nella scienza (sia essa quella medica e genetica o quella astronomica dei bruniani “mondi infiniti”), nelle relazioni internazionali (fedeltà all’Europa, affidamento nelle Nazioni Unite e nella cooperazione fra Stati e le loro agenzie) come nella letteratura o nella religione, nella scuola come nella socialità in assorbimento delle marginalità…
Nello sviluppo del suo proselitismo, le Colonne della loggia Nuova Cavour si sono infoltite positivamente, negli anni, di personalità talentuose ed esperte non più soltanto negli ambiti sperimentati dell’amministrazione e dell’impiego sia privato che pubblico, delle professioni liberali, ecc. ma anche del giornalismo, della scuola e dell’università, dell’impresa, ecc. Si è anche “osato” giocare la carta del ringiovanimento dei quadri ed infatti sono relativamente numerosi i trenta-quarantenni che sono stati iniziati nell’arco di pochi anni. Ma pure bisogna tradurre questo potenziale in espressioni materiali, attraverso un rimodellamento della rete, dando vita a nuove logge meno “elefantiache” nei numeri e più agili nell’ordinario. Di più: fornendo a chi è stato finora… sottoutilizzato opzioni od occasioni di valorizzazione di competenze e perfino di leadership muratorie… Sicché nel 1965 (formalizzandosi nel febbraio dell’anno successivo) prendono corpo, nelle stanze riservate di palazzo Chapelle, due nuove formazioni: le già citate Giordano Bruno (in capo all’oceanografo Carlo Anichini) e la Hiram (in capo appunto a Mario Giglio e, al suo fianco, altri sedici liberi muratori di varia esperienza, da Franco d’Aspro, lo scultore del Cristo di Buchenwald e di mille altre opere anche monumentali, a Sabino Jusco, critico d’arte e professore al liceo di via Sant’Eulalia, da Nicola Valle, il celebrato presidente dell’associazione Amici del libro, a Hoder Claro Grassi, notissimo pittore metafisico, a Quintino Fernando, docente al Pacinotti e primo Oratore della loggia con Mario Giglio Venerabile e già Segretario del gruppo promotore)... Nel novero, come detto, diversi altri: dai medici agli impresari, dagli avvocati e giuristi ai funzionari comunali, d’università o di banca, e ai commercianti…
Proprio per la spinta impressa dal Venerabile, nel giro di pochi mesi la Colonna di Settentrione della nuova compagine – che condivide gli spazi con la loggia madre, talvolta lavorando insieme in un’alternanza della presidenza – si arricchisce di una decina di neofiti: Ferrara e Salvago, Genovesi e Sanna, Cusino e Porcu e Biggio jr., ecc. Fra essi anche Efrem Grassi, alla vigilia quasi del doloroso involamento di suo padre, Segretario della Hiram e pioniere esperantista… (sarà nel dicembre 1967, poi lui stesso, Efrem il parà, cadrà giovane di 34 anni vittima di un incidente stradale, migrando all’Oriente Eterno nell’ottobre 1970). Altri già insigniti della Maestria otterranno l’exeat dalla loggia d’origine per passare nel nuovo organico, mentre alcune promozioni al grado superiore daranno miglior equilibrio ai comparti che costituiscono questa come tutte le logge: così, per dirne una, il Fratello Jusco – autorevolissimo ed a Cagliari ancora per qualche anno prima del trasloco come soprintendente alle Belle Arti in Basilicata – potrà assurgere alla cattedra dell’Oratore (e poi a quella stessa di Venerabile). Per converso, qualche altro si perderà ritenendo egli di compiere una esperienza “in limine” nel gruppo cosiddetto “P” nel frattempo – fra 1967 e 1968 – costituitosi ad iniziativa di Francesco Bussalai.
Può dirsi che per un decennio intero – con due sole e brevi interruzioni – lo stallo del Maestro Venerabile è come d’obbligo di pertinenza del dinamico, facondo, entusiasta Fratello Giglio. Ciò anche quando ragioni profane lo portano a lunghe permanenze nel capoluogo turritano (direttore della filiale di Sassari del Banco di Napoli, dominus nel solenne palazzo che era stato del deputato Giuseppe Giordano Apostoli – genero di Giovanni Antonio Sanna – e recava, e ancora reca, nelle pitture murali del Bilancioni e nei pezzi d’ebanisteria dei Clemente insistiti rimandi alla simbologia massonica).
L’assortimento delle formazioni e degli interessi delle Maestranze presenti nella Hiram favorisce, nel suo seno, una ricca varietà dei temi affrontati nelle discussioni, fra ricerca di motivazioni umanistiche ed impegno civile pubblico. Il Fratello Giglio possiede validissime attitudini a comporre in un’unità armonica propensioni e percorsi all’apparenza opposti. Non soltanto con uno sforzo di mediazione, più spesso anzi con un esercizio di guida autorevole e forte: delinea gli obiettivi, indica le modalità di utile perseguimento.
Altra sua qualità è la spontanea tendenza a guardare i fenomeni del suo microcosmo all’interno di un quadro più complesso ed articolato, in cui “tutto si tiene”. L’esperienza professionale e anche l’attività di dirigente politico – pochi anni dopo la nuova rottura socialdemocratica del 1969 s’è iscritto al Partito Socialista Italiano – lo portano a questa visione “sistemica” cui avverte non possa mai, e tanto meno in Massoneria, rinunciarsi.
Partecipa, tutte le volte che gli è possibile, alle tornate di loggia nei diversi Orienti sardi, soprattutto in occasione delle iniziazioni, ed allaccia relazioni personali, può dirsi, con l’intera Fratellanza regionale. La Giovanni Mori all’Oriente di Carbonia è, negli anni tormentati di venerabilato del Fratello Pintor, fra quelle più spesso visitate. Un verbale dell’officina datato 16 ottobre 1969 – quando in quel Tempio viene iniziato Carlo Biggio, sindaco di Carloforte – ricorda il suo dono al neofita del giorno: la pubblicazione, edita dalla stessa sua officina, riproducente alcune tavole architettoniche dell’adesso compianto Fratello Quintino Fernando (passato all’Oriente Eterno nel giugno 1968). E la settimana successiva – nel calendario il 23 ottobre 1969 – è presente alla iniziazione di Armando Corona.
A Carbonia sarà anche nell’ottobre di due anni dopo quando, in veste di presidente del Collegio circoscrizionale sardo – la carica principe della rete giustinianea isolana che a lungo e ripetutamente assume e mantiene con autorevolezza anche ispettiva – partecipa alla tornata elettorale della Giovanni Mori, trovatasi costretta a replicare il voto di giugno per l’intervenuta (e non senza polemiche) gemmazione di numerosi Fratelli: sta montando infatti il cantiere della Risorgimento sulcitana.
Il fenomeno della “P” sarda: dietro la polemica una grande questione
In quanto Venerabile, e membro del Collegio dei Maestri Venerabili della Sardegna, Giglio è colui che con più determinazione si schiera contro una realtà dai tratti massonici sì, ma giusto ai bordi della regolarità, che viene denominata “loggia P” (o “gruppo di lavoro P”) e porta i caratteri di una più stretta riservatezza e quasi del segreto, anzi del fastidioso segreto.
L’iniziativa del suo impianto nell’Isola è stata presa, su incarico del Gran Maestro Gamberini, da Francesco Bussalai, già esponente della resistenza antifascista e del Partito Comunista Italiano (per conto del quale è stato anche consigliere regionale della Sardegna nella prima legislatura dell’Autonomia speciale). Funzionario delle Dogane e musicista di buona formazione e soprattutto passione, è divenuto anche insegnante di musica alle scuole medie dell’hinterland cagliaritano, il tutto associandolo alla militanza socialdemocratica. È cugino di Ubaldo Lay (cognome derivato come contrazione di Bussalai o Bussalay), l’attore romano noto al grande pubblico televisivo come protagonista degli sceneggiati del “Tenente Sheridan”. Ma è di gran famiglia non tanto o soltanto per i ponti romani quanto per le radici nuoresi: ad Orani vive sua sorella di secondo letto (lui è di terzo) Ignazia e con Ignazia, fino al 1947, ha vissuto Marianna, altra bella figura di sardista antifascista e repubblicana e poetessa molto amata per genio e cuore.
Direttamente a Cagliari e, con la mediazione del Fratello (suo cognato) Antonio Sanna, anche a Nuoro, Bussalai ha attivato appunto due gruppi di “area” libertario-massonica, assai variegati negli orientamenti ideali e politici (ma strategicamente orientati al socialismo che può contare su un PSI unificato dal 1966), riconosciuti ufficialmente dai vertici del Grande Oriente d’Italia ma altrettanto ufficialmente ignoti alla comunità massonica locale.
Si tratta di una presenza avvertita come ingombrante dalla prevalenza degli Artieri impegnati nelle logge della Circoscrizione. Sicché da queste ultime verrà, nell’autunno 1967 e in previsione della Gran Loggia della primavera 1968, un appello alle supreme istanze dell’Ordine per una “bonifica” ritenuta non oltre rinviabile…
Unitamente ai suoi colleghi Venerabili della Nuova Cavour (la loggia che esprime il presidente pro tempore: Vincenzo Delitala), della Gio.Maria Angioy all’Oriente turritano (Ven. Oggiano), della Giovanni Mori all’Oriente sulcitano (Ven. Silicani), il Fratello Giglio sottoscrive anche lui, e anzi promuove, un duro documento che merita di essere riletto. (Certo, indugiare su di esso nel presente contesto biografico potrebbe forse ritenersi ultroneo, ciò non di meno credo valga la pena di offrire alla pubblica conoscenza un atto suscettivo di ben orientare il giudizio storico che, su diversi scenari, andrà, col tempo, meglio affinandosi).
Il 31 ottobre 1967 il Collegio circoscrizionale dibatte con toni accesi la questione. Si denuncia apertamente l’intrusione di «profani assolutamente privi dei requisiti necessari» nonché di «transfughi dalle Logge regolari» i quali, aderendo «alla R.L. “P”», paiono proporsi o, comunque, di fatto costituirsi in una “supermassoneria”: personalità o personaggi tentati di raggiungere il loro obiettivo cercando di svuotare le officine ordinarie «promuovendo defezioni e rendendo di pubblico dominio piedilista ed attività delle Logge» evidentemente ritenute concorrenti o di classe inferiore.
Per esplicita presa di posizione dei dignitari a capo delle diverse compagini giustinianee dell’Isola, il presidente viene autorizzato a porre all’attenzione dell’intera rappresentanza nazionale, non soltanto del vertice, il problema che angustia i Fratelli sardi ma s’inquadra in uno scenario che potrebbe avere inquietanti sviluppi più complessivi (e infatti, a distanza di pochi anni, allignerà la depravazione gelliana).
Il documento concordato a Cagliari su decisiva spinta di Mario Giglio chiede che «nelle nuove Costituzioni vengano definiti la fisionomia ed i limiti di attività della Loggia “P”; che per l’ammissione alla stessa si tenga rigidamente conto dei requisiti necessari per l’appartenenza all’Ordine Massonico e che si precisino, quindi, i motivi che possono validamente autorizzare la copertura di tali Fratelli nell’interesse generale dell’Ordine e non dei singoli».
Enorme questione, di prospettiva e di disciplina generale ispirata al principio di uguaglianza di status morale dei partecipanti alla Comunione liberomuratoria: questione però che non oscura gli aspetti più particolari e domestici ben conosciuti e sofferti nell’ambito della Circoscrizione sarda. La Gran Loggia è chiamata a pronunciarsi «sui provvedimenti da prendere in merito ai fatti che hanno dato luogo alla presente mozione».
Integra tale documento una lettera dei Venerabili sardi. Nove alinea di premesse, quindi la logica conclusione: «che nella tornata della Gran Loggia…, con assoluta priorità su qualsiasi altro argomento, data l’eccezionale gravità del caso, venga regolamentata l’attività della L. “P” e finché tale regolamento non sarà approvato secondo gli statuti dell’Ord., cessi l’attività di detta L. in particolare per quanto attiene ai lavori per delega».
È evidente l’allarme che domina l’ambiente fraternale della Sardegna: una realtà ancora debole se confrontata con altre del continente, ma dignitosa e fiera, adesso con una visione prospettica, e in termini di espansione della rete e soprattutto in termini di produzione ideale… Il più deciso nella battaglia “anti P” (o “anti P2”) è ancora, e così si distingue, Mario Giglio. Nel testo da lui sottoscritto si legge del «grave disorientamento che pervade i Lavori di tutte le officine regolari, in conseguenza dei fatti denunciati» e del «disagio di fronte al quale si trovano per le lagnanze che [...] pervengono da parte di FF. che ricoprono autorevolissime posizioni nel mondo profano (Alti funzionari dello Stato, Magistrati, Professori universitari, Presidenti e Direttori Generali di Enti Pubblici, Ufficiali in S.E.P. e Membri del Consiglio Regionale della Sardegna, nonché Consiglieri Prov.li e Com.li, Pubblicisti, Segretari Regionali di Partiti al Governo, ecc.)», circostanze tutte che minacciano «la completa dissoluzione dell’Obbedienza regolare nell’Isola».
S’intenda: non si chiede di abbattere un gruppo “segreto” per sostenere invece una federazione di gruppi non meno “segreti”: si tratta, in quella fine degli anni ’60, di assicurare, nella piena lealtà verso le leggi dello Stato, una altrettanto piena “normalità” di svolgimento, secondo Tradizione e dunque nella riservatezza e non nella segretezza, delle attività delle logge.
Ma quale è stata, dunque, l’evoluzione del caso “P” in Sardegna? Quale la successione degli episodi che riesce a tanto turbare la serenità di spirito e l’impegno costruttivo dei massoni delle Valli isolane?
La scorsa dei nove alinea introduttivi aiuta a scoprire fatti e antefatti che vedono per protagonista il sedicente “Gruppo di lavoro”, «direttamente dipendente dalla Gr. Maestr. che sarebbe stato incaricato di ricostruire in Sardegna la Fam. su nuove basi». E dunque, secondo la ricostruzione logico-cronologica dei Venerabili (da cui pure s’evince con tutta chiarezza, per i riferimenti impliciti alla sua Hiram, il contributo di Giglio):
«1) elementi estranei alla LL. della Sardegna, sconosciuti (fatte due sole eccezioni) al Coll. dei VV. ed anche ai Consiglieri dell’Ord., svolgono lavori, non rituali, ai quali vien dato un carattere Mass. soltanto per una asserita delega concessa dalla Gr. Maestr.;
«2) detti lavori si svolgono prevalentemente in Cagliari;
«3) le cerimonie sono presiedute da un elemento che fu quotizzante fino a qualche anno addietro in una delle LL. dell’Or. di Cagliari;
«4) nel corso di tali riunioni sono state effettuate “iniziazioni” anche di giovanissimi elementi, previa semplice lettura della formula del giuramento Mass.;
«5) detti lavori, comprese quindi le “iniziazioni”, si svolgono in nome della Risp. L. “P” di Roma, alle dirette dipendenze della quale il cosiddetto “Gruppo di Lavoro” per la Sardegna dice di espletare la sua attività;
«6) l’anzidetto Gruppo (composto di elementi in gran parte assolutamente indegni di appartenere all’Ord. e per il resto privi di quei requisiti che, nell’interesse della Fam. ne consiglierebbero l’inserimento in una L. coperta) è tuttavia informato del piedilista delle LL. di tutta la Sardegna;
«7) nel corso di dette riunioni è stata rivelata la viva preoccupazione del Gr. Or. sulla inattività e quindi l’inutilità delle LL. operanti [...] in Sardegna ed il conseguente incarico dato al detto Gruppo di Lavoro di assorbire i migliori elementi delle diverse LL. condannando in tal modo le diverse Off. all’esaurimento;
«8) in esecuzione a tale programma sono stati avvicinati da parte di elementi qualificatisi come inviati dalla Gr. Maestr., Fratelli delle diverse LL. che sono stati invitati ad abbandonare le rispettive Off. per prendere parte ad attività di “livello superiore” affidate al predetto Gruppo;
«9) i dirigenti del Gruppo di che trattasi sarebbero stati ricevuti dalla Gr. Maestr. In Roma, il giorno 27 gennaio 1968 (come dagli stessi interessati ripetutamente asserito) ed in quella occasione, alla presenza di Autorità Mass. della Capitale, sarebbe stata offerta al Presidente del Gruppo una medaglia ricordo “per i servizi resi alla Famiglia”».
L’avversione istituzionale ma anche carica di… sanguigno sentimento personale del Fratello Giglio al gruppo “P” si esprime pure nel contrasto alla “fuga” di taluno degli Artieri che con lui hanno a suo tempo lasciato la Nuova Cavour per fondare la Hiram, e che adesso – scontenti per l’assetto dirigente della nuova officina o, più ancora, attratti dal disegno loro proposto dal Fratello Bussalai – chiedono l’exeat. Dopo Gardu (presidente addetto alle “iniziazioni”) ecco anche Pargentino, medico, di remota iniziazione nella Risorgimento del purissimo Ven. Silicani…
Un dossier documenta lo stop-and-go della pratica, fra il Ven. Giglio che frena e il Gran Segretario Telaro (testa di ponte della “P” cagliaritana verso il Gran Maestro) che accelera. Ne è prova, fra il molto altro, questo passaggio di una lettera proprio del Ven. Giglio al Gran Segretario dell’ottobre 1967:
«Invitato formalmente a versare almeno le capitazioni per lui anticipate e regolarmente versate dal nostro non ricco tesoro al G.O., ci ha fatto pervenire una lettera di dimissioni dalla Loggia, scritta negli identici termini (non previsti certo dalle nostre Costituzioni) usati qualche mese fa dal F. Gardu in analoghe circostanze.
«Sarebbe pertanto... diciamo strano che la “P” divenisse il rifugio di quei Fratelli che, pur non rivestendo nessuna carica che ne consigli la copertura nell’interesse dell’Ordine, ritengono privilegio dei Fratelli meno dotati l’obbligo di partecipare ai lavori massonici e di sostenere i pesi che derivano dalla appartenenza alla Libera Muratoria.
«Circa poi certe stranezze e amenità di questi strani Fratelli della “P” circolanti in Sardegna – o almeno di certuni di essi – riferirò ampiamente in occasione della mia partecipazione alla prossima G.L.».
Non si tratta, evidentemente, soltanto di banali questioni amministrative o di contabilità: si tratta piuttosto di salvaguardare il principio della uguaglianza tra Fratelli, che da sempre costituisce “dogma” morale nella Libera Muratoria e che va mantenuto fermo proprio come elemento equilibratore della sua forte (e pur mobile) gerarchizzazione.
È risaputo, almeno ai cultori della materia, che soltanto nell’autunno 1969 il gruppo “P” cagliaritano si regolarizzerà nella nuova loggia Sigismondo Arquer (imitato, due anni dopo, da quello nuorese, trasformatosi appunto in loggia Giuseppe Garibaldi).
Una ripresa del fenomeno “P” si avrà nei primi anni ’70 – sempre abbondantemente in fase pre-Gelli –, ma stavolta senza associazione in alcuna loggia speciale e comunque con un diretto e responsabile coinvolgimento dei vertici delle officine isolane (Giglio compreso) e per l’attivismo del Fratello Flavio Multineddu, come longa manus del Gran Maestro… Fra gli iniziati in tale contesto sono anche Fabio Maria Crivelli, autorevole direttore de L’Unione Sarda, e l’esponente socialista Rinaldo Botticini, docente della scuola pubblica e poeta.
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